PTOF dell'Istituto Comprensivo "Magistrato Giovanni Falcone" di Copertino - C...
Tiflologia3 2009
1. TIFLOLOGIA PER L’INTEGRAZIONE N. 3, luglio-settembre 2009.
Trimestrale edito dalla Biblioteca Italiana per i Ciechi “Regina Margherita” Onlus
con il contributo dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti e della Federazione Nazionale
delle Istituzioni pro Ciechi
Anno 19
n.3 luglio-settembre 2009
ISSN: 1825-1374
Reg. Trib. Roma n. 00667/90 del 14/11/90
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Pietro Piscitelli
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Pietro Piscitelli,
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Gli articoli firmati esprimono
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Finito di stampare il 15 settembre 2009
(logo USPI) Tiflologia per l’Integrazione
è associata all’USPI
Unione Stampa Periodica Italiana
SOMMARIO
Editoriale
Il riordino dell’istruzione tecnica e professionale
Pietro Piscitelli
Psicologia
Alfabetizzazione emotiva ed handicap
Simona Alessandra
Minorazione visiva e agorafobia. Una breve ricerca
E. Chessa, M.F. Congiu
Integrazione sociale
Occhi che sentono. Oltre il buio della coscienza
Moira Sannipoli
Il Braille
La magia del Braille in tutto il mondo
Pedro Zurita
Pluriminorazione
In classe con un bambino pluriminorato. Buone prassi di inclusione scolastica
Mauro Mario Coppa
Segnalazioni bibliografiche
IL RIORDINO DELL'ISTRUZIONE TECNICA E PROFESSIONALE
Erano quasi 80 anni che l'istruzione tecnica e professionale non era oggetto di riforma
normativamente organica. Con l'approvazione da parte del Consiglio dei Ministri di due
regolamenti, gli istituti tecnici e gli istituti professionali - già a partire dall'a.s. 2010-2011 -
saranno considerati come scuole dell'innovazione. La volontà del progetto di riordino è il
3. rilancio della cultura tecnica e professionale quale migliore risposta della scuola alla crisi,
perché - come dichiarato dal Ministro Gelmini - "favorisce la formazione del capitale umano
necessario per il rilancio del made in Italy e consente una pluralità di scelte formative
integrate con la formazione professionale regionale, in contrasto con i rischi di dispersione
scolastica". Con i nuovi regolamenti si è voluto superare il fenomeno della frammentazione
degli indirizzi, rafforzando il riferimento ad ampie aree scientifiche e tecniche. Infatti si
distinguono per l'istruzione tecnica 2 settori e 11 indirizzi. Nel settore economico sono stati
inseriti 2 indirizzi: amministrativo, finanza e marketing; turismo. Nel settore tecnologico sono
stati definiti 9 indirizzi: meccanica, meccatronica ed energia; trasporti e logistica; elettronica
ed elettrotecnica; informatica e telecomunicazioni; grafica e comunicazione; chimica,
materiali e biotecnologie; sistema moda; agraria e agroindustria; costruzioni, ambiente e
territorio. Gli attuali corsi di ordinamento e le relative sperimentazioni degli istituti tecnici
confluiranno gradualmente nel nuovo ordinamento. Per l'istruzione professionale si prevede
l'articolazione in 2 macrosettori: istituti professionali per il settore dei servizi e istituti
professionali per il settore industria e artigianato. Ai 2 settori corrispondono 6 indirizzi.
Quanto alla struttura del percorso didattico, per gli istituti tecnici si prevede un primo biennio,
dedicato all'acquisizione dei saperi e delle competenze previsti per l'assolvimento dell'obbligo
di istruzione e di apprendimenti che introducono progressivamente agli indirizzi in funzione
orientativa; un secondo biennio e un quinto anno, che costituiscono un complessivo triennio
in cui gli indirizzi possono articolarsi nelle opzioni richieste dal territorio e dal mondo del
lavoro e delle professioni e il quinto anno che si conclude con l'Esame di Stato. Per gli istituti
professionali, invece, il percorso è articolato in: 2 bienni e 1 quinto anno (il secondo biennio è
articolato in singole annualità per facilitare i passaggi tra diversi sistemi di istruzione e
formazione). In entrambi i tipi di scuola si rileva l'introduzione di nuovi modelli organizzativi
per sostenere il ruolo delle scuole come centri di innovazione, attraverso la costituzione di
Dipartimenti, quali articolazioni funzionali del collegio dei docenti per un aggiornamento
costante dei percorsi di studio, soprattutto nelle aree di indirizzo; l'istituzione di un Comitato
tecnico-scientifico, con composizione pariretica di docenti ed esperti, finalizzato a rafforzare
il raccordo sinergico tra gli obiettivi educativi della scuola, le innovazioni della ricerca
scientifica e tecnologica, le esigenze del territorio e i fabbisogni professionali espressi dal
mondo produttivo; la realizzazione di un Ufficio tecnico per migliorare l'organizzazione e la
funzionalità dei laboratori e la loro sicurezza per le persone e per l'ambiente.
Il direttore responsabile,
prof. Pietro Piscitelli
ALFABETIZZAZIONE EMOTIVA ED HANDICAP
4. Alessandra Simona
[abstract] Cos’e’ l’”alfabetizzazione emotiva” e quali possono essere le sue applicazioni sul processo di conoscenza
dell’handicap e di integrazione del disabile.[fine abstract]
Premessa
Permettere ai bambini di esplorare il proprio mondo, fatto di valori, sentimenti,
apprendimenti ed emozioni, confrontarsi con gli altri, apprendere l’esistenza di una diversità
individuale, li aiuta a crescere nella tolleranza e nella stima reciproca, li aiuta a comunicare i
propri pensieri e a rispettare le regole della convivenza civile e democratica.
La scuola rappresenta il luogo in cui i nostri bambini trascorrono gran parte della loro
vita, e si pone come campo di esperienza relazionale e comunitaria; per bambini che
presentano delle disabilità rappresenta anche un luogo fertile per l’integrazione e lo sviluppo
dell’autonomia. Quando parliamo di disabilità visiva ci riferiamo a una perdita più o meno
rilevante di capacità funzionali legate alla visione (lavoro manuale, motilità, autonomia,
scrittura, lettura), da ciò deriva l’handicap visivo che invece riguarda la perdita più o meno
rilevante dell’equilibrio esistenziale, personale e sociale. Possiamo fare molto affinché la
perdita della funzione visiva sia esclusivamente una perdita delle funzioni ad essa correlate,
ma non al benessere e alla qualità della vita della persona non vedente e di chi gli sta accanto.
Distinguere le emozioni negative da quelle positive spinge i bambini ad attivare
strategie di problem-solving per superare paure, ansie, vergogna, senso di inferiorità, oltre che
a sviluppare l’autostima e una percezione positiva di Sé.
Promuovere attività che aiutino alla riflessione, all’autocontrollo e all’individuazione di
percorsi di vita possibili e coerenti, può consentire a tutti i bambini, ma in modo particolare a
bambini con handicap, di essere promotori del proprio e dell’altrui benessere, attraverso
l’assunzione di ruoli, ispirati ad una didattica orientativa, in grado di fornire processi di
crescita e di sviluppo.
Elaborare dei programmi di alfabetizzazione emotiva all’interno delle scuole, consente
di avvicinarsi alle problematiche inerenti l’handicap e la riabilitazione, fornendo chiavi di
lettura adeguate nel responsabilizzare tutti gli attori coinvolti all’interno della classe.
Per consentire una reale integrazione ai bambini con disabilità gravi o con disabilità
aggiuntive, è necessario comprendere gli stati d’animo di queste persone e il loro modo di
esprimerle, modalità che non sempre utilizzano i canali privilegiati da tutto il resto della
classe, ma che spesso sono fatte di: irrigidimenti, spasmi, stereotipie ed isolamenti. Imparare a
leggere questi, e molti altri comportamenti, può migliorare la permanenza dei nostri bambini
nelle scuole, ma anche in casa. Esprimere, riconoscere, controllare e indirizzare socialmente e
5. positivamente le emozioni, può costituirsi tra gli insegnamenti di base; negli ultimi anni si è
tanto parlato di “intelligenza emotiva” proprio per indicare l’esistenza di due menti semi-
indipendenti: una emozionale e l’altra razionale; è un peccato potenziare tanto la seconda a
discapito della prima, ed è un errore che forse non vogliamo più commettere.
Alfabetizzazione emotiva ed intelligenza emotiva
Molte scuole potrebbero fornire un contributo positivo introducendo nell’ambito dei
normali programmi scolastici dei progetti di “alfabetizzazione emotiva”: atti ad aumentare
l’autoconsapevolezza e a controllare i sentimenti negativi, conservando l’ottimismo,
rimanendo perseveranti di fronte alle frustrazioni, cooperando e stabilendo relazioni sociali
soddisfacenti. Per intelligenza emotiva intendiamo: la capacità di tenere a freno gli impulsi, di
leggere i sentimenti più profondi delle altre persone, di gestire la relazione con gli altri
adeguatamente, di evitare che la sofferenza prenda il sopravvento.
Fin dall’antichità si è sempre cercato di imbrigliare le emozioni, di addomesticarle,
perché ritenute futili e scomode manifestazioni della debolezza umana, che era meglio
nascondere piuttosto che mostrare; molte emozioni vengono escluse dalle relazioni intime e
vengono apertamente scoraggiate; ciò avviene soprattutto nei bambini di sesso maschile a
causa di retaggi culturali, e nei bambini con qualche forma di disabilità, perché si attribuisce
più importanza a potenziare la parte più razionale e cognitiva, indispensabile negli
apprendimenti.
La famiglia è, indubbiamente, il luogo primario in cui si esprime la prima forma di
educazione emozionale, che opera attraverso le parole e le azioni dei genitori indirizzate
direttamente ai figli, ma anche attraverso i modelli che essi offrono mostrando le loro
modalità di gestione dei propri sentimenti e della loro vita di coppia; tuttavia anche in questo
ambito i genitori possono facilmente incorrere in comportamenti inadeguati, come quelli di:
ignorare completamente i sentimenti, assumere un atteggiamento non curante lasciando il
figlio da solo a risolvere i problemi emozionali, essere sprezzanti mostrando di non avere
rispetto per i sentimenti del bambino. Tra i comportamenti auspicabili vi è l’apprendimento
dell’empatia che si basa sull’autoconsapevolezza poiché, chi è aperto verso le proprie
emozioni è anche in grado di immedesimarsi e di leggere quelle altrui; ed è anche vero il
contrario, nel senso che un buon atteggiamento empatico induce gli altri a sintonizzarsi con i
nostri stati emotivi, avviando, in tal senso, le modalità indispensabili per una buona
“sintonizzazione affettiva”.
L’intelligenza emotiva è un’abilità che va ben al di là dei fattori familiari e culturali;
6. essa riguarda la capacità di resistere alle avversità, di possedere un ottimismo persistente, di
essere in grado di riprendersi in fretta dai dispiaceri, di riuscire a frenare gli impulsi e di
rimandare la gratificazione controllando l’ansia e la tensione, in una sola parola è la capacità
di essere “empatici”; molte di queste caratteristiche vengono apprese nella così detta Scienza
del Sé, disciplina pionieristica che opera negli Stati Uniti, il cui oggetto di studio sono i
sentimenti propri e quelli che scaturiscono dall’interazione con gli altri, e che vengono
compresi analizzando gli elementi che si celano dietro uno stato d’animo e le modalità di
controllo dello stesso.
Gli operatori che operano nel sociale, i genitori, gli insegnanti, gli studenti si devono
concentrare sul vissuto emotivo della vita di un bambino che presenta delle disabilità, come
ad esempio il dolore provocato dal sentirsi esclusi, dall’invidia, dai contrasti con il gruppo dei
pari, dal senso di inferiorità o dalla non accettazione della propria diversità; aprire un dialogo
e affrontarlo sia dal proprio punto di vista sia da quello altrui, renderà possibile una
comunicazione efficace, evitando inutili fraintendimenti e aiutando i bambini ad interpretare
correttamente i messaggi sociali.
Se l’intelligenza, in generale, si definisce come la capacità di portare avanti
ragionamenti astratti validi in relazione all’area di informazione e viene misurata attraverso il
quoziente intellettivo; è anche possibile misurare e immaginare l’esistenza di un quoziente
emotivo che comprende la capacità di capire la natura delle emozioni individuali, di scoprire
le similitudini e le differenze tra esse e di impegnarsi in altre attività mentali correlate; infatti
emozioni e pensieri non appartengono ad aree completamente distaccate fra loro; anche
fisiologicamente, le aree cerebrali deputate al pensiero, che risiedono nel neocortex, non sono
totalmente isolate dal sistema libico ed in particolar modo dall’amigdala, che è invece l’area
deputata alle emozioni. Più vi è un’elevata conoscenza delle proprie e delle altrui emozioni,
più si avrà il controllo su di esse. Conoscere le proprie emozioni non solo ha un impatto
positivo sulla sensazione soggettiva di benessere, ma, soprattutto, evita nel caso di emozioni
spiacevoli, che queste rimangano non riconosciute, inespresse e corrano il rischio di
un’esplosione successiva o una sedimentazione nel corpo, dando origine a manifestazioni di
origine psicosomatica. Gestire le emozioni non vuol dire “non provarle”, ma si riferisce alla
capacità di esprimerle in un contesto appropriato e di viverle senza farsene travolgere. Inoltre,
moltissimi studi dimostrano come l’intelligenza emotiva migliori le prestazioni lavorative sia
intermini di efficacia che di efficienza, anche a scuola, l’apprendimento educativo e didattico
viene positivamente influenzato dalle emozioni (Goleman, 1995).
7. Lo sviluppo del bambino in termini emozionali e la disabilità visiva
Prendendo in considerazione, più in dettaglio, la situazione del bambino con disabilità
visiva, ci si rende conto di come lo sviluppo psico-affettivo proceda per certi versi in maniera
significativamente diversa, rispetto al normale processo di sviluppo. In primo luogo ci si
accorge di come l’interesse e l’atteggiamento nei confronti della realtà esterna sia più passivo
e meno partecipe. Spesso, se sovrastimolato, utilizzando input extra-visivi, il bambino non
vedente appare più infastidito che interessato, gli stimoli vengono percepiti in modo
frammentario tanto da non riuscire a catalogarli in modo coerente, l’atteggiamento che ne
consegue è quello di rinuncia. Da ciò deriva che le gravi compromissioni congenite dei
processi sensoriali rappresentano un ostacolo sia per lo sviluppo di molte funzioni sia per
un’adeguata rappresentazione della realtà; inoltre, anche la motivazione ad apprendere e la
partecipazione attiva con l’ambiente e alle relazioni interpersonali sono molto deficitarie.
Le prime difficoltà emozionali si verificano nelle primissime forme di relazione con la
madre, fin dalle prime settimane di vita, quando l’instaurarsi del contatto visivo con il
bambino risulta impossibile, normalmente questo aspetto costituisce la prima forma di legame
simbiotico con la madre, in quanto il bambino normodotato non percepisce la madre come
entità separata ma come un insieme di sensazioni prodotte da Sé (Winnicott, 1974); il bimbo
non vedente dovrà affidarsi ad altre stimolazioni sensoriali per instaurare questo rapporto
simbiotico con la madre, ma spesso lei vive questa mancanza di dialogo visivo come
esperienza traumatica, che immancabilmente costituisce la prima forma di disillusione alle
aspettative genitoriali, nelle settimane successive al parto, occorre fare i conti e tollerare il
divario tra l’immagine idealizzata del figlio e il bambino reale che hanno di fronte. Alcune
madri non riescono a superare questa discrepanza, e inevitabilmente perdono la capacità di
comunicare empaticamente con il proprio figlio, ponendo in tal senso le basi per un forte
isolamento e deprivazione emotiva.
Il “bambino sano e bello” che tanto è stato atteso, ha lasciato il posto ad un figlio con un
handicap, il lieto evento si trasforma in un evento angosciante e luttuoso.
È un enigma che pone domande sulle cause e sulle responsabilità: si cerca anzitutto una
definizione patologica per capire questa insostenibile realtà, ma anche quando viene acquisita
la spiegazione eziologica questa non allevia un oscuro sentimento di disperazione,
implacabile e irrazionale.
Il bambino che è nato non corrisponde a quello ideale che si aspettava, mentre il figlio
che presenta delle disabilità, traduce in realtà i fantasmi del bambino “anormale e mostruoso”,
presente nell’immaginario di tutte le donne incinte.
8. In alcuni ambienti un bambino con handicap è tuttora considerato una vergogna, una
“punizione divina”, il frutto di colpe e di tare ereditarie, anche in contesti culturali evoluti la
reazione sociale è negativa benché più velata; proprio perché le attese di prestigio sociale e di
gratificazione personale sono maggiori e i sentimenti di commiserazione sono diffusi.
Se intendiamo la famiglia come un’unità sistemica, ci rendiamo conto di come la realtà
e la presenza di ogni componente influenza quella di tutti gli altri; la famiglia in cui vive un
bambino non vedente è una “famiglia a rischio”: sono state rilevate alte percentuali di
separazioni, di distacco dalla vita attiva e di relazione, sono frequenti depressioni della madre
e pressoché costanti situazioni di nevrosi e di disadattamento dei fratelli.
Il dato, che non trova soluzione, è costituito dal fatto che quel figlio non ha una valenza
sociale positiva e quindi non può essere oggetto di scambio e di comunicazione con le altre
famiglie e col resto della comunità, nelle funzioni affettive, economiche e simboliche.
A livello emotivo i genitori possono rischiare o di essere privi di risorse emotive da
investire nel rapporto con il proprio bambino non vedente, oppure di assumere un
atteggiamento patologicamente simbiotico (una volta superato il trauma iniziale), tanto da non
creare il normale spazio relazionale di cui il bambino necessita, per strutturare e formare il
proprio “Io”, che verrebbe vissuto dai genitori come troppo doloroso perché sarebbe un “Io
disabile”. L'educazione impartita durante l'infanzia, modella e rinforza il pensiero irrazionale.
Si possono individuare alcuni stili educativi particolarmente “disfunzionali” poichè facilitano
l'acquisizione di una visione del mondo irrealistica.
Stile iperansioso. È riscontrabile in quei genitori che si preoccupano eccessivamente per
la sicurezza fisica del bambino. Un bambino che si sente frequentemente lanciare messaggi di
questo tipo apprenderà una visione della vita basata su convinzioni irrazionali ed irrealistiche
che lo fanno sentire inadeguato ed incompetente. I genitori nei quali prevale questo stile
educativo tendono ad avere figli timidi, paurosi, insicuri e alla ricerca ossessiva di sicurezza.
Con un atteggiamento di questo genere, il bambino ha molte probabilità di diventare un
adulto ansioso. Si verifica una sorta di contagio emotivo che avviene attraverso la mediazione
di questo tipo di messaggi che il genitore trasmette in continuazione al bambino. Nel caso di
un bambino non vedente, egli imparerà presto che non è in grado di far nulla da solo, si
sentirà come fosse di “cristallo” e non proverà a cimentarsi in compiti sconosciuti che vivrà
come troppo pericolosi.
Stile iperprotettivo. Lo stile iperprotettivo ha delle caratteristiche simili a quello
iperansioso, però anziché stare in ansia per l'incolumità fisica del bambino, in questo caso il
genitore si preoccupa dell'incolumità emotiva in modo eccessivo. Si tratta di genitori che
9. cercano di evitare al bambino ogni minima frustrazione, perché temono che potrebbe soffrire
in modo irreparabile per il resto della sua vita. Ciò può costituire un grosso problema in
quanto viene ostacolata nel bambino la possibilità di imparare a tollerare i disagi e le
frustrazioni. Il bambino viene al mondo con una capacità di tollerare la frustrazione che è a
livello zero. La tolleranza ad essa si sviluppa gradualmente con l'esperienza durante la
crescita, ma se il genitore impedisce questo sviluppo, il bambino si sentirà sopraffatto quando
si troverà in circostanze che provocano in lui disagio o sofferenza anche minima. Nel caso di
genitori di bambini non vedenti tutti questi comportamenti/atteggiamenti vengono accentuati,
essi temono di sentirsi in colpa se non riescono a eliminare tutte le possibili fonti di disagio
dalla vita del loro bambino, che è gia tanto sfortunato da non dover subire altre frustrazioni,
per cui spesso riversano sul figlio dimostrazioni di affetto in modo eccessivo e
indiscriminato, rinforzando in lui anche la tendenza ad evitare le difficoltà. Questo stile
educativo crea spesso bambini con bassa tolleranza alla frustrazione ed eccesso di
egocentrismo. Più frequentemente ancora, genera bambini insicuri, non preparati ad affrontare
reazioni diverse da quelle a cui si sono abituati nell'ambiente familiare. Diventa difficile, per
questi bambini, prevedere quale possa essere per loro il comportamento più adeguato da
adottare ed in seguito a ciò spesso cominciano a considerare "terribili" le conseguenze di
eventuali azioni sbagliate e a nutrire dubbi sul proprio valore personale.
Stile ipercritico. Questo stile educativo è caratterizzato dalla tendenza a notare ed
ingigantire gli errori e i difetti commessi dal bambino. L'adulto sarà sempre pronto ad
intervenire per notare ogni minimo difetto, ogni comportamento negativo, senza mai far caso
e senza mai incentivare o rinforzare i comportamenti positivi; l'interazione col bambino
avviene quasi esclusivamente sotto forma di rimproveri o accorgimenti, come molti genitori
sono solleciti a puntualizzare. È un modo di rapportarsi caratterizzato da un'elevata frequenza
di comportamenti di critica che possono essere manifestati apertamente oppure in modo
sottile. Tali comportamenti sono: rimproveri eccessivi, rimbeccate, manifestazioni di biasimo,
commenti moralistici, messa in ridicolo del bambino, svalutazione del figlio. Un bambino
educato seguendo questo stile avrà sempre paura di sbagliare, paura di essere disapprovato,
tenderà all’isolamento sociale, avrà un basso livello di autostima ed infine attuerà
comportamenti di evitamento.
Stile perfezionistico. È tipico di quei genitori che considerano sbagliato tutto ciò che
non è perfetto al cento per cento, in quanto esigono, dai propri figli, livelli di prestazione
molto elevata, senza essere abbastanza oggettivi nel considerare quali siano le difficoltà del
compito. Questo stile educativo è sostenuto dalla convinzione che bisogna riuscire bene in
10. tutte le cose e che il valore di un bambino, come quello dei suoi genitori, dipende dai successi
che egli riesce a conseguire. Tali genitori comunicano al bambino che egli vale qualcosa e
merita di essere amato solo se riesce in tutto quello che fa. Inoltre nel caso di bambini non
vedenti essi devono dimostrare che nonostante non sono riusciti ad essere perfetti a causa del
loro deficit, in tutto il resto sono impeccabili! Acquisiscono essi stessi un atteggiamento
perfezionistico ed imparano a temere la disapprovazione ed il rifiuto qualora non riescano
completamente bene in ciò che intraprendono. La possibilità di sbagliare viene considerata
una catastrofe.
Stile incoerente. I genitori che presentano questo stile tendono a gratificare o a punire il
bambino a seconda del loro umore anziché in base all'adeguatezza o meno del
comportamento. Si tratta di genitori che spesso rimproverano il bambino per i suoi errori,
senza stabilire con lui delle regole chiare. Questo stile non fa altro che confondere il bambino
che viene posto in una condizione di “Indecidibilità”, non sanno mai che decisione prendere
poiché tutte le loro convinzioni e i loro comportamenti possono essere giusti o sbagliati allo
stesso tempo.
Infatti, dall’altro polo della relazione, il bambino non vedente manifesterà il proprio
disagio e la frustrazione, per non essere all’altezza delle aspettative dei genitori, con una forte
passività e retrazione da tutto ciò che lo circonda, si dimostrerà impaurito ed insicuro, tenderà
a delegare ai genitori la tutela della propria cura e della sua sicurezza, creando così una spirale
negativa che indurrà i genitori a sentirsi sempre più in colpa nei suoi confronti.
Se per disabilità includiamo anche i bambini che, fin dalla nascita, presentano altre
disabilità aggiuntive oltre al deficit visivo, ci renderemo subito conto di come il semplice
accudimento quotidiano rappresenti una continua fonte di frustrazione; in questi casi elaborare
il lutto per la perdita del figlio idealizzato si scontra con lo stato generale di cure che vede
stravolgere i ritmi veglia-sonno, l’alimentazione, l’igiene personale. Anche i canali
comunicativi vengono totalmente stravolti, infatti i bambini con deficit visivo che hanno
anche gravi compromissioni neurologiche, evidenziano dei particolari indici di espressione
delle loro sensazioni/emozioni come:
• le reazioni posturali (intese come modifica transitoria del tono muscolare, come
arresto momentaneo dell’attività motoria o della suzione, come breve rallentamento degli atti
respiratori);
• il sorriso alla presentazione del target;
• ammiccamento delle palpebre;
11. • modifica della mimica facciale che si traduce nell’apertura della bocca, nei
movimenti di suzione, nella protrusione della lingua per ricercare l’esplorazione orale
(Prisma, 2004).
La RET e l’alfabetizzazione emotiva
La RET è una psicoterapia ad orientamento umanistico, sviluppatasi negli anni ‘50 dallo
psicologo clinico statunitense Albert Ellis. Secondo Ellis, i disturbi della sfera emotiva
sarebbero il risultato di pensieri illogici e irrazionali, orientati verso l’assolutezza nei giudizi e
verso una rigida concezione di ciò che si “deve essere” (A. Ellis, R. A. Harper, 1975; A. Ellis,
R. Grieger, 1977); reazioni emozionali prolungate sono causate da asserzioni su di sé che
l’individuo ripete a se stesso e che riflettono talvolta assunti inespressi, convinzioni irrazionali
riguardo ciò che si ritiene necessario per condurre un’esistenza significativa. Uno dei compiti
della terapia è dunque quello di individuare e chiarire queste credenze irrazionali,
ingiustificate e nocive al benessere del paziente, per sostituirle con altre, più realistiche e
flessibili, maggiormente utili per l’adattamento del soggetto. Ellis sostiene che le persone
interpretano ciò che avviene intorno a loro, e talvolta tali interpretazioni possono generare
gravi turbamenti emotivi; l’attenzione del terapeuta dovrebbe essere quindi rivolta a queste
convinzioni. Questo approccio è centrato sulle modalità cognitive individuali di costruzione
della realtà e della sua interpretazione. L’ambito applicativo più mirato riguarda i pazienti con
disturbi non gravi, o con disabilità specifiche che possiedono buone capacità intellettive e una
buona forza dell’Io per accettare ed intraprendere i cambiamenti richiesti. A distanza di
quarant'anni la terapia razionale emotiva (RET) ha cambiato il nome in terapia
comportamentale razionale-emotiva (rational-emotive behavior therapy/REBT), ponendo
l’accento sulle implicazioni comportamentali e gettando le basi alla moderna prospettiva
cognitivo-comportamentale. Nel corso degli anni la REBT è andata sviluppandosi non solo
come prassi psicoterapeutica, ma anche come una procedura di "auto-aiuto" e di
"autotrasformazione". Questo è uno degli obiettivi anche dell’Educazione Razionale-Emotiva
che si rivolge soprattutto a bambini e adolescenti, per cui è attuabile in un contesto scolastico
come strategia avente finalità preventive. In molti casi può essere d’aiuto anche qualora siano
già insorte problematiche emotive, purché non ancora strutturate secondo un quadro
psicopatologico vero e proprio.
La REBT distingue tre categorie nella classificazione dei processi cognitivi:
a) Processi cognitivi di tipo descrittivo. Si riferiscono al modo in cui l’individuo
12. percepisce e descrive la realtà.
b) Processi cognitivi di tipo inferenziale (o interpretativo). Si riferiscono al modo in
cui l'individuo interpreta la realtà percepita.
c) Processi cognitivi di tipo valutativo. Si riferiscono al modo in cui l'individuo
giudica o valuta ciò che ha interpretato.
Secondo la REBT il disagio emotivo deriva da errori che possono essersi verificati in
ciascuna delle tre categorie di processi cognitivi. Diversamente però da altri tipi di terapia
cognitivo-comportamentale, la REBT considera maggiormente rilevanti gli errori contenuti a
livello di valutazioni e giudizi e ritiene che una soluzione stabile e definitiva del problema
avviene operando una ristrutturazione cognitiva in questa terza categoria di processi cognitivi.
Già all'inizio della sua elaborazione teorica Ellis aveva individuato alcuni dei più ricorrenti
errori di valutazione della realtà e li aveva riassunti in questo elenco di convinzioni
irrazionali:
1. Si deve essere sempre amati o apprezzati da tutte le persone significative.
2. Si deve essere sempre bravi e competenti per essere considerati degni di valore.
3. Certe persone sono completamente negative, malvagie e meritano di essere severamente
condannate e punite.
4. È terribile e catastrofico se le cose non vanno come vogliamo.
5. La sofferenza umana dipende solo da cause esterne e non possiamo fare nulla per
controllare o cambiare le nostre emozioni.
6. Se qualcosa è o può essere pericoloso bisogna preoccuparsene enormemente e pensarci in
continuazione.
7. È meglio evitare certe difficoltà piuttosto che affrontarle.
8. Bisogna per forza dipendere dagli altri e avere qualcuno di più forte su cui contare.
9. Ciò che ci è accaduto in passato continuerà ad influenzare per sempre la nostra vita.
10. Dobbiamo sconvolgerci enormemente per i problemi e i disturbi degli altri.
11. Ci deve essere sempre una soluzione giusta e perfetta per qualsiasi problema ed è una cosa
13. orribile non riuscire a trovarla.
Successivamente Ellis si rese conto che era possibile considerare tutte le convinzioni
irrazionali come derivate da - o subordinate a - tre “doverizzazioni di base”: su se stessi ("Io
devo agire bene ed essere approvato da tutte le persone per me significative, altrimenti sono
completamente un incapace e ciò è terribile"); su gli altri ("Gli altri devono trattarmi bene ed
agire come io penso che debbano assolutamente agire, altrimenti sono delle carogne, dei
mascalzoni e meritano di pagarla"); sulle condizioni di vita ("Le cose che mi succedono
devono essere proprio come io pretendo che siano e tutto deve essere facile e gradevole,
altrimenti la vita è insopportabile"). Da queste principali convinzioni irrazionali
“doverizzanti” possono scaturire altre categorie di pensieri irrazionali (dette appunto
derivative). Esse sono:
Pensiero catastrofico: Consiste nell’esagerare oltremodo l’aspetto spiacevole o doloroso
di certi eventi. Tipici esempi sono: "Se sbagliassi o prendessi un brutto voto sarebbe terribile",
"É orribile essere criticati".
Intolleranza- insopportabilità: Si tratta di pensieri che denotano una bassa tolleranza
alla frustrazione. Consistono nel ritenere che certi eventi obiettivamente spiacevoli non
possono essere sopportati, ad esempio: "Non posso sopportare di fare quello che non mi
piace", "È insopportabile avere così tanti compiti da fare", "Non posso tollerare di essere
preso in giro".
Svalutazione globale di sé’ o degli altri: Consiste nel ritenere che poiché non si è riusciti
bene in qualcosa, allora siamo un fallimento totale. Oppure la svalutazione globale può essere
rivolta agli altri, ritenendo che se uno o più aspetti del comportamento di una persona sono
negativi, allora l’intera persona è negativa. Esempi di entrambi i tipi di svalutazione globale
potrebbero essere: "Sono così stupido e incompetente", "Sono senza speranza", "É una vera
carogna", "La mia insegnante è completamente incompetente".
Indispensabilità-bisogni assoluti: È un modo di pensare che ci porta erroneamente a
considerare indispensabile ciò che è desiderabile, auspicabile, utile, ma di cui possiamo anche
fare a meno, pur con qualche inconveniente. Con questa forma di pensiero trasformiamo certi
eventi, certe persone o certi oggetti in un “sine qua non” per la nostra felicità. È come se
dicessimo: "Posso essere felice solo se avrò questo", ma così facendo ci costruiamo la nostra
stessa infelicità. In molti casi ciò che consideriamo indispensabile sono l’approvazione, la
stima, l’affetto, l’amore, l’amicizia. Ne sono alcuni esempi: "È indispensabile essere
apprezzato da tutti i miei amici", "Non potrei andare avanti se non avessi l’affetto di tutte le
persone", "É indispensabile che i miei insegnanti riconoscano e apprezzino il lavoro fatto".
14. Il processo di educazione emotiva deve essere, dunque, inteso come una strategia di
prevenzione del disagio emotivo, che costituisce, un vero e proprio lavoro di "alfabetizzazione
emozionale”, utilizzando l'espressione coniata da alcuni psicologi statunitensi. Si tratta di un
percorso attraverso il quale si cerca di educare la mente del bambino al potenziamento di quel
aspetto dell'intelligenza che è in grado di favorire reazioni emotive equilibrate e funzionali.
Attuare un processo di alfabetizzazione emotiva significa insegnare al bambino l'ABC delle
emozioni. Il modello dell'emozione adottato nell'ambito dell' educazione emotiva include i tre
elementi che intervengono in qualsiasi manifestazione emotiva: si considera l'evento attivante;
la propria rappresentazione mentale della realtà, cioè il proprio modo di pensare, di
interpretare e valutare; la situazione vissuta dall'individuo, quindi la sua reazione emotiva e
comportamentale. L'ABC delle emozioni, se insegnato precocemente al bambino, consente di
fornire uno strumento che lo metterà in grado di comprendere le proprie reazioni emotive
negative per poterle successivamente trasformare. Ciò non vuol dire che non proverà più
emozioni spiacevoli, ma anziché essere sopraffatto da esse, sarà in grado di dominarle.
L'Educazione Razionale-Emotiva riconosce che le emozioni, anche quelle negative, hanno un
loro valore legato alla sopravvivenza della specie. Così come il dolore fisico ci comunica che
qualcosa sta nuocendo al nostro corpo, anche il disagio emotivo funge da segnale che ci
avverte dell'opportunità di mobilitare le nostre risorse per fronteggiare la situazione. Se però
questo disagio emotivo si fa troppo intenso ne saremo sopraffatti e non saremo più in grado di
attivare, in modo efficace, le nostre risorse personali. L'intento dell'Educazione Razionale-
Emotiva non è quindi eliminare ogni emozione spiacevole, ma minimizzare l'impatto che tali
emozioni hanno sulla vita dell'individuo, favorendo nel contempo la massimizzazione di
emozioni positive. Di solito un programma di Educazione Razionale Emotiva si sviluppa
attraverso tre fasi:
• Si cerca di aiutare il bambino a riconoscere, a identificare le proprie emozioni, a essere
consapevole di come si sente quando prova un certo disagio emotivo, nel bambino con disabilità
visive occorre far attenzione a quali canali di valutazioni si riferisce per riconoscere le proprie
emozioni.
• Poi si tratta di aiutarlo a identificare il rapporto esistente fra modo di sentirsi e modo di
pensare, rendendosi conto che se si sente in un certo modo è perché pensa secondo determinate
modalità che gli sono proprie o che ha appreso dall’esterno, ed in modo particolare dalla
famiglia.
15. • Infine, si cercherà di aiutare il bambino ad intervenire su quei meccanismi mentali che sono
alla base di emozioni disfunzionali, operando una trasformazione all’interno della propria mente
e quindi cambiando qualcosa nel proprio dialogo interno, ossia nel modo in cui parla a se stesso
quando interpreta e valuta ciò che gli accade. Tecnicamente questo è ciò che si intende per
ristrutturazione cognitiva.
È necessario che il terapeuta, l’insegnante, i genitori abbiano una certa padronanza nel
fronteggiare le emozioni negative. Per questo un piano di attuazione di un programma di
educazione emotiva dovrebbe sempre iniziare con un lavoro che queste figure attuano su se
stesse. Ciò non significa reprimere le proprie emozioni, ma trasformarle agendo sul
meccanismo che determina l'insorgere e il perdurare di stati emotivi negativi; tale
meccanismo è dentro la nostra testa ed è costituito dai nostri stessi pensieri. Acquisire la
capacità di fronteggiare le emozioni negative significa quindi imparare a riconoscere e a
trasformare i propri pensieri irrazionali. Occorre dunque:
• Avere consapevolezza dell'insorgere di uno stato d'animo negativo;
• riconoscere dei pensieri che precedono e accompagnano il manifestarsi di tale stato d'animo;
• individuare i pensieri nocivi o irrazionali;
• correggere e trasformare tali pensieri disfunzionali attraverso il ragionamento;
• ricorrere continuamente a nuovi modi di pensare più adeguati al fine di sperimentare
reazioni emotive e comportamentali più funzionali alla situazione.
Pensare di attuare un progetto di Educazione Razionale-Emotiva nella classe significa
creare delle esperienze di apprendimento attraverso le quali l'alunno acquisisce
consapevolezza dei propri stati emotivi e dei meccanismi cognitivi che li influenzano, per poi
applicare tali conoscenze per risolvere i problemi e le difficoltà che incontra nella vita
scolastica e in quella quotidiana.
Gli obiettivi principali che vengono perseguiti attraverso l'applicazione dei principi e dei
metodi dell'Educazione Razionale-Emotiva sono:
• Favorire l'accettazione di se stessi, degli altri e della propria diversità.
16. • Aumentare la tolleranza alla frustrazione che deriva dai limiti che ciascuno possiede.
• Saper esprimere in modo costruttivo i propri stati d’animo.
• Imparare il rapporto tra pensieri ed emozioni.
• Incrementare la frequenza e l’intensità di stati emotivi piacevoli.
• Favorire l'acquisizione di abilità di autoregolazione del proprio comportamento.
L' attuazione dell'Educazione Razionale-Emotiva nella classe può avvenire in diversi
modi:
• Attraverso un approccio informale: trasmettendo i concetti connessi al benessere emotivo
all'alunno proprio quando egli si trova ad affrontare una particolare situazione difficile. Possono
essere coinvolti tutti i compagni attraverso discussioni di gruppo ed esercitazioni.
• Attraverso lezioni strutturate: preparando una serie di lezioni che si sviluppano in base a
degli obiettivi. Le lezioni hanno carattere esperienziale ed includono giochi di simulazione,
discussioni di gruppo, role-playing, brainstorming. Il programma può essere rivolto a un
sottogruppo di alunni provenienti da più classi oppure all'intera classe.
• Integrazione nelle materie curricolari. Con questa modalità i contenuti dell'Educazione
Razionale-Emotiva vengono inseriti all'interno di quelle materie che maggiormente si prestano
a tale integrazione.
L’educazione emotiva a scuola
Il disagio emotivo-comunicativo che vive all’interno delle famiglie si identifica anche
all’interno dell’istituzione scolastica. Per intraprendere un programma di educazione emotiva
in ambito scolastico dobbiamo partire dal presupposto che l’educazione emotiva serve a
gestire conflitti, incomprensioni, situazioni di tensione, sovraccarico, stress emotivo. Le
emozioni sono alla base della motivazione e del coinvolgimento personale, così come
l’analfabetizzazione emotiva è la causa di blocchi e difficoltà di apprendimento. Uno dei
compiti più ardui che la nostra società ci impone è quello di adattarci all’ambiente in cui
viviamo. Il luogo in cui sperimentiamo le nostre, cosiddette, competenze sociali, oltre che in
ambito familiare, è rappresentato dalla scuola; intesa come istituzione che, impone delle
17. norme comportamentali, che richiedono un certo grado di abilità nello stare insieme agli altri.
Molto spesso si assiste ad una forte incompetenza dal punto di vista della vita emozionale,
incompetenza che riflette la poca importanza che si attribuisce alle emozioni, da parte di tutti
gli individui. Questa incompetenza si riflette nella quasi assoluta impossibilità, o difficoltà a
riconoscere ed esprimere le proprie e le altrui emozioni, ed inevitabilmente a fraintendere i
messaggi emotivi, dando origine alla tendenza ad esigere che i propri bisogni personali
vengano immediatamente soddisfatti e che abbiano la precedenza sui bisogni degli altri;
inoltre è frequente il ricorso all'aggressività per conseguire i propri scopi, l’oppositività, la
tendenza alla trasgressione di norme sociali. Tutto ciò si traduce in disturbi della condotta e in
iperattività. Da un punto di vista soggettivo la sofferenza che viene vissuta interiormente, e
che spesso passa inosservata ad un'osservazione superficiale, si traduce in ansia e depressione.
È interessante notare che la maggior parte delle segnalazioni che gli insegnanti rivolgono ai
servizi specialistici per alunni in difficoltà, riguardano quasi esclusivamente i disturbi della
condotta e l’iperattività, entrambi molto difficili da gestire. È molto raro che un insegnante
segnali ad uno psicologo o ad un neuropsichiatra infantile bambini che hanno problemi di
ansia o problemi depressivi, in quanto si tratta di soggetti che di solito non disturbano e non
creano problemi nella classe; questo comportamento non curante viene accentuato dalla
presenza in classe di un bambino non vedente, i cui stati d’animo sono spesso celati da
un’apparente tranquillità e passività di carattere. Si tratta di alunni che tendono a isolarsi, o
più spesso vengono isolati; che tendono a chiudersi in se stessi, che rimangono passivi e
sottomessi nei confronti degli altri. In effetti un deficit nelle abilità relazionali accompagnato
da un deficit fisico, è una costante di molti disturbi emotivi. Se il bambino è ansioso, o peggio
se è depresso, manifesterà una certa inadeguatezza nel modo di rapportarsi con i propri
coetanei, che tenderanno ad escluderlo progressivamente dal resto della classe. Si è potuto
constatare che la maggior parte dei disturbi emotivi sono influenzati da alcune modalità
distorte con cui il bambino o l'adolescente rappresenta mentalmente se stesso e il proprio
mondo. Si tratta della tendenza ad ingigantire gli aspetti negativi della realtà, ricorrendo a
modalità di pensiero rigide e assolutistiche; categorizzare in modo estremo influisce
negativamente sull'umore e quando questo processo si consolida, diventando il modo abituale
di considerare se stessi e il proprio mondo, può condurre a disturbi emozionali quali ansia e
depressione. È proprio aiutando il bambino a correggere gli errori presenti nel suo modo di
rappresentarsi la realtà che possiamo metterlo in grado di superare emozioni spiacevoli. In
pratica, per toccare il cuore del bambino dobbiamo passare per la sua mente, aiutandolo a
cambiare gli elementi disfunzionali del suo dialogo interno. Si è visto che se un bambino
18. viene allenato fin da piccolo con apposite procedure, può essere in grado di ascoltare se stesso
e di essere cosciente di quali sono i contenuti mentali che influenzano il suo stato emotivo.
Per questo, la maggior parte dei programmi di prevenzione messi a punto in questi ultimi
dieci anni, prendono in considerazione il rapporto esistente tra pensiero ed emozione.
L'Educazione Razionale-Emotiva si muove appunto dalla constatazione che è possibile
favorire il benessere emotivo del bambino insegnandogli, quanto prima possibile, a pensare in
modo corretto. È auspicabile che questa forma di educazione passi in primo luogo dai genitori
e poi dagli insegnanti. Nel caso di bambini con problematiche visive le emozioni da veicolare
saranno maggiormente cristallizzate, coatte; poiché prendere contatto con la vita emotiva
riapre ferite non ancora rimarginate; queste famiglie e questi bambini hanno, quindi, il diritto
di avvalersi di programmi di educazione emotiva perché indubbiamente ciò li aiuterà a
migliorare la propria qualità di vita e il proprio benessere.
La scuola appare contagiata dalla sopravvalutazione della dimensione tecnico-
razionale, espellendo tutte le altre dimensioni della persona. In tal modo abdica alla sua
funzione formativa, per appiattirsi su una sola dimensione dell’intelligenza, quella cognitiva,
trascurando tutte le altre. Occorre recuperare e valorizzazione l’educazione dell’intelligenza
emotiva in famiglia, a scuola, e in tutti gli altri contesti di vita del bambino, che pertanto deve
essere formato nella sua globalità e nelle sue poliedriche sfaccettature, in modo da tener conto
dei suoi interessi ed aspirazioni personali, secondo un metodo attento e rispettoso dei suoi
ritmi e dei suoi stili di apprendimento.
Proprio il ruolo delle emozioni nell’apprendimento costituisce un punto cardine sul
ruolo del docente e sulla sua funzione pedagogica.
L’apprendimento è un’esperienza emotiva; le emozioni positive alimentano il desiderio
ad apprendere, lo facilitano e lo rafforzano; le emozioni negative, legate a sfiducia, senso di
emarginazione, incapacità, lo compromettono.
Emerge un tema molto importante, che è il benessere emotivo dell’individuo all’interno
del gruppo classe, attraverso la cura di un clima di classe positivo, partecipe, solidale, alla cui
costruzione, nel rispetto delle regole condivise, sono tenuti a collaborare gli studenti giorno
per giorno, imparando così la responsabilità reciproca, l’altruismo, in un ambiente attento alle
risorse e alla valorizzazione di ciascuno. L’insegnante deve favorire l’autorealizzazione dei
propri studenti, deve trasmettere entusiasmo ad apprendere, deve essere accogliente e deve
saper comprendere e incoraggiare nelle difficoltà. Se volessimo stilare un programma di
formazione emotivo-comportamentale, all’interno della programmazione curricolare di una
scuola elementare, ci renderemmo subito conto di come un simile progetto sia di semplice
19. attuazione, infatti: per l’insegnamento della lingua italiana si potrebbe presentare un testo
scritto, ed individuare le parti in cui si connotano le emozioni dei personaggi. Si potrebbero
descrivere, per iscritto o verbalmente, episodi emotivi personali o episodi che si sono
verificati all’interno della classe. Sarebbe utile compiere una distinzione fra la
realtà oggettiva e la realtà soggettiva, in modo da comprendere che non tutti percepiamo le
cose allo stesso modo; una sorta di allenamento al pensiero razionale. Anche gli studi
sociali si connotano perfettamente all’interno della programmazione emotivo-
comportamentale, in quanto permettono di sviluppare la capacità di dialogare con gli altri
all’interno di un gruppo, discutere ed esprimere le proprie opinioni ed emozioni, dare il
proprio contributo per l’attuazione di uno obiettivo comune al gruppo; favorendo nei bambini
la capacità e l’attitudine a verificare gli atteggiamenti individuali e quelli del gruppo che
possano turbare l’armonia della convivenza democratica. In una materia come l’educazione
all’immagine, sarà dunque importante, riconoscere gli elementi che in un’immagine denotano
le emozioni; nel caso di bambini che presentano un handicap visivo, utilizzare il tatto come
indicatore delle emozioni espresse dalla mimica facciale e dal linguaggio del corpo. Saper
esprimere operativamente in modo creativo e personale emozioni, mediante: tecniche
particolari di stesura del colore; nell’utilizzo di materiali vari; nelle attività di manipolazione e
di modellaggio. Per bambini che presentano oltre alla disabilità visiva, delle minorazioni
aggiuntive, può essere di grande conforto l’educazione al suono e alla musica per individuare
e riconoscere suoni e rumori della natura e dell’ambiente che suscitano emozioni, da cui
derivano gli stati d’animo fondamentali.
Analizzare le emozioni suscitate dall’ascolto di brani musicali.
discriminando le emozioni scaturite da particolari ritmi, toni, intensità.
Produrre suoni, rumori, capaci di indurre particolari stati d’animo. Comprendere perché la
scelta di determinati suoni suscita in noi emozioni esclusivamente positive o solamente
negative. Di grande aiuto può essere l’educazione motoria perché ci permette di entrare in
sintonia con il nostro corpo e con lo spazio circostante; inoltre è possibile esprimere gli stati
d’animo con il corpo, individuare posture e mimiche in relazioni a particolari stati emotivi.
Inoltre, i training di rilassamento possono costituire un’importante strumento per canalizzare e
gestire le emozioni e gli stati d’animo negativi che derivano dalle emozioni stesse. Le scienze
possono far riconoscere i correlati neurovegetativi delle emozioni, rendendoci consapevoli dei
pensieri connessi agli stati emozionali. Considerato che lievi disagi del bambino possono
evolvere in un vero e proprio disturbo durante l’adolescenza e costituire un serio problema
psicologico in età adulta, l’intervento precoce può essere utile al costituirsi di competenze
20. emotive da utilizzare in età adulta. Ogni materia può essere seguita o accompagnata da giochi
di simulazione, role-playing, giochi di gruppo, compilazione di materiale strutturato. Come
spazi disponibili a scuola, si potrebbe utilizzare la palestra con un gruppo-classe per volta, o
l’aula per qualche ora la settimana; sarebbe importante poter effettuare una verifica iniziale e
finale della situazione per una valutazione dei risultati conseguiti.
Bibliografia
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(3).
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Winnicott, D.W. (1975). Oggetti transizionali e fenomeni transizionali. Firenze:
Martinelli.
21. Simona Alessandra,
psicologa
MINORAZIONE VISIVA E AGORAFOBIA. UNA BREVE RICERCA
Eleonora Chessa, Maria Francesca Congiu
[Abstract] Ansia e disabilità visiva: le autrici hanno condotto una ricerca sull’agorafobia, per
vedere se esistano differenze significative tra i disabili visivi ed i normovedenti.[fine abstract]
Introduzione
Avendo maturato grande esperienza nel campo delle problematiche riguardanti l'ansia,
ci siamo più volte interrogate sull'esistenza di categorie di persone maggiormente colpite da
tali disagi; ci siamo domandate quali queste categorie potessero essere e il perché
dell'eventuale maggiore frequenza in esse di questi problemi.
Abbiamo ipotizzato che coloro che presentano una deprivazione sensoriale (di
qualunque genere) possano avere un modo di rapportarsi alla realtà più ansiogeno in quanto
dispongono di minori informazioni per conoscerla e quindi per fronteggiarla. Inoltre sono
consapevoli del loro "svantaggio" iniziale nei confronti degli altri. (Ovviamente parliamo di
svantaggio iniziale perché sappiamo bene che queste persone, se dotate di forte personalità e
se supportate dagli adeguati strumenti messi a disposizione oggi dalla tecnica, sono in grado
di raggiungere obiettivi eccelsi e di vivere una vita più che normale).
Ma che tipologia di ansia, in particolare queste persone possono manifestare?
Sicuramente ansia sociale. La sofferenza dei minorati sensoriali e, nel nostro caso in
particolare dei minorati della visione, infatti, deriva fondamentalmente dal confronto con la
realtà e con le persone normovedenti: il problema dunque non è la minorazione in sé, ma il
confronto con la realtà dei più fortunati. Questa sofferenza che si manifesta essenzialmente
attraverso il senso di inferiorità e inadeguatezza, è resa ancora più profonda dal mito trainante
della nostra cultura ovvero quello dell'uomo efficiente, dinamico, integro e "perfetto". Così
come le persone tendono a considerare più intelligente e gradevole una persona integra e
efficiente, l'invalido tenderà a considerarsi e a percepirsi come più impacciato, goffo e meno
gradevole, meno interessante e meno richiesto da un punto di vista sociale e nelle relazioni
interpersonali e sentimentali.
Un altro tipo di ansia che potrebbe esser particolarmente frequente nei minorati della
vista è l'agorafobia. L'agorafobia è la paura di ritrovarsi in luoghi e/o situazioni da dove
potrebbe risultare difficile, impossibile o imbarazzante allontanarsi. È la paura di lasciare la
22. base sicura per ritrovarsi in luoghi privi di punti di riferimento. È facile capire come le
persone con questa disabilità possano provare ansia nell'allontanarsi dalla propria base sicura,
da quegli ambienti che ben conoscono e in cui possono destreggiarsi abilmente, per
avventurarsi in luoghi ampi e sconosciuti in balia di loro stessi. Quasi tutti, infatti, evitano di
allontanarsi da soli dalle loro case.
Questo è dovuto al fatto che, nonostante la forte tradizione tiflologica nell'educazione e
nella rieducazione, le città, i paesi, le strade, gli edifici, sono spesso trappole mortali per chi
non ci vede o ci vede male, perché sono pensati e realizzati da gente che vede normalmente e
per gente che vede normalmente. Così attività ovvie per i "normali" diventano ostacoli
insuperabili per un non vedente. Se il mondo fosse abitato solo da ciechi e le città fossero
progettate da loro non si potrebbe più parlare di "handicap" e la disabilità non produrrebbe
posizioni di svantaggio.
Il nostro saggio si configura come una breve indagine sul rapporto tra non-
vedenza/ipovedenza e agorafobia. Il nostro obiettivo è quello di valutare se esistano delle
differenze significative riguardo l'ansia di tipo agorafobico tra normovedenti e minorati della
vista.
Desideriamo ringraziare:
- La Regione Autonoma della Sardegna nelle persone del Dottor Giuseppe Manca e del Dottor Aldo Manca
che ci hanno permesso di intervistare i centralinisti del loro Ente.
- Il responsabile del Servizio del Personale dell’Azienda Ospedaliera “G. Brotzu” di Cagliari, Dottor Facen,
che ci ha permesso di intervistare i centralinisti dell’omonimo ospedale.
- Tutte le persone e gli enti che ci hanno fornito valide indicazioni per reperire il nostro campione
sperimentale e per svolgere al meglio al nostra indagine.
- Il Professor Francesco Mameli per i suoi preziosi consigli e la sua solare disponibilità.
- Tutti coloro che si sono gentilmente prestati a farsi intervistare da noi aprendoci il loro cuore con simpatia e
sincerità e offrendoci così una preziosa opportunità di crescita personale e professionale.
- La Biblioteca Italiana per i Ciechi per la preziosa opportunità che ci è stata offerta con questo bando.
La ricerca
L’impostazione e la raccolta dei dati.
La nostra ricerca, come abbiamo accennato nell'introduzione, è tesa a valutare se
esistano o meno delle differenze significative tra normovedenti e non-vedenti/ipovedenti per
ciò che riguarda l'agorafobia.
Per valutare questo abbiamo messo a confronto due campioni di ventuno persone
ciascuno, il primo (campione sperimentale) formato rispettivamente da:
23. • 5 non vedenti congeniti (di cui uno con minorazione aggiuntiva).
• 3 non vedenti acquisiti.
• 13 ipovedenti gravi.
e il secondo (campione di controllo) composto da normovedenti.
Abbiamo fatto in modo che i due campioni si equivalessero nella loro composizione per
quanto riguarda le altre variabili: sesso, età, il livello di istruzione, etc. Questo per evitare che
variabili disturbanti potessero inficiare la nostra analisi e quindi che le eventuali differenze
riscontrate tra i due campioni potessero essere attribuibili ad altri fattori.
Entrambi i campioni, infatti, sono formati da 10 persone di sesso maschile e da 11 di
sesso femminile; il campione sperimentale è composto da soggetti di età compresa tra i 19 e i
60 anni e quello di controllo da soggetti di età compresa tra i 23 e i 63 anni.
Abbiamo inoltre evitato di prendere in considerazione persone al di sotto dei 18 anni in
quanto le problematiche d'ansia tendono a svilupparsi a partire da tale età.
La ricerca è stata svolta a Cagliari e nel suo hinterland nell'Aprile del 2008.
Abbiamo sottoposto tutti i soggetti (sperimentali e di controllo) ad un questionario
sull'agorafobia, la cui versione originale è in lingua spagnola, che ci è stato gentilmente
fornito da alcuni specialisti del settore e che abbiamo opportunamente tradotto in italiano
nonché riadattato per renderlo adatto anche ai privi della vista.
Il questionario è composto da 17 domande chiuse a risposta multipla che vanno ad
indagare la presenza o l’assenza di sintomi psico-somatici tipici dell'agorafobia.
Le possibili risposte attribuibili a ciascuna domanda sono:
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
a cui corrispondono rispettivamente i punteggi:
• 0 (totale assenza del sintomo)
• 1
• 2
• 3 (presenza pregnante del sintomo).
La somma dei punteggi attribuiti a ciascuna domanda dà origine ad un punteggio totale
compreso tra 0 a 51, intervallo numerico da considerarsi come un continuum dove 0
corrisponde ad una totale assenza di sintomi agorafobici e 51 al massimo livello di ansia di
tipo agorafobico.
Riportiamo di seguito il questionario da noi utilizzato e la tabella dei risultati ottenuti in
24. seguito alla sua somministrazione.
Età________________ Sesso________________
-Normovedente
-Ipovedente grave
-Non vedente congenito
-Non vedente acquisito
1) Ha paura di allontanarsi solo da casa (anche se conosci bene l’ambiente in cui ti muovi)?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
2) Ha paura che si presentino crisi di angoscia improvvise e inaspettate senza una causa apparente?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
3) Ha paura di viaggiare in auto (come passeggero), autobus, treno, aereo, etc?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
4) Ha paura di stare in luoghi frequentati come negozi, stadi, etc.?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
5) Teme di incontrare spazi aperti ampi?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
6) Ha paura di sentirsi o di rimanere intrappolato in uno spazio chiuso?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
7) Ha paura di restare solo in casa o in qualsiasi altro luogo (di cui conosce bene l’assetto)?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
25. 8) Le capita di percepire la perdita della tua stabilità?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
9) Le capita di percepire che l'ambiente non è il medesimo, che è differente?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
10) Le è mai capitato di perdere il controllo della vescica o dell'intestino?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
11) Soffre di vomiti e di dolori al petto?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
12) Soffre di ansia quando deve fare la fila nei negozi, nelle banche, etc.?
• mai
• qualche volta
• spesso
sempre
13) Ha paura di trovarsi intrappolato nel traffico?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
14) Ha paura di morire, impazzire o perdere il controllo?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
15) Ha paura di viaggiare in strada (nel senso di intraprendere un piccolo viaggio, allontanandosi da casa, in
auto come passeggero)?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
26. 16) Si sente angosciato, nervoso o disperato senza motivo apparente?
• mai
• qualche volta
• spesso
• sempre
17) Durante il giorno si sente triste, vuoto, pessimista senza motivo apparente?
• mai
• qualche volta
• spesso
sempre
Le specificazioni presenti tra parentesi nelle domande 1, 3, 7 e 15 sono state
opportunamente studiate per rendere il questionario adatto ai non vedenti e agli
ipovedenti. Infatti è chiaro che un non vedente provi paura nel recarsi solo in un
ambiente sconosciuto, ma questo non può essere affatto considerato un sintomo
agorafobico in quanto non si tratta di una paura irrazionale ma di una paura che ha
una motivazione oggettiva ovvero quella dell’impossibilità di muoversi in condizioni
di sicurezza, laddove non esistono punti di riferimento noti, a causa della minorazione
visiva. È la mancanza di uno strumento sensoriale che rende impossibile
quest’autonomia nell’esplorazione, non la presenza di un’ansia illogica e quindi in un
certo senso “patologica”.
Durante la somministrazione del questionario abbiamo dialogato con i nostri
soggetti sperimentali e spiegato bene ogni quesito per evitare di incorrere in errori di
questo tipo e di considerare, quindi, sintomatici comportamenti che in realtà sono
conseguenza “obbligata” della minorazione.
CAMPIONE
NORMOVEDENTIEtàSessoPunteggio63F237F837M241M739M031M232F836
F323M049F836F443F238M137F760M154F2330F626M556M1238F136M3C
AMPIONE CON GRAVI PROBLEMATICHE ALLA
VISTAEtàSessoPunteggioTipo di problematica52F4non vedente
congenito52M9non vedente congenito52F8non vedente congenito con
minorazione aggiuntiva19M11non vedente congenito60F6non vedente
congenito55M6non vedente acquisito31F7non vedente
acquisito42F5non vedente acquisito35F9ipovedenti
gravi54F1ipovedenti gravi52M3ipovedenti gravi37F15ipovedenti
gravi36F18ipovedenti gravi40M5ipovedenti gravi49F23ipovedenti
gravi33M9ipovedenti gravi29F6ipovedenti gravi49M7ipovedenti
gravi40M8ipovedenti gravi42M8ipovedenti gravi48M0ipovedenti gravi
L’elaborazione dei dati:
Abbiamo successivamente elaborato i dati raccolti utilizzando il Test t di
27. Student e l’Analisi delle Varianze ottenendo i risultati riportati nelle seguenti tabelle.
TEST T
Legenda:
Per quanto riguarda la variabile “gruppobis”, che troviamo nelle tabelle relative
al t test, ci riferiamo all’appartenenza al campione sperimentale o al campione di
controllo. Il codice 5 è stato utilizzato per l’identificazione dei soggetti normovedenti
e il codice 4 per coloro con problematiche gravi alla vista.
Note Output creato22-APR-2008 10:15:07CommentiInputDatiE:file corretto
spss.savFiltro<nessuno>Peso<nessuno>Distingui<nessuno>N. di righe nel file dati di lavoro42Gestione valori
mancantiDefinizione di valore mancanteI valori mancanti definiti dall'utente vengono considerati mancanti.Casi
utilizzatiLe statistiche per ciascuna analisi sono basate sui casi in cui non sono presenti valori mancanti o al di fuori
dell'intervallo specificato per le variabili dell'analisi.SintassiT-TEST
GROUPS = gruppobis(5 4)
/MISSING = ANALYSIS
/VARIABLES = Punteggio
/CRITERIA = CI(.95) .RisorseTempo trascorso0:00:00,09
Statistiche di gruppo
gruppobisNMediaDeviazione std.Errore std. MediaPunteggio5215,005,2541,1464218,005,3481,167
Test per campioni indipendenti
Test di Levene di uguaglianza delle varianzeTest t di uguaglianza delle medieFSig.tdfSig. (2-code)Differenza
fra medieDifferenza errore standardIntervallo di confidenza per la differenza al
95%InferioreSuperiorePunteggioAssumi varianze uguali,007,935-1,83440,074-3,0001,636-6,306,306Non
assumere varianze uguali-1,83439,987,074-3,0001,636-6,306,306
Il test t di student non rileva differenze significative tra le medie dei due
campioni per cui non possiamo affermare che esistano differenze riguardo il livello di
ansia agorafobica tra normovedenti ed ipovedenti/non vedenti, tuttavia nella tabella
riguardante le statistiche di gruppo possiamo notare che la media dei punteggi ottenuti
dal campione sperimentale (ovvero da ipovedenti e non vedenti) è più alta rispetto a
quella del campione di controllo.
ANOVA univariata
Note OUTPUT CREATO22-APR-2008 10:17:16COMMENTIINPUTDATIE:FILE CORRETTO
SPSS.SAVFILTRO<NESSUNO>PESO<NESSUNO>DISTINGUI<NESSUNO>N. DI RIGHE NEL FILE
DATI DI LAVORO42GESTIONE DEI VALORI MANCANTIDEFINIZIONE DI VALORE MANCANTEI
VALORI MANCANTI DEFINITI DALL'UTENTE VENGONO CONSIDERATI MANCANTI.CASI
UTILIZZATILE STATISTICHE PER CIASCUNA ANALISI SONO BASATE SU CASI SENZA DATI
MANCANTI PER LE VARIABILI DELL'ANALISI.SINTASSIONEWAY
PUNTEGGIO BY CAMPIONE
/MISSING ANALYSIS .RISORSETEMPO TRASCORSO0:00:00,01
ANOVA univariata
Punteggio
Somma dei quadratidfMedia dei quadratiFSig.Fra gruppi112,423428,106,940,452Entro
gruppi1106,0773729,894Totale1218,50041
Anche l’analisi della varianza tra i due campioni non dà esiti significativi.
Proviamo quindi a fare un confronto tra normovedenti e i vari sottogruppi del
campione sperimentale ovvero non vedenti acquisiti, non vedenti congeniti senza
28. minorazione aggiuntiva, non vedenti congeniti con minorazione aggiuntiva e
ipovedenti. Ovviamente dal momento che ciascun sottogruppo è composto da un
esiguo numero di soggetti questo è un confronto solamente di tipo descrittivo ma a cui
non possiamo attribuire un vero e proprio valore statistico.
Legenda:
1. non vedenti congeniti
2. non vedenti congeniti con minorazione aggiuntiva
3. non vedenti acquisiti
4. ipovedenti gravi
5. normovedenti
ANOVA univariata
Note OUTPUT CREATO22-APR-2008 10:18:07COMMENTIINPUTDATIE:FILE CORRETTO
SPSS.SAVFILTRO<NESSUNO>PESO<NESSUNO>DISTINGUI<NESSUNO>N. DI RIGHE NEL FILE
DATI DI LAVORO42GESTIONE DEI VALORI MANCANTIDEFINIZIONE DI VALORE MANCANTEI
VALORI MANCANTI DEFINITI DALL'UTENTE VENGONO CONSIDERATI MANCANTI.CASI
UTILIZZATILE STATISTICHE PER CIASCUNA ANALISI SONO BASATE SU CASI SENZA DATI
MANCANTI PER LE VARIABILI DELL'ANALISI.SINTASSIONEWAY
PUNTEGGIO BY CAMPIONE
/STATISTICS DESCRIPTIVES
/MISSING ANALYSIS .RISORSETEMPO TRASCORSO0:00:00,03
Descrittivi
Punteggio
NMediaDeviazione std.Errore std.Intervallo di confidenza 95% per la mediaMinimoMassimoLimite
inferioreLimite superiore
147,503,1091,5552,5512,45411218,00....88336,001,000,5773,528,48574138,626,6021,8314,6312,610235215,005,2
541,1462,617,39023Totale426,505,452,8414,808,20023
ANOVA univariata
Punteggio
Somma dei quadratidfMedia dei quadratiFSig.Fra gruppi112,423428,106,940,452Entro
gruppi1106,0773729,894Totale1218,50041
Guardando la tabella dei punteggi descrittivi possiamo notare che i normovedenti
hanno ottenuto il punteggio più basso di tutti i sottocampioni con minorazione visiva
e quindi parrebbe che siano meno agorafobici dei soggetti con gravi problematiche
alla vista, a prescindere dall’esatta categoria a cui questi ultimi appartengono. I
soggetti maggiormente agorafobici sono risultati invece gli ipovedenti, seguiti,
nell’ordine, dai non vedenti congeniti (da notare che tra essi il punteggio maggiore è
stato riportato dall’unico soggetto non vedente congenito con minorazione
aggiuntiva) e, infine, dai non vedenti acquisiti.
Conclusioni
Come già accennato nel capitolo precedente la nostra piccola ricerca non ha
condotto ad esiti statisticamente rilevanti ma ci fornisce degli importanti spunti di
riflessione.
Già il fatto che la media del campione sperimentale superi nettamente la media
29. del campione di controllo (così come anche le medie di ciascun sottocampione
sperimentale superano la media del campione formato dai normovedenti) ci deve far
pensare.
Il fatto che i tests statistici non ci indichino differenze significative tra i due
campioni, deriva sicuramente dal fatto che il numero di soggetti che siamo riuscite ad
intervistare è esiguo. Questo perché, nonostante la nostra buona volontà, ci siamo più
volte scontrate con cavilli burocratici che ci hanno impedito l’ingresso in alcuni enti e
di conseguenza l’ampliamento del nostro campione sperimentale.
Dal canto nostro speriamo che la nostra ricerca possa fungere da spunto di
riflessione e ci auguriamo che in futuro possa essere ripetuta, da noi o da altri, in
maniera più ampia e capillare.
Ci auguriamo inoltre che la nostra ipotesi di partenza venga falsificata anche da
tali futuri studi: infatti questo vorrebbe dire che i non vedenti e gli ipovedenti avranno
raggiunto la medesima serenità dei normovedenti nell’affrontare e fronteggiare il
mondo esterno.
Questo potrà accadere solo grazie alla sensibilità di chi potrà attuare misure che
facilitino la loro autonomia e la loro libertà di movimento.
Ovviamente tutti questi aspetti da noi riscontrati hanno dei risvolti socio
pedagogici che devono essere tenuti presenti nei processi educativi che coinvolgono il
soggetto non vedente o ipovedente con particolare attenzione alla prevenzione dei
disturbi ansiosi e alle peculiari modalità di conoscenza del mondo esterno che, nei
minorati alla vista, segue un percorso del tutto particolare.
A tale riguardo la scuola, gli enti di formazione e l’associazionismo
costituiscono luoghi fondamentali di riferimento per tali soggetti e per le loro
famiglie e rappresentano uno dei principali punti di forza per sviluppare nella
comunità un processo di promozione dell’autonomia e della crescita dei minorati
sensoriali, attraverso il potenziamento della cooperazione intersettoriale e delle risorse
della comunità stessa.
Bibliografia
Baldeschi, M. (2004). Elementi di tiflopedagogia e tiflodidattica. Firenze: Boso.
Coppa, M. M. (1997). Le minorazioni visive. Aspetti psicologici e processi di
30. intervento con il bambino minorato della vista. Gorizia: Tecnoscuola.
Galati, D.(a cura di) (1996). Vedere con la mente. Conoscenza, affettività,
adattamento nei non vedenti. Milano: Franco Angeli.
Guzzetta, F., Mariotti, P., Iuvone, L. (1998). Il linguaggio nel non vedente.
Problemi di sviluppo e riabilitazione. In: Tiflologia per l’Integrazione, 8 (2).
Monti Civelli, E. (1983). La socializzazione del bambino non vedente. Milano:
Franco Angeli.
Negri, E. La mano sul cappello: handicap e disabilità nella minorazione visiva.
Aspetti psicologici della minorazione visiva.
Ottavi, I., Gioia, M. C. Psicologia, sport, diverse abilità. (Dispensa della
Federazione Italiana Sport Disabili).
Perez-Pereira, M., Conti Ramsden, G. (2002). Sviluppo del linguaggio e
dell’interazione sociale nei bambini ciechi. Azzano San Paolo (BG): Junior.
Sitografia:
www.ecomind.it/infanzia_e_adolescenza/cecità_congenita.html
www.psicopedagogie.it/ipovedenti.html
www.subvedenti.it
Eleonora Chessa, Maria Francesca Congiu
OCCHI CHE SENTONO: OLTRE IL BUIO DELLA COSCIENZA
Moira Sannipoli
Ogni persona brilla con luce propria fra tutte le altre. Non ci sono due fuochi uguali, ci sono
fuochi grandi, fuochi piccoli e fuochi di ogni colore. Ci sono persone di un fuoco sereno, che non sente
neanche il vento, e persone di un fuoco pazzesco, che riempie l’ aria di scintille. Alcuni fuochi, fuochi
sciocchi, né illuminano né bruciano, ma altri si infiammano con tanta forza che non si puó guardarli
senza esserne colpiti, e chi si avvicina si accende.
Eduardo Galeano
[abstract] Aldilà dei facili stereotipi, i disabili visivi hanno la possibilità di raggiungere con pienezza la
consapevolezza di sé e del proprio sentire.[fine abstract]
Oltre ogni lecito tabù
Nell’epoca della post-modernità e della secolarizzazione, nell’età che ha
celebrato la caduta dei scenari valoriali tradizionali senza assistere all’investitura di
nuovi orizzonti teleologici, le società occidentali hanno scelto di trovare una propria
31. identità entro l’immagine riflessa dell’apparenza e della loro presunta efficienza, che
vincola l’appartenenza o meno alla comunità civile alla visibilità, alla riconoscibilità e
alla produttività. Il termometro del giudizio sociale, che determina la considerazione
di essere attore del proprio esistere e cittadino attivo del proprio vivere sociale, è
rappresentato dal grado di partecipazione a questo costante circolo produttivo, che
trova legittimazione tanto nel potere essere funzionali al sistema, quanto nel poter
essere riconosciuti come essenziali e indispensabili per l’esistenza del sistema stesso.
Chi non è giudicato adeguatamente e sufficientemente produttivo e dotato, rischia
inesorabilmente di precipitare ai margini del contesto sociale, con tutte le
conseguenze che ne derivano, quali le patologie del non riconoscimento, l’esclusione
e la stigmatizzazione. La persona disabile è spesso residente privilegiata di questa
zona periferica, soprattutto quando è identificata integralmente con il suo deficit, in
una continua sovrapposizione tra immagine e identità dipinta all’interno di un quadro
di incapacità e impossibilità. Quando la disabilità in questione è quella visiva, il
gomitolo dei pregiudizi e degli stereotipi cresce in maniera esponenziale, tanto da
poter essere percepita nel vissuto comune come un lecito tabù. L’utilizzo
dell’ossimoro non è sicuramente casuale. Nonostante infatti una buona legislazione e
una considerevole e meritevole produzione tiflopedagogica, che ha generato una vera
e propria metamorfosi dell’immmagine e dell’identità di chi è definito semplicemente
e banalmente cieco, le difficoltà connesse alla mancanza o ad un diverso
funzionamento del canale visivo costituiscono nell’immaginario comune un
argomento di cui è vietato parlare o intorno a cui non è ammessa alcuna discussione.
La rigidità che i non addetti ai lavori manifestano nei riguardi della cecità e della
subvedenza è principalmente connessa alla sua natura strettamente percettiva che
come fonte di accesso e significazione degli input ambientali sembra quasi escludere
il discorso a priori. La disabilità visiva, così come la maggior parte delle difficoltà
sensoriali, pare avere la peculiarità di plasmare un mondo diverso da quello
comunemente percepito. Il mancato canale visivo impedisce apparentemente al
soggetto che ne è portatore un’aderenza fenomenologica alla realtà, che lo reclude in
mondo diverso, buio o sbiadito, sfuocato o deforme: un universo senza luci ed ombre,
senza colori e sfumature, senza forme e grandezze; un cosmo svuotato del mondo.
Nel linguaggio e nel pensare comune il percepire di chi non vede sembra essere altro
rispetto a chi ha la facoltà di visionare la realtà.
Questa consapevolezza è frutto però di un doppio vizio, cognitivo e culturale,
32. che trova terreno fertile nell’ignoranza intesa come assenza di esperienza e di
conoscenza, come mancata consapevolezza della propria e altrui alterità.
Il vizio cognitivo riguarda una errata identificazione tra il percepire e il sentire.
Il sentire è legato agli effetti immediati ed elementari del contatto dei recettori
sensoriali con i segnali provenienti dall'esterno ed in grado di suscitare una risposta: è
il primo ponte tra il soggetto e la realtà esterna, che come tale, fonda i suoi pilastri
sugli organi sensoriali pronti a selezionare e recepire. La percezione è
l'organizzazione significante dei dati sensoriali in un'esperienza complessa, cioè il
prodotto finale di un processo di elaborazione dell'informazione sensoriale da parte
del soggetto che assegna un significato agli stimoli provenienti dagli organi di senso.
La mancanza di un canale sensoriale potrà determinare un differenziato accesso agli
input ambientali, ma non un assenza di sensazione. La percezione significante della
realtà sarà frutto della molteplicità dei segnali accolti, che magari non contemplano
elementi iconici, nella caso della disabilità visiva, ma che si arricchiscono di tutte le
restanti aree sensoriali. La differente percezione di chi non vede rispetto a chi può
farlo non ha caratteri qualitativi, ma semmai quantitativi, che non preclude mai
comunque un accesso pieno alla realtà, che al di là delle caratteristiche estetiche
finisce per avere lo stesso significato semantico. Sicuramente molte delle
informazioni derivanti dal mondo esterno raggiungono il nostro sistema nervoso
attraverso il canale visivo, che riveste quindi un ruolo centrale nello sviluppo
cognitivo. È innegabile ad esempio che sia per cogliere l’informazione, che per agire
attivamente, si manifestano generalmente notevoli svantaggi nei primi anni di vita nel
bambino non vedente rispetto al normovedente (per un approfondimento, vedi
Brambring 2004), poiché il primo, privo della risorsa della vista, è costretto a capire il
mondo esterno e ad interagire con esso attraverso canali alternativi. La vista
rappresenta anche un reale input motivazionale: il bambino è stimolato attraverso di
essa a muoversi verso persone o oggetti che suscitano il suo interesse. Il bambino non
vedente, se non opportunamente stimolato, avrà quindi anche un problema di scarsa
motivazione all’esplorazione e di compromesso apprendimento per imitazione
(Calligaris, 1996). La cecità congenita totale implica notevoli difficoltà nelle
acquisizioni sensomotorie elementari, nelle rappresentazioni simboliche di secondo
livello. Queste difficoltà sono collegate alle caratteristiche dei due sistemi percettivi
che prendono in carico la conoscenza dello spazio: l’udito e il tatto. L’udito è un
sistema telerecettore soprattutto adatto alla localizzazione delle sorgenti sonore nello
33. spazio, ma che apporta sicuramente poche informazioni sulle caratteristiche degli
oggetti scrutati. Inoltre, a differenza di ciò che avviene per la vista, non si può sempre
“distogliere l’udito” (Coppa, 1998) da ciò che interessa o controllare le afferenze
uditive. Il tatto consente la conoscenza di quasi tutte le proprietà degli oggetti quali
forma, grandezza, localizzazione spaziale, rigidità, texture, peso e temperatura, ma è
una modalità di contatto che ha un campo percettivo molto esiguo e che difficilmente
potrà compensare completamente gli effetti della privazione sensoriale visiva. Esso è
poco adatto alla percezione di oggetti molto grandi o in movimento, del contesto
ambientale nel quale questo muoversi si svolge e più in generale delle conseguenze
spaziali delle azioni intenzionali effettuate e occasionate dal soggetto stesso. È
comunque attraverso il tatto che il bambino scopre che il mondo esterno è popolato da
oggetti afferrabili, manipolabili, che hanno un nome, un uso e una forma propri. La
mano diventa così l’organo primario di percezione, senza perdere perciò la sua
funzione esecutrice: il coordinamento visuo-motorio sarà sostituito dal coordinamento
bimanuale e da quello udito-mano. Il bambino cieco attraversa un lungo e difficile
cammino per arrivare al punto in cui la mano può localizzare e raggiungere gli
oggetti, così da servire come un ponte tra sé e il mondo esterno. Le informazioni
necessarie alla costruzione del mondo fenomenico possono quindi essere acquisite dal
bambino non vedente oltre che attraverso il tatto, con l’udito e il comportamento
motorio. Queste informazioni, unitamente a quelle fornite da descrizioni verbali,
concorrono alla formazione di rappresentazioni mnestiche di tipo logistico e spaziale
(per un ulteriore approfondimento, vedi Revuelta, 1999).
Lo sviluppo motorio risente dell’influenza della cecità sia direttamente che
indirettamente. L’acquisizione e la differenziazione della motricità relativa a posture
ed equilibrio si sviluppano attraverso l’integrazione di informazioni visive, vestibolari
e propriocettive. Le informazioni vestibolari, legate all’equilibrio, forniscono
informazioni relativamente al trovarsi o meno in verticale, in posizione eretta. Le
informazioni propriocettive, come hanno sottolineato i recenti studi sulle
neuroscienze applicate all’analisi del comportamento (Kandel, Schwartz, Jessel,
1996), connesse alle articolazioni e delle fibre muscolari, danno indicazioni relative
alla posizione delle singole parti del corpo e del rapporto tra loro. Le persone non
vedenti ricevono attraverso le informazioni vestibolari e propriocettive con il passare
del tempo, sufficienti possibilità di compensazione, in modo che l’adulto non vedente,
normalmente, dimostra esigui problemi nella motricità relativamente alle posture e
34. all’equilibrio. Questi sintetici elementi di psicologia dello sviluppo e di psicologia
della percezione scalfiscono i presupposti del vizio cognitivo, mostrando come la
percezione è il risultato dinamico di conoscenze top-down e bottom-up, basate
rispettivamente su concetti, conoscenze e teorie depositate nella memoria e sui dati
appena raccolti, attraverso la molteplicità di canali sensoriali. L’assenza di
funzionalità di uno di queste vie, non nega l’accesso alla meta: la percezione del reale.
Di diversa natura il vizio culturale. L’emergere di una sagoma dallo sfondo
routinario, la scoperta dell’alterità si manifesta quando qualcosa o qualcuno di
incontrato non restituisce più l’immagine speculare di noi, delle nostre certezze, delle
nostre aspettative, delle nostre categorie. Il concetto di diversità per esistere necessita
di due elementi: la scoperta di un territorio nuovo e la consapevolezza che la mappa
fino ad allora utilizzata non serve più. Quando ci si trova di fronte alla diversità, in
questo caso incarnata da un soggetto con disabilità visiva, la reazione immediata è di
tipo difensivo. Si va alla ricerca di un terreno solido sul quale poggiare i piedi, ci si
arretra su posizioni di retroguardia in un’area di sicurezza, fatta di sensi comuni e
stereotipi.
La conoscenza che ne deriva áncora il soggetto non vedente ad un’identità di
categoria, come se quel deficit universalmente costituisse un solo prototipo di essere
al mondo. Ogni soggetto abita invece la sua difficoltà o mancanza in maniera
personale e contestuale, non soltanto perché ogni disabilità si intreccia con la
singolarità di ciascuna identità, ma anche perché diverso è l’habitat in cui
quell’habitus si è espresso. Troppe volte ancora si veicola una sola versione
descrittiva della non vedenza come uni-versum, un tutt’uno che rende identici per ciò
che non si ha e non per il “pluri-verso” che si è: un modo di pensare che banalmente
rende i disabili visivi tutti uguali. In altre circostanze il non vedente è invece
identificato con il suo deficit e di conseguenza con le sue incapacità e impossibilità,
negando al medesimo una possibilità d’azione come bricoleur, in una continua auto-
organizzazione funzionale che in quanto tale da ciò che è e da ciò che non possiede, si
apre al “ciò che può”. Perché i pregiudizi di tipo culturale possano essere soppiantati
da una conoscenza reale che permette al tabù della cecità di diventare oggetto di
discussione comune, è necessario non rimandare o comunque posticipare la
possibilità di fare esperienza, la cui origine etimologica rimanda a pericolo ed
esperimento. Fare esperienza di qualcuno significa vivere un’avventura, uscire dalle
proprie cornici culturali ed interpretative per entrare nel limbo dell’imprevedibilità e
35. della non familiarità, rinunciando ad appoggiarsi sui bastoni del buon senso. Vivere
un’esperienza autentica significa affrontare l’impatto di uno spaesamento creativo, di
una situazione di imbarazzo che rende invisibile le pareti dell’abitudine. L’incontro
con chi ha una disabilità visiva genera spesso una dissonanza cognitiva, uno stato di
non armonia che produce una condizione di disagio emotivo (Festinger, 1978): la sua
immagine non è la mia, il suo modo di muoversi è spesso goffo rispetto al comune, i
suoi occhi sono coperti, le sue mani in continua tensione e attesa di trovare qualcosa
da esplorare. Ogni soggetto come economizzatore di risorse cognitive cercherà di
costruire un nuovo equilibrio, capace di superare la condizione di disordine in cui ci si
è inciampati. Si potrà quindi scegliere tra due opzioni: evitare situazioni in cui si
prova dissonanza o cercare di ridurla. Se la prima soluzione è quella che nega
l’incontro con il non vedente o la persona subvedente, la seconda ha a che vedere con
un lungo lavoro su se stessi, sulle proprie azioni, sulle proprie emozioni contro il buio
della propria coscienza. L’esperienza che si presenta non chiede di annullare il proprio
posizionamento, la propria cultura, il proprio tessuto emotivo, ma invita ad una sorta
di strabismo conoscitivo: un guardare fuori e dentro, dall’esterno e dall’interno, per
imparare ad esplorare i modi possibili di guardare che battono dentro di noi e che
determinano altrettanti mondi possibili fuori. Si tratta allora di smantellare le macerie
del “già noto”, delle attese fitte di pregiudizi e povere di esperienze, per preparare il
terreno ad un ancora sconosciuto tutto da scoprire e svelare.
Al di là dell’accettazione: la ricchezza di una consapevolezza
La scoperta della diversità e della propria alterità rappresenta sicuramente una
tappa faticosa nel lungo cammino della conoscenza di sé e degli altri. Le persone che
si trovano a vivere in una situazione di disabilità visiva hanno la possibilità di
raggiungere con pienezza questa consapevolezza di sé in termini di altruità, in parte
perché paradossalmente più visibile e più chiara alle evidenze del mondo sociale, in
parte per un prezioso sentire di cui è portatore chi non vede che spesso non porta con
sé il peso dell’immagine dell’altro.
Infatti la consapevolezza di sé, della propria unicità ed irripetibilità, che in
termini comparativi si traduce nell’essere altro da chi ci circonda, è occasionata più
che costruita nella persona non vedente attraverso il contesto socio-culturale, che
spesso senza freni inibitori, evidenzia la sua diversità. La disabilità visiva è altamente
visibile, non passa inosservata. È gridata dal mondo circostante sotto voce: gridata
36. perché talmente evidente da non poter passare inosservata; sottovoce per quella sorta
di malsano pietismo che spesso ne accompagna gli incontri e le prassi. Il costrutto
della consapevolezza di sé è il processo che conduce al riconoscimento di un Sé
privato e di un Sé pubblico. Il primo è orientato internamente, il secondo è
eterodiretto e porta alla consapevolezza che gli altri hanno nei propri confronti. Il
passaggio dalla consapevolezza di sé come soggetto al sé come oggetto permette la
costruzione della propria identità come unica ed irripetibile.
Una delle sfide più importanti che l’ipovedente e il non vedente devono
affrontare per poter raggiungere piena consapevolezza di sé è proprio l’accettazione
del proprio deficit e della manifesta alterità che determina. L’impatto emotivo è
sicuramente proporzionalmente connesso all’età in cui insorge la difficoltà. Nel caso
dei ciechi dalla nascita o di quelle persone divenute tali in età precocissima, l’assenza
di alcuna esperienza e/o di un ricordo passato del mondo visto, non consente
l’esperienza dell’avere e del perdere, del possedere e del non trovare più. In questo
caso il soggetto è consapevole che la funzione visiva esiste, che la maggior parte delle
persone ne fruisce e che il suo mancato possesso costituisce sicuramente un limite.
Non esiste però un termine di paragone con cui confrontare la sua particolare
esperienza del mondo e proprio per questo ciò che manca ha un nome ma non un
volto, è noto ma non conosciuto, esiste ma quasi non “mi riguarda”. I soggetti che
hanno fruito della vista solo per pochi anni durante l’infanzia ed hanno ormai
raggiunto l’età adulta, generalmente rimpiangono il periodo di vita in cui vedevano e
tutti i vantaggi che ciò loro comportava. È un sentire comunque in evoluzione, non
sempre intenso, stemperato dagli anni e che diminuisce con il progressivo affievolirsi
della memoria visiva, mano a mano che quella assenza diventa un tratto caratteristico
della propria identità. Molto diversa la reazione alla cecità di chi ha fruito per molto
tempo della vista. In queste persone soprattutto se adulte, la reazione emozionale di
fronte alla propria diversità è intensa e profondamente dolorosa, intimamente
connessa al tipo di atteggiamento maturato nei confronti della cecità quando si era
vedente e della sua essenzialità o meno nei vissuti quotidiani. Così se i sentimenti
erano di pietà o di disprezzo, questi medesimi vissuti verranno ora introiettati,
favorendo un atteggiamento depressivo e di autosvalutazione. Se i sentimenti erano
invece positivi, di stima e comprensione, sarà favorito il superamento della fase
depressiva e l’accettazione della propria condizione. La reazione immediata è molto
simile sia a livello del vissuto soggettivo che del comportamento a quella del lutto. A
37. livello più profondo essa può essere sentita addirittura come una perdita di identità
poiché il cambiamento che richiede per quanto concerne lo stile di vita, la personalità
e l’aspetto comportamentale, è così radicale da stravolgere l’immagine che il soggetto
ha di sé. Per certi aspetti la persona che diventa cieca comincia una nuova vita che lo
costringe a rinunciare ad una serie di abitudini percettive e comportamentali e al
bagaglio di conoscenze e al framework costruito di conseguenza; deve inoltre
rassegnarsi alla perdita di tutte le piacevoli esperienze estetiche legate alla vista e, in
generale, a gran parte delle consuetudini che caratterizzavano il suo rapporto con
l’ambiente circostante. Nel contempo si trova nella necessità di iniziare un nuovo e
faticoso processo di apprendimento e di esperienza di un mondo che gli appare sotto
un nuovo aspetto fatto di suoni, contatti, odori e sapori che deve organizzare in
strutture spaziali che vanno riprogettate e ricostruite con nuovi materiali e riferimenti
esperienziali diversi dalle consuete informazioni visive. Il buon esito di questo
processo di cambiamento è legato alla capacità dell’individuo di integrare passato e
presente, identità e alterità, vecchio e nuovo, salvaguardando l’unità della sua persona
pur accettando e promuovendo l’inevitabile capovolgimento della propria
Weltanschauung. In questo modo l’essere vedente o non vedente, potranno venire
intesi come diversi attributi di un unico Io, da far dialogare nel medesimo dasein
esistenziale. Questo modo di risolvere il lutto permette all’individuo di recuperare
interesse per il futuro senza negare e rimuovere il passato, in uno spirito di resilienza
come potere di affrontare gli ostacoli nell’altalena continua tra la speranza di un
giorno e lo scacco del fine del proprio esserci. La resilienza é piú della semplice
capacità di resistere alla distruzione proteggendo il proprio Io da circostanze difficili,
come l’origine etimologica e semantica suggerisce: è pure la possibilità di reagire
positivamente a scapito delle difficoltà e la voglia di costruire utilizzando la propria
forza interiore. Non è solo sopravvivere a tutti i costi, ma è avere la capacità di usare l
´esperienza nata da situazioni difficili per costruire un domani. Una cattiva soluzione
dell’elaborazione del lutto porterà, invece, a una mancata integrazione del sé vedente
con quello non vedente e a creare una situazione di perenne conflitto interiore
caratterizzata da atteggiamenti di rimpianto per un’identità perduta o idealizzata e di
pietà, autocommiserazione e rifiuto per quella attuale spesso svalutata poiché
interiorizzata e vissuta come impossibilità, come un non vivere. La dimensione della
possibilità progettuale è attribuita solo al “ieri”: il domani è contemplazione del
proprio “non essere più in grado di”. Nel periodo di depressione che segue alla perdita