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Consiglio di Stato sez. IV, 15/12/2011, (ud. 06/12/2011, dep.
15/12/2011), n.6612
Fatto
Con la sentenza in epigrafe impugnata il Tribunale amministrativo regionale della Campania - Sezione staccata di
Salerno - ha dichiarato improcedibile il ricorso di primo grado ed ha accolto il ricorso per motivi aggiunti
proposto dalla società odierna appellata "Real Beef S.r.l.", volto ad ottenere l'annullamento dei provvedimenti
reiettivi della propria richiesta di realizzare un impianto di disosso e lavorazione dei sottoprodotti della
macellazione nell'Area A.S.I. - Valle Ufita.
Il primo giudice ha innanzitutto rilevato che il ricorso principale, teso a gravare la determinazione comunale prot.
1852 del 20 marzo 2009 (ed il conforme parere del Direttore del Dipartimento di Prevenzione - Servizio Igiene
Pubblica dell'Asl Av 1, prot. 152 del 26 gennaio 2009), con il quale era stato sospeso il procedimento mirante al
rilascio del permesso di costruire per la realizzazione dell'impianto, era divenuto improcedibile perché il detto atto
era stato definitivamente superato da quello successivo, avversato in sede di motivi aggiunti, con il quale
l'Amministrazione, nel concludere il procedimento, aveva respinto la domanda edificatoria.
Ha quindi preso in esame le censure proposte con il ricorso per motivi aggiunti avverso la statuizione definitiva
reiettiva del rilascio del permesso di costruire e l'ha accolta considerando assorbente la fondatezza della quarta
doglianza, incentrata sul difetto di motivazione.
In particolare, si è ivi sostenuto che il provvedimento reiettivo del Responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune
di Flumeri prot. n. 5637 del 9 ottobre 2009, con il quale si era respinta la richiesta di permesso di costruire, si
fondava sul parere sfavorevole dell'Autorità sanitaria locale, ma non prendeva in alcuna considerazione la
mitigazione dell'impatto ambientale che sarebbe derivata dalla realizzazione dell'impianto di depurazione.
L' appellato, infatti, aveva richiesto una variante al permesso di costruire n. 36 del 21 gennaio 2008) intesa alla
realizzazione di
"a) un nuovo impianto di disosso e porzionamento delle carni (al piano rialzato del corpo C) e di un impianto di
lavorazione delle pelli (al piano terra del corpo C);
b) i locali in ampliamento dell'impianto di macellazione (ampliamento corpo A);
c) la realizzazione di un nuovo impianto di depurazione funzionale all'opificio".
L'ampliamento richiesto e denegato consisteva, secondo il T.A.R., in mq. 491,75 del lotto "A", che si sarebbero
aggiunti ai 3.101,70 attuali, rimanendo invariate le dimensioni dell'area produttiva del lotto "C": la parte
preponderante del novum opus quindi riguardava l'impianto di depurazione al lotto "B" di mq. 945,71, già
sottoposto alle competenti Autorità ai fini del rilascio dell'Autorizzazione Integrata Ambientale.
Detto impianto aveva la finalità di ridurre le emissioni nocive; la stessa Autorità sanitaria, in seno al parere
sfavorevole posto a base della determinazione reiettiva, aveva richiamato il disposto dell'art. 216 quinto comma,
del T.U.LL.Ss.R.D, laddove si prevede una deroga per la "industria o manifattura" insalubre di prima classe, che
può essere "permessa nell'abitato" se l'interessato dimostri che per l'introduzione di metodi o cautele il suo
esercizio non reca nocumento alla salute del vicinato.
Ne discendeva la prova della l'astratta compatibilità dell'opificio con le abitazioni circostanti, e la necessità di
esaminare l'idoneità del previsto impianto di depurazione a ridurre le emissioni maleodoranti segnalate dal
vicinato; ciò che, per le sue caratteristiche, anche dimensionali, non poteva escludersi aprioristicamente.
L'omessa motivazione in ordine alla inidoneità del sistema depurativo progettato viziava gli atti reiettivi che,
conseguentemente, sono stati annullati.
L' amministrazione comunale rimasta soccombente ha impugnato la detta decision,e criticandola sotto numerosi
angoli prospettici e chiedendone la riforma (confutando anche gli ulteriori motivi del ricorso per motivi aggiunti
dichiarati assorbiti dal primo giudice).
Ha in primo luogo rilevato l'erroneità, in punto di fatto, dell'affermazione per cui l'ampliamento richiesto e
denegato consisteva in mq. 491,75 del lotto "A", che si sarebbero aggiunti ai 3.101,70 attuali, rimanendo invariate
le dimensioni dell'area produttiva del lotto "C".
Al contrario, da una superficie di mq 3955 circa, autorizzata con il permesso di costruire, si passava a più di 6000
mq; né la parte preponderante del novum opus, quindi, riguardava l'impianto di depurazione al lotto "B" di mq.
945,71, atteso che il lotto C sarebbe passato da mq 691 a circa 3628.
La maggior parte dell'ampliamento, insomma, riguardava l'impianto produttivo, e non quello di depurazione
Nel merito, la sentenza era errata, perché, in sede di rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 13 del dPR
6 giugno 2001 n. 380, deve essere valutata soltanto la compatibilità urbanistica, e non anche l'impatto ambientale
e sanitario delle opere (la cui valutazione pertiene ad altre amministrazioni).
L'amministrazione comunale non avrebbe potuto rilasciare il permesso di costruire in presenza di un parere
sanitario negativo (che, in ogni caso, precludeva la realizzazione dell'opera): ne discendeva l'inutilità di un esame
nel merito del progetto.
Il detto parere sanitario preclusivo (reso a seguito di un sopralluogo congiunto con i tecnici Arpa il 22 dicembre
2008), sebbene formalmente impugnato, non era stato specificamente censurato e, quindi, la realizzazione
dell'opera era impossibile (e ciò in disparte le problematiche nascenti dal raddoppio della superficie dell'impianto,
ove la variante fosse stata autorizzata).
Ha poi confutato gli ulteriori motivi aggiunti proposti in primo grado dall'appellata ed assorbiti dal primo giudice,
evidenziando che l'art. 156 del regolamento d'igiene del Comune di Flumeri, approvato con delibera consiliare n.
6 del 1977 (e rimasto inimpugnato), prevedeva che le industrie insalubri dovessero essere "isolate nelle
campagne".
Posto che quella dell'appellata costituiva una industria insalubre di prima classe, era evidente che non avrebbe
potuto essere allocata nelle vicinanze del centro abitato (le abitazioni limitrofe erano state realizzate
antecedentemente all'avviamento dell'attività industriale per cui è causa).
La Asl di Avellino si è costituita in giudizio chiedendo di accogliere l'appello in quanto fondato.
L'appellata ha depositato una articolata memoria chiedendo il rigetto del gravame in quanto infondato posto che
era palese la carenza motivazionale del provvedimento reiettivo impugnato.
Alla pubblica udienza del 6 dicembre 2011 la causa è stata posta in decisione.
Diritto
1.L'appello è fondato e va accolto nei termini di cui alla motivazione che segue, con conseguente riforma
dell'appellata decisione e reiezione del ricorso proposto in primo grado dall'impresa odierna appellata.
1.1. Al fine di perimetrare l'ambito valutativo devoluto alla cognizione del Collegio si evidenzia che il primo
giudice ha annullato il diniego del rilascio del permesso di costruire unicamente in quanto carente sotto il profilo
motivazionale.
Tale riscontrata carenza riposava nella circostanza che il diniego faceva unicamente riferimento al parere negativo
dell'autorità sanitaria e non risultava alcun approfondimento in ordine alla incidenza dell'impianto di depurazione
previsto nel progetto, pur a fronte della astratta compatibilità dell'opificio con le abitazioni circostanti (in
particolare si è rilevata la "la necessità di esaminare l'idoneità del previsto impianto di depurazione a ridurre le
emissioni maleodoranti segnalate dal vicinato e che per le sue caratteristiche, anche dimensionali, non può
escludersi ex ante.").
2. Il parere della AUSL sotteso al provvedimento reiettivo reso dall'amministrazione comunale risulta governato
dalla disposizione di cui all'art. 216 del Regio Decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (recante approvazione del testo
unico delle leggi sanitarie) che così dispone: "Le manifatture o fabbriche che producono vapori, gas o altre
esalazioni insalubri o che possono riuscire in altro modo pericolose alla salute degli abitanti sono indicate in un
elenco diviso in due classi.
La prima classe comprende quelle che debbono essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni; la
seconda quelle che esigono speciali cautele per la incolumità del vicinato.
Questo elenco, compilato dal consiglio superiore di sanità, è approvato dal Ministro della sanità, sentito il
Ministro del lavoro e della previdenza sociale, e serve di norma per l'esecuzione delle presenti disposizioni.
Le stesse norme stabilite per la formazione dell'elenco sono seguite per iscrivervi ogni altra fabbrica o manifattura
che posteriormente sia riconosciuta insalubre.
Una industria o manifattura la quale sia inscritta nella prima classe, può essere permessa nell'abitato, quante volte
l'industriale che l'esercita provi che, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, il suo esercizio non reca
nocumento alla salute del vicinato.
Chiunque intende attivare una fabbrica o manifattura compresa nel sopra indicato elenco, deve quindici giorni
prima darne avviso per iscritto al sindaco, il quale, quando lo ritenga necessario nell'interesse della salute
pubblica, può vietarne l'attivazione o subordinarla a determinate cautele.
Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa da lire 40.000 a lire 400.000.".
2.1. Come è agevole rilevare, il comma 5 della citata disposizione non vieta in assoluto che una industria o
manifattura del genere di quelle per cui è causa sia esercitata nell'abitato allorché si provi che il suo esercizio non
rechi nocumento alla salute del vicinato.
Peraltro la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato si è spinta in passato ancora oltre, ed è pervenuta alla
significativa affermazione per cui "l'art. 216 r.d. 27 luglio 1934 n. 1265, nel prescrivere che le industrie insalubri
di prima classe devono essere isolate dalle campagne e tenute lontane dall'abitazione, non fissa specifiche
distanze; pertanto, se il titolare dimostra che, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, l'esercizio
dell'attività non reca nocumento alla salute del vicinato, le distanze eventualmente prescritte dal p.r.g. possono
essere derogate." (Consiglio Stato, sez. V, 13 ottobre 2004, n. 6648).
2.1.1. Si rileva peraltro che l'argomento reiettivo sostenuto dall'appellante e fondato sull'art. 156 del regolamento
d'igiene del Comune di Flumeri approvato con delibera consiliare n. 6 del 1977 non possiede alcuna valenza
innovativa, né decisiva, in quanto tale disposizione si limita a reiterare la prescrizione contenuta nel citato art. 216
e non prevede (contrariamente a quanto sostenutosi nell'appello dell'amministrazione comunale che si è limitata a
riportare soltanto una frase estrapolata dalla detta prescrizione regolamentare) un assoluto divieto di allocare dette
industrie, al ricorrere delle condizioni di legge, nel centro abitato.
L'appellata ha segnalato che tale disposizione regolamentare non era stata indicata nel provvedimento del 9
ottobre 2009 reiettivo dell'istanza di approvazione della variante e che ciò costituirebbe una inammissibile
integrazione postuma della motivazione.
Pur concordandosi con la superiore tesi, ritiene comunque il Collegio che, per le già chiarite ragioni, l'argomento
non apporti alcun giovamento alle critiche appellatorie.
2.2. Ciò premesso, l'appellante amministrazione comunale non nega che il diniego sia stato esclusivamente
motivato con riferimento al parere negativo fornito dalla azienda sanitaria, ma afferma nell'ordine che: le
dimensioni dell'incremento progettato sono di gran lunga superiori rispetto a quelle che il primo giudice ha per
errore di fatto individuato (quasi 3000 mq invece del circa 490 erroneamente ritenuti dal primo giudice); il parere
negativo dell'Asl era ostativo e preclusivo di qualsiasi ulteriore verifica; non era necessaria ulteriore motivazione
rispetto a quella ricavabile dal predetto parere; l'appellata non aveva gravato in primo grado il detto parere, di
guisa che, non riscontrandosi alcuna lacuna in quest'ultimo, comunque il comune non avrebbe potuto disattenderlo
e, in ogni caso, non potrebbe disattenderlo neanche in futuro.
2.3. Il Collegio ritiene che il ricorso in appello abbia esattamente rilevato che il primo giudice ha travisato il dato
di fatto relativo all'ampiezza dell'ampliamento previsto in progetto, atteso che - come risulta dagli atti di causa e
come peraltro ammesso dalla stessa appellata - l'incremento volumetrico progettato è superiore a quello cui si è
fatto riferimento nella impugnata decisione ed ammonta a poco meno di 3000 mq.
2.4. Ritiene, però, che tale dato non militi in senso decisivo per l'accoglimento dell'appello, avuto riguardo al
contenuto della motivazione della sentenza demolitoria, e che, pertanto, pur muovendo dal punto fermo che il
primo giudice ha errato nella quantificazione dell'incremento edilizio, debbano essere esaminate le ulteriori
doglianze dell'amministrazione.
2.5. Muovendo da tale premessa, si rileva che neppure appaiono esatti in fatto gli argomenti fondati sull'asserita
assenza di doglianze nel ricorso di primo grado attingenti la valutazione della azienda Sanitaria (in primo grado,
infatti, l'appellata ebbe a criticare le conclusioni cui era giunta l'Azienda Sanitaria predetta).
2.6. Ritiene, però, il Collegio che, in accoglimento dell'appello proposto dall'amministrazione, vada riformata la
sentenza di primo grado laddove ha ritenuto che dal mero richiamo del provvedimento reiettivo comunale al
parere dell'Azienda Sanitaria dovesse discendere il vizio di carenza assoluta di motivazione.
2.6.1. Un punto deve essere chiarito in via assolutamente preliminare: pur con le precisazioni che verranno fatte di
seguito, devono comunque essere disattesi - laddove intesi in termini categorici - gli argomenti contenuti
nell'appello secondo cui il comune non avrebbe potuto in via assoluta discostarsi dal parere preclusivo
dell'Azienda sanitaria (si veda, ex multis, in materia di poteri comunali, comunque sussistenti, in subiecta
materia, Consiglio Stato, sez. V, 19 aprile 2005, n. 1794, ma anche Sezione V 5 febbraio 1985 n. 67, 1 aprile 1996
n. 338, 17 settembre 1992 n. 809).
Peraltro lo stesso parere preclusivo dell'Azienda sanitaria (si veda l'ultima pagina, in particolare), dava atto della
circostanza che il comune avrebbe potuto eventualmente discostarsi dalle conclusioni cui era giunta l'Azienda
sanitaria medesima.
2.6.2. Ciò è certamente esatto perché, infatti, in via di principiol'amministrazione comunale mantiene proprie
potestà (si vedano in proposito le decisioni prima richiamate) in subiecta materia e potrebbe motivatamente
discostarsi dalle determinazioni rese dall'Autorità sanitaria.
L'affermazione, tuttavia, merita talune importanti precisazioni.
Le suindicate decisioni del Consiglio di Stato, ed il relativo consolidato orientamento giurisprudenziale - che ha
costantemente affermato come gli art. 216 e 217 r.d. 27 luglio 1934 n. 1265 conferiscono al comune ampi poteri
in materia di industrie insalubri, anche prescindendo da situazioni di emergenza e dall'autorizzazione a suo tempo
rilasciata, a condizione, però, che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si
sia vanamente tentato di eliminarli (Consiglio Stato, sez. V, 19 aprile 2005, n. 1794) - hanno in realtà esaminato la
situazione (speculare a quella odierna) in cui, pur a fronte di una determinazione favorevole dell'autorità sanitaria,
l'amministrazione comunale era addivenuta all'emissione di una ordinanza contingibile ed urgente di natura
inibitoria resa necessitata dal permanere di una grave situazione igienicosanitaria.
2.7. Affermata la persistenza di discrezionalità valutativa del comune in materia, appare ovvio che essa possa e
debba riscontrarsi anche in senso inverso (id est: quello invocato dall'appellata società, ampliativo rispetto ad un
parere negativo rilasciato dall'autorità sanitaria).
Ma, affermato in via di principio detto potere, è evidente che il comune (che non possiede né strumenti né
competenze per accertare "in proprio" le condizioni sanitarie di una industria insalubre) possa esercitarlo - così
discostandosi dal parere negativo reso dall'Autorità sanitaria- in ipotesi che configurano veri e propri casi limite e
che potrebbero sinteticamente indicarsi in una compresenza di due condizioni: l'assoluta insufficienza, carenza,
approssimazione del parere negativo reso dall'azienda sanitari, e la contemporanea sussistenza di allegazioni di
parte - o comunque acquisite dall'amministrazione comunale - che provino oltre ogni dubbio l'inattendibilità del
parere negativo e la sussistenza di comprovati elementi che escludano inconvenienti sanitari ascrivibili all'azienda.
Soltanto in presenza di tale coacervo di condizioni l'amministrazione comunale potrebbe motivatamente
discostarsi dal parere reso dall'autorità che ha competenza in materia (e possiede le professionalità necessarie).
2.8. Di converso, è ovvio che, laddove non si riscontrino tali condizioni, l'amministrazione comunale è tenuta ad
attenersi alle prescrizioni dell'autorità sanitaria e dalle stesse - laddove espressione di discrezionalità tecnica
ragionevolmente esercitata - non si possa discostare senza stravolgere l'ordine delle competenze e macchiare, a
propria volta, di illegittimità la propria azione amministrativa.
2.9. Puntualizzati tali principi, ritiene il Collegio di interrogarsi in ordine ai doveri dell'amministrazione comunale
allorché - trovatasi al cospetto di un parere negativo (rectius: diniego di autorizzazione) reso dall' autorità
sanitaria, che non appaia né irragionevole, né abnorme, ed in relazione al quale non siano stati acquisiti al
procedimento elementi che inducano a metterne in discussione le conclusioni - decida di attenervisi.
2.9.1. Appare evidente che in una simile evenienza la "motivazione" del diniego di permesso di costruire non
farebbe che richiamare il contenuto del parere negativo dell'autorità sanitaria e l'assenza di elementi che inducano
a discostarsene.
La "motivazione" della reiezione, in un simile caso, a ben guardare, riposerebbe in una semplice esternazione
della circostanza che non ci si intende discostare dal parere negativo e, al di là della forma più o meno diffusa, e
delle espressioni assertive od enfatiche utilizzate, non consisterebbe in altro che nel richiamo delle risultanze del
parere e della insussistenza di emergenze procedimentali con lo stesso collidenti.
2.9.2. Se così è, ed esclusa la condivisibilità di una visione meramente meccanicistica e formale dell'obbligo
generale di motivazione, ben le ragioni del convincimento reiettivo (a propria volta reso in conformazione al
parere negativo) potrebbero desumersi dagli atti istruttori sottesi al procedimento: il Collegio condivide
pienamente infatti la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo cui "l'obbligo di
motivazione del provvedimento amministrativo non può ritenersi violato quando, anche a prescindere dal tenore
letterale dell'atto finale, i documenti dell'istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano
ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale della determinazione assunta."(Consiglio Stato, sez. V, 20
maggio 2010, n. 3190).
2.9.3. In sintesi: ritiene il Collegio che l'amministrazione comunale sarebbe tenuta ad un obbligo di stringente
motivazione soltanto allorché intenda discostarsi dal parere (sia esso di natura favorevole, che negativo) reso
dall'autorità sanitaria, mentre, laddove ne condivida gli approdi e ad essi intenda conformarsi, potrebbe
semplicemente richiamarlo.
3. La conclusione cui è giunto il Collegio, consente di affermare la inesattezza della decisione impugnata laddove
ha ravvisato il vizio di carenza motivazionale del diniego di permesso di costruire, rifacendosi al dato
esclusivamente formale.
La considerazione non esaurisce ancora, però, il compito demandato al Collegio.
3.1. Perchè il principio sinora affermato non si concreti in una assoluta elusione dell'obbligo di motivazione ed in
un depotenziamento delle garanzie di tutela dei cittadini e di trasparenza dell'azione amministrativa è necessaria
una condizione ulteriore.
3.1.1. Laddove (come nel caso di specie) ci si trovi al cospetto di un richiamo puro e semplice al parere negativo
acquisito agli atti del procedimento, la verifica giudiziale - tesa ad accertare se vi sia stata una inottemperanza
"sostanziale" all'obbligo di motivazione- deve spostare il fulcro della propria attenzione sulle ulteriori circostanze
prima rappresentate.
Segnatamente, ci si deve interrogare sulla presenza di elementi, agli atti del procedimento, che potessero fare
dubitare della ragionevolezza e coerenza del parere fornito dall'autorità sanitaria ovvero di eventuali vizi attingenti
quest'ultimo (che, a cascata, si riverbererebbero sull'atto conclusivo del procedimento limitatosi a recepirne le
risultanze).
3.2. Ritiene il Collegio che nulla di simile possa riscontrarsi nel caso di specie.
Il parere negativo dell'autorità sanitaria del 2 ottobre 2009 è stato preceduto (e, per quel che rileva in questa sede,
anche seguito) da una messe di accertamenti, verifiche, sopralluoghi; a loro volta, questi ultimi, si sono resi
necessari non soltanto per verificare la fattibilità delle istanze di ampliamento dell'impianto proposte dalla impresa
appellata, ma per verificare la fondatezza delle numerose istanze e lamentele presentate (nell'epoca di riferimento,
ovviamente, non rilevando la circostanza, certificata in atti dal Sindaco del comune di Flumeri che recentemente
non si siano aggiunte ulteriori lamentele a quelle già proposte in passato) da cittadini abitanti nell'area viciniore
circa le emissioni maleodoranti e nocive provenienti dall'impianto.
3.3. La disamina delle circostanze vagliate dall'autorità sanitaria (che consente anche di dare partita risposta alle
censure proposte in primo grado dall'appellata ed assorbite dal primo giudice) induce il Collegio ad affermare che
gli esiti cui detta autorità era pervenuta non fossero in concreto disattendibili dal comune (nel senso che, per
quanto è dato conoscere dagli atti del procedimento, non sussistevano in atti elementi che potessero indurre lo
stesso a motivatamente discostarsi dal parere).
3.3.1. L'autorità sanitaria ha, infatti, vagliato il progetto di ampliamento proposto e del tutto correttamente ne ha
quantificato l'estensione (sul punto si fa rinvio a quanto in precedenza rilevato circa il travisamento dei fatti
riscontrabile nella decisione di prime cure); essa ha fatto riferimento all'ampliamento del corpo C (produttivo), ed
ha chiarito che il depuratore progettato (contrariamente a quanto pare evincersi dalla decisione del primo giudice)
non soltanto non era finalizzato ad abbattere le emissioni inquinanti, ma, al contrario, in quanto deputato al
trattamento delle acque reflue, era a propria volta, ontologicamente, fonte di emissioni maleodoranti.
Tutte queste emergenze fattuali non sono state contestate, né in via procedimentale, né in via giudiziale,
dall'appellata società (che anzi ha ammesso, nella propria memoria, quale fosse in realtà l'entità dell' ampliamento
progettato, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice).
E" stato quindi dato atto della esistenza di costruzioni adibite a civile abitazione ubicate in area limitrofa, e della
circostanza (comunque non dirimente, come prima osservato, della ubicazione dell'impianto al di fuori della
"fascia di rispetto"); ovviamente sono state riepilogate tutte le varie segnalazioni di emissioni inquinanti pervenute
in passato e si è dato atto della molteplicità di sopralluoghi eseguiti in precedenza.
Dato atto pure della circostanza che la normativa di riferimento aveva disciplinato gli accertamenti delle emissioni
dando preminenza al fattore "qualitativo" piuttosto che a quello "quantitativo" delle stesse (la cui misurazione
dipende da svariati fattori, climatici,etc.), l'azienda sanitaria ha richiamato il principio di "precauzione ambientale"
e, nella persistenza delle emissioni odorigene, ha ritenuto non compatibile l'ampliamento.
3.2. Le critiche a tale argomentare (a loro volta coincidenti con le doglianze contenute nel ricorso per motivi
aggiunti di primo grado) riproposte dall'appellata società nella articolata memoria depositata in appello non sono
convincenti, né erano tali da far ipotizzare che il comune potesse aderirvi discostandosi dal parere, ovvero anche
soltanto dovesse partitamente chiarire le motivazioni per cui non ritenesse di recepirli positivamente.
3.2.1 Escluso che l'ampliamento fosse "modesto" e che il progettato depuratore potesse spiegare un qualche utile
effetto per alleviare il problema delle emissioni odorigene (che semmai ne risultava potenzialmente aggravato,
come prima chiarito) si rammenta in proposito che il principio di "precauzione" in tema di tutela della salute
umana e dell'ambiente assurge addirittura a parametro di costituzionalità delle disposizioni di legge ordinaria
mercè l'inclusione dello stesso nell'ambito dell'art. 191 del Trattato Ce e in considerazione della previsione di cui
al primo comma dell'art. 117 della Costituzione (ex multis Consiglio Stato, sez. VI, 12 gennaio 2011, n. 98)
Esso direttamente cogente per tutte le amministrazioni, ha trovato ampio riconoscimento, ancorché sia menzionato
nel trattato Ce soltanto in relazione alla politica ambientale, da parte degli organi comunitari soprattutto nel settore
della salute, con una valenza non solo programmatica, ma direttamente imperativa nel quadro degli ordinamenti
nazionali, vincolati ad applicarlo qualora sussistano incertezze con riguardo all'esistenza o alla portata di rischi per
la salute delle persone. In tal caso, infatti, le istituzioni comunitarie possono adottare misure di tutela senza dover
attendere che siano approfonditamente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi. Detto principio generale
integra, quindi, un criterio orientativo generale e di larga massima che deve caratterizzare non soltanto le attività
normative, ma prima ancora quelle amministrative, come prevede espressamente l'art. 1 della legge 7 agosto 1990
n. 241, ove si stabilisce che "L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta... dai
principi dell'ordinamento comunitario".
Ne consegue che, su tale scorta, si costituisce l'obbligo da parte delle autorità competenti di adottare
provvedimenti appropriati al fine di prevenire rischi anche se unicamente potenziali per la salute, la sicurezza e
per l'ambiente, facendo in ciò necessariamente prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali valori sugli
interessi economici dei singoli cui sia fondatamente addebitabile il pregiudizio temuto ovvero già occorso. Infatti,
essendo le istituzioni comunitarie e nazionali responsabili - in tutti i loro ambiti di azione - della tutela della
salute, della sicurezza e dell'ambiente, la regola della precauzione può essere considerata come un principio
autonomo che discende dalle menzionate disposizioni del trattato.
Secondariamente, si evidenzia che le emissioni inquinanti integrano reato contravvenzionale penale: la costante
giurisprudenza di legittimità ne ha interpretato l'ambito oggettivo in senso largamente estensivo ("ai fini della
sussistenza del reato di cui all'art. 674 c.p. non è richiesta la prova di un concreto pericolo per la salute delle
persone in quanto tale norma fa riferimento al concetto più attenuato di molestia". - Cassazione penale, sez. III, 07
aprile 1994 -) ed ha costantemente affermato che esso è configurabile "indipendentemente dal superamento dei
valori limite di emissione stabiliti dalla legge qualora le emissioni moleste non siano una diretta conseguenza
dell'attività autorizzata, ma siano dovute all'omessa attuazione degli accorgimenti tecnici idonei ad eliminarle o
contenerle."
(Cassazione penale, sez. III, 16 maggio 2007, n. 23796).
Appare poi sintomatico della correttezza della impostazione prevenzionistica dell'autorità sanitaria - e del comune
che ad essa si è pedissequamente riportato - l'orientamento della costante giurisprudenza di legittimità, secondo il
quale "la contravvenzione di cui all'art. 674 c.p. sussiste anche in presenza di rituali autorizzazioni amministrative
per l'esercizio di un'attività d'impresa, ove da tale esercizio derivino esalazioni odorifere moleste alle persone,
poiché l'imprenditore ha comunque il dovere di adottare tutte le misure consigliate dall'esperienza e dalla tecnica
atte a evitare il disagio, fastidio o disturbo generalizzati ovvero a turbare il modo di vivere quotidiano. Nè in
proposito rileva che la competente autorità amministrativa abbia attestato che l'impianto "non produce
inquinamento atmosferico", giacché la norma incriminatrice "de qua" non tutela il bene giuridico "aria" in sé
considerato, bensì le persone che possono ricevere pregiudizio diretto da eventuali emissioni, eccedenti il limite
della normale tollerabilità." (Cassazione penale, sez. III, 13 ottobre 1999, n. 11688).
Infine, costituisce elemento processuale pacificamente provato quello per cui nell'area vicina all'impianto
sorgevano costruzioni adibite a civile abitazione.
V'è disaccordo tra le parti in ordine alla circostanza relativa all'epoca di realizzazione di queste ultime, ed alla
diretta insistenza - o meno- delle stesse nell'area industriale.
Ritiene tuttavia il Collegio che non sia dirimente accertare se le stesse siano insorte anteriormente o
successivamente all'impianto per cui è causa, ovvero se esse siano state ivi allocate legittimamente o meno.
Si rammenta in proposito che il comma 2 dell'art. 844 del codice civile ("Il proprietario di un fondo non può
impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti
dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.
Nell'applicare questa norma l'autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni
della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso.") fa riferimento al criterio della "prevenzione
nell'uso", ma ciò costituisce elemento meramente facoltativo a fini valutativi ("Il criterio di prevenzione, dettato
per la disciplina delle immissioni, dall'ultima parte del comma 2 dell'art. 844 c.c., ha carattere meramente
complementare e sussidiario: ne consegue che il giudice ha la facoltà, non l'obbligo, di tener conto della priorità di
un determinato uso, e il mancato esercizio di tale facoltà non può costituire motivo di cassazione della sentenza".
Cassazione civile, sez. II, 06 marzo 1979, n. 1404).
Più di recente, la Cassazione ha chiarito che il principio, dettato in tema di immissioni acustiche è agevolmente
traslabile a quelle odorigene; si è detto, così: "In tema di immissioni, l'art. 844, comma 2, c.c., nella parte in cui
prevede la valutazione, da parte del giudice, del contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni
della proprietà, considerando eventualmente la priorità di un determinato uso, deve essere letto, tenendo conto che
il limite della tutela della salute è da ritenersi ormai intrinseco nell'attività di produzione oltre che nei rapporti di
vicinato, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, dovendo considerarsi prevalente rispetto
alle esigenze della produzione il soddisfacimento ad una normale qualità della vita. Ne consegue che le
immissioni acustiche determinate da un'attività produttiva che superino i normali limiti di tollerabilità fissati, nel
pubblico interesse, da leggi o regolamenti, e da verificarsi in riferimento alle condizioni del fondo che le subisce,
sono da reputarsi illecite, sicché il giudice, dovendo riconoscerle come tali, può addivenire ad un
contemperamento delle esigenze della produzione soltanto al fine di adottare quei rimedi tecnici che consentano
l'esercizio della attività produttiva nel rispetto del diritto dei vicini a non subire immissioni superiori alla normale
tollerabilità."
(Cassazione civile, sez. II, 08 marzo 2010, n. 5564).
Ciò si inquadra nel condivisibile orientamento per cui "l'art. 844 c.c. impone, nei limiti della normale tollerabilità
e dell'eventuale contemperamento delle esigenze della proprietà con quelle della produzione, l'obbligo di
sopportazione di quelle inevitabili propagazioni attuate nell'ambito delle norme generali e speciali che ne
disciplinano l'esercizio. Viceversa, l'accertamento del superamento della soglia di normale tollerabilità di cui
all'art. 844 c.c., comporta, nella liquidazione del danno da immissioni, sussistente "in re ipsa", l'esclusione di
qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell'uso, in quanto venendo in
considerazione, in tale ipotesi, unicamente l'illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello
schema dell'azione generale di risarcimento danni di cui all'art. 2043 c.c. e specificamente, per quanto concerne il
danno alla salute, nello schema del danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 2059 c.c." (Cassazione
civile, sez. III, 13 marzo 2007, n. 5844).
4. Alla tregua delle superiori argomentazioni, appare evidente che il provvedimento reiettivo comunale, in quanto
motivato dal richiamo al parere negativo dell'azienda sanitaria (ed al contenuto dello stesso conformato) non
appare viziato da difetto di motivazione.
Al contempo, il predetto parere negativo appare congruamente motivato ed immune da vizi: le critiche rivolte allo
stesso ed alla complessiva azione amministrativa spiegatasi in occasione della richiesta di ampliamento
dell'impianto produttivo per cui è causa non appaiono, per le sopra chiarite ragioni, condivisibili, e tutti gli
argomenti di doglianza prospettati dall'appellata e non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non
rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
5. Ne consegue, conclusivamente, che l'appello dell'amministrazione comunale deve essere accolto con le
precisazione indicate in motivazione e per l'effetto, in riforma della impugnata decisione, deve essere respinto il
ricorso (ed il ricorso per motivi aggiunti) proposto in primo grado, con salvezza degli atti impugnati.
6. Le spese di giudizio sostenute devono essere compensate integralmente tra le parti a cagione della particolare
complessità delle questioni esaminate.
PQM
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, numero
di registro generale 10506 del 2010 come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto, in riforma della
impugnata decisione, respinge ricorso e motivi aggiunti proposti in primo grado, con salvezza degli atti impugnati.
Spese processuali compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 dicembre 2011 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
Andrea Migliozzi, Consigliere
Fulvio Rocco, Consigliere
Umberto Realfonzo, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 15 DIC. 2011

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  • 1. Consiglio di Stato sez. IV, 15/12/2011, (ud. 06/12/2011, dep. 15/12/2011), n.6612 Fatto Con la sentenza in epigrafe impugnata il Tribunale amministrativo regionale della Campania - Sezione staccata di Salerno - ha dichiarato improcedibile il ricorso di primo grado ed ha accolto il ricorso per motivi aggiunti proposto dalla società odierna appellata "Real Beef S.r.l.", volto ad ottenere l'annullamento dei provvedimenti reiettivi della propria richiesta di realizzare un impianto di disosso e lavorazione dei sottoprodotti della macellazione nell'Area A.S.I. - Valle Ufita. Il primo giudice ha innanzitutto rilevato che il ricorso principale, teso a gravare la determinazione comunale prot. 1852 del 20 marzo 2009 (ed il conforme parere del Direttore del Dipartimento di Prevenzione - Servizio Igiene Pubblica dell'Asl Av 1, prot. 152 del 26 gennaio 2009), con il quale era stato sospeso il procedimento mirante al rilascio del permesso di costruire per la realizzazione dell'impianto, era divenuto improcedibile perché il detto atto era stato definitivamente superato da quello successivo, avversato in sede di motivi aggiunti, con il quale l'Amministrazione, nel concludere il procedimento, aveva respinto la domanda edificatoria. Ha quindi preso in esame le censure proposte con il ricorso per motivi aggiunti avverso la statuizione definitiva reiettiva del rilascio del permesso di costruire e l'ha accolta considerando assorbente la fondatezza della quarta doglianza, incentrata sul difetto di motivazione. In particolare, si è ivi sostenuto che il provvedimento reiettivo del Responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune di Flumeri prot. n. 5637 del 9 ottobre 2009, con il quale si era respinta la richiesta di permesso di costruire, si fondava sul parere sfavorevole dell'Autorità sanitaria locale, ma non prendeva in alcuna considerazione la mitigazione dell'impatto ambientale che sarebbe derivata dalla realizzazione dell'impianto di depurazione. L' appellato, infatti, aveva richiesto una variante al permesso di costruire n. 36 del 21 gennaio 2008) intesa alla realizzazione di "a) un nuovo impianto di disosso e porzionamento delle carni (al piano rialzato del corpo C) e di un impianto di lavorazione delle pelli (al piano terra del corpo C); b) i locali in ampliamento dell'impianto di macellazione (ampliamento corpo A); c) la realizzazione di un nuovo impianto di depurazione funzionale all'opificio". L'ampliamento richiesto e denegato consisteva, secondo il T.A.R., in mq. 491,75 del lotto "A", che si sarebbero aggiunti ai 3.101,70 attuali, rimanendo invariate le dimensioni dell'area produttiva del lotto "C": la parte preponderante del novum opus quindi riguardava l'impianto di depurazione al lotto "B" di mq. 945,71, già sottoposto alle competenti Autorità ai fini del rilascio dell'Autorizzazione Integrata Ambientale. Detto impianto aveva la finalità di ridurre le emissioni nocive; la stessa Autorità sanitaria, in seno al parere sfavorevole posto a base della determinazione reiettiva, aveva richiamato il disposto dell'art. 216 quinto comma, del T.U.LL.Ss.R.D, laddove si prevede una deroga per la "industria o manifattura" insalubre di prima classe, che
  • 2. può essere "permessa nell'abitato" se l'interessato dimostri che per l'introduzione di metodi o cautele il suo esercizio non reca nocumento alla salute del vicinato. Ne discendeva la prova della l'astratta compatibilità dell'opificio con le abitazioni circostanti, e la necessità di esaminare l'idoneità del previsto impianto di depurazione a ridurre le emissioni maleodoranti segnalate dal vicinato; ciò che, per le sue caratteristiche, anche dimensionali, non poteva escludersi aprioristicamente. L'omessa motivazione in ordine alla inidoneità del sistema depurativo progettato viziava gli atti reiettivi che, conseguentemente, sono stati annullati. L' amministrazione comunale rimasta soccombente ha impugnato la detta decision,e criticandola sotto numerosi angoli prospettici e chiedendone la riforma (confutando anche gli ulteriori motivi del ricorso per motivi aggiunti dichiarati assorbiti dal primo giudice). Ha in primo luogo rilevato l'erroneità, in punto di fatto, dell'affermazione per cui l'ampliamento richiesto e denegato consisteva in mq. 491,75 del lotto "A", che si sarebbero aggiunti ai 3.101,70 attuali, rimanendo invariate le dimensioni dell'area produttiva del lotto "C". Al contrario, da una superficie di mq 3955 circa, autorizzata con il permesso di costruire, si passava a più di 6000 mq; né la parte preponderante del novum opus, quindi, riguardava l'impianto di depurazione al lotto "B" di mq. 945,71, atteso che il lotto C sarebbe passato da mq 691 a circa 3628. La maggior parte dell'ampliamento, insomma, riguardava l'impianto produttivo, e non quello di depurazione Nel merito, la sentenza era errata, perché, in sede di rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 13 del dPR 6 giugno 2001 n. 380, deve essere valutata soltanto la compatibilità urbanistica, e non anche l'impatto ambientale e sanitario delle opere (la cui valutazione pertiene ad altre amministrazioni). L'amministrazione comunale non avrebbe potuto rilasciare il permesso di costruire in presenza di un parere sanitario negativo (che, in ogni caso, precludeva la realizzazione dell'opera): ne discendeva l'inutilità di un esame nel merito del progetto. Il detto parere sanitario preclusivo (reso a seguito di un sopralluogo congiunto con i tecnici Arpa il 22 dicembre 2008), sebbene formalmente impugnato, non era stato specificamente censurato e, quindi, la realizzazione dell'opera era impossibile (e ciò in disparte le problematiche nascenti dal raddoppio della superficie dell'impianto, ove la variante fosse stata autorizzata). Ha poi confutato gli ulteriori motivi aggiunti proposti in primo grado dall'appellata ed assorbiti dal primo giudice, evidenziando che l'art. 156 del regolamento d'igiene del Comune di Flumeri, approvato con delibera consiliare n. 6 del 1977 (e rimasto inimpugnato), prevedeva che le industrie insalubri dovessero essere "isolate nelle campagne". Posto che quella dell'appellata costituiva una industria insalubre di prima classe, era evidente che non avrebbe potuto essere allocata nelle vicinanze del centro abitato (le abitazioni limitrofe erano state realizzate antecedentemente all'avviamento dell'attività industriale per cui è causa).
  • 3. La Asl di Avellino si è costituita in giudizio chiedendo di accogliere l'appello in quanto fondato. L'appellata ha depositato una articolata memoria chiedendo il rigetto del gravame in quanto infondato posto che era palese la carenza motivazionale del provvedimento reiettivo impugnato. Alla pubblica udienza del 6 dicembre 2011 la causa è stata posta in decisione. Diritto 1.L'appello è fondato e va accolto nei termini di cui alla motivazione che segue, con conseguente riforma dell'appellata decisione e reiezione del ricorso proposto in primo grado dall'impresa odierna appellata. 1.1. Al fine di perimetrare l'ambito valutativo devoluto alla cognizione del Collegio si evidenzia che il primo giudice ha annullato il diniego del rilascio del permesso di costruire unicamente in quanto carente sotto il profilo motivazionale. Tale riscontrata carenza riposava nella circostanza che il diniego faceva unicamente riferimento al parere negativo dell'autorità sanitaria e non risultava alcun approfondimento in ordine alla incidenza dell'impianto di depurazione previsto nel progetto, pur a fronte della astratta compatibilità dell'opificio con le abitazioni circostanti (in particolare si è rilevata la "la necessità di esaminare l'idoneità del previsto impianto di depurazione a ridurre le emissioni maleodoranti segnalate dal vicinato e che per le sue caratteristiche, anche dimensionali, non può escludersi ex ante."). 2. Il parere della AUSL sotteso al provvedimento reiettivo reso dall'amministrazione comunale risulta governato dalla disposizione di cui all'art. 216 del Regio Decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (recante approvazione del testo unico delle leggi sanitarie) che così dispone: "Le manifatture o fabbriche che producono vapori, gas o altre esalazioni insalubri o che possono riuscire in altro modo pericolose alla salute degli abitanti sono indicate in un elenco diviso in due classi. La prima classe comprende quelle che debbono essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni; la seconda quelle che esigono speciali cautele per la incolumità del vicinato. Questo elenco, compilato dal consiglio superiore di sanità, è approvato dal Ministro della sanità, sentito il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, e serve di norma per l'esecuzione delle presenti disposizioni. Le stesse norme stabilite per la formazione dell'elenco sono seguite per iscrivervi ogni altra fabbrica o manifattura che posteriormente sia riconosciuta insalubre. Una industria o manifattura la quale sia inscritta nella prima classe, può essere permessa nell'abitato, quante volte l'industriale che l'esercita provi che, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, il suo esercizio non reca nocumento alla salute del vicinato. Chiunque intende attivare una fabbrica o manifattura compresa nel sopra indicato elenco, deve quindici giorni prima darne avviso per iscritto al sindaco, il quale, quando lo ritenga necessario nell'interesse della salute pubblica, può vietarne l'attivazione o subordinarla a determinate cautele. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa da lire 40.000 a lire 400.000.".
  • 4. 2.1. Come è agevole rilevare, il comma 5 della citata disposizione non vieta in assoluto che una industria o manifattura del genere di quelle per cui è causa sia esercitata nell'abitato allorché si provi che il suo esercizio non rechi nocumento alla salute del vicinato. Peraltro la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato si è spinta in passato ancora oltre, ed è pervenuta alla significativa affermazione per cui "l'art. 216 r.d. 27 luglio 1934 n. 1265, nel prescrivere che le industrie insalubri di prima classe devono essere isolate dalle campagne e tenute lontane dall'abitazione, non fissa specifiche distanze; pertanto, se il titolare dimostra che, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, l'esercizio dell'attività non reca nocumento alla salute del vicinato, le distanze eventualmente prescritte dal p.r.g. possono essere derogate." (Consiglio Stato, sez. V, 13 ottobre 2004, n. 6648). 2.1.1. Si rileva peraltro che l'argomento reiettivo sostenuto dall'appellante e fondato sull'art. 156 del regolamento d'igiene del Comune di Flumeri approvato con delibera consiliare n. 6 del 1977 non possiede alcuna valenza innovativa, né decisiva, in quanto tale disposizione si limita a reiterare la prescrizione contenuta nel citato art. 216 e non prevede (contrariamente a quanto sostenutosi nell'appello dell'amministrazione comunale che si è limitata a riportare soltanto una frase estrapolata dalla detta prescrizione regolamentare) un assoluto divieto di allocare dette industrie, al ricorrere delle condizioni di legge, nel centro abitato. L'appellata ha segnalato che tale disposizione regolamentare non era stata indicata nel provvedimento del 9 ottobre 2009 reiettivo dell'istanza di approvazione della variante e che ciò costituirebbe una inammissibile integrazione postuma della motivazione. Pur concordandosi con la superiore tesi, ritiene comunque il Collegio che, per le già chiarite ragioni, l'argomento non apporti alcun giovamento alle critiche appellatorie. 2.2. Ciò premesso, l'appellante amministrazione comunale non nega che il diniego sia stato esclusivamente motivato con riferimento al parere negativo fornito dalla azienda sanitaria, ma afferma nell'ordine che: le dimensioni dell'incremento progettato sono di gran lunga superiori rispetto a quelle che il primo giudice ha per errore di fatto individuato (quasi 3000 mq invece del circa 490 erroneamente ritenuti dal primo giudice); il parere negativo dell'Asl era ostativo e preclusivo di qualsiasi ulteriore verifica; non era necessaria ulteriore motivazione rispetto a quella ricavabile dal predetto parere; l'appellata non aveva gravato in primo grado il detto parere, di guisa che, non riscontrandosi alcuna lacuna in quest'ultimo, comunque il comune non avrebbe potuto disattenderlo e, in ogni caso, non potrebbe disattenderlo neanche in futuro. 2.3. Il Collegio ritiene che il ricorso in appello abbia esattamente rilevato che il primo giudice ha travisato il dato di fatto relativo all'ampiezza dell'ampliamento previsto in progetto, atteso che - come risulta dagli atti di causa e come peraltro ammesso dalla stessa appellata - l'incremento volumetrico progettato è superiore a quello cui si è fatto riferimento nella impugnata decisione ed ammonta a poco meno di 3000 mq. 2.4. Ritiene, però, che tale dato non militi in senso decisivo per l'accoglimento dell'appello, avuto riguardo al contenuto della motivazione della sentenza demolitoria, e che, pertanto, pur muovendo dal punto fermo che il primo giudice ha errato nella quantificazione dell'incremento edilizio, debbano essere esaminate le ulteriori doglianze dell'amministrazione.
  • 5. 2.5. Muovendo da tale premessa, si rileva che neppure appaiono esatti in fatto gli argomenti fondati sull'asserita assenza di doglianze nel ricorso di primo grado attingenti la valutazione della azienda Sanitaria (in primo grado, infatti, l'appellata ebbe a criticare le conclusioni cui era giunta l'Azienda Sanitaria predetta). 2.6. Ritiene, però, il Collegio che, in accoglimento dell'appello proposto dall'amministrazione, vada riformata la sentenza di primo grado laddove ha ritenuto che dal mero richiamo del provvedimento reiettivo comunale al parere dell'Azienda Sanitaria dovesse discendere il vizio di carenza assoluta di motivazione. 2.6.1. Un punto deve essere chiarito in via assolutamente preliminare: pur con le precisazioni che verranno fatte di seguito, devono comunque essere disattesi - laddove intesi in termini categorici - gli argomenti contenuti nell'appello secondo cui il comune non avrebbe potuto in via assoluta discostarsi dal parere preclusivo dell'Azienda sanitaria (si veda, ex multis, in materia di poteri comunali, comunque sussistenti, in subiecta materia, Consiglio Stato, sez. V, 19 aprile 2005, n. 1794, ma anche Sezione V 5 febbraio 1985 n. 67, 1 aprile 1996 n. 338, 17 settembre 1992 n. 809). Peraltro lo stesso parere preclusivo dell'Azienda sanitaria (si veda l'ultima pagina, in particolare), dava atto della circostanza che il comune avrebbe potuto eventualmente discostarsi dalle conclusioni cui era giunta l'Azienda sanitaria medesima. 2.6.2. Ciò è certamente esatto perché, infatti, in via di principiol'amministrazione comunale mantiene proprie potestà (si vedano in proposito le decisioni prima richiamate) in subiecta materia e potrebbe motivatamente discostarsi dalle determinazioni rese dall'Autorità sanitaria. L'affermazione, tuttavia, merita talune importanti precisazioni. Le suindicate decisioni del Consiglio di Stato, ed il relativo consolidato orientamento giurisprudenziale - che ha costantemente affermato come gli art. 216 e 217 r.d. 27 luglio 1934 n. 1265 conferiscono al comune ampi poteri in materia di industrie insalubri, anche prescindendo da situazioni di emergenza e dall'autorizzazione a suo tempo rilasciata, a condizione, però, che siano dimostrati, da congrua e seria istruttoria, gli inconvenienti igienici e che si sia vanamente tentato di eliminarli (Consiglio Stato, sez. V, 19 aprile 2005, n. 1794) - hanno in realtà esaminato la situazione (speculare a quella odierna) in cui, pur a fronte di una determinazione favorevole dell'autorità sanitaria, l'amministrazione comunale era addivenuta all'emissione di una ordinanza contingibile ed urgente di natura inibitoria resa necessitata dal permanere di una grave situazione igienicosanitaria. 2.7. Affermata la persistenza di discrezionalità valutativa del comune in materia, appare ovvio che essa possa e debba riscontrarsi anche in senso inverso (id est: quello invocato dall'appellata società, ampliativo rispetto ad un parere negativo rilasciato dall'autorità sanitaria). Ma, affermato in via di principio detto potere, è evidente che il comune (che non possiede né strumenti né competenze per accertare "in proprio" le condizioni sanitarie di una industria insalubre) possa esercitarlo - così discostandosi dal parere negativo reso dall'Autorità sanitaria- in ipotesi che configurano veri e propri casi limite e che potrebbero sinteticamente indicarsi in una compresenza di due condizioni: l'assoluta insufficienza, carenza, approssimazione del parere negativo reso dall'azienda sanitari, e la contemporanea sussistenza di allegazioni di
  • 6. parte - o comunque acquisite dall'amministrazione comunale - che provino oltre ogni dubbio l'inattendibilità del parere negativo e la sussistenza di comprovati elementi che escludano inconvenienti sanitari ascrivibili all'azienda. Soltanto in presenza di tale coacervo di condizioni l'amministrazione comunale potrebbe motivatamente discostarsi dal parere reso dall'autorità che ha competenza in materia (e possiede le professionalità necessarie). 2.8. Di converso, è ovvio che, laddove non si riscontrino tali condizioni, l'amministrazione comunale è tenuta ad attenersi alle prescrizioni dell'autorità sanitaria e dalle stesse - laddove espressione di discrezionalità tecnica ragionevolmente esercitata - non si possa discostare senza stravolgere l'ordine delle competenze e macchiare, a propria volta, di illegittimità la propria azione amministrativa. 2.9. Puntualizzati tali principi, ritiene il Collegio di interrogarsi in ordine ai doveri dell'amministrazione comunale allorché - trovatasi al cospetto di un parere negativo (rectius: diniego di autorizzazione) reso dall' autorità sanitaria, che non appaia né irragionevole, né abnorme, ed in relazione al quale non siano stati acquisiti al procedimento elementi che inducano a metterne in discussione le conclusioni - decida di attenervisi. 2.9.1. Appare evidente che in una simile evenienza la "motivazione" del diniego di permesso di costruire non farebbe che richiamare il contenuto del parere negativo dell'autorità sanitaria e l'assenza di elementi che inducano a discostarsene. La "motivazione" della reiezione, in un simile caso, a ben guardare, riposerebbe in una semplice esternazione della circostanza che non ci si intende discostare dal parere negativo e, al di là della forma più o meno diffusa, e delle espressioni assertive od enfatiche utilizzate, non consisterebbe in altro che nel richiamo delle risultanze del parere e della insussistenza di emergenze procedimentali con lo stesso collidenti. 2.9.2. Se così è, ed esclusa la condivisibilità di una visione meramente meccanicistica e formale dell'obbligo generale di motivazione, ben le ragioni del convincimento reiettivo (a propria volta reso in conformazione al parere negativo) potrebbero desumersi dagli atti istruttori sottesi al procedimento: il Collegio condivide pienamente infatti la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo cui "l'obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo non può ritenersi violato quando, anche a prescindere dal tenore letterale dell'atto finale, i documenti dell'istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale della determinazione assunta."(Consiglio Stato, sez. V, 20 maggio 2010, n. 3190). 2.9.3. In sintesi: ritiene il Collegio che l'amministrazione comunale sarebbe tenuta ad un obbligo di stringente motivazione soltanto allorché intenda discostarsi dal parere (sia esso di natura favorevole, che negativo) reso dall'autorità sanitaria, mentre, laddove ne condivida gli approdi e ad essi intenda conformarsi, potrebbe semplicemente richiamarlo. 3. La conclusione cui è giunto il Collegio, consente di affermare la inesattezza della decisione impugnata laddove ha ravvisato il vizio di carenza motivazionale del diniego di permesso di costruire, rifacendosi al dato esclusivamente formale. La considerazione non esaurisce ancora, però, il compito demandato al Collegio.
  • 7. 3.1. Perchè il principio sinora affermato non si concreti in una assoluta elusione dell'obbligo di motivazione ed in un depotenziamento delle garanzie di tutela dei cittadini e di trasparenza dell'azione amministrativa è necessaria una condizione ulteriore. 3.1.1. Laddove (come nel caso di specie) ci si trovi al cospetto di un richiamo puro e semplice al parere negativo acquisito agli atti del procedimento, la verifica giudiziale - tesa ad accertare se vi sia stata una inottemperanza "sostanziale" all'obbligo di motivazione- deve spostare il fulcro della propria attenzione sulle ulteriori circostanze prima rappresentate. Segnatamente, ci si deve interrogare sulla presenza di elementi, agli atti del procedimento, che potessero fare dubitare della ragionevolezza e coerenza del parere fornito dall'autorità sanitaria ovvero di eventuali vizi attingenti quest'ultimo (che, a cascata, si riverbererebbero sull'atto conclusivo del procedimento limitatosi a recepirne le risultanze). 3.2. Ritiene il Collegio che nulla di simile possa riscontrarsi nel caso di specie. Il parere negativo dell'autorità sanitaria del 2 ottobre 2009 è stato preceduto (e, per quel che rileva in questa sede, anche seguito) da una messe di accertamenti, verifiche, sopralluoghi; a loro volta, questi ultimi, si sono resi necessari non soltanto per verificare la fattibilità delle istanze di ampliamento dell'impianto proposte dalla impresa appellata, ma per verificare la fondatezza delle numerose istanze e lamentele presentate (nell'epoca di riferimento, ovviamente, non rilevando la circostanza, certificata in atti dal Sindaco del comune di Flumeri che recentemente non si siano aggiunte ulteriori lamentele a quelle già proposte in passato) da cittadini abitanti nell'area viciniore circa le emissioni maleodoranti e nocive provenienti dall'impianto. 3.3. La disamina delle circostanze vagliate dall'autorità sanitaria (che consente anche di dare partita risposta alle censure proposte in primo grado dall'appellata ed assorbite dal primo giudice) induce il Collegio ad affermare che gli esiti cui detta autorità era pervenuta non fossero in concreto disattendibili dal comune (nel senso che, per quanto è dato conoscere dagli atti del procedimento, non sussistevano in atti elementi che potessero indurre lo stesso a motivatamente discostarsi dal parere). 3.3.1. L'autorità sanitaria ha, infatti, vagliato il progetto di ampliamento proposto e del tutto correttamente ne ha quantificato l'estensione (sul punto si fa rinvio a quanto in precedenza rilevato circa il travisamento dei fatti riscontrabile nella decisione di prime cure); essa ha fatto riferimento all'ampliamento del corpo C (produttivo), ed ha chiarito che il depuratore progettato (contrariamente a quanto pare evincersi dalla decisione del primo giudice) non soltanto non era finalizzato ad abbattere le emissioni inquinanti, ma, al contrario, in quanto deputato al trattamento delle acque reflue, era a propria volta, ontologicamente, fonte di emissioni maleodoranti. Tutte queste emergenze fattuali non sono state contestate, né in via procedimentale, né in via giudiziale, dall'appellata società (che anzi ha ammesso, nella propria memoria, quale fosse in realtà l'entità dell' ampliamento progettato, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice). E" stato quindi dato atto della esistenza di costruzioni adibite a civile abitazione ubicate in area limitrofa, e della circostanza (comunque non dirimente, come prima osservato, della ubicazione dell'impianto al di fuori della
  • 8. "fascia di rispetto"); ovviamente sono state riepilogate tutte le varie segnalazioni di emissioni inquinanti pervenute in passato e si è dato atto della molteplicità di sopralluoghi eseguiti in precedenza. Dato atto pure della circostanza che la normativa di riferimento aveva disciplinato gli accertamenti delle emissioni dando preminenza al fattore "qualitativo" piuttosto che a quello "quantitativo" delle stesse (la cui misurazione dipende da svariati fattori, climatici,etc.), l'azienda sanitaria ha richiamato il principio di "precauzione ambientale" e, nella persistenza delle emissioni odorigene, ha ritenuto non compatibile l'ampliamento. 3.2. Le critiche a tale argomentare (a loro volta coincidenti con le doglianze contenute nel ricorso per motivi aggiunti di primo grado) riproposte dall'appellata società nella articolata memoria depositata in appello non sono convincenti, né erano tali da far ipotizzare che il comune potesse aderirvi discostandosi dal parere, ovvero anche soltanto dovesse partitamente chiarire le motivazioni per cui non ritenesse di recepirli positivamente. 3.2.1 Escluso che l'ampliamento fosse "modesto" e che il progettato depuratore potesse spiegare un qualche utile effetto per alleviare il problema delle emissioni odorigene (che semmai ne risultava potenzialmente aggravato, come prima chiarito) si rammenta in proposito che il principio di "precauzione" in tema di tutela della salute umana e dell'ambiente assurge addirittura a parametro di costituzionalità delle disposizioni di legge ordinaria mercè l'inclusione dello stesso nell'ambito dell'art. 191 del Trattato Ce e in considerazione della previsione di cui al primo comma dell'art. 117 della Costituzione (ex multis Consiglio Stato, sez. VI, 12 gennaio 2011, n. 98) Esso direttamente cogente per tutte le amministrazioni, ha trovato ampio riconoscimento, ancorché sia menzionato nel trattato Ce soltanto in relazione alla politica ambientale, da parte degli organi comunitari soprattutto nel settore della salute, con una valenza non solo programmatica, ma direttamente imperativa nel quadro degli ordinamenti nazionali, vincolati ad applicarlo qualora sussistano incertezze con riguardo all'esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone. In tal caso, infatti, le istituzioni comunitarie possono adottare misure di tutela senza dover attendere che siano approfonditamente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi. Detto principio generale integra, quindi, un criterio orientativo generale e di larga massima che deve caratterizzare non soltanto le attività normative, ma prima ancora quelle amministrative, come prevede espressamente l'art. 1 della legge 7 agosto 1990 n. 241, ove si stabilisce che "L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta... dai principi dell'ordinamento comunitario". Ne consegue che, su tale scorta, si costituisce l'obbligo da parte delle autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire rischi anche se unicamente potenziali per la salute, la sicurezza e per l'ambiente, facendo in ciò necessariamente prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali valori sugli interessi economici dei singoli cui sia fondatamente addebitabile il pregiudizio temuto ovvero già occorso. Infatti, essendo le istituzioni comunitarie e nazionali responsabili - in tutti i loro ambiti di azione - della tutela della salute, della sicurezza e dell'ambiente, la regola della precauzione può essere considerata come un principio autonomo che discende dalle menzionate disposizioni del trattato. Secondariamente, si evidenzia che le emissioni inquinanti integrano reato contravvenzionale penale: la costante giurisprudenza di legittimità ne ha interpretato l'ambito oggettivo in senso largamente estensivo ("ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 674 c.p. non è richiesta la prova di un concreto pericolo per la salute delle persone in quanto tale norma fa riferimento al concetto più attenuato di molestia". - Cassazione penale, sez. III, 07
  • 9. aprile 1994 -) ed ha costantemente affermato che esso è configurabile "indipendentemente dal superamento dei valori limite di emissione stabiliti dalla legge qualora le emissioni moleste non siano una diretta conseguenza dell'attività autorizzata, ma siano dovute all'omessa attuazione degli accorgimenti tecnici idonei ad eliminarle o contenerle." (Cassazione penale, sez. III, 16 maggio 2007, n. 23796). Appare poi sintomatico della correttezza della impostazione prevenzionistica dell'autorità sanitaria - e del comune che ad essa si è pedissequamente riportato - l'orientamento della costante giurisprudenza di legittimità, secondo il quale "la contravvenzione di cui all'art. 674 c.p. sussiste anche in presenza di rituali autorizzazioni amministrative per l'esercizio di un'attività d'impresa, ove da tale esercizio derivino esalazioni odorifere moleste alle persone, poiché l'imprenditore ha comunque il dovere di adottare tutte le misure consigliate dall'esperienza e dalla tecnica atte a evitare il disagio, fastidio o disturbo generalizzati ovvero a turbare il modo di vivere quotidiano. Nè in proposito rileva che la competente autorità amministrativa abbia attestato che l'impianto "non produce inquinamento atmosferico", giacché la norma incriminatrice "de qua" non tutela il bene giuridico "aria" in sé considerato, bensì le persone che possono ricevere pregiudizio diretto da eventuali emissioni, eccedenti il limite della normale tollerabilità." (Cassazione penale, sez. III, 13 ottobre 1999, n. 11688). Infine, costituisce elemento processuale pacificamente provato quello per cui nell'area vicina all'impianto sorgevano costruzioni adibite a civile abitazione. V'è disaccordo tra le parti in ordine alla circostanza relativa all'epoca di realizzazione di queste ultime, ed alla diretta insistenza - o meno- delle stesse nell'area industriale. Ritiene tuttavia il Collegio che non sia dirimente accertare se le stesse siano insorte anteriormente o successivamente all'impianto per cui è causa, ovvero se esse siano state ivi allocate legittimamente o meno. Si rammenta in proposito che il comma 2 dell'art. 844 del codice civile ("Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi. Nell'applicare questa norma l'autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso.") fa riferimento al criterio della "prevenzione nell'uso", ma ciò costituisce elemento meramente facoltativo a fini valutativi ("Il criterio di prevenzione, dettato per la disciplina delle immissioni, dall'ultima parte del comma 2 dell'art. 844 c.c., ha carattere meramente complementare e sussidiario: ne consegue che il giudice ha la facoltà, non l'obbligo, di tener conto della priorità di un determinato uso, e il mancato esercizio di tale facoltà non può costituire motivo di cassazione della sentenza". Cassazione civile, sez. II, 06 marzo 1979, n. 1404). Più di recente, la Cassazione ha chiarito che il principio, dettato in tema di immissioni acustiche è agevolmente traslabile a quelle odorigene; si è detto, così: "In tema di immissioni, l'art. 844, comma 2, c.c., nella parte in cui prevede la valutazione, da parte del giudice, del contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, considerando eventualmente la priorità di un determinato uso, deve essere letto, tenendo conto che il limite della tutela della salute è da ritenersi ormai intrinseco nell'attività di produzione oltre che nei rapporti di
  • 10. vicinato, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, dovendo considerarsi prevalente rispetto alle esigenze della produzione il soddisfacimento ad una normale qualità della vita. Ne consegue che le immissioni acustiche determinate da un'attività produttiva che superino i normali limiti di tollerabilità fissati, nel pubblico interesse, da leggi o regolamenti, e da verificarsi in riferimento alle condizioni del fondo che le subisce, sono da reputarsi illecite, sicché il giudice, dovendo riconoscerle come tali, può addivenire ad un contemperamento delle esigenze della produzione soltanto al fine di adottare quei rimedi tecnici che consentano l'esercizio della attività produttiva nel rispetto del diritto dei vicini a non subire immissioni superiori alla normale tollerabilità." (Cassazione civile, sez. II, 08 marzo 2010, n. 5564). Ciò si inquadra nel condivisibile orientamento per cui "l'art. 844 c.c. impone, nei limiti della normale tollerabilità e dell'eventuale contemperamento delle esigenze della proprietà con quelle della produzione, l'obbligo di sopportazione di quelle inevitabili propagazioni attuate nell'ambito delle norme generali e speciali che ne disciplinano l'esercizio. Viceversa, l'accertamento del superamento della soglia di normale tollerabilità di cui all'art. 844 c.c., comporta, nella liquidazione del danno da immissioni, sussistente "in re ipsa", l'esclusione di qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell'uso, in quanto venendo in considerazione, in tale ipotesi, unicamente l'illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell'azione generale di risarcimento danni di cui all'art. 2043 c.c. e specificamente, per quanto concerne il danno alla salute, nello schema del danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 2059 c.c." (Cassazione civile, sez. III, 13 marzo 2007, n. 5844). 4. Alla tregua delle superiori argomentazioni, appare evidente che il provvedimento reiettivo comunale, in quanto motivato dal richiamo al parere negativo dell'azienda sanitaria (ed al contenuto dello stesso conformato) non appare viziato da difetto di motivazione. Al contempo, il predetto parere negativo appare congruamente motivato ed immune da vizi: le critiche rivolte allo stesso ed alla complessiva azione amministrativa spiegatasi in occasione della richiesta di ampliamento dell'impianto produttivo per cui è causa non appaiono, per le sopra chiarite ragioni, condivisibili, e tutti gli argomenti di doglianza prospettati dall'appellata e non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. 5. Ne consegue, conclusivamente, che l'appello dell'amministrazione comunale deve essere accolto con le precisazione indicate in motivazione e per l'effetto, in riforma della impugnata decisione, deve essere respinto il ricorso (ed il ricorso per motivi aggiunti) proposto in primo grado, con salvezza degli atti impugnati. 6. Le spese di giudizio sostenute devono essere compensate integralmente tra le parti a cagione della particolare complessità delle questioni esaminate. PQM P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, numero di registro generale 10506 del 2010 come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto, in riforma della impugnata decisione, respinge ricorso e motivi aggiunti proposti in primo grado, con salvezza degli atti impugnati.
  • 11. Spese processuali compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 dicembre 2011 con l'intervento dei magistrati: Paolo Numerico, Presidente Fabio Taormina, Consigliere, Estensore Andrea Migliozzi, Consigliere Fulvio Rocco, Consigliere Umberto Realfonzo, Consigliere DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 15 DIC. 2011