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Prima le donne e poi i bambini*
1. Introduzione
Prima le donne e poi i bambini, recitava un antico detto di origine marinara secondo cui le donne e
i bambini debbono essere salvati per primi nel caso ci si trovi in una situazione di pericolo di vita
(in genere nell'atto di abbandonare la nave), ripreso molto efficacemente da E. G. Belotti nel suo
celebre saggio del 1980, a testimonianza di come il nostro mondo fosse protettivo nei confronti
delle fasce deboli e di come questo atteggiamento spesso non permettesse a donne e bambini di
affrancarsi da questa dipendenza.
E possibile oggi affrontare in modo diverso il tema delle fasce deboli nel Mercato del Lavoro? Le
politiche per l’inclusione femminile e giovanile sono molto variegate e spesso contengono ancora
elementi di interventismo la cui efficacia non è mai stata correttamente dimostrata. Sono invece noti
casi diversi di come tali interventi (leggi sull’imprenditoria femminile e giovanile) siano stati
utilizzati per finanziare surrettiziamente imprese già esistenti. Tali interventi e in generale il sistema
degli incentivi alle imprese distorce il mercato e non gli permette di fare correttamente il suo lavoro,
cioè quello di selezionare le buone idee ma anche il modo migliore per implementarle. Quale deve
essere invece il ruolo delle politiche attive nel caso di donne e bambini?
Nel primo caso è evidente che devono essere rimossi i vincoli che impediscono alle donne di essere
realmente pari agli uomini nell’accesso al mercato del lavoro. Questo significa due semplici azioni:
più asili nido e case per anziani; l’obiettivo potrà poi essere raggiunto creando le infrastrutture
mancanti o erogando alle donne responsabili delle cure, dei voucher da spendere nelle strutture
esistenti; si tratta di un mero problema gestionale in un’ottica di scelta della soluzione efficiente. Di
queste azioni vi sono cenni nelle politiche del FSE ma anche negli Obiettivi di servizio, politica del
Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica del Ministero per lo Sviluppo Economico,
mirante a incidere positivamente sulla vita dei cittadini con poche ma significative azioni. Quali
sono i risultati tangibili di questi interventi? A che punto siamo in Sardegna? C’è ancora molto da
fare? Evidentemente si, se come si è visto nel capitolo dedicato all’analisi economica si rileva che
basta un approfondimento della crisi per far fuoriuscire dal mercato del lavoro quelle donne che
avevano finalmente deciso di entrarci dopo tanti anni di marginalità, lavoro sommerso e/o
domestico. In periodo di crisi si tagliano le prestazioni sociali e comunque in Sardegna non esiste
un sistema di welfare dedicato alle relazioni di cura, tale da permettere alle donne di scegliere se
restare a casa per occuparsi degli anziani e dei bambini, piuttosto che presentarsi sul mercato del
lavoro per conquistarsi un lavoro ad armi pari coi colleghi maschi.
Anche nel caso dei giovani e delle politiche di inclusione lavorativa bisogna stare attenti a non
distorcere ciò che il mercato sa fare. In uno studio apparso di recente sulla Rivista Italiana di
Valutazione (Di Blasio G., Garau E., Garau G. e M. Sorcioni, 2014) si sottolinea quali sono le
caratteristiche che permettono ai giovani di entrare prima nel mercato del lavoro. La categoria
maggiormente a rischio di restare fuori dal mercato del lavoro è risultata essere quella dei giovani,
con basso livello di istruzione e senza precedenti esperienze lavorative. E’ proprio su queste
caratteristiche che bisogna cercare di agire e cioè costruendo percorsi di professionalizzazione di
qualità, aderenti alle richieste del mercato del lavoro.
*
A cura di Giorgio Garau, Vispo Srl.
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2. Giovani disoccupati e dispersi
Nel rapporto Caritas del 2013 è stato dedicato un capitolo alla relazione tra disoccupazione
giovanile e dispersione scolastica, di seguito vediamo di aggiornare la situazione.
La dispersione scolastica in Sardegna
La dispersione scolastica misurata dall’indicatore di ESL (Early school leavers) è oggi pari al
24,6% contro un valore italiano del 17 %, abbiamo cioè raggiunto un differenziale negativo rispetto
all’Italia di 7,6 punti percentuali. Nel tempo questa differenza è stata anche maggiore (10,8 punti
nel 2005) ma da allora la Sardegna aveva iniziato un percorso virtuoso che in soli due anni l’aveva
portata a ridurre il differenziale a soli 2,1 punti, per un tasso complessivo del 21,8%. Da quell’anno
in poi, mentre a livello italiano il tasso continuava a decrescere, a livello regionale si accentuava la
differenza per cui complessivamente iniziava una risalita del tasso che culmina con il valore
osservato nel 2012 e nel 2013 accenna però a ridursi.
Le politiche attuate
In passato sono stati fatti diversi interventi ma come sottolineato nel rapporto del 2013 “le politiche
pubbliche che almeno nominalmente venivano invocate come misure per contrastare il fenomeno
della dispersione (e.g. i laboratori scolastici) hanno ottenuto ben pochi risultati. Una ricerca del
Nucleo di Valutazione e Verifica degli Investimenti Pubblici della RAS giunge sino ad ammettere
che la base informativa per valutare gli interventi pubblici è di qualità talmente scarsa che da esse
risulta che, dove sono stati fatti degli interventi contro la dispersione, la stessa invece che diminuire
è paradossalmente aumentata.” Insomma oggi cosa si sta facendo? L’assessorato al lavoro della
RAS ha lanciato nel 2013 il programma ARDISCO, che dichiara di volere porre rimedio al
problema della dispersione scolastica proprio proponendo quella tipologia di corsi (biennali per
ottenere una qualifica) che per tanti anni sono stati erogati in maniera ridotta. Sarebbe utile iniziare
a valutare l’efficacia di questi corsi sulla quota di ESL ma anche sul tasso di disoccupazione
giovanile. Non possiamo infine dimenticare che su questo tema della dispersione/disoccupazione
giovanile si è espressa l’UE e che nel corso del 2014 è stato messo a punto un grande intervento
denominato “Garanzia Giovani”, apparso come la manna dal cielo, la soluzione di tutti i problemi.
A un anno dal suo annuncio cosa è successo? Quali obiettivi ha questo programma, ma soprattutto
si sta costruendo il sistema informativo statistico che ne permetterà il monitoraggio e una
valutazione dell’efficacia?
La disoccupazione giovanile
Tra il 2005 e il 2013 la Sardegna sperimenta una dinamica ben inferiore a quella italiana e a molte
regioni del nord e sostanzialmente simile a diverse regioni del Mezzogiorno. Si passa da un valore
del tasso del 32,6 % nel 2005 ad uno del 54,2% nel 2013, che, seppur molto alto, in termini di tasso
di variazione è pari al 66,3% in più del valore del 2005. In alcune regioni del Nord tale variazione
assume valori notevolmente superiori come in Valle d’Aosta (aumento del 211,1%), in Piemonte (+
137,9%) o in Lombardia (+ 136,9%) fino ad arrivare all’Emilia-Romagna in cui si registra un
aumento del 211,2%, a testimonianza del fatto che seppur in tali regioni si partisse da valori iniziali
dell’indicatore inferiori, la dinamica di questo segmento del Mercato del Lavoro è ovunque
preoccupante. Le dinamiche osservate tra il 2012 e il 2013 sono molto interessanti. In alcune
regioni il fenomeno non accenna a diminuire (Piemonte aumenta del 26%, Liguria del 40%, Emilia
Romagna e Marche del 26%, Puglia del 19%) e la Sardegna anche se staccata fa parte di questo
gruppo in cui si stanno accentuando i fenomeni di crisi economica e la correlata impossibilità per
intere generazioni di entrare nel mercato del lavoro. Vi è poi un gruppo di regioni in cui pare che il
fenomeno stia rallentando (aumenti rispetto al 2012 inferiori al 5%) tra cui troviamo Campania,
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Sicilia e Umbria ed infine una regione estremamente virtuosa, il Friuli, in cui tale tasso è stato
drasticamente abbattuto passando dal 30,5 al 24,2%.
La relazione tra dispersione scolastica e disoccupazione giovanile
La dispersione scolastica è un fenomeno di natura multidimensionale con tante cause tra di loro
interagenti e i fattori di natura economica non sono che uno dei tanti. Come già sottolineato
nell’introduzione si può ragionevolmente ritenere che una precoce interruzione degli studi, non
compensata dall’inserimento in percorsi professionalizzanti (formazione professionale e
apprendistato), possa essere messa in relazione col rischio di rimanere fuori dal mercato del lavoro,
cioè disoccupati.
Se consideriamo la correlazione nelle diverse regioni e negli anni disponibili, osserviamo
sostanzialmente un andamento altalenante con una forte caduta del legame nel 2012. E’ chiaro che
se si indebolisce tale relazione ciò significa che vi sono altre cause rilevanti1
. Nel rapporto del 2013
l’analisi della relazione tra le regioni ha permesso di sottolineare alcuni aspetti che riteniamo tuttora
validi. Innanzitutto si osserva che la correlazione è quasi ovunque (tranne che in Liguria, Veneto,
Toscana e Lazio) di segno inverso e cioè che all’aumentare della dispersione scolastica si riduce il
tasso disoccupazione giovanile e viceversa. Una possibile interpretazione di questa evidenza
permette di descrivere un quadro relativamente positivo in cui all’interruzione della carriera
scolastica (alto indicatore di ESL) corrisponde una entrata nel mercato del lavoro (basso tasso di
disoccupazione). Tra le regioni si può poi ulteriormente distinguere tra quelle in cui questo legame è
debole (indicatore di correlazione inferiore al -0,40) tra cui troviamo diverse regioni del Sud
compresa la Sardegna, quelle in cui la correlazione assume valori compresi tra –0,40 e -0,70
(regioni del Nord) ed infine regioni in cui la correlazione è superiore al -0,70 (Lombardia, Emilia,
Abruzzo, Molise e Campania).
Alla luce di queste evidenze, il valore basso di correlazione negativa osservato per la
Sardegna testimonia un legame debole tra le due misure che lascia ampio spazio a spiegazioni
alternative. In Sardegna e nelle altre regioni del Sud in cui vi è bassa correlazione negativa sono
chiaramente rilevanti altre cause. In altri termini è verosimile che se si riuscisse a controllare la
relazione tenendo conto dei livelli di istruzione delle famiglie, cosi come delle carenze nei servizi
sociali o del tessuto imprenditoriale, si perverrebbe a relazioni più forti, col giusto segno (positivo),
come nel caso di Liguria, Veneto, Toscana e Lazio.
Per tentare di incidere sulla relazione tra dispersione scolastica e disoccupazione giovanile
bisogna pervenire alla formulazione di modelli multidimensionali che provino a prendere in
considerazione quelle dimensioni riportate in nota, tenendo ulteriormente conto delle variabili di
contesto che caratterizzano i territori regionali, con la loro diversità nella dotazione di servizi sociali
ma anche nei fattori di pressione sul sistema scolastico. Solo così si possono ragionevolmente
immaginare delle politiche di intervento che aspirino ad avere una qualche efficacia rispetto al
fenomeno della dispersione scolastica e a cascata sul tema della disoccupazione giovanile.
In conclusione il focus, l’oggetto delle politiche per i giovani, non sono i giovani (cioè la
fascia protetta) ma i sistemi formativi, che oggi producono conoscenza in maniera inefficace e
1
Le altre dimensioni da considerare, oltre alle due prese in considerazione, sono:
a. dimensione economica che si articola con temi come la povertà, l’occupazione e la disoccupazione;
b. dimensione familiare declinata come instabilità familiare, basso livello di istruzione dei genitori e
carenza di reti sociali;
c. dimensione del territorio e dei servizi in cui diventa rilevante la crescita della popolazione, la sua
dispersione (nei piccoli comuni) e a fronte di tutto ciò la carenza di servizi sociali;
d. dimensione culturale dove sono importanti il basso livello di istruzione ma soprattutto la
contemporaneità di valori sociali contrastanti.
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inefficiente, non spendibile sul mercato del lavoro e sono inoltre carenti nella formazione di
competenze laterali, utili per imparare a farsi strada nella vita e nel mercato del lavoro.
3. Semplicemente Pari Opportunità
L’UE apre sempre la strada, segna la via verso la comprensione dei problemi e lancia azioni,
interventi, policy per proporre una soluzione. Nel caso dell’occupazione femminile il problema,
sollevato già nei documenti preparatori del ciclo di programmazione dei fondi strutturali 2007-
2013, era quello dei bassi tassi di occupazione e della connessa difficoltà di ingresso delle donne nel
mercato del lavoro (ricordiamoci che l’obiettivo stabilito a Lisbona nel marzo del 2000 era quello di
un tasso di occupazione femminile del 60%, oggi in Sardegna siamo al 39,7% in calo dopo la punta
del 43,1% raggiunta nel 2012). La soluzione prospettata era chiara ed esplicita già allora, costruire il
contesto per la parità. Cosa è stato fatto? Nel 2008 quando è stato approvato il quadro
programmatorio del FSE si sottolineava “Anche il tasso di occupazione mostra un andamento
crescente pur tuttavia i valori rilevati si discostano di circa 11 punti percentuali dalla media
europea. Su tale dato incidono significativamente le differenze di genere se si considera che il tasso
di occupazione è di circa 28 punti percentuali superiore per la componente maschile in Sardegna.
Il tasso di disoccupazione continua a diminuire ma è significativamente al di sopra del dato
europeo. Le differenze rilevate sono principalmente dovute all'incidenza del tasso di
disoccupazione giovanile e femminile. Il tasso di disoccupazione giovanile (32,6%) è di quasi 20
punti percentuali superiore rispetto al tasso di disoccupazione medio; il dato della Sardegna è ben
al di sotto di quello corrispondente del Mezzogiorno (38,6%), ma ben lontano dal dato nazionale ed
europeo. Particolarmente preoccupante è il dato che si registra per la componente femminile
giovane, pari al 38,6%, tenendo conto anche del fatto che i divari di genere tendono ad aumentare
nell'arco della carriera lavorativa, specialmente per le fasce della forza lavoro con bassi livelli di
istruzione.”
Tuttavia il programma operativo conterrà soprattutto: 1. percorsi di orientamento verso mestieri e
professioni innovative; 2. interventi di sostegno a iniziative imprenditoriali nei settori ad alta
concentrazione femminile, attività produttive connesse con l'uso di risorse naturali e culturali locali,
favorendo l'utilizzo delle tecnologie e valorizzando le competenze femminili; 3. alternative
professionali per le donne che lavorano nell'economia sommersa; 4. azioni formative per la
creazione di impresa, volte a promuovere l'autoimpiego e lo sviluppo dell'imprenditorialità, la
regolarizzazione delle attività e delle posizioni di lavoro irregolari e l'efficienza delle piccole
imprese. Insomma il FSE si ispira più alla logica della creazione di occasioni di impresa che non
alla realizzazione delle precondizioni per le Pari Opportunità e cioè l’affrancamento delle donne
dalla cure di anziani e bambini. Nell’Asse II del PO FSE, quello che contiene interventi per favorire
l’Occupabilità con una dotazione di 138,6 milioni di euro, per le azioni di Conciliazione con il
lavoro di cura familiare sono state stanziati appena 4 milioni di euro. Nel dedalo dei documenti che
accompagnano la spesa dei fondi strutturali si scopre un documento fondamentale, il Rapporto
Annuale di Esecuzione, che ci aggiorna su come sono stati spesi i fondi mesi a disposizione.
Nell’ambito dell’obiettivo specifico Migliorare l’accesso delle donne all’occupazione e ridurre le
disparità di genere sono stati conclusi gli 8 progetti avviati nel 2012 (per capire quante risorse
hanno assorbito bisognerebbe andare a frugare nella banca dati del Monitoraggio, privilegio a noi
non concesso) e sono state coinvolte 443 persone di cui l’80% donne, cioè circa 330 persone.
Di che cosa stiamo parlando? Tra il 2012 e il 2013, come abbiamo sottolineato nel capitolo
dedicato all’Analisi economica, circa 31 mila donne sono uscite dal mercato del lavoro andando a
ingrossare le fila degli Inattivi e delle Forze lavoro potenziali e il FSE dedica risorse cosi scarse e si
costruiscono progetti cosi inesistenti per aiutare le donne a resistere e a insistere nel volere scegliere
di lavorare in chiaro, piuttosto che rientrare nel sommerso o nel lavoro domestico. Non vogliamo
certo pasticciare coi dati e attribuire alle politiche pubbliche (qui rappresentate dal FSE)
responsabilità che non hanno ma una cosa è certa, che di fronte a tanto sapere e a tanti anni di
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sperimentazione quando si ha la certezza (senza bisogno di valutazione alcuna) che l’unica azione
che potrebbe realmente favorire l’ingresso e la permanenza della donna sul mercato del lavoro è
quella semplice azione di Pari Opportunità, tradotta nel burocratese con la parola Conciliazione con
il lavoro di cura familiare, perché non si spende con decisione per garantire a tutte le donne che lo
richiedono voucher per “Conciliazione”? Andate a vedere come si spendono i soldi del FSE, non
certo per raggiungere l’obiettivo di Lisbona del 60% dell’occupazione femminile. Una situazione
decisamente migliore è almeno in apparenza quella descritta dai risultati della politica degli
obiettivi di servizio dove si osserva che per i 3 obiettivi considerati (1. aumento della percentuale di
Comuni con servizi per l'infanzia dal 21% al 35%; 2. elevare la percentuale di bambini che
usufruiscono di servizi di cura per l'infanzia dal 4% al 12%; 3. incremento della percentuale di
anziani beneficiari di assistenza domiciliare integrata (ADI) da 1,6% a 3,5%), la Sardegna ha già
raggiunto i target previsti.
L’evidenza empirica riportata nel capitolo dedicato all’Analisi economica ci dice però che
quando la crisi perdura e si accentua le donne riescono dal mercato del lavoro, dopo esservi
faticosamente entrate e quindi forse gli sforzi fatti dal decisore con le politiche descritte non sono
stati sufficienti a scongiurare gli effetti demotivanti della crisi. Il sistema produttivo, almeno quella
parte che quando l’economia cresce può assorbire nuovi ingressi è duale. Da una parte troviamo il
settore industriale (compreso le Costruzioni) a forte componente maschile ma maturo e in costante
declino. Dall’altra i servizi vendibili (Commercio, Credito, Servizi alla persona), dove forse vi è
maggiore parità ma dove pure, come risulta dalle nostre analisi, sta riprendendo la crisi.
Insomma cosa si può fare, è necessario inventarsi qualcosa che funzioni o basta cercare di
recuperare lo spirito delle politiche sulle Pari Opportunità di genere e lasciare invece che il mercato
selezioni gli individui migliori (quelli con le competenze giuste), le imprese più efficienti e i servizi
realmente utili.

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Estratto dal Rapporto Caritas 2013
 

Prima le donne e poi i bambini

  • 1. 1     Prima le donne e poi i bambini* 1. Introduzione Prima le donne e poi i bambini, recitava un antico detto di origine marinara secondo cui le donne e i bambini debbono essere salvati per primi nel caso ci si trovi in una situazione di pericolo di vita (in genere nell'atto di abbandonare la nave), ripreso molto efficacemente da E. G. Belotti nel suo celebre saggio del 1980, a testimonianza di come il nostro mondo fosse protettivo nei confronti delle fasce deboli e di come questo atteggiamento spesso non permettesse a donne e bambini di affrancarsi da questa dipendenza. E possibile oggi affrontare in modo diverso il tema delle fasce deboli nel Mercato del Lavoro? Le politiche per l’inclusione femminile e giovanile sono molto variegate e spesso contengono ancora elementi di interventismo la cui efficacia non è mai stata correttamente dimostrata. Sono invece noti casi diversi di come tali interventi (leggi sull’imprenditoria femminile e giovanile) siano stati utilizzati per finanziare surrettiziamente imprese già esistenti. Tali interventi e in generale il sistema degli incentivi alle imprese distorce il mercato e non gli permette di fare correttamente il suo lavoro, cioè quello di selezionare le buone idee ma anche il modo migliore per implementarle. Quale deve essere invece il ruolo delle politiche attive nel caso di donne e bambini? Nel primo caso è evidente che devono essere rimossi i vincoli che impediscono alle donne di essere realmente pari agli uomini nell’accesso al mercato del lavoro. Questo significa due semplici azioni: più asili nido e case per anziani; l’obiettivo potrà poi essere raggiunto creando le infrastrutture mancanti o erogando alle donne responsabili delle cure, dei voucher da spendere nelle strutture esistenti; si tratta di un mero problema gestionale in un’ottica di scelta della soluzione efficiente. Di queste azioni vi sono cenni nelle politiche del FSE ma anche negli Obiettivi di servizio, politica del Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica del Ministero per lo Sviluppo Economico, mirante a incidere positivamente sulla vita dei cittadini con poche ma significative azioni. Quali sono i risultati tangibili di questi interventi? A che punto siamo in Sardegna? C’è ancora molto da fare? Evidentemente si, se come si è visto nel capitolo dedicato all’analisi economica si rileva che basta un approfondimento della crisi per far fuoriuscire dal mercato del lavoro quelle donne che avevano finalmente deciso di entrarci dopo tanti anni di marginalità, lavoro sommerso e/o domestico. In periodo di crisi si tagliano le prestazioni sociali e comunque in Sardegna non esiste un sistema di welfare dedicato alle relazioni di cura, tale da permettere alle donne di scegliere se restare a casa per occuparsi degli anziani e dei bambini, piuttosto che presentarsi sul mercato del lavoro per conquistarsi un lavoro ad armi pari coi colleghi maschi. Anche nel caso dei giovani e delle politiche di inclusione lavorativa bisogna stare attenti a non distorcere ciò che il mercato sa fare. In uno studio apparso di recente sulla Rivista Italiana di Valutazione (Di Blasio G., Garau E., Garau G. e M. Sorcioni, 2014) si sottolinea quali sono le caratteristiche che permettono ai giovani di entrare prima nel mercato del lavoro. La categoria maggiormente a rischio di restare fuori dal mercato del lavoro è risultata essere quella dei giovani, con basso livello di istruzione e senza precedenti esperienze lavorative. E’ proprio su queste caratteristiche che bisogna cercare di agire e cioè costruendo percorsi di professionalizzazione di qualità, aderenti alle richieste del mercato del lavoro. * A cura di Giorgio Garau, Vispo Srl.
  • 2. 2     2. Giovani disoccupati e dispersi Nel rapporto Caritas del 2013 è stato dedicato un capitolo alla relazione tra disoccupazione giovanile e dispersione scolastica, di seguito vediamo di aggiornare la situazione. La dispersione scolastica in Sardegna La dispersione scolastica misurata dall’indicatore di ESL (Early school leavers) è oggi pari al 24,6% contro un valore italiano del 17 %, abbiamo cioè raggiunto un differenziale negativo rispetto all’Italia di 7,6 punti percentuali. Nel tempo questa differenza è stata anche maggiore (10,8 punti nel 2005) ma da allora la Sardegna aveva iniziato un percorso virtuoso che in soli due anni l’aveva portata a ridurre il differenziale a soli 2,1 punti, per un tasso complessivo del 21,8%. Da quell’anno in poi, mentre a livello italiano il tasso continuava a decrescere, a livello regionale si accentuava la differenza per cui complessivamente iniziava una risalita del tasso che culmina con il valore osservato nel 2012 e nel 2013 accenna però a ridursi. Le politiche attuate In passato sono stati fatti diversi interventi ma come sottolineato nel rapporto del 2013 “le politiche pubbliche che almeno nominalmente venivano invocate come misure per contrastare il fenomeno della dispersione (e.g. i laboratori scolastici) hanno ottenuto ben pochi risultati. Una ricerca del Nucleo di Valutazione e Verifica degli Investimenti Pubblici della RAS giunge sino ad ammettere che la base informativa per valutare gli interventi pubblici è di qualità talmente scarsa che da esse risulta che, dove sono stati fatti degli interventi contro la dispersione, la stessa invece che diminuire è paradossalmente aumentata.” Insomma oggi cosa si sta facendo? L’assessorato al lavoro della RAS ha lanciato nel 2013 il programma ARDISCO, che dichiara di volere porre rimedio al problema della dispersione scolastica proprio proponendo quella tipologia di corsi (biennali per ottenere una qualifica) che per tanti anni sono stati erogati in maniera ridotta. Sarebbe utile iniziare a valutare l’efficacia di questi corsi sulla quota di ESL ma anche sul tasso di disoccupazione giovanile. Non possiamo infine dimenticare che su questo tema della dispersione/disoccupazione giovanile si è espressa l’UE e che nel corso del 2014 è stato messo a punto un grande intervento denominato “Garanzia Giovani”, apparso come la manna dal cielo, la soluzione di tutti i problemi. A un anno dal suo annuncio cosa è successo? Quali obiettivi ha questo programma, ma soprattutto si sta costruendo il sistema informativo statistico che ne permetterà il monitoraggio e una valutazione dell’efficacia? La disoccupazione giovanile Tra il 2005 e il 2013 la Sardegna sperimenta una dinamica ben inferiore a quella italiana e a molte regioni del nord e sostanzialmente simile a diverse regioni del Mezzogiorno. Si passa da un valore del tasso del 32,6 % nel 2005 ad uno del 54,2% nel 2013, che, seppur molto alto, in termini di tasso di variazione è pari al 66,3% in più del valore del 2005. In alcune regioni del Nord tale variazione assume valori notevolmente superiori come in Valle d’Aosta (aumento del 211,1%), in Piemonte (+ 137,9%) o in Lombardia (+ 136,9%) fino ad arrivare all’Emilia-Romagna in cui si registra un aumento del 211,2%, a testimonianza del fatto che seppur in tali regioni si partisse da valori iniziali dell’indicatore inferiori, la dinamica di questo segmento del Mercato del Lavoro è ovunque preoccupante. Le dinamiche osservate tra il 2012 e il 2013 sono molto interessanti. In alcune regioni il fenomeno non accenna a diminuire (Piemonte aumenta del 26%, Liguria del 40%, Emilia Romagna e Marche del 26%, Puglia del 19%) e la Sardegna anche se staccata fa parte di questo gruppo in cui si stanno accentuando i fenomeni di crisi economica e la correlata impossibilità per intere generazioni di entrare nel mercato del lavoro. Vi è poi un gruppo di regioni in cui pare che il fenomeno stia rallentando (aumenti rispetto al 2012 inferiori al 5%) tra cui troviamo Campania,
  • 3. 3     Sicilia e Umbria ed infine una regione estremamente virtuosa, il Friuli, in cui tale tasso è stato drasticamente abbattuto passando dal 30,5 al 24,2%. La relazione tra dispersione scolastica e disoccupazione giovanile La dispersione scolastica è un fenomeno di natura multidimensionale con tante cause tra di loro interagenti e i fattori di natura economica non sono che uno dei tanti. Come già sottolineato nell’introduzione si può ragionevolmente ritenere che una precoce interruzione degli studi, non compensata dall’inserimento in percorsi professionalizzanti (formazione professionale e apprendistato), possa essere messa in relazione col rischio di rimanere fuori dal mercato del lavoro, cioè disoccupati. Se consideriamo la correlazione nelle diverse regioni e negli anni disponibili, osserviamo sostanzialmente un andamento altalenante con una forte caduta del legame nel 2012. E’ chiaro che se si indebolisce tale relazione ciò significa che vi sono altre cause rilevanti1 . Nel rapporto del 2013 l’analisi della relazione tra le regioni ha permesso di sottolineare alcuni aspetti che riteniamo tuttora validi. Innanzitutto si osserva che la correlazione è quasi ovunque (tranne che in Liguria, Veneto, Toscana e Lazio) di segno inverso e cioè che all’aumentare della dispersione scolastica si riduce il tasso disoccupazione giovanile e viceversa. Una possibile interpretazione di questa evidenza permette di descrivere un quadro relativamente positivo in cui all’interruzione della carriera scolastica (alto indicatore di ESL) corrisponde una entrata nel mercato del lavoro (basso tasso di disoccupazione). Tra le regioni si può poi ulteriormente distinguere tra quelle in cui questo legame è debole (indicatore di correlazione inferiore al -0,40) tra cui troviamo diverse regioni del Sud compresa la Sardegna, quelle in cui la correlazione assume valori compresi tra –0,40 e -0,70 (regioni del Nord) ed infine regioni in cui la correlazione è superiore al -0,70 (Lombardia, Emilia, Abruzzo, Molise e Campania). Alla luce di queste evidenze, il valore basso di correlazione negativa osservato per la Sardegna testimonia un legame debole tra le due misure che lascia ampio spazio a spiegazioni alternative. In Sardegna e nelle altre regioni del Sud in cui vi è bassa correlazione negativa sono chiaramente rilevanti altre cause. In altri termini è verosimile che se si riuscisse a controllare la relazione tenendo conto dei livelli di istruzione delle famiglie, cosi come delle carenze nei servizi sociali o del tessuto imprenditoriale, si perverrebbe a relazioni più forti, col giusto segno (positivo), come nel caso di Liguria, Veneto, Toscana e Lazio. Per tentare di incidere sulla relazione tra dispersione scolastica e disoccupazione giovanile bisogna pervenire alla formulazione di modelli multidimensionali che provino a prendere in considerazione quelle dimensioni riportate in nota, tenendo ulteriormente conto delle variabili di contesto che caratterizzano i territori regionali, con la loro diversità nella dotazione di servizi sociali ma anche nei fattori di pressione sul sistema scolastico. Solo così si possono ragionevolmente immaginare delle politiche di intervento che aspirino ad avere una qualche efficacia rispetto al fenomeno della dispersione scolastica e a cascata sul tema della disoccupazione giovanile. In conclusione il focus, l’oggetto delle politiche per i giovani, non sono i giovani (cioè la fascia protetta) ma i sistemi formativi, che oggi producono conoscenza in maniera inefficace e 1 Le altre dimensioni da considerare, oltre alle due prese in considerazione, sono: a. dimensione economica che si articola con temi come la povertà, l’occupazione e la disoccupazione; b. dimensione familiare declinata come instabilità familiare, basso livello di istruzione dei genitori e carenza di reti sociali; c. dimensione del territorio e dei servizi in cui diventa rilevante la crescita della popolazione, la sua dispersione (nei piccoli comuni) e a fronte di tutto ciò la carenza di servizi sociali; d. dimensione culturale dove sono importanti il basso livello di istruzione ma soprattutto la contemporaneità di valori sociali contrastanti.
  • 4. 4     inefficiente, non spendibile sul mercato del lavoro e sono inoltre carenti nella formazione di competenze laterali, utili per imparare a farsi strada nella vita e nel mercato del lavoro. 3. Semplicemente Pari Opportunità L’UE apre sempre la strada, segna la via verso la comprensione dei problemi e lancia azioni, interventi, policy per proporre una soluzione. Nel caso dell’occupazione femminile il problema, sollevato già nei documenti preparatori del ciclo di programmazione dei fondi strutturali 2007- 2013, era quello dei bassi tassi di occupazione e della connessa difficoltà di ingresso delle donne nel mercato del lavoro (ricordiamoci che l’obiettivo stabilito a Lisbona nel marzo del 2000 era quello di un tasso di occupazione femminile del 60%, oggi in Sardegna siamo al 39,7% in calo dopo la punta del 43,1% raggiunta nel 2012). La soluzione prospettata era chiara ed esplicita già allora, costruire il contesto per la parità. Cosa è stato fatto? Nel 2008 quando è stato approvato il quadro programmatorio del FSE si sottolineava “Anche il tasso di occupazione mostra un andamento crescente pur tuttavia i valori rilevati si discostano di circa 11 punti percentuali dalla media europea. Su tale dato incidono significativamente le differenze di genere se si considera che il tasso di occupazione è di circa 28 punti percentuali superiore per la componente maschile in Sardegna. Il tasso di disoccupazione continua a diminuire ma è significativamente al di sopra del dato europeo. Le differenze rilevate sono principalmente dovute all'incidenza del tasso di disoccupazione giovanile e femminile. Il tasso di disoccupazione giovanile (32,6%) è di quasi 20 punti percentuali superiore rispetto al tasso di disoccupazione medio; il dato della Sardegna è ben al di sotto di quello corrispondente del Mezzogiorno (38,6%), ma ben lontano dal dato nazionale ed europeo. Particolarmente preoccupante è il dato che si registra per la componente femminile giovane, pari al 38,6%, tenendo conto anche del fatto che i divari di genere tendono ad aumentare nell'arco della carriera lavorativa, specialmente per le fasce della forza lavoro con bassi livelli di istruzione.” Tuttavia il programma operativo conterrà soprattutto: 1. percorsi di orientamento verso mestieri e professioni innovative; 2. interventi di sostegno a iniziative imprenditoriali nei settori ad alta concentrazione femminile, attività produttive connesse con l'uso di risorse naturali e culturali locali, favorendo l'utilizzo delle tecnologie e valorizzando le competenze femminili; 3. alternative professionali per le donne che lavorano nell'economia sommersa; 4. azioni formative per la creazione di impresa, volte a promuovere l'autoimpiego e lo sviluppo dell'imprenditorialità, la regolarizzazione delle attività e delle posizioni di lavoro irregolari e l'efficienza delle piccole imprese. Insomma il FSE si ispira più alla logica della creazione di occasioni di impresa che non alla realizzazione delle precondizioni per le Pari Opportunità e cioè l’affrancamento delle donne dalla cure di anziani e bambini. Nell’Asse II del PO FSE, quello che contiene interventi per favorire l’Occupabilità con una dotazione di 138,6 milioni di euro, per le azioni di Conciliazione con il lavoro di cura familiare sono state stanziati appena 4 milioni di euro. Nel dedalo dei documenti che accompagnano la spesa dei fondi strutturali si scopre un documento fondamentale, il Rapporto Annuale di Esecuzione, che ci aggiorna su come sono stati spesi i fondi mesi a disposizione. Nell’ambito dell’obiettivo specifico Migliorare l’accesso delle donne all’occupazione e ridurre le disparità di genere sono stati conclusi gli 8 progetti avviati nel 2012 (per capire quante risorse hanno assorbito bisognerebbe andare a frugare nella banca dati del Monitoraggio, privilegio a noi non concesso) e sono state coinvolte 443 persone di cui l’80% donne, cioè circa 330 persone. Di che cosa stiamo parlando? Tra il 2012 e il 2013, come abbiamo sottolineato nel capitolo dedicato all’Analisi economica, circa 31 mila donne sono uscite dal mercato del lavoro andando a ingrossare le fila degli Inattivi e delle Forze lavoro potenziali e il FSE dedica risorse cosi scarse e si costruiscono progetti cosi inesistenti per aiutare le donne a resistere e a insistere nel volere scegliere di lavorare in chiaro, piuttosto che rientrare nel sommerso o nel lavoro domestico. Non vogliamo certo pasticciare coi dati e attribuire alle politiche pubbliche (qui rappresentate dal FSE) responsabilità che non hanno ma una cosa è certa, che di fronte a tanto sapere e a tanti anni di
  • 5. 5     sperimentazione quando si ha la certezza (senza bisogno di valutazione alcuna) che l’unica azione che potrebbe realmente favorire l’ingresso e la permanenza della donna sul mercato del lavoro è quella semplice azione di Pari Opportunità, tradotta nel burocratese con la parola Conciliazione con il lavoro di cura familiare, perché non si spende con decisione per garantire a tutte le donne che lo richiedono voucher per “Conciliazione”? Andate a vedere come si spendono i soldi del FSE, non certo per raggiungere l’obiettivo di Lisbona del 60% dell’occupazione femminile. Una situazione decisamente migliore è almeno in apparenza quella descritta dai risultati della politica degli obiettivi di servizio dove si osserva che per i 3 obiettivi considerati (1. aumento della percentuale di Comuni con servizi per l'infanzia dal 21% al 35%; 2. elevare la percentuale di bambini che usufruiscono di servizi di cura per l'infanzia dal 4% al 12%; 3. incremento della percentuale di anziani beneficiari di assistenza domiciliare integrata (ADI) da 1,6% a 3,5%), la Sardegna ha già raggiunto i target previsti. L’evidenza empirica riportata nel capitolo dedicato all’Analisi economica ci dice però che quando la crisi perdura e si accentua le donne riescono dal mercato del lavoro, dopo esservi faticosamente entrate e quindi forse gli sforzi fatti dal decisore con le politiche descritte non sono stati sufficienti a scongiurare gli effetti demotivanti della crisi. Il sistema produttivo, almeno quella parte che quando l’economia cresce può assorbire nuovi ingressi è duale. Da una parte troviamo il settore industriale (compreso le Costruzioni) a forte componente maschile ma maturo e in costante declino. Dall’altra i servizi vendibili (Commercio, Credito, Servizi alla persona), dove forse vi è maggiore parità ma dove pure, come risulta dalle nostre analisi, sta riprendendo la crisi. Insomma cosa si può fare, è necessario inventarsi qualcosa che funzioni o basta cercare di recuperare lo spirito delle politiche sulle Pari Opportunità di genere e lasciare invece che il mercato selezioni gli individui migliori (quelli con le competenze giuste), le imprese più efficienti e i servizi realmente utili.