Storia dell'omosessualità nelle scienze della salute mentale.
Dalle prime teorie innatistiche alle terapie affermative e riparative.
Ada Moscarella
Psicologa, mediatrice familiare
www.ampsico.it
http://mifacciobene.wordpress.com
Psicologia dei gruppi: punti di forza e punti di debolezza
L'omosessualità nelle scienze della salute mentale
1. L’OMOSESSUALITÀ NELLE SCIENZE DELLA SALUTE MENTALE
Autore: Ada Moscarella
Fonte: www.ampsico.it
Dott.ssa Ada Moscarella
Psicologa, Mediatrice Familiare
Tesoriere dell’Associazione Psicologi Campani
www.ampsico.it ada.moscarella@libero.it cell. 334 90 57 714
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L'OMOSESSUALITA' NELLE SCIENZE DELLA SALUTE MENTALE
«Se l’omosessualità fosse considerata alla stregua di qualunque altro materiale analitico,
ci renderemmo conto che le fantasie e i comportamenti omosessuali riflettono una molteplicità
di temi e di significati, l’analisi dei quali permette al paziente di operare le proprie scelte,
in modo libero rispetto a fattori d’influenza espliciti o impliciti»
(Stephen Mitchell, psicanalista americano, in «The psychoanalytic treatment of homosexuality:
some technical considerations», p.77, 1981)
Si definiscono “scienze della SALUTE mentale”, la psichiatria, la psicologia e la psicanalisi, ma
quando si considerano alcune teorie, riflessioni, assunti del passato si troverà che il concetto di
salute è stato interpretato spesso in maniera, oserei dire, originale.
La scienza, la vera scienza, cioè il genuino tentativo di cercare la verità delle cose, serve ad
attenuare la sete di conoscenza così caratteristica dell’essere umano.
La falsa scienza, la pseudoscienza, è invece posta al servizio dell’altra “grande sete” dell’uomo:
il potere.
Il potere bastonava, mutilava, imprigionava, talvolta bruciava al rogo gli omosessuali o li
rinchiudeva; le (pseudo)scienze della salute mentale non si preoccupavano di discutere l’assunto
di partenza, e cioè che l’omosessualità fosse una “diversità” che a seconda dei casi diventava
perversione, peccato o entrambe, e trascorse molto tempo tentando semplicemente di spiegare
l’origine dell’inversione, attuando quello che Szasz (1974) ha definito passaggio dallo stato
religioso allo stato terapeutico.
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LE PRIME TEORIE INNATISTICHE: generalmente queste teorie, data anche l’ignoranza nel
campo della genetica, si concentrano su difetti a carico del Sistema Nervoso Periferico,
dell’embrione o del Sistema Nervoso Centrale. Pur ancora rudimentali e centrate sull’aspetto
patologico, hanno avuto il merito di cogliere la dimensione innata ormai accettata da molti
come essenziale per comprendere l’omosessualità.
LE PRIME TEORIE PSICOLOGICHE: le prime teorie psicologiche si basano su una visione
dell’omosessualità piuttosto ristretta e confusa: parlare di “inversione sessuale” come fa
Westphal (1870) ben esprime la visione di un omosessuale maschio che è psicologicamente e
fisicamente effeminato e di una donna virile, affetta addirittura da ipertrofia clitoridea
(Lombroso, 1885; Moraglia, 1895).
Ma tanta faticosa attenzione al tema non poteva limitarsi certo alla sola ricerca delle cause.
Sono “scienze della salute mentale” e giustamente si impegnarono sin da subito per riportare
gay e lesbiche nell’orbita di una “sanissima salute”: Charcot e Magnan (1882) proponevano l’uso
del bromuro, Schrenck Notzing (1892) l’ipnosi e la suggestione, Lombroso (1885) la
cauterizzazione del clitoride, Westphal (1870) e Cantarano (1883) si limitarono a proporre il
contenimento in manicomio.
IL ‘900 - E POI ARRIVO’ FREUD: Per Freud tutto dipende dalla libido e dal suo destino,
attraverso le vicende edipiche e pre-edipiche, che orienta la scelta dell’oggetto (Freud, 1905).
Alla base ci sarebbe una bisessualità, tipica di tutti gli esseri umani: quello che accade nel
normale sviluppo-eterosessuale è che la parte omosessuale viene rimossa e sublimata in
manifestazioni come l’amicizia e il cameratismo e tutte quelle situazioni sociali che regolano le
interazioni tra uomini. In questo senso, Freud è contrario alla teorizzazione di un “terzo sesso”,
come proponevano i primi movimenti omosessuali, ma rispetto a molti suoi seguaci,
contemporanei e poi successivi, ha una visione meno drastica dell’omosessualità. E’ favorevole
alla depenalizzazione dell’omosessualità, si schiera contro Jones quando questi voleva escludere
gli omosessuali dalla Società Psicanalitica, si rifiuta di curare gli omosessuali per il loro
orientamento sessuale (Freud, 1919).
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Scriverà, infatti:
«Caro Ernst […] non siamo d’accordo con lei […]. Non possiamo escludere tali persone senza
avere sufficienti ragioni di altro tipo […]. Ci sembra che in simili casi una decisione dovrebbe
dipendere da un esame accurato delle altre qualità del candidato»
(Freud, 1921, cit. in Bayer, 1981, p. 22).
L’APA (American Psychoanalytic Association), purtroppo, impiegherà più di 70 anni per
accogliere l’antico invito di Freud a non tener fuori gay e lesbiche dal training psicanalitico solo
per il loro orientamento sessuale.
Analizzando l’omosessualità maschile e femminile, Freud dà diverso peso alla componente
costituzionale e alla componente psichica:
Per l’omosessualità maschile Freud dà maggiore peso all’aspetto dell’inibizione dello sviluppo
psicosessuale: l’omosessuale, infatti, non avrebbe un rifiuto della donna nella sua totalità, ma
solo per la sua zona genitale, che viene vissuta come castrante. Ricercando la relazione con un
altro uomo, l’omosessuale cerca rassicurazioni riguardo l’esistenza del pene per difendersi dalle
fantasie di castrazione.
Per l’omosessualità femminile, Freud, rispetto a quella maschile, considera più preponderante
un fattore costituzionale che predispone congenitamente a una maggiore vulnerabilità di fronte
alla delusione paterna, per cui alla disillusione segue una regressione al precedente complesso di
mascolinità.
L’eclettismo teorico di Freud, comunque, lo ha portato a formulare varie ipotesi sull’eziologia
dell’omosessualità, che possono essere così riassunte:
- Una scelta oggettuale narcisistica, per cui a causa dell’intensa identificazione con la madre, e
per preservare questa relazione, il bambino sceglie se stesso come oggetto d’amore e ricercherà
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giovani uomini simili a sé perché lo amino allo stesso modo in cui lo ha amato la madre (Freud,
1905).
- Una forte fissazione alla figura della madre e la successiva identificazione con lei,
conseguente anche all’assenza di una figura paterna forte (Freud, 1910).
- Mancata risoluzione del Complesso di Edipo, per cui l’omosessualità sarebbe il risultato di
un’eccessiva angoscia di castrazione (Freud, 1920).
- Un complesso edipico negativo, per cui la ragazza desidera il padre e vuole avere un figlio da
lui, ma è delusa dalla gravidanza della madre. Per questa ragione, volta le spalle al padre,
rinuncia alla propria femminilità e sceglie la madre come oggetto d’amore (Freud, 1920).
Questo stesso atteggiamento eclettico, critico e, in fondo, intellettualmente onesto, espone
Freud all’antipatica pratica del saccheggio teorico: con qualche forzatura qui e lì, è possibile
mettere il padre della psicanalisi al servizio ora delle teorie riparative come fa Nicolosi (1991)
ora al servizio di scritti “pro-gay”, come fa McWilliams (1996).
Quello che in realtà, io credo si possa dire di Freud è che la sua posizione resta alquanto
ambivalente, ma per un uomo del suo tempo, straordinariamente umana.
Già nel 1905 (Freud, 1905), sosteneva che l’inversione non faceva necessariamente parte di un
complesso quadro patologico, ma poteva trovarsi in persone che «altrimenti non rivelano gravi
deviazioni dalla norma»(Freud, 1905). Nella famosa “Lettera a una madre americana” (Jones,
1953), Freud risponde a una signora che gli chiedeva se la psicanalisi avrebbe potuto cambiare
l’orientamento del figlio e scrive:
«L’omosessualità non è certo un vantaggio, ma non è nulla di vergognoso, non è un vizio, né una
degradazione, e non può essere classificata come malattia: noi la consideriamo una variante
della funzione sessuale causata da un certo arresto dello sviluppo sessuale ».
Freud era anche pessimista (o meglio realista) riguardo la possibilità di cambiare l’orientamento
sessuale di un individuo, in quanto questo processo aveva le stesse probabilità di riuscita del suo
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opposto e, comunque, riteneva che tale impresa non riguardasse gli obiettivi della psicanalisi
(Freud, 1920).
SACCHEGGIANDO FREUD: Molte teorie che si rifanno alla psicanalisi basano le loro riflessioni sul
medesimo punto di partenza: la paura/fobia per l’organo del sesso opposto. I maschi temono la
castrazione della “vagina dentata” (Ovesey, 1965; Fenichel, 1945), le donne la violazione del
proprio corpo da parte del pene (Fenichel, 1945). Nel filone post-freudiano si innestano alcuni
autori che rifiutano la bisessualità costitutiva di Freud e spingono all’eccesso la visione
patologica dell’omosessualità, che viene interpretata come una condizione regressiva che può
essere in molti casa curata.
GLI ANNI ’50 - E POI ARRIVO’ IL DSM: Il DSM è un manuale descrittivo, che ha varie versioni e ha
subito varie revisioni (è prossima l’uscita del DSM-V), utile per la ricerca, perché ha creato un
linguaggio comune e utile al sistema sanitario americano e alle sue assicurazioni...
Ecco come nelle varie edizioni del DSM è stata definita l’omosessualità:
DSM-I (1952): disturbo sociopatico della personalità, in quanto presupponeva la volontà
dell’omosessuale di opporsi alla società e alle tradizioni morali.
DSM-II (1968): deviazione sessuale, insieme alle perversioni (pedofilia, necrofilia, feticismo,
vouyerismo, travestitismo, transessualismo).
DSM-III (1974): non è più una patologia, ma resta contemplata l’omosessualità “egodistonica”,
cioè quella «non in armonia con la struttura della psiche».
DSM-III (Revisione del 1987): l’omosessualità egodistonica viene derubricata e si parla soltanto
di un disturbo legato all’interiorizzazione dell’ostilità sociale.
DSM-IV (1994): la situazione resta quella dell’edizione precedente.
La banale elencazione, però, non rende affatto l’idea di quanto questo processo sia stato irto di
conflitti e di come, tuttora, il modo in cui è avvenuta questa fuoriuscita dalla “patologia
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ufficiale” sia origine di polemiche, soprattutto da parte di chi questa fuoriuscita non l’ha proprio
digerita.
L’obiezione fondamentale posta di fronte all’eliminazione dell’omosessualità dal DSM, infatti,
riguarda il modo in cui essa è avvenuta: una votazione. E’ scandaloso, sarà davvero per la
pressione della lobby-gay all’interno dell’APA che l’omosessualità è stata esclusa dalla
patologia!
Oppure no?
Studi che mostravano che l’omosessualità non funziona in modi peculiarmente patologici rispetto
alla eterosessualità risalgono a ben prima dell’affermazione dei movimenti a favore del
riconoscimento dei diritti omosessuali negli Stati Uniti.
E’ del 1957, infatti, lo studio di Evelyn Hooker.
A gruppi di soggetti omosessuali ed eterosessuali fu somministrata una batteria di test proiettivi,
per stabilire se ci fossero nel profondo del funzionamento psichico tracce di tutte le
drammatiche vicissitudini psichiche che erano state fin qui teorizzate per l’omosessualità.
L’insieme dei protocolli fu sottoposto a un gruppo di esperti, tenuto all’oscuro dell’orientamento
sessuale del compilatore. Gli esperti non seppero distinguere i protocolli compilati dai soggetti
omosessuali da quelli eterosessuali.
Hooker poté così concludere che l’omosessualità, così come l’eterosessualità, non è una
condizione omogenea e, inoltre, non è intrinsecamente legata alla psicopatologia (Hooker,
1957). Sono all’incirca degli stessi anni le ricerche della scuola sessuologia americana, che
contribuirono anch’esse alla definizione dell’omosessualità come variante non-patologica della
sessualità umana (Kinsey, 1948, 1953; Master e Johnson, 1979).
Attraverso le sue interviste, Kinsey poté stimare che il 37% della popolazione maschile e il 13% di
quella femminile aveva avuto esperienze omosessuali durante il proprio arco di vita. Questa
percentuali lo convinsero che ormai non era più possibile considerare l’omosessualità un
fenomeno contro-natura e pure che era necessario uscire dalla ristretta dicotomia etero-omo e
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arrivò a ipotizzare un continuum che da un “assoluto grado” di eterosessualità, attraverso vari
livelli intermedi, arriva a un “assoluto grado di omosessualità”.
Le ricerche di Master e Johnson (1979), invece, mostrarono che il funzionamento e la risposta
sessuale di omosessuali ed eterosessuali erano identici e che quindi non c’era alcuna differenza
nel modo in cui all’interno di questi due orientamenti possono svilupparsi disfunzioni sessuali.
A questi studi ne seguirono altri che hanno confermato, su larghi campioni e attraverso vari
strumenti, fra cui il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI), il 16 Personality Factor
Questionnaire (16PF), l’Eisenk Personality Inventory (EPI), che l’incidenza di disturbi psicologici
e psichiatrici nella popolazione omosessuale rispetto a quella eterosessuale era praticamente
identica.
Marmor (1973) sostiene che la costellazione familiare fino a quel momento accusata di essere la
causa principale alla base dell’omosessualità, in realtà non è affatto predittiva
dell’orientamento sessuale del figlio, in quanto essa può determinare tanto l’omosessualità
quanto l’eterosessualità.
Queste ricerche permettono, ormai, il rovesciamento dell’assetto mantenuto fino a quel
momento: l’eterosessualità non è più normativa e ora ad essere messo in discussione è proprio
il punto di osservazione da cui si valuta l’omosessualità, arrivando così a rintracciare certe
curiose interpretazioni circolari, per cui, ad esempio, l’omosessualità è patologica perché si
sviluppa all’interno di relazioni familiari patologiche, le quali, però, sono patologiche proprio
perché generano l’omosessualità dei figli (Bell e Weinberg, 1978).
Quando, nel dicembre del 1973, i tredici componenti dell’APA decisero di rimuovere
l’omosessualità egosintonica dal DSM, in quanto
«l’omosessualità in sé non implica più un deterioramento nel giudizio, nell’adattamento, nel
valore o nelle generali abilità sociali o motivazionali di un individuo» alle spalle avevano
qualcosa di un po’ più serio e concreto di una presunta lobby gay. E chi critica il modo in cui fu
definitivamente sancita la decisione, dovrebbe ricordare chi furono i due famosi psicanalisti che
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proposero l’inusuale forma del referendum: Charles Socarides e Irving Bieber, due accesi
sostenitori della visione patologica dell’omosessualità. Il 55% degli iscritti all’APA si pronunciò a
favore della commissione e nel DSM-III del 1974 l’unica “versione” dell’omosessualità a essere
considerata patologica è quella “egodistonica”, che includeva due criteri diagnostici:
- L’individuo lamenta che il suo eccitamento eterosessuale è persistentemente assente e ciò
interferisce con il suo desiderio di iniziare o mantenere relazioni eterosessuali.
- Esiste una consistente configurazione di eccitamento omosessuale che l’individuo
esplicitamente definisce come indesiderata e come persistente fonte di stress.
Tredici anni dopo, nella revisione DSM-III-R viene eliminata anche questa categoria di
omosessualità, in quanto
«tale categoria diagnostica poteva far pensare all’omosessualità come a qualcosa di patologico
in sé»
e questa posizione è rimasta invariata nel DSM-IV del 1994.
DAL MODELLO PATOLOGICO AL MODELLO AFFERMATIVO: Dopo la “de-patologizzazione”
dell’omosessualità, molti psicologi cominciarono a considerare piuttosto inutile interrogarsi sulle
presunte cause e molto più utile dedicarsi alle tematiche della vita gay e lesbica. L’interesse ora
è concentrato non più sulla presunta origine della pulsione omosessuale, ma sulla qualità delle
relazioni che le persone instaurano.
Isay (1989) considera l’omosessualità costituzionale allo stesso modo dell’eterosessualità; quello
su cui l’ambiente può davvero influire è l’espressione della sessualità, non l’orientamento
sessuale. Ciò che accade è che il bambino prova un’attrazione erotica per il padre e per essere
ricambiato cerca di essere più simile alla madre, che è amata dal padre: questa identificazione
può protrarsi fino all’età adulta ed essere alla base dell’omosessualità maschile e attivare una
sorta di circolo vizioso per cui da una parte la società etichetta l’omosessuale come poco virile,
influenzando quindi la sua autopercezione e l’omosessuale stesso, in funzione della sua
identificazione materna, è, effettivamente, meno aggressivo e più sensibile. A questo vissuto di
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“diversità-estraneità” può aggiungersi la reazione del padre che, accorgendosi delle richieste del
figlio, può allontanarlo: da qui, secondo Isay, nascono molti dei racconti di omosessuali che
riferiscono di padri ostili, freddi e distaccati.
Roughton (2001, 2002a) sottolinea come sia doveroso affrontare la psicopatologia di un paziente
e la sua omosessualità come due dimensioni assolutamente indipendenti, ponendo semmai
attenzione al senso di diversità e omofobia che il soggetto può avere interiorizzato e che
incidono sulla qualità della su salute psichica.
Il modello affermativo, quindi, ribalta lo status degli esiti dello sviluppo psicosessuale: elimina la
dicotomia fra subalterno e normativo , tra naturale e innaturale e propone un modello che ha
come risultato soluzioni diversificate, con percorsi e orientamenti alternativi. Non è nemmeno
più possibile palare di una omosessualità, così come non è possibile parlare di una
eterosessualità: la popolazione gay-lesbica raccoglie un insieme eterogeneo di persone diverse
per età, classe sociale, famiglie di provenienza, orientamenti politici, stili di vita, percorsi di
vita, ecc…
Come detto, varie ricerche nel corso del tempo hanno dimostrato che non ci sono sostanziali
differenze nell’incidenza psicopatologica negli omosessuali; quello che comincia, adesso, a
essere riconosciuto è l’effetto che può avere sugli individui il clima di riprovazione sociale, che
può effettivamente portare allo sviluppo di problematiche di carattere psicologico. Parin (1985)
sostiene che i gay possono essere paragonati ad altri gruppi oppressi, come gli ebrei, in quanto
la discriminazione può portare agli stessi effetti psicologici: i disturbi psicologici che gli
omosessuali possono eventualmente manifestare, non appartengono esclusivamente alla loro
struttura di personalità, ma possono piuttosto essere il risultato dello svantaggio sociale. Meyer
(1995) considera la condizione di gay e lesbiche più invalidante rispetto a quella vissuta da altre
minoranze (razziali, etniche, religiose, ecc…), in quanto gli omosessuali, vivendo spesso in
condizioni di invisibilità, non possono usufruire delle strategie difensive cui possono accedere le
minoranze di altri gruppi per far fronte allo “stress da minoranza”, come trovare supporto
sociale in famiglia.
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Per questi motivi, la psicoterapia con gay e lesbiche non ha l’obiettivo di modificare
l’orientamento sessuale, ma piuttosto di integrare le varie componenti della sessualità per
facilitare l’acquisizione di strumenti per fronteggiare al meglio il pregiudizio esterno e quello
interno (Del Favero e Palomba, 1996; Montano, 1997).
Nel 2000, l’APA si è espressa a favore del riconoscimento delle unioni civili e specifica come
questa posizione non abbia niente di politico, ma riguardi un intervento doveroso per la tutela
della salute psichica degli omosessuali, che, come qualunque altro cittadino, devono poter
beneficiare dei medesimi diritti e dei medesimi vantaggi cognitivo-affettivi derivanti dalla
stabilità e dal riconoscimento delle relazioni omosessuali.
E’ il Nuovo Millennio, ma finalmente un vero intervento per la salute psichica!
Per approfondire
Freud S., (1905) <<Tre saggi sulla teoria sessuale. La vita sessuale>>, tr. it. in Opere,
Boringhieri, Torino, 1970, vol. 4
Freud S., (1920) <<Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile>>, tr. it. in Opere, Bollati
Boringhieri, Torino, 1977, vol. 9
Freud S., (1921) <<Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, nella paranoia e
nell’omosessualità>>, tr. it. in Opere, Boringhieri, Torino, 1977, vol. 9
Freud S., (1932) <<Introduzione alla psicanalisi (nuova serie di lezioni)>>, tr. it. in Opere,
Boringhieri, Torino, 1979, vol.11
Isay R.A., (1989) <<Essere omosessuali. Omosessualità maschile e sviluppo psichico>>, Milano,
Raffaello Cortina, 1996