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Il turbante azzurro del dottor Singh

                                    di Nicola Procaccini


Un turbante azzurro fa bella mostra di sé nello speciale del Time sui cento personaggi in
grado di cambiare il mondo: avvolge morbidamente la testa del Premier Indiano Singh,
collocato nella sezione “Leaders e rivoluzionari” in compagnia dei vari Bush, Al Zarqawi,
Ratzinger, Sharon, Kim Jong II, e pochi altri..
Manmohan Singh è una via di mezzo tra Ronal Reagan per la sua feroce politica liberista,
Forrest Gump per la disarmante serenità al cospetto dei grandi della terra, il ministro
Castelli per l’assoluta estraneità alla maggior parte degli argomenti trattati.
Capo del governo della più grande democrazia del mondo da neanche un anno, Singh è già
assurto a statista di livello storico per alcuni meriti oggettivi ma anche e soprattutto per una
campagna internazionale di beatificazione poco comprensibile.
Si tratta di un personaggio certamente singolare: professore universitario, 73 anni, tutto
dedito all’insegnamento fino al 1991 quando venne chiamato a guidare il Ministero delle
Finanze dal premier Narasimha Rao (centro-sinistra) in un periodo molto difficile per
l’economia della nazione. In questo ruolo Singh è divenuto l’artefice di profonde riforme
finanziarie destinate a cambiare radicalmente il sistema economico indiano.
Diverse sono la frasi celebri attribuite a Singh in occasione della promulgazione della legge
finanziaria nel 1994: “Dobbiamo trasformare questa crisi nell’occasione per realizzare una
nuova India”. E conseguentemente: “Certo, potremmo fare come sempre: tirare la cinghia,
e l’abbiamo già fatto, abbiamo tirato e tirato, ma insistere su questa strada vorrebbe dire
ancora più miseria e disoccupazione. Io dico c’è un’altra strada! Una riforma strutturale
del nostro sistema economico, lo sprigionamento degli spiriti innovativi, imprenditoriali
della nostra nazione!” Sostanzialmente una liberalizzazione totale dei mercati e lo
smantellamento del colossale stato assistenzialista in vigore. Singh concluse il suo
intervento citando Victor Hugo: “Nessuna forza al mondo può fermare un’idea di cui è
giunto il tempo!”. Un programma economico, quello di Singh, giudicato troppo drastico e
violento persino dal partito di centro-destra, il Bharatiya Janata, destinato, non a caso, a
governare l’India ininterrottamente dal 1998 al 2004.
Sono molte le cose che sorprendono di Singh, per cominciare, che il Premier della più
grande democrazia del mondo non sia mai stato eletto da nessuno. A vincere le elezioni,
tenutesi ad aprile dello scorso anno, è stato, tanto per cambiare, un’autorevole membro della
dinastia dei Gandhi: l’italianissima Sonia Gandhi, alla guida del partito di centro-sinistra,
l’Indian National Congress.
Sonia, nonostante lo straordinario plebiscito personale ottenuto, ha rifiutato l’incarico di
Premier naturalmente offertole dal capo dello Stato ed ha indicato al proprio posto il mite
dottor Singh.
La sorpresa in India c’è stata, ma non per le opinioni politiche del neo Premier, quanto,
piuttosto, perché in un Paese con più dell’80% della popolazione induista veniva indicato
per la prima volta un Capo del Governo sikh, che si andava ad aggiungere ad un Capo dello
Stato musulmano e ad un leader cristiano del partito di maggioranza.
Singh, appena nominato, non si è dedicato solo al proprio programma economico, rimasto
sostanzialmente immutato rispetto al 1994, ma si è impegnato alacremente in politica estera
riscuotendo degli innegabili ed inaspettati successi. A pochi mesi dal serio rischio di uno
scontro militare (e nucleare!) con il Pakistan, nemico storico, il premier indiano ha
dapprima recuperato un rapporto personale importante con il Presidente Musharraf, alla
maniera di Berlusconi, invitandolo in India ad assistere ad una partita di cricket tra le due
nazionali. Successivamente, il 7 aprile scorso, Singh ha festeggiato con il collega pakistano
la riapertura delle strade e dei collegamenti pubblici tra i due Paesi attraverso la zona
contesa del Kashmir. Per la cronaca: la partita di cricket, vinta dal Pakistan, è stata sospesa
più volte per gli incidenti scatenati dai tifosi indiani mentre i leaders delle due nazioni
conversavano amabilmente in tribuna sorseggiando del tè. Naturalmente Singh si è poi
recato a Roma, con tutti i grandi della terra, per tributare omaggio a Giovanni Paolo II in
occasione dei Funerali di Piazza San Pietro. Ed infine, martedì scorso, il Premier indiano ha
accolto l’altro nemico storico il Premier cinese Wen Jiabao, ristabilendo pienamente i
rapporti diplomatici, e soprattutto creando ex novo un solido asse tra i rispettivi sistemi
economici.
Eppure, ciò che consacra Singh come uno dei fari della politica internazionale, per quasi
tutti gli analisti mondiali, è la straordinaria crescita dell’economia indiana. Non che sia
falso, intendiamoci, la tigre indiana ruggisce davvero sotto tutti i parametri di riferimento:
disoccupazione, crescita e diffusione dei redditi, espansione della produzione nazionale,
calo della disoccupazione. Appare davvero arduo, però, attribuirne il merito a chi è in carica
da appena dieci mesi, piuttosto che al leader del centro-destra Vajpayee che ha guidato il
Paese dal 1998 al 2004. Recentemente Singh è divenuto su alcuni giornali inglesi,
nientemeno che l’artefice dell’“India shining”, una specie di “rinascimento indiano”.
Acclamato e riverito dai mass media di tutto il globo, Singh ha ben compreso, in appena
dieci mesi di governo, che la popolarità ed il riconoscimento internazionale viaggiano su
canali e sentimenti piuttosto semplici: un po’ di audacia, un po’ fortuna, il fascino esotico di
un turbante azzurro. E la furbizia di schierarsi sempre dalla parte “giusta” della politica nel
mondo.



                    Pubblicato su L’Indipendente del 4 maggio 2005

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  • 2. riscuotendo degli innegabili ed inaspettati successi. A pochi mesi dal serio rischio di uno scontro militare (e nucleare!) con il Pakistan, nemico storico, il premier indiano ha dapprima recuperato un rapporto personale importante con il Presidente Musharraf, alla maniera di Berlusconi, invitandolo in India ad assistere ad una partita di cricket tra le due nazionali. Successivamente, il 7 aprile scorso, Singh ha festeggiato con il collega pakistano la riapertura delle strade e dei collegamenti pubblici tra i due Paesi attraverso la zona contesa del Kashmir. Per la cronaca: la partita di cricket, vinta dal Pakistan, è stata sospesa più volte per gli incidenti scatenati dai tifosi indiani mentre i leaders delle due nazioni conversavano amabilmente in tribuna sorseggiando del tè. Naturalmente Singh si è poi recato a Roma, con tutti i grandi della terra, per tributare omaggio a Giovanni Paolo II in occasione dei Funerali di Piazza San Pietro. Ed infine, martedì scorso, il Premier indiano ha accolto l’altro nemico storico il Premier cinese Wen Jiabao, ristabilendo pienamente i rapporti diplomatici, e soprattutto creando ex novo un solido asse tra i rispettivi sistemi economici. Eppure, ciò che consacra Singh come uno dei fari della politica internazionale, per quasi tutti gli analisti mondiali, è la straordinaria crescita dell’economia indiana. Non che sia falso, intendiamoci, la tigre indiana ruggisce davvero sotto tutti i parametri di riferimento: disoccupazione, crescita e diffusione dei redditi, espansione della produzione nazionale, calo della disoccupazione. Appare davvero arduo, però, attribuirne il merito a chi è in carica da appena dieci mesi, piuttosto che al leader del centro-destra Vajpayee che ha guidato il Paese dal 1998 al 2004. Recentemente Singh è divenuto su alcuni giornali inglesi, nientemeno che l’artefice dell’“India shining”, una specie di “rinascimento indiano”. Acclamato e riverito dai mass media di tutto il globo, Singh ha ben compreso, in appena dieci mesi di governo, che la popolarità ed il riconoscimento internazionale viaggiano su canali e sentimenti piuttosto semplici: un po’ di audacia, un po’ fortuna, il fascino esotico di un turbante azzurro. E la furbizia di schierarsi sempre dalla parte “giusta” della politica nel mondo. Pubblicato su L’Indipendente del 4 maggio 2005