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visionario
Carlo Petrini, per
gli amici “Carlin”,
ha studiato sociologia
ma sin dai tempi
dell’università
si è dedicato
con passione
all’enogastronomia.
Fondatore di Slow Food
nel luglio 1986,
ha ideato grandi eventi
come Cheesee,
Salone del Gusto
e Terra Madre
Riscrivere
la modernità
luglio 201666 www.businesspeople.it
La qualità
delVIvere
CARLO PETRINI
Punti di vista
rifiuto del protezionismo e libero mercato,
due feticci della nostra società,
non sono applicati nella loro essenza
A 67 anni lo chiamano ancora “Car-
lin”. Da tre decenni si batte per Slow
Food, eppure non ha perso un bricio-
lo dell’energia degli inizi. Partendo
dalle sue Langhe, da Pollenzo (Bra,
provincia di Cuneo), ha portato nel
mondo il culto delle tradizioni an-
che attraverso eventi di rilievo inter-
nazionale come Terra Madre Salone
del Gusto che invaderà i luoghi più
belli di Torino dal 22 al 26 settembre
in un’edizione speciale che celebra
il 30esimo anniversario dell’associa-
zione, una storia raccontata nel libro
Buono, pulito, giusto (Giunti edito-
re). Il titolo riprende lo slogan di Slow
Food e del suo fondatore che – fresco
di nomina ad Ambasciatore speciale
della Fao per il progetto Fame Zero –
rilancia la battaglia per la difesa del-
la biodiversità agroalimentare attra-
verso il progetto dell’Arca del gusto:
«Non posso sopportare che ci sia una
rincorsa a prodotti che costano poco,
che mortificano il lavoro dei contadi-
ni e, allo stesso tempo, che distruggo-
no l’ambiente».
Quanto conta il buon cibo, il man-
giare bene nella qualità della vita?
L’alimentazione ha sempre avu-
to un’importanza vitale per l’uomo.
Le nostre memorie più intime spesso
sono collegate a momenti di condivi-
sione della tavola. “Mangiare bene”
non è perciò un concetto di tipo or-
ganolettico, ma riguarda la convivia-
lità e di conseguenza la serenità e la
felicità delle persone. Ridurre il cibo
di qualità solo a una dimensione “lu-
dica”, dunque, è riduttivo: anche le
persone più semplici hanno nel desco
un elemento che segna i tempi della
nostra esistenza. Se ci immergiamo in
questa visione più ampia, allora non
c’è ombra di dubbio che il buon cibo
sia anche buona vita.
Da dove nascono invece un buon
cibo, un buon vino, una materia pri-
ma “buona, pulita e giusta”?
Ognuno di noi si è costruito nel cor-
so della vita una dimensione loca-
le con il cibo, ha stretto legami con
la sua famiglia e la sua comunità e
questi rapporti hanno avuto un valo-
re anche formativo per la sua identi-
tà. La cosa più bella allora a tavola è
quella di scoprire la diversità, instau-
rare un rapporto di scambio che di-
venta molto profondo e personale se
guardiamo al cibo come un’espres-
sione culturale. E allora il diverti-
mento vero è scoprire le altre cultu-
re, guardare gli altri come si nutrono,
spinti dalla passione, dalla curiosità
o da un interesse “scientifico”.
Le davano dell’utopista trent’anni fa,
oggi magari qualcuno la definirebbe
una Cassandra. Dopo trent’anni a che
punto crede che sia la battaglia per
Slow Food? Se da una parte la globa-
lizzazione è una realtà, dall’altra si
parla sempre più di filiera corta, km
0, farmer’s market…
Una parte della nostra filosofia è cam-
biata, perché sono mutate le condi-
zioni della società, gli approcci, le ge-
nerazioni, i flussi di integrazione. L’at-
tenzione verso la produzione è sicura-
mente una spinta positiva, ma non di-
mentichiamo che, soprattutto nel no-
stro Paese, la condizione dell’agricol-
tura non è mai stata così problematica
come in questo momento. Il prezzo
del grano è fermo a trent’anni fa, le
stalle che chiudono perché non pos-
sono vendere il latte a più di 22 cen-
tesimi a litro. A fronte di questa ac-
cresciuta sensibilità, permane una si-
tuazione agricola estremamente com-
promessa.
Una delle sue ultime battaglie è con-
tro il Ttip, l’accordo transoceanico di
libero scambio tra Ue e Stati Uniti.
In generale, perché al mercato piace
che gli oggetti, e quindi anche i cibi,
siano sempre più uniformi? È colpa
nostra che siamo diventati incapaci
di riconoscere la qualità e apprezza-
re la diversità?
Ci sono alcuni feticci che sono diven-
tati ormai indiscutibili nella cultura
di oggi. Il primo è il libero mercato, il
secondo è il rifiuto del protezionismo.
Sarebbe bello vedere queste parole
applicate nella loro essenza, perché
così in realtà non è. Il mercato, infatti,
non è “libero”, perché i più forti do-
minano sui più deboli che andrebbero
invece tutelati. Per quanto riguarda il
protezionismo, può andare bene per
altre merci, magari nella manifattura,
ma non è accettabile in campo ali-
Sostituire umiltà e compassione ai concetti di produttività
e competitività: è l’operazione“stile Slow Food” che,
nel 30esimo anniversario della sua associazione,
l’eco-gastronomo piemontese propone per riaccendere
la scintilla della nostra società.Anche a costo
di stravolgere il totem della meritocrazia: «chi l’ha detto
che il più bravo è quello che guadagna di più?»
Di Francesco Perugini - foto di alberto peroli
luglio 201667 www.businesspeople.it
mentare. Perché i cibi nascono su un
territorio e lì devono essere promossi,
sostenuti, commercializzati. Un cibo
non può trovarsi sotto lo schiaffo di
economie dove la manodopera costa
poco e non esistono regole igieniche,
di salvaguardia e di tutela della salu-
te come quelle attualmente in vigore
nell’Unione europea. Dire no al Ttip
non è, dunque, una forma di prote-
zionismo, ma di equità. Se, per esem-
pio, facciamo una legge per vietare ai
nostri produttori di usare gli ormoni
nell’allevamento, non possiamo poi
permettere che in osseguio al libero
mercato arrivi della carne “pompata”
dagli Stati Uniti: sarebbe un’iniqui-
tà enorme per i nostri allevatori. E ag-
giungo: questa “sensibilità” nei con-
fronti delle richieste della grande in-
dustria e delle multinazionali non fa il
gioco nemmeno della piccola produ-
zione di qualità che negli Usa, guarda
caso, sta andando proprio verso il no-
stro modello. Tra un po’ di tempo, in-
somma, saranno gli americani stessi
a non accettare questo tipo di accor-
do perché non rispetta nemmeno gli
standard qualitativi richiesti da milio-
ni di consumatori anche Oltreoceano.
Nemmeno l’altra parte del suo di-
scorso, quella sulla “slow life” sem-
RICONOSCIMENTI
Nel 2008 Carlo Petrini
è stato inserito dal
quotidiano inglese The
Guardian nella lista delle
50 persone che potrebbero
salvare il pianeta.
Lo scorso maggio è stato
nominato Ambasciatore
Speciale della Fao in
Europa per il progetto
Fame Zero
luglio 201668 www.businesspeople.it
Punti di vista
tutto a una concezione umanistica di-
stintiva. Sono preoccupato che pre-
valga la bruttezza in tanti aspetti del-
la nostra vita.
E allora cerchiamo qualche appi-
glio per essere positivi. Secondo
Coldiretti, sono circa 20 milioni gli
italiani che si dedicano alla coltiva-
zione dell’orto, il 25% dei quali lo fa
per avere più cibo sano. Almeno que-
sto sarà un bel segnale di consapevo-
lezza…
L’elemento più importante è il ritor-
no alla terra, non dimentichiamo che
il termine umile deriva da “humus”.
Sono tante le persone che in questo
Paese lavorano a contatto con la na-
tura, spesso sono giovani, ma que-
sta storia viene raccontata di rado. A
oscurarla è il business duro che viene
sempre considerato migliore e più au-
torevole. I business lenti, invece, la-
sciano sedimenti e donano il sorri-
so a chi li percorre, sono poco perfor-
manti e per questo vengono ignorati,
ma tanti risultati “soft” alla fine dura-
no più di chi fa grandi affari in fretta e
dopo dieci anni è già sparito.
Parlava dell’amore dei giovani per la
natura: i cosiddetti Millennials sono
cresciuti con i fast food, ma sono
consumatori attenti all’ecososteni-
bilità di quanto comprano, scelgono
verdure fresche con l’ecommerce e
danno vita ad aziende green. Il futu-
ro non è poi così negativo allora?
Vedo emergere una generazione
straordinaria, la prima a non esse-
re nata nella contrapposizione. Nella
piccola università di Slow Food sono
a contatto quotidianamente con i ra-
gazzi, per il 70% provenienti da 70
Paesi del mondo. Vedere la passio-
ne con cui affrontano le nostre tema-
tiche è un fenomeno che non dipen-
de solo dai docenti, bensì dalla qua-
lità di questi studenti. Stiamo ripen-
sando proprio in questi mesi il nostro
percorso accademico e l’impegno più
grande è trovare il modo di render-
li protagonisti. In fondo è sempre sta-
to così, i giovani anticipano sempre
le tendenze. E questo dimostra anche
quanto non fosse reazionario, ben-
sì modernissimo, il nostro pensiero
trent’anni fa.
I futurologi vedono nei piatti che ver-
ranno cibi artificiali, insetti da man-
giare come proteine e altri scenari un
po’ apocalittici. Quale immagina sarà
il ruolo del “cibo del domani”?
Il mangiare rimarrà sempre quello del
territorio, al quale ciascuno di noi è
collegato da un cordone ombelica-
le invisibile. Ho visitato il Messico e
alcuni Paesi africani dove si mangia-
no gli insetti, ma questo non vuol dire
che debba mangiarli anche io. Così
come non è detto che a tutti debba
piacere il bruss, un formaggio che si fa
nelle mie Langhe ed è il frutto di una
lunga stagionatura: prima diventa ver-
de, poi gli si aggiunge un po’ di rhum
e la crema assume un odore che ricor-
da vagamente i piedi sporchi. Non è
quello l’alimento universale del futu-
ro, ma spero resti un cibo delle Lan-
ghe. Il cibo si evolve lentamente come
il linguaggio, come la vita: guai a im-
maginare il futuro totalmente separato
dal presente. In fondo, negli anni 70
eravamo convinti che oggi avremmo
mangiato con le pillole…
bra essersi affermata in questi anni.
Siamo ancora più stressati, stanchi,
frustrati: è colpa dello stile di vita
contemporaneo, della crisi o solo di
noi stessi?
L’ebrezza della velocità è sem-
pre allettante e le nuove tecnologie
ci danno stimoli, anche validi a li-
vello sociale talvolta, ma che in al-
tri casi ci creano solo angoscia. Pen-
so, per esempio, a quello che scrivo-
no i giovani e i meno giovani sui so-
cial network: cattiverie gratuite, tan-
to odio. Per questo a livello economi-
co e sociale bisogna mettere in pie-
di un’operazione in stile Slow Food
e cioè rimettere in pista certi valo-
ri come la diversità, la tradizione, la
saggezza contadina. Quando lo fa-
cemmo noi nell’alimentazione tut-
ti ci diedero dei conservatori, che per
me resta un grande complimento. Chi
ci accusava di passatismo non capiva
che in quella spinta al recupero del
positivo, poteva esserci il germe di
una modernità rivisitata. Trasportiamo
questo esempio nella vita quotidiana:
che cosa succederebbe se al posto di
efficienza, meritocrazia, produttività
e competitività, tornassimo a parlare
di umiltà, compassione, lealtà e fidu-
cia? Ci accorgeremmo che questi va-
lori nella modernità potrebbero avere
ancora un potere rivoluzionario. Chi
l’ha detto che la meritocrazia è il se-
greto della felicità? Quali sono i para-
metri? E il più meritevole è solo chi
guadagna di più?
Il suo messaggio è stato sempre quel-
lo della narrazione, un tipo di co-
municazione che oggi spopola sotto
il termine di storytelling. Come rac-
conterebbe oggi il nostro Paese al-
l’estero?
Non c’è abbastanza impegno da par-
te di tutti i cittadini per difendere la
nostra ricchezza più grande, che è
la bellezza. Anzi, c’è una corsa a di-
struggerla. Perché il bello italiano ha
dato vita al Rinascimento, ma soprat-
Nessuna nostalgia
Expo 2015 ha focalizzato l’attenzione del tema sul cibo. Alla vi-
gilia della manifestazione, Petrini definì l’evento un «circo Bar-
num» ma dopo il successo di pubblico avrà cambiato idea?
«Che la sensibilità e la cultura alimentare siano state piegate al
circo mediatico durante l’Esposizione è un dato di fatto», sotto-
linea ancora il papà di Slow Food.«Allo stesso tempo,devo am-
mettere che Expo 2015 è stato un palcoscenico dove si sono
potute portare avanti alcune tematiche. Ora che l’evento è fi-
nito, però, il dibat-
tito non è cambia-
to, perché durante
quei sei mesi è ri-
masto dentro a un
evento fortemente
locale e milanese.
Parlare di un’Italia
“dopo Expo”è dav-
vero un’esaspera-
zione».
non c’è abbastanza impegno
nella difesa della bellezza.
anzi c’è una corsa a distruggerla
luglio 201669 www.businesspeople.it
P
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Petrini

  • 1. visionario Carlo Petrini, per gli amici “Carlin”, ha studiato sociologia ma sin dai tempi dell’università si è dedicato con passione all’enogastronomia. Fondatore di Slow Food nel luglio 1986, ha ideato grandi eventi come Cheesee, Salone del Gusto e Terra Madre Riscrivere la modernità luglio 201666 www.businesspeople.it La qualità delVIvere CARLO PETRINI Punti di vista
  • 2. rifiuto del protezionismo e libero mercato, due feticci della nostra società, non sono applicati nella loro essenza A 67 anni lo chiamano ancora “Car- lin”. Da tre decenni si batte per Slow Food, eppure non ha perso un bricio- lo dell’energia degli inizi. Partendo dalle sue Langhe, da Pollenzo (Bra, provincia di Cuneo), ha portato nel mondo il culto delle tradizioni an- che attraverso eventi di rilievo inter- nazionale come Terra Madre Salone del Gusto che invaderà i luoghi più belli di Torino dal 22 al 26 settembre in un’edizione speciale che celebra il 30esimo anniversario dell’associa- zione, una storia raccontata nel libro Buono, pulito, giusto (Giunti edito- re). Il titolo riprende lo slogan di Slow Food e del suo fondatore che – fresco di nomina ad Ambasciatore speciale della Fao per il progetto Fame Zero – rilancia la battaglia per la difesa del- la biodiversità agroalimentare attra- verso il progetto dell’Arca del gusto: «Non posso sopportare che ci sia una rincorsa a prodotti che costano poco, che mortificano il lavoro dei contadi- ni e, allo stesso tempo, che distruggo- no l’ambiente». Quanto conta il buon cibo, il man- giare bene nella qualità della vita? L’alimentazione ha sempre avu- to un’importanza vitale per l’uomo. Le nostre memorie più intime spesso sono collegate a momenti di condivi- sione della tavola. “Mangiare bene” non è perciò un concetto di tipo or- ganolettico, ma riguarda la convivia- lità e di conseguenza la serenità e la felicità delle persone. Ridurre il cibo di qualità solo a una dimensione “lu- dica”, dunque, è riduttivo: anche le persone più semplici hanno nel desco un elemento che segna i tempi della nostra esistenza. Se ci immergiamo in questa visione più ampia, allora non c’è ombra di dubbio che il buon cibo sia anche buona vita. Da dove nascono invece un buon cibo, un buon vino, una materia pri- ma “buona, pulita e giusta”? Ognuno di noi si è costruito nel cor- so della vita una dimensione loca- le con il cibo, ha stretto legami con la sua famiglia e la sua comunità e questi rapporti hanno avuto un valo- re anche formativo per la sua identi- tà. La cosa più bella allora a tavola è quella di scoprire la diversità, instau- rare un rapporto di scambio che di- venta molto profondo e personale se guardiamo al cibo come un’espres- sione culturale. E allora il diverti- mento vero è scoprire le altre cultu- re, guardare gli altri come si nutrono, spinti dalla passione, dalla curiosità o da un interesse “scientifico”. Le davano dell’utopista trent’anni fa, oggi magari qualcuno la definirebbe una Cassandra. Dopo trent’anni a che punto crede che sia la battaglia per Slow Food? Se da una parte la globa- lizzazione è una realtà, dall’altra si parla sempre più di filiera corta, km 0, farmer’s market… Una parte della nostra filosofia è cam- biata, perché sono mutate le condi- zioni della società, gli approcci, le ge- nerazioni, i flussi di integrazione. L’at- tenzione verso la produzione è sicura- mente una spinta positiva, ma non di- mentichiamo che, soprattutto nel no- stro Paese, la condizione dell’agricol- tura non è mai stata così problematica come in questo momento. Il prezzo del grano è fermo a trent’anni fa, le stalle che chiudono perché non pos- sono vendere il latte a più di 22 cen- tesimi a litro. A fronte di questa ac- cresciuta sensibilità, permane una si- tuazione agricola estremamente com- promessa. Una delle sue ultime battaglie è con- tro il Ttip, l’accordo transoceanico di libero scambio tra Ue e Stati Uniti. In generale, perché al mercato piace che gli oggetti, e quindi anche i cibi, siano sempre più uniformi? È colpa nostra che siamo diventati incapaci di riconoscere la qualità e apprezza- re la diversità? Ci sono alcuni feticci che sono diven- tati ormai indiscutibili nella cultura di oggi. Il primo è il libero mercato, il secondo è il rifiuto del protezionismo. Sarebbe bello vedere queste parole applicate nella loro essenza, perché così in realtà non è. Il mercato, infatti, non è “libero”, perché i più forti do- minano sui più deboli che andrebbero invece tutelati. Per quanto riguarda il protezionismo, può andare bene per altre merci, magari nella manifattura, ma non è accettabile in campo ali- Sostituire umiltà e compassione ai concetti di produttività e competitività: è l’operazione“stile Slow Food” che, nel 30esimo anniversario della sua associazione, l’eco-gastronomo piemontese propone per riaccendere la scintilla della nostra società.Anche a costo di stravolgere il totem della meritocrazia: «chi l’ha detto che il più bravo è quello che guadagna di più?» Di Francesco Perugini - foto di alberto peroli luglio 201667 www.businesspeople.it
  • 3. mentare. Perché i cibi nascono su un territorio e lì devono essere promossi, sostenuti, commercializzati. Un cibo non può trovarsi sotto lo schiaffo di economie dove la manodopera costa poco e non esistono regole igieniche, di salvaguardia e di tutela della salu- te come quelle attualmente in vigore nell’Unione europea. Dire no al Ttip non è, dunque, una forma di prote- zionismo, ma di equità. Se, per esem- pio, facciamo una legge per vietare ai nostri produttori di usare gli ormoni nell’allevamento, non possiamo poi permettere che in osseguio al libero mercato arrivi della carne “pompata” dagli Stati Uniti: sarebbe un’iniqui- tà enorme per i nostri allevatori. E ag- giungo: questa “sensibilità” nei con- fronti delle richieste della grande in- dustria e delle multinazionali non fa il gioco nemmeno della piccola produ- zione di qualità che negli Usa, guarda caso, sta andando proprio verso il no- stro modello. Tra un po’ di tempo, in- somma, saranno gli americani stessi a non accettare questo tipo di accor- do perché non rispetta nemmeno gli standard qualitativi richiesti da milio- ni di consumatori anche Oltreoceano. Nemmeno l’altra parte del suo di- scorso, quella sulla “slow life” sem- RICONOSCIMENTI Nel 2008 Carlo Petrini è stato inserito dal quotidiano inglese The Guardian nella lista delle 50 persone che potrebbero salvare il pianeta. Lo scorso maggio è stato nominato Ambasciatore Speciale della Fao in Europa per il progetto Fame Zero luglio 201668 www.businesspeople.it Punti di vista
  • 4. tutto a una concezione umanistica di- stintiva. Sono preoccupato che pre- valga la bruttezza in tanti aspetti del- la nostra vita. E allora cerchiamo qualche appi- glio per essere positivi. Secondo Coldiretti, sono circa 20 milioni gli italiani che si dedicano alla coltiva- zione dell’orto, il 25% dei quali lo fa per avere più cibo sano. Almeno que- sto sarà un bel segnale di consapevo- lezza… L’elemento più importante è il ritor- no alla terra, non dimentichiamo che il termine umile deriva da “humus”. Sono tante le persone che in questo Paese lavorano a contatto con la na- tura, spesso sono giovani, ma que- sta storia viene raccontata di rado. A oscurarla è il business duro che viene sempre considerato migliore e più au- torevole. I business lenti, invece, la- sciano sedimenti e donano il sorri- so a chi li percorre, sono poco perfor- manti e per questo vengono ignorati, ma tanti risultati “soft” alla fine dura- no più di chi fa grandi affari in fretta e dopo dieci anni è già sparito. Parlava dell’amore dei giovani per la natura: i cosiddetti Millennials sono cresciuti con i fast food, ma sono consumatori attenti all’ecososteni- bilità di quanto comprano, scelgono verdure fresche con l’ecommerce e danno vita ad aziende green. Il futu- ro non è poi così negativo allora? Vedo emergere una generazione straordinaria, la prima a non esse- re nata nella contrapposizione. Nella piccola università di Slow Food sono a contatto quotidianamente con i ra- gazzi, per il 70% provenienti da 70 Paesi del mondo. Vedere la passio- ne con cui affrontano le nostre tema- tiche è un fenomeno che non dipen- de solo dai docenti, bensì dalla qua- lità di questi studenti. Stiamo ripen- sando proprio in questi mesi il nostro percorso accademico e l’impegno più grande è trovare il modo di render- li protagonisti. In fondo è sempre sta- to così, i giovani anticipano sempre le tendenze. E questo dimostra anche quanto non fosse reazionario, ben- sì modernissimo, il nostro pensiero trent’anni fa. I futurologi vedono nei piatti che ver- ranno cibi artificiali, insetti da man- giare come proteine e altri scenari un po’ apocalittici. Quale immagina sarà il ruolo del “cibo del domani”? Il mangiare rimarrà sempre quello del territorio, al quale ciascuno di noi è collegato da un cordone ombelica- le invisibile. Ho visitato il Messico e alcuni Paesi africani dove si mangia- no gli insetti, ma questo non vuol dire che debba mangiarli anche io. Così come non è detto che a tutti debba piacere il bruss, un formaggio che si fa nelle mie Langhe ed è il frutto di una lunga stagionatura: prima diventa ver- de, poi gli si aggiunge un po’ di rhum e la crema assume un odore che ricor- da vagamente i piedi sporchi. Non è quello l’alimento universale del futu- ro, ma spero resti un cibo delle Lan- ghe. Il cibo si evolve lentamente come il linguaggio, come la vita: guai a im- maginare il futuro totalmente separato dal presente. In fondo, negli anni 70 eravamo convinti che oggi avremmo mangiato con le pillole… bra essersi affermata in questi anni. Siamo ancora più stressati, stanchi, frustrati: è colpa dello stile di vita contemporaneo, della crisi o solo di noi stessi? L’ebrezza della velocità è sem- pre allettante e le nuove tecnologie ci danno stimoli, anche validi a li- vello sociale talvolta, ma che in al- tri casi ci creano solo angoscia. Pen- so, per esempio, a quello che scrivo- no i giovani e i meno giovani sui so- cial network: cattiverie gratuite, tan- to odio. Per questo a livello economi- co e sociale bisogna mettere in pie- di un’operazione in stile Slow Food e cioè rimettere in pista certi valo- ri come la diversità, la tradizione, la saggezza contadina. Quando lo fa- cemmo noi nell’alimentazione tut- ti ci diedero dei conservatori, che per me resta un grande complimento. Chi ci accusava di passatismo non capiva che in quella spinta al recupero del positivo, poteva esserci il germe di una modernità rivisitata. Trasportiamo questo esempio nella vita quotidiana: che cosa succederebbe se al posto di efficienza, meritocrazia, produttività e competitività, tornassimo a parlare di umiltà, compassione, lealtà e fidu- cia? Ci accorgeremmo che questi va- lori nella modernità potrebbero avere ancora un potere rivoluzionario. Chi l’ha detto che la meritocrazia è il se- greto della felicità? Quali sono i para- metri? E il più meritevole è solo chi guadagna di più? Il suo messaggio è stato sempre quel- lo della narrazione, un tipo di co- municazione che oggi spopola sotto il termine di storytelling. Come rac- conterebbe oggi il nostro Paese al- l’estero? Non c’è abbastanza impegno da par- te di tutti i cittadini per difendere la nostra ricchezza più grande, che è la bellezza. Anzi, c’è una corsa a di- struggerla. Perché il bello italiano ha dato vita al Rinascimento, ma soprat- Nessuna nostalgia Expo 2015 ha focalizzato l’attenzione del tema sul cibo. Alla vi- gilia della manifestazione, Petrini definì l’evento un «circo Bar- num» ma dopo il successo di pubblico avrà cambiato idea? «Che la sensibilità e la cultura alimentare siano state piegate al circo mediatico durante l’Esposizione è un dato di fatto», sotto- linea ancora il papà di Slow Food.«Allo stesso tempo,devo am- mettere che Expo 2015 è stato un palcoscenico dove si sono potute portare avanti alcune tematiche. Ora che l’evento è fi- nito, però, il dibat- tito non è cambia- to, perché durante quei sei mesi è ri- masto dentro a un evento fortemente locale e milanese. Parlare di un’Italia “dopo Expo”è dav- vero un’esaspera- zione». non c’è abbastanza impegno nella difesa della bellezza. anzi c’è una corsa a distruggerla luglio 201669 www.businesspeople.it P ©gettyimages(1)