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Miti e leggende sull'alimentazione
In tutte le culture, il problema dell’alimentazione è stato sempre considerato di vitale
importanza.
Non a caso, nelle leggende e nei miti di tutti i popoli si trovano riferimenti alle piante o agli
animali ritenuti fondamentali per la sopravvivenza degli uomini.
Di seguito ne offriamo una documentazione, classificandoli per continenti.
Il titolo, invece, in modo scherzoso, mette in relazione un mito alimentare moderno e
propriamente occidentale, ancorché poco salutare secondo i canoni della dieta
mediterranea, con un luogo altro.
Buona lettura
http://maisong.jimdo.com/
IndiceIndiceIndiceIndice
• Asia
- Un chicco di riso (Birmania)
- Il compleanno di Miluotuo (Cina)
- Origine del riso (Corea)
- Non c'è nulla di più prezioso del riso (Vietnam)
- Le banane e lo spirito celeste (Filippine)
• Oceania
-Il pesce Luna (Australia)
• Africa
- Perché certi animali diventarono domestici
- Cacciatori ed agricoltori (Pigmei)
- La pioggia cade quando gracidano le rane (Bantu)
• America del Nord
- I capelli della vecchia
- La spiga (Indiani Wichita)
- Come il mais arrivò sulla terra (Sud Dakota)
• America Latina
- Le origini del mais bianco (El Salvador)
- Storia della donnola che aiutò gli uomini a trovare il mais
(Guatemala)
- La leggenda del guaranà (Brasile)
- Le origini del pomodoro (Perù)
- L'origine del mate (Paraguay)
• Europa
- L'utile dono di Atena alla Grecia
- Il mito di Demetra
- Il mito di Cerere
Lontanissimi e presenti: nessuno ci è estraneo.
Lella Siniscalco
Siamo tutti meravigliosamente diversi.
Anonimo
Asia
Un chicco di riso (Birmania)
Si dice che nei tempi passati vivesse in uno
di questi villaggi una povera vedova di nome
Gahtishu, rimasta sola con una giovane
figlia. La donna tirava avanti grazie a un
campicello sul fianco di una collina, ma era
così povera che non poteva permettersi di
perdere nemmeno un chicco di riso
prodotto dal suo appezzamento.
Immagazzinava con cura il suo raccolto di riso grezzo in un cesto di vimini e, quando poi lo
metteva al sole, faceva ben attenzione a non lasciarsi sfuggire per terra neanche un chicco.
Tutto il giorno lo teneva d’occhio attentamente in modo che ne polli ne passeri potessero
rubarle qualche granello. E così quando lo sbucciava nella macina, lo pestava nel mortaio o
lo metteva nel vassoio di vimini per separare la pula dal chicco, non lasciava che un solo
granello andasse sprecato. Era così meticolosa che insisteva con sua figlia Nan Sue che stesse
attenta a non perdere un solo chicco di riso quando lo lavava prima di cuocerlo e, una volta
che il riso era cotto e lo si mangiava, che nessun granello cadesse di lato o rimanesse nel
piatto. Nan Sue, spazientita per la pignoleria della madre, una volta ebbe a dire: “oh ma’, che
cosa vuoi che sia perdere un grano di riso? Il valore di un chicco è così minuscolo!”. “Non la
pensare così, cara figlia mia. Tu hai lavorato anno dopo anno nel nostro appezzamento e
puoi ben renderti conto di quanto noi poveri coltivatori dobbiamo lottare durante l’anno
per produrre questi chicchi di riso. Cominciando a lavorare all’inizio delle piogge dobbiamo
faticare per quattro o cinque mesi al fianco di buoi e bufali, nella pioggia e nel fango; e
quando facciamo il raccolto nella stagione fredda dobbiamo rischiare la nostra vita
avventurandoci in campi infestati dai serpenti. Supponiamo che per distrazione tu perda un
po’ di chicchi durante la raccolta, un altro po’ mentre si asciugano al sole, un po’ durante la
macinatura, oppure mentre li pesti nel mortaio o li separi dalla pula e ancora un po’ mentre li
lavi, li cucini e li mangi…quanto sarebbe, tutt’insieme la perdita di questi preziosi granelli?”
rispose la madre. Per amor di pace Nan Sue promise di non lasciarsi sfuggire un solo chicco
durante queste operazioni. Un giorno, mentre lei era fuori nel campo, Gahtishu tirò fuori
una misura di riso sbucciato e cominciò a cucinarlo, ma nel fare ciò un chicco cadde e si
infilò nel pavimento di bambù della casa. Andò allora sotto per cercarlo, ma non riuscì a
trovarlo. Spazzò via i rifiuti e la sabbia finché il terreno sotto il pavimento non fu scoperto,
ma ancora non riusciva a trovarlo. Era così assorbita dallo sforzo di ritrovare quel granello di
riso che perse la nozione del tempo e si fece buio. Quando Nan Sue tornò a casa e la trovò
così china e indaffarata le chiese che cosa stesse facendo. Gahtishu spiegò: “mentre scuotevo
il riso un chicco è caduto attraverso il pavimento e non sono ancora riuscita a trovarlo”. E la
figlia, scandalizzata: “povera me! Devi farla così lunga per recuperare un misero chicco di
riso? Che dirà la gente? Ora è buio, per favore lascia perdere”. “Lascia che dicano quello che
vogliono. Un chicco non potrà costituire un pasto, ma tanti granelli così possono farlo. Un
solo granello di riso con la buccia può
sembrarti di scarso valore, ma seminalo e
raccogli i suoi frutti, poi semina di nuovo il
raccolto l’anno seguente e raccogli
nuovamente; e se in questo modo semini e
mieti per sette anni di seguito, sette navi non
potrebbero trasportare il tuo intero raccolto”.
A questo punto Nan Sue si unì alla ricerca
sotto il pavimento e chiese a sua madre di farle il calcolo di come un grano di semenza
potesse aumentare e moltiplicarsi in sette anni producendo un tale raccolto. Allora sua
madre mostrò le sue capacità di calcolo: “Nel primo anno il tuo unico chicco produrrà una
manciata di chicchi. Seminando quella manciata l’anno seguente ne verranno prodotti tre
cesti pieni. Se lo semini di nuovo il terzo anno farai un raccolto di 60 ceste. Queste sessanta
ne produrranno 1200 al quarto anno. Al quinto le 1200 ne daranno 24000 e queste a loro
volta frutteranno 480000 a cesta; così per finire avrai 9 milioni e 600000 cesti. Per stivarle
saranno necessarie le stive di sette intere navi, non ti pare?”. Nan Sue fu così impressionata
che raddoppiò gli sforzi nelle ricerche, finché trovò il granello che stava nascosto nella
fessura di un palo. Quella sera cenarono assai tardi, ma a Nan Sue non importava, perché la
dimostrazione di sua madre sulla moltiplicazione di un seme aveva incantato la sua mente.
Da allora in poi fu ben attenta a non sprecare neanche un grano di riso e si dice che la sua
risolutezza non solo rimase salda fino alla fine, ma si diffuse in tutto il vicinato.
- Paese che vai, piatti che trovi. Il lungo viaggio del cibo dall'America Latina all'Europa", supplemento a Volontari per lo Sviluppo,
anno IX, n°4, settembre 1991
Il compleanno di Miluotuo (Cina)
In un tempo infinitamente lontano, la dea Miluotuo mandò
le sue tre figlie sulla Terra, perché vivessero la loro vita nel
modo che preferivano.
Tutte contente, le ragazze si misero in viaggio nel cuore della
notte, e, stanche com’erano, appena arrivate si
addormentarono.
Il giorno dopo la figlia maggiore si alzò all’alba, prese un
aratro e con quello arò le grandi e feritili pianure. Da lei
discende la gente Han, che lavora la terra e la fa fruttare.
La seconda figlia si alzò un po’ più tardi, prese carte, inchiostro, pennelli e libri e si ritirò in
città, a studiare e meditare. E’ lei l’antenata della
gente Zhuang, particolarmente abile nella pittura,
nella calligrafia, nella musica e negli scacchi.
La terza figlia si alzò tardissimo e quando vide che
le sue sorelle si erano ben sistemate, prendendosi il
meglio, scoppiò a piangere e andò a lamentarsi
dalla madre. Pigra come sei non meriteresti nulla”
le disse Miluotuo “ma ti aiuterò lo stesso; ecco,
questo è tutto il riso che abbiamo in dispensa, e
laggiù c’è una zona montagnosa dove potrai
seminarlo”.
La ragazza andò e seminò il suo riso, ma appena
spuntarono i germogli i gatti selvatici vennero a
calpestarli. Quando poi le piantine misero le foglie,
i cervi ne brucarono un bel po’ e quando, infine,
maturarono le spighe gli uccelli se le mangiarono
dalle prima all’ultima.
La terza figlia andò di nuovo da Miluotuo: “Come
sono disgraziata, madre! Aiutami tu!”. Allora la dea
le regalò un grande tamburo di rame e le consigliò
di imparare a suonarlo.
“Ma a che cosa mi serve?” chiese la ragazza, e se ne andò avvilita, portandosi dietro l’enorme
e pesantissimo strumento.
Una volta sulla terra, però, decise di seguire i consigli della madre e sistemò il tamburo sulla
montagna, tra le risaie. Così scopri che, suonandolo ogni giorno, riusciva a spaventare e a
tenere lontani gli animali che le rovinavano il riso. Il raccolto fu straordinariamente
abbondante e le permise di nutrire e crescere molti figli e nipoti che più tardi divennero la
gente Yao.
E ancora oggi gli Yao, bravi coltivatori di riso, il giorno 29 del quinto mese festeggiano il
compleanno della loro nonna divina, Miluotuo, suonando i loro tamburi di rame e
danzandoci attorno.
Origine del riso (Corea)
Nei tempi antichi il riso non si raccoglieva nei campi. Tutte
le mattine, un chicco di riso compariva sul focolare del
contadino e si infilava nella pentola che serviva per cuocere il
riso. La moglie del contadino doveva cuocerlo senza
nemmeno sollevare il coperchio della pentola, perché questo
gesto era tabù (pantang).
Nel pomeriggio la pentola era piena di riso pronto per essere
consumato.
Un mattino, la moglie del contadino dovette uscire per andare alla fattoria e raccomandò ai
bambini di non scoperchiare la pentola del riso durante la sua assenza. Dopo che la madre
era uscita, una delle bambine, spinta dalla curiosità, cercò di scoperchiare la pentola di
nascosto dalle sorelle più grandi. Chinandosi per guardare dentro, vide una bambina che
spari improvvisamente, non lasciandosi dietro che un chicco di riso. La sorella più grande,
molto arrabbiata, rimproverò la piccola.
Quando la madre tornò, vedendo che non c’era riso nella pentola, comprese che qualcuno
l’aveva aperta. Rimproverò la
figlia che, disobbediente, aveva
infranto il tabù Ma non c’era
più nulla da fare. Da quel
giorno, tutti devono lavorare
sodo per piantare il riso,
raccoglierlo e
immagazzinarne i grani.
Non c’è nulla di più prezioso del riso (Vietnam)
Oltre duemila anni or sono, un re della dinastia
Hung Vuong, sentendosi invecchiare, convocò
a corte i suoi ventidue figli. “Cercate l’alimento
più raro e più gustoso affinché io possa offrirlo
ai nostri avi per propiziarmi la loro
benevolenza. Chi di voi saprà trovare questo
cibo sopraffino sarà mio erede e diventerà re”.
Tutti i principi si misero alla ricerca delle meraviglie dei mari e delle foreste, ma nessuno di
loro riuscì nell’intento. Una notte, tuttavia, un genio apparve in sogno a Lang Lieu, unico fra
i figli del re a vivere in povertà. “Non vi è nulla sulla terra di più prezioso del riso.” disse, “Il
riso non ha eguali fra gli alimenti. Prendi dunque del riso cotto al vapore e fanne un impasto
tondo come il cielo. Con del riso crudo fai una sfoglia, quadrata come la terra. Farcisci questi
dolci con carne di maiale ed avvolgile in foglie di banano”. Il giovane Lang Lieu seguì le
indicazioni del genio ed offri il suo dolce al re che ne apprezzò il gusto delicato. Tenendo
fede alla sua promessa, il sovrano abdicò in favore del figlio. Il
dolce tondo fu chiamato banhday, quello quadrato banh
chung. Da allora essi vengono offerti in tutte le cerimonie
vietnamite, in particolare durante i festeggiamenti per
il Tèt che segna l’inizio dell’anno Lunare. E, secondo un
vecchio adagio popolare vietnamita, senza banh chung e senza
sentenze parallele (frasi augurali scritte in antichi caratteri su
carta rossa, colore della felicità) la celebrazione del Nuovo
Anno sarebbe incompleta.
Le banane e lo spirito celeste (Filippine)
C’era una volta una bella ragazza chiamata Kabaye. Era
alta, aveva occhi neri e lunghi capelli lucenti. Il colore della
sua pelle era d’un bronzo dorato.
Una mattina Kayabe stava raccogliendo legna nel bosco,
quando le si fece incontro un giovane. Questi aveva
l’aspetto di un cacciatore: alto, attraente, vestito con molta
cura. Nessuno lo conosceva o sapeva da dove venisse.
Neppure si sapeva il suo nome.
Questo giovane piacque subito a Kayabe, e lei a lui. Kayabe
non sapeva che quel giovane era un ànito, uno spirito
celeste. Presto divennero amici. Una amicizia che andò
avanti per un lungo tempo, tanto che Kayabe si
meravigliava che il giovane non avesse ancora proposto di
sposarla.
Per questo motivo Kayabe si sentiva infelice e confidava al giovane: “Non ho genitori, né
fratelli o sorelle. Anche tu sei solo. Sono certa che saremmo felici se vivessimo assieme”.
“Io non volevo svelarti il segreto” spiegò il giovane, “Ma tu devi
sapere che io sono un ànito, e non posso sposare una terrestre
come te. Io debbo tornare in cielo un giorno!”.
Kayabe a questa rivelazione fu molto sorpresa. Non sapeva cosa
dire. Solo tratteneva le mani del giovane strette nelle sue.
“Ti prego, lasciami andare” supplicò il giovane. “Io ho sempre
sperato che tu non venissi a sapere chi ero”.
Ci fu un lampo accecante, e il giovane scomparve. Ma la fanciulla
stringeva con tanta forza le mani del giovane tra le sue, che questi
gliele lasciò.
Kayabe, presa da un grande timore, corse a casa e seppellì quelle
mani in un angolo del suo giardino.
Dopo qualche settimana Kayabe vide spuntare in quel punto del
giardino una strana pianta: un albero che crebbe molto in fretta.
Ben presto apparvero dei frutti assai originali: erano di un colore
giallo, e sembravano dita di una mano.
Erano il primo grappolo di banane che sia apparso sulla terra.
Oceania
-Il pesce Luna (Australia)
Molto tempo fa, due sorelle che
abitavano sulla terraferma
attraversarono a nuoto il tratto di mare
che le separava dall’isola. Fin da piccole
avevano sognato ad occhi aperti
quell’isola e ora, finalmente, era arrivato
il momento di esplorarla.
Approdarono sulla spiaggia rocciosa e
cominciarono a camminare.
L’isola non era grande, ma vi crescevano molti alberi, e al centro c’era uno spiazzo erboso
con un piccolo lago d’acqua limpida.
“Quest’isola è magnifica! – disse la sorella maggiore stendendosi sull’erba – Mi piacerebbe
proprio vivere qui! L’acqua da bere è ai nostri piedi, il terreno è caldo, l’erba cresce verde, e
questi grandi alberi ci riparano dal sole”.
“E il cibo? Di cosa potremmo vivere qui?” chiese l’altra coricandosi al suo fianco.
“Sono sicura che su quest’isola ci sono patate, molluschi da raccogliere sulla spiaggia, e radici
di giglio d’acqua nel lago...”.
Proprio in quel momento si udì un rumore d’acqua.
Le due sorelle si alzarono sedute, e videro il dorso ricurvo di un grosso pesce solcare lento la
superficie del lago. E scivolare via.
“... e poi c’è pesce!”. La ragazza fu in piedi con un balzo e corse lungo la sponda del lago.
Trovò un bastone, lo scheggiò per appuntirlo, e si mise in attesa sulla riva.
Il pesce ricomparve poco dopo e la ragazza lo arpionò con forza: ci fu un grande fremito
nell’acqua.
“Vieni ad aiutarmi!” gridò.
Saltarono insieme nelle acque del lago, afferrarono il pesce morente e lo gettarono sulla riva.
“Su quest’isola è anche facile procurarsi il cibo! – disse la sorella maggiore, quella che lo
aveva catturato – Raccogliamo della legna: si mangia!”.
Poco dopo il fuoco scoppiettava insieme alle risate delle due sorelle, e in breve le pietre
furono abbastanza calde per poter arrostire il pesce.
“Il pesce da solo non è gustoso – disse la sorella più piccola – Ci vogliono radici, erbe e
verdure da arrostire insieme al pesce!”.
“D’accordo... tanto su quest’isola c’è tutto quello che vogliamo. Vedi cosa trovi laggiù,
mentre io cerco nell’altra direzione!”.
Più tardi tornarono con un ricco bottino ma, quando arrivarono alle pietre ormai rosse di
calore, il pesce era scomparso.
Videro che si era trascinato sulla sabbia, e le tracce proseguivano nell’erba, verso gli alberi.
Si misero a seguire le sue tracce finché giunsero ai piedi di un grande albero.
“Guarda!”.
Il pesce era già a metà del tronco, e continuava ad arrampicarsi verso l’alto.
La sorella più grande allora afferrò un ramo e fece per salire sull’albero.
“Non farlo! – la fermò l’altra – Potresti cadere e farti male. Dove vuoi che vada un pesce?
Quando arriverà ai rami più alti prima o poi cadrà di sicuro, e così noi lo potremo arrostire
sul fuoco senza fatica”.
Il pesce intanto continuava a salire lentamente lungo il tronco.
Quando raggiunse la cima, i rami si piegarono al suo peso, ma il pesce non si fermò. Con un
guizzo si lanciò verso l’alto, nel buio della notte, e continuò a salire.
La sua pelle argentata brillava accanto alla debole luce delle stelle.
Le due sorelle rimasero a fissarlo stupite, per ore, senza dire nulla, finché il pesce scomparve
dietro le colline della terraferma.
Tornarono al fuoco, e si distesero lì accanto, ma non riuscirono a dormire.
Il giorno dopo cucinarono le verdure e arrostirono nelle ceneri i molluschi che nel frattempo
avevano raccolto sulla spiaggia.
Attendevano con impazienza la notte per vedere se nel
cielo sarebbe apparso il pesce.
Finché il sole tramontò.
Allora videro un chiarore argenteo che illuminava il
cielo a oriente, oltre l’orizzonte del mare.
Il pesce salì lentamente in cielo.
Sembrava un po’ più magro di quando si era
arrampicato sull’albero ed era scappato dalla terra, e
come se avesse dormito su un fianco.
Da allora ogni notte il cielo fu rischiarato dal pesce che compiva il suo viaggio nel cielo, ma
appariva ogni volta più magro, finché una notte scomparve e ritornò il buio.
La mattina successiva le due sorelle tornarono a nuoto a casa, sulla terraferma, e
raccontarono a tutti la vicenda misteriosa del pesce.
Ma poi il pesce riapparve in cielo,
e cominciò a farsi ogni notte più
grosso fino a diventare rotondo.
Poi ricominciò a diminuire di
nuovo per sparire e per poi
crescere ancora.
Da allora accade sempre così.
Africa
Perché certi animali diventarono domestici
Tanto tempo fa tutti i bovini, le pecore e le capre
vivevano nelle foreste. Poi, un giorno, Tororut
convocò tutti gli animali in un certo posto della
giungla, e accese là un gran fuoco. E quando g li
animali videro il fuoco si spaventarono e
scapparono di nuovo nelle foreste. Rimasero
soltanto i bovini, le pecore e le capre, che non si
spaventarono. E Tororut fu contento di questi
animali e li benedì, e decretò che da quel momento sarebbero vissuti sempre con l’uomo,
che avrebbe mangiato la loro carne e bevuto il loro latte.
Cacciatori ed agricoltori (Pigmei)
Un Pigmeo ed un Nero andarono insieme a osservare degli
scimpanzé. Sulla strada il Nero convinse il Pigmeo ad assaggiare
le banane, ma il Pigmeo non sapendo che cosa fossero all' inizio
era diffidente, poi ammise che erano veramente buone e si
addormentò.
Il Nero tuttavia era preoccupato perché non era sicuro che quel
frutto non fosse velenoso, ma quando il Pigmeo lo assicurò di
stare bene, i due fecero scorpacciata di banane.
Vollero così introdurre quei buonissimi e dolcissimi frutti nei loro villaggi e decisero di
coltivarli.
Il Pigmeo, a differenza del Nero che ebbe buoni
risultati, non sapeva come fare e non riuscì a
coltivare niente. Si convinse quindi che per lui
sarebbe stato meglio restare un cacciatore, anche se
spesso faceva scorpacciate di banane da chi le aveva
coltivate.
La pioggia cade quando gracidano le rane (Bantu)
Una volta accadde che dal cielo non scendesse più pioggia per molto
tempo e che gli animali della foresta si radunassero e iniziassero a
invocare la pioggia nelle lingue che conoscevano.
Quando arrivò il turno delle rane, esse gracidarono per ore e le
nuvole iniziarono a radunarsi.
Le rane dissero agli amici di fare delle
buche per raccogliere l’acqua. Poi
iniziò a piovere e le rane dissero che a quel punto avrebbero
potuto trovare erba verde e loro sarebbero andate ad abitare
nelle paludi formate dalle buche riempite d’acqua.
America del Nord
I capelli della vecchia
Fin dai tempi più lontani, gli Indiani
hanno usato il granturco al posto del
grano, che non conoscevano. Questa
storia racconta come per la prima volta il
granturco comparve sulla terra.
Tanto, tanto tempo fa, una vecchia e suo
nipote si misero in viaggio attraverso il
paese degli Indiani. Nessuno sapeva da
dove venissero né dove andassero e
nessuno lungo il cammino volle dar loro ospitalità, dividere con loro cibo e fuoco. Era un
brutto periodo, quello: gli Indiani avevano dissotterrato l'ascia di guerra e le tribù
combattevano l'una contro l'altra. Ma la vecchia non si scoraggiava. “Vedrai” diceva al
nipote, “Prima o poi troveremo chi si prenderà cura di noi”. Cammina, cammina, tra
montagne e praterie, un giorno i due giunsero all'accampamento della tribù degli Alligatori,
gente povera ma di buon cuore. Il loro capo, Dente di Alligatore, disse ai due viaggiatori
stanchi: “Potete restare con noi, dormire sotto una tenda e scaldarvi al nostro fuoco, ma
purtroppo non troverete niente da mangiare. I nostri terreni di caccia non sono ricchi di
selvaggina e inoltre dobbiamo sacrificare le prede migliori agli Alligatori, per non perdere la
loro protezione”.
“Saremo felici di condividere il vostro destino, qualunque esso sia” rispose la vecchia. “Io, in
cambio dell'ospitalità, avrò cura dei bambini”. Dente di Alligatore le indicò una tenda vuota
e lei, dopo averlo ringraziato, ci si sistemò insieme al
nipote. L'unico bagaglio che aveva, un sacco di pelle di
bisonte, lo depose in un angolo scuro.
La mattina seguente, all'alba, i cacciatori partirono in
cerca di selvaggina e le donne si sparpagliarono nella
prateria per raccogliere erbe e radici. Nel villaggio
rimasero solo i bambini che, come al solito, si misero a
giocare per ingannare la fame, in attesa che
ritornassero i genitori con qualcosa da mettere sotto i
denti. Le ore erano lunghe a passare, con lo stomaco
vuoto, e i giochi erano sempre gli stessi. Quella mattina, però, ci fu una novità. La vecchia
uscì dalle tenda e chiese ai bambini: “Volete che vi racconti una storia?”. “Sì, sì!” risposero
tutti in coro. E la vecchia raccontò come erano nati gli alberi. “In tempi molto, molto
lontani, la terra era coperta solo di erbe e fiori, non c'era neanche un albero. Poi, un giorno, il
Grande Manitù, guardando giù dalle nuvole, sentì il desiderio di accarezzare quei fiori che
ondeggiavano al vento sugli steli sottili. Allora ordinò agli steli di crescere, di crescere fino a
raggiungere il palmo delle sue mani. Fu subito obbedito e pini, aceri, abeti, salirono verso il
cielo fin quasi a toccarlo. Ora bastava che il Grande Manitù stendesse la mano per poter
accarezzare quelle chiome verdi che la brezza
faceva sussurrare”. Finita la storia, la vecchia
guardò i bambini e capì due cose: che la storia
era piaciuta molto, ma che non aveva fatto
dimenticare la fame. Allora rientrò nella tenda,
si mise ad armeggiare intorno a un gran
pentolone e poco dopo ecco alzarsi nell'aria
un profumino appetitoso. Poi uscì di nuovo e
distribuì a ciascun bambino una ciotola di
pappa morbida, colore dell'oro, buonissima e nutriente. “E fatta con il granturco” disse. “Se
vi comportate bene, ne avrete tutti i giorni”. E così fu. I cacciatori partivano tutte le mattine
all'alba in cerca di selvaggina, le donne si sparpagliavano nella prateria per raccoglier erbe e
radici, la vecchia raccontava ai bambini una bella storia e poi dava loro una ciotola colma di
pappa di granturco. Così passò il tempo e anche l'ultimo mese dell'anno, quello della Lunga
Notte, finì. La vecchia continuava ogni giorno a distribuire la sua pappa ai bambini affamati,
ma negli ultimi tempi era diventata più debole, più magra, sembrava evaporare lentamente
come il fumo che usciva dal pentolone. Una mattina non poté più alzarsi da letto.
Allora chiamò il nipote e gli disse: “Ragazzo mio, presto abbandonerò questo mondo, ma
anche quando non ci sarò più la tribù degli Alligatori continuerà a ricordarmi. Ho seminato
un po' di granturco in un pezzo di terra non lontano dall'accampamento. I semi hanno già
messo le radici e germoglieranno a primavera. Io ho fatto la mia parte, ora tocca ai bambini
custodirli, innaffiarli e zapparli, se vogliono avere un buon raccolto e non soffrire mai più la
fame”. Per qualche tempo ancora, la vecchia consegnò al nipote il pentolone pieno di pappa
fumante perché la distribuisse al posto suo; poi, quando la prima pannocchia di granturco
maturò nel campicello vicino all'accampamento, essa scomparve nel nulla, come se non
fosse mai esistita. Tutti la cercarono, ma invano. “Non la vedremo più” disse alla fine li capo
Dente di Alligatore, “ma sarà sempre viva nel nostro ricordo e nel nostro cuore”. Poi indicò
il granturco che cresceva alto e rigoglioso e aggiunse: “Guardate: si è trasformata in quelle
piante che ci ha donato perché la fame non ci perseguiti più. Fu così che la vecchia
misteriosa ripagò la tribù degli Alligatori per l'ospitalità ricevuta. Da allora in poi gli Indiani
coltivarono con amore i loro campi di granturco e, quando i bianchi filamenti spuntavano
dalle pannocchia dorate, vedevano in essi i capelli candidi della vecchia che non avrebbero
mai dimenticato.
La spiga (Indiani Wichita)
Secondo un mito degli indiani Wichita, il dio creatore
diede alla prima donna una spiga e al primo uomo la voglia
di camminare. I due andarono di villaggio in villaggio. Lui
insegnò agli uomini come costruire archi e frecce; lei
insegnò alle donne come coltivare il grano e farne cibo.
Compiuta la missione, i due scomparvero e tornarono in
cielo, dove sono ancora: lei è la Luna, lui la Stella del
mattino. Agli indiani hanno lasciato in dono la caccia e
l’agricoltura.
Come il mais arrivò sulla terra (Sud Dakota)
Molto tempo fa vivevano sulla terra dei
giganti, ed erano così forti che non avevano
paura di nulla. Quando smisero di far levare
fumo in onore degli dei delle quattro
direzioni, Nesaru abbassò lo sguardo su di
loro e si adirò. “Ho fatto i giganti troppo forti”
disse Nesaru. “Non li tengo più. Credono di
essere come me. Li distruggerò coprendo
d’acqua la terra, ma risparmierò la gente
comune”.
Nasaru mandò gli animali a guidare la gente comune in una caverna così grande che tutti gli
animali e tutte le persone poterono abitarla insieme. Poi sigillò l’entrata della caverna e
inondò la terra, così tutti i giganti, e solo loro, annegarono. Per ricordarsi che c’era gente
sotto terra in attesa di essere liberata quanto l’inondazione fosse finita, Nasaru piantò del
mais nel cielo. Appena il mais fu maturo, egli tolse una pannocchia dal campo e la trasformò
in una donna, che fu Madre Mais.
“Devi scendere sulla terra” le disse Nesaru “e far uscire la mia gente da sottosuolo. Guidala al
luogo in cui tramonta il sole, perché la loro
patria sarà in occidente”.
Madre Mais scese sulla terra e, udendo tuonare
a oriente, seguì l’indicazione del suono fino alla
caverna dove la gente stava in attesa. Ma la porta
della caverna si richiuse su di lei, che non riuscì a
ritrovare la strada per ricondurre la gente fuori,
sopra la terra. “Dobbiamo lasciare questo luogo,
questo buio” disse loro. “C’è luce sopra la terra. Chi mi aiuterà a portare la mia gente fuori
dalla terra?”.
Il Tasso si fece avanti e disse “Madre Mais, io ti aiuterò”. Anche la Talpa si alzò e disse “Io
aiuterò il Tasso a scavare il terreno, in modo che possiamo vedere la luce”. Poi venne il Topo
Nasolungo e disse “Io aiuterò gli altri due”.
Il Tasso incominciò a scavare verso l’alto. Dopo un po’ ricadde sfinito. “Madre Mais, sono
molto stanco” disse. Poi scavò la Talpa, finché non fu anch’essa esausta. Il Topo Nasolungo
prese il posto della Talpa e scavò, e quando esso fu stanco il Tasso ricominciò a scavare. I tre
lavorarono a turno, finché alla fine il Topo Nasolungo cacciò il naso attraverso il terreno e
poté vedere un po’ di luce.
Il Topo tornò giù e disse “Madre Mais, ho spinto il naso attraverso la terra fino a vedere la
luce, ma il grande scavare ha reso il mio naso piccolo e aguzzo. D’ora in poi tutti sapranno,
dal mio naso, che sono stato io a raggiungere per primo la superficie della terra”.
Ora salì la Talpa fino al buco e completò lo scavo finché non fu fuori. Il sole era salito alto
nel cielo dall’oriente ed era così luminoso che accecò la Talpa, la quale corse indietro e disse:
“Madre Mais, sono stata accecata dalla luminosità del sole, e non posso più vivere sulla terra.
Devo farmi una casa sotterranea. Da questo momento tutte le Talpe saranno cieche e non
potranno vedere la luce del giorno, ma potranno vedere di notte. Durante il giorno
resteranno sotto terra”.
Poi salì il Tasso e allargò il buco così che potessero passarvi anche le persone. Uscendo
all’esterno il Tasso chiuse gli occhi, ma i raggi del sole lo colpirono scurendogli le gambe e
tracciando una striscia nera sulla sua faccia. Egli tornò giù e disse: “Madre Mais, ho ricevuto
questi segni neri su di me, e vorrei rimanere così, in modo che tutti si ricordino che io sono
stato fra coloro che hanno aiutato la tua gente a uscire da sotto terra”.
“Molto bene” disse Madre Mais. “Sia come hai detto”. Poi ella guidò la gente fuori,
all’aperto, e la gente si rallegrò di essere sulla terra all’aperto. Mentre tutti erano lì al sole,
Madre Mais disse: Popolo mio, ora faremo un viaggio verso occidente, verso il luogo dove
tramonta il sole. Prima di incamminarci, coloro che desiderano restare qui – come il Tasso,
il Topo e la Talpa – possono farlo”. Alcuni animali decisero di tornare alle loro tane
sotterranee, altri scelsero di seguire Madre Mais.
Il viaggio era cominciato. Procedendo, a un certo punto videro delle montagne levarsi di
fronte a loro. Giunsero a un profondo canyon. La china era troppo ripida perché gli uomini
potessero scenderla, e anche se vi fossero riusciti, la china opposta era anch’essa troppo
ripida per risalirla. Madre Mais chiese aiuto e un uccello grigio-azzurro salì volteggiando su
ali che battevano rapide. Aveva un grosso becco, un folto ciuffo sul capo e il petto a strisce.
L’uccello era il Martin Pescatore. “Madre Mais”, egli disse “sarò io a mostrarti la strada”.
Il Martin Pescatore volò sul fianco opposto del canyon e col becco batté molte volte sulla
parete finché la terra cadde in fondo al canyon. Poi volò indietro e beccò l’altra parete finché
cadde abbastanza terra perché si formasse un ponte. La gente lo ringraziò a gran voce.
“Quelli che vogliono unirsi a me” disse il Martin Pescatore “possono rimanere qui. Faremo
di queste montagne la nostra patria”. Alcuni rimasero con lui, ma la maggior parte proseguì il
cammino.
Dopo un po’ di tempo giunsero a un altro
ostacolo, una cupa foresta, con alberi così
alti che sembravano toccare il sole, molto
fitti e così irti di spine da formare un
groviglio impenetrabile. Ancora Madre
Mais chiese aiuto. Questa volta si presentò
davanti a lei un Gufo, che disse “Io aprirò
un sentiero per la tua gente attraverso
questa foresta. E chiunque vorrà restare con
me potrà farlo e vivere in questa foresta per sempre”. Il Gufo poi volò dentro la foresta.
Agitando le ali spostò gli alberi, in modo da aprire un sentiero perché la gente potesse
passarvi. Madre Mais allora guidò la gente oltre la foresta, e così andarono avanti.
Proseguendo, d’un tratto si trovarono di fronte a un grande lago. La distesa d’acqua era
troppo vasta e profonda perché si potesse attraversarla e la gente incominciò a parlare di
tornare indietro. Ma non poteva farlo, perché Nesaru aveva ordinato a Madre Mais di
condurre gli uomini sempre avanti, verso occidente. Un uccello acquatico con la testa nera e
il dorso a quadri si presentò davanti a Madre Mais e disse: “Io sono la Strolaga. Farò un
passaggio attraverso quest’acqua. La gente smetta di piangere, l’aiuterò”.
Madre Mais guardò la Strolaga e disse: “Preparaci un passaggio e alcuni di noi resteranno
qui con te”. La Strolaga volò via e saltò nel lago, muovendosi così in fretta da dividere le
acque, e quando uscì dall’altra parte del lago lasciò dietro di sé un sentiero. Madre Mais
condusse la gente attraverso il passaggio asciutto e alcuni tornarono indietro e restarono con
la Strolaga. Gli altri invece proseguirono il cammino.
Infine giunsero a un luogo piano accanto a un fiume e Madre Mais disse loro di costruire lì
un villaggio. ”Ora avrete il mio mais da piantare” disse. “Così, mangiandolo, crescerete e vi
moltiplicherete”. Dopo che ebbero costruito il villaggio e piantato il mais, Madre Mais fece
ritorno al Mondo Superiore.
Le persone, tuttavia, non avevano né norme né leggi alle quali attenersi, né capi né stregoni
che le consigliassero, e presto accadde che passassero tutto il loro tempo a giocare. Il primo
gioco a cui giocarono fu una specie di hockey, nel quale si dividevano in due squadre e
usavano bastoni ricurvi per buttare la palla nella porta degli avversari. Poi giocarono a
scagliare giavellotti attraverso anelli messi sopra aste piantate nel terreno. Col tempo, i
giocatori perdenti si arrabbiarono a tal punto che presero a uccidere i vincitori.
Nesaru fu scontento del comportamento degli uomini e insieme con Madre Mais venne
sulla terra. Disse agli uomini che dovevano avere un capo e qualche stregone che insegnasse
loro come si deve vivere. Mentre Nesaru insegnava agli uomini a scegliersi un capo
attraverso prove di coraggio e di saggezza, Madre Mais insegnò loro canti e cerimonie. Dopo
che si furono scelti un capo, Nesaru diede a costui il suo stesso nome, quindi comunicò agli
stregoni i segreti della magia. Insegnò loro a fare pipe per offrire fumo agli dei delle quattro
direzioni.
Quando tutto questo fu fatto, Nesaru se ne andò via verso il sole calante per preparare
luoghi per nuovi villaggi. Madre Mais guidò gli uomini lungo sentieri attraverso le pianure e
oltre i corsi d’acqua fino a quel luogo dove Nesaru aveva piantato radici ed erbe medicinali
per gli stregoni. Lì essi costruirono villaggi lungo un fiume che più tardi i Bianchi
chiamarono Fiume Republican, nel Kansas.
Il primo giorno che giunsero in questo paese, Madre Mais disse loro di offrire fumo agli dei
dei cieli e a tutti gli dei degli animali. Mentre così facevano, un Cane giunse correndo
nell’accampamento e con alti lai accusò Madre Mais di essersi comportata male andando via
e lasciandolo indietro. “Io sono venuto dal Sole” gridò, “ e il dio del Sole è così arrabbiato
perché sono stato lasciato indietro che manderà il Turbine a disperdere gli uomini”.
Madre Mais pregò il Cane di salvare gli uomini placando il Turbine. “Solo rinunciando alla
mia libertà”, rispose il Cane “potrò farlo. Non potrò più cacciare solo come mio fratello
Lupo, o vagare libero come il Coyote. Dovrò sempre dipendere dagli uomini”.
Ma quando giunse il Turbine rotando e tuonando attraverso la terra, il Cane si pose fra esso
e gli uomini. “Rimarrò per sempre con gli uomini” gridò al Turbine. “Sarò il guardiano di
tutto ciò che posseggono”.
Quando il Gran Vento fu cessato, Madre Mais disse: “Gli dei sono gelosi. Se dimenticherete
di offrire loro il fumo, si adireranno e manderanno tremende bufere”.
Nella ricca terra accanto al fiume la gente piantò il suo mais, ed ella disse: “Mi trasformerò in
albero di Cedro per rammentarvi che sono Madre Mais, che vi ha dato la vita. Sono stata io,
Madre Mais, a condurvi qui da oriente. Devo diventare Cedro per poter restare con voi. Sul
fianco destro dell’albero sarà messa una pietra perché vi ricordiate di Nesaru, che ha portato
ordine e saggezza a voi uomini”.
Il mattino seguente, un Cedro già adulto sorgeva davanti alle dimore degli uomini. Accanto
ad esso c’era una grossa pietra. Gli uomini seppero così che Madre Mais e Nesaru avrebbero
vegliato su di loro attraverso tutti i tempi a venire e che li avrebbero tenuti uniti e fatti vivere
a lungo.
America Latina
Le origini del mais bianco (El Salvador)
Molti anni fa nacque, a Pipiles, in una notte di
luna piena la figlia del signore del villaggio:
aveva bellissimi occhi neri e un radioso sorriso
che le illuminavano il volto. Crebbe molto
bella tanto che tutti i principi dei villaggi vicini
la chiedevano in sposa, ma il padre non sapeva
decidersi.
Alla fanciulla piaceva passeggiare nel bosco, ammirare le montagne e bagnarsi nel fiume
quando il sole era alto nel cielo. Uno giorno che proprio si trovava a fare il bagno sentì una
voce provenire dalla montagna che diceva - Fanciulla, fiore amato dallo spirito del giorno, se
mi vuoi conoscere segui le orme che troverai accanto alle rocce-. La giovane, incuriosita,
seguì le orme fino a una roccia dove si fermò a riposarsi. E subito la voce - Fanciulla, fiore
amato dallo spirito del giorno, segui le orme fino a quando arriverai a una grotta-.
Si mise in cammino e trovò, seduto, un bellissimo
giovane con un copricapo tempestato di brillanti -
Sono il signore di Murcielager- le disse - e se rimarrai
con me, avrai un figlio forte come la roccia e bello
come questo bosco-. La fanciulla rimase con il
giovane e dopo un po’ di tempo partorì un bambino
dal sorriso radioso e dai denti candidi come quelli
della mamma.
Nel frattempo però nel villaggio di Pipiles la gente soffriva la fame perché un grosso animale
aveva mangiato il cuore del mais che doveva servire per la semina.
Quando la giovane apprese della disgrazia si recò dal padre il quale, ritenendola responsabile
dell’accaduto, le ordinò - Vai e trova semi di mais affinché il nostro popolo cessi di soffrire la
fame-.
La figlia partì e camminò fino alla grotta del signore di Murcielager a cui raccontò tutte le
sue pene. L’uomo ascoltò e poi disse - Non disperare, domani torna al villaggio e dì agli
uomini di preparare i campi e, al momento della semina, strappati i denti e seminali-.
La fanciulla, per amore del suo popolo, si sacrificò e tutti si misero al lavoro. Il tempo passò e
quando il mais cominciò a dare i suoi frutti, gli abitanti del villaggio scoprirono con
meraviglia che i grani della pannocchia erano bianchi e brillanti come i denti della donna.
Il mais bianco era il regalo fatto dagli dei alla gente di Pipiles in ricordo della giovane che era
stata disposta a strapparsi i denti per salvare il suo popolo.
Storia della donnola che aiutò gli uomini a trovare il mais (Guatemala)
Una volta, ci fu un' epoca in cui il cibo finì. Prima di
conoscere il mais, la gente mangiava un'erba molto saporita,
ma molto scarsa. All'improvviso, smise di piovere. All'inizio,
nessuno se rese conto, perché esistevano ancora arbusti di
quell'erba chiamata Uk’ u’x wa. Beh, in realtà non si mangiava
l'arbusto, bensì le radici di quell'arbusto.
Ma d'un tratto, siccome non pioveva, non la si trovò più. Le
nonne e i nonni penetravano nel bosco, si addentravano nella
foresta, si perdevano sulla montagna, ma non trovavano nulla. Tornavano sconsolati
dicendo: “Il cibo è finito! Non ci sono più radici da mangiare!”. E allora la fame tormentava
lo stomaco come una manciata di spine. “Il cibo è finito”, dicevano le nonne. “Che
facciamo?” dicevano i nonni.
Lo sconforto s'impadronì dell'anima degli esseri umani. I bambini cominciarono a piangere,
chiedendo da mangiare. “Non ce n'è”, gli dicevano i genitori. I genitori cominciarono a
piangere, perché non potevano dare da mangiare ai loro figli. “Non ce n'è”, dicevano le
nonne. Le nonne e i nonni scoppiarono in lacrime, perché li intristiva molto veder piangere i
loro figli e i loro nipoti.
Passava di là una donnola, che, vedendo piangere la gente, si commosse e ne ebbe
compassione. “Che cosa vi succede? Perché invece di ballare e far festa, avete quell'aria cupa
e i volti coperti di lacrime? Qual è la pena che vi affligge?” “Ah, signora donnola”, disse una
nonna, “se lei sapesse!” “Ah, signora donnola”, disse un nonno, “se lei sapesse!”.
La donnola li guardò, un po’ perplessa e si avvicinò a una
coppia di giovani, anch'essi in lacrime. “Ho incontrato
una nonna e un nonno che stavano piangendo”, gli disse,
“e adesso vedo piangere anche voi. Che cosa sta
succedendo in questo paese?”. “Ah, signora donnola”,
disse la donna, “se lei sapesse!”. “Ah, signora donnola”,
disse l'uomo, “se lei sapesse!”.
Ancora più perplessa, la donnola si avvicinò a due bambini piccoli che piangevano.
“Bambini”, gli domandò la donnola perplessa, “ho incontrato la nonna e il nonno, la mamma
e il papà, e stavano piangendo. Adesso trovo voi, e anche voi state piangendo. Si può sapere
che cosa vi succede?”. “Abbiamo fame! Il cibo è finito!” singhiozzarono i bambini. La
donnola si commosse così tanto che fu sul punto di mettersi a piangere anche lei.
Si commosse così tanto che decise di aiutarli a risolvere il
problema. Riunì le nonne, le madri, i nonni, i padri, le
bambine e i bambini. “Conosco un luogo in cui, sotto
una pietra, troverete tutto il cibo di cui avere bisogno...”
disse, mostrando denti e gengive in un sorriso felice.
“Dove, dove, dove?” le domandavano agitati e
angosciati. “E su una collina di nome Chajuyub’, ma non
dovete andare a mani vuote. Dovete fare un lungo pellegrinaggio, portare molti fiori, e
accompagnare la processione con zufoli e tamburi, e inoltre dovete fare grandi cerimonie, e
dovete anche bruciare resina di pino...”. “Sì, lo faremo”, promisero solennemente le nonne e
i nonni. “E una volta fatto tutto questo, allora troverete una pietra chiamata Pek...”. La
donnola fece un silenzio teatrale. “Sotto quella pietra c'è del cibo chiamato mais, che
abbonda più di tutti gli altri cibi...”.
La gente non poteva credere a quello che diceva la donnola. Era troppo bello! “Non può
essere...” protestarono, “ci stai mentendo...”. “Vi do la mia parola d'onore di donnola”,
affermò lei tutta seria “In quel luogo, sotto la pietra Pek, troverete il mais”. Le gente del
paese era ancora incredula. E se non era vero? Allora la donnola disse “Molto bene, verrò
con voi per mostrarvi il luogo esatto dove si trova nascosto il mais.”
La gente del paese organizzò una grande processione
con tutte le varietà di fiori, i gerani rossi, le
buganvillee color fuoco, le delicate orchidee, i
garofani appassionati, le rose profumate; erano così
tanti tutti quei fiori, simili a formiche che in fila
portano le loro provviste, che non si vedeva la gente,
ma sembrava che a muoversi fosse una grande
processione di fiori. Portavano inoltre le resine di pino accese, suonavano i tamburi e gli
zufoli emettevano nell’aria un suono acuto che fluttuava in mezzo all’aroma dei fiori. Era
davvero un bello spettacolo la processione della gente del paese che andava dietro alla
donnola.
Cammina che ti cammina, arrivarono a una radura nel bosco. Là organizzarono cerimonie,
bruciarono l’incenso e suonarono musica sacra. “E’ qui”, gli aveva detto la donnola. “Adesso
fate sì che i vostri fiori profumino, che le resine si accendano e che gli zufoli suonino
accompagnati dai tamburi”. La gente obbedì e si mise ad aspettare. Aspettò, aspettò e
aspettò ancora.
All’improvviso, si udirono i ruggiti della
scimmia saraguate, che annuncia sempre la pioggia. Iniziò
quindi a piovere, prima con goccioloni grandi come
monete d’acqua gettate dal cielo che si schiantarono
contro il terreno sollevando polvere. Poi le gocce si
andarono addensando, fino a formare una cortina di
pioggia agitata da un vento impetuoso,
RRRRRRRRRUM! Scorreva una cortina.
RRRRRRRRRRUUUUUUUUM! Se ne apriva un’altra. La pioggia cadeva dal cielo a
catinelle, incontenibile. I bambini rimasero sotto l’acqua, a correre e a saltare nelle
pozzanghere, ridendo come matti perché si schizzavano a vicenda.
In seguito, cominciarono i fulmini e i tuoni. I bambini andarono sparati a rifugiarsi dai loro
genitori. Una luce istantanea dipingeva di bianco gli alberi, le foglie, i volti della gente e,
subito dopo, BROOOOOOM! Un gran tuono rimbombava all'orizzonte.
All'improvviso, un fulmine cadde sulla pietra Pek e la spaccò in due. BROOOOOOM! Fece
il tuono, che si diresse poi dietro alle montagne. La pietra si era aperta, e un filo di fumo
color cenere si sollevava da quel luogo.
Quando smise di piovere, la gente del paese corse a vedere che cosa c'era sotto le pietre.
Erano quintali e quintali di chicchi di mais. C'era cibo per tutti! Il mais che era stato bruciato
dal fulmine era completamente nero. Il mais lontano invece era ancora bianco. Quello che si
trovava in mezzo era di colore rosso e giallo. Per questo esistono quattro varietà di mais.
Allora la gente del paese disse: “Dobbiamo portare il mais alle nostre case, ma prima
dobbiamo separare i semi, per seminarlo e raccoglierlo ogni anno”.
Fu così che gli uomini conobbero il mais. Seminarono il mais nero e venne fuori nero.
Seminarono il mais giallo e venne fuori giallo. Seminarono il mais rosso e venne fuori rosso.
Seminarono il mais bianco e venne fuori bianco. Le piantine di mais, invece, erano tutte
uguali: lunghe canne con grandi foglie verdi addormentate di lato. E da allora furono il cibo
dell'umanità.
Quando la gente del paese ebbe placato la fame, decise di
festeggiare la donnola. “Signora donnola!” la chiamarono.
“E’ stata davvero di parola, e quindi le faremo una gran
festa.” La donnola sbatté le palpebre varie volte, come per
dire: “Avete visto che avevo ragione”.
La gente del paese decise di darle le migliori galline, i
migliori galli e i migliori tacchini che ognuno aveva in casa. E così fu: molti uscirono dalle
loro casa con le galline, che erano già ingrassate mangiando mais, e altri con galli grassi per
aver becchettato il nuovo cibo, e altri ancora con i signori tacchini dalla cresta rossa, da
offrire alla donnola.
Siccome però i taccagni non mancano mai, ci fu chi nascose le proprie galline e i propri galli,
e al loro posto portò alla donnola dei pulcini piccolissimi. La donnola si accorse della loro
meschinità e decise di dar loro una lezione. Perché bisogna sempre saper essere grati quando
si riceve un favore. Quella stessa notte, quando ormai tutti dormivano, la donnola ritornò al
paese ed entrò nei pollai dei taccagni che non
avevano voluto regalarle un bel gallo o una bella
gallina o un del tacchino. Furtivamente se li portò
via, e il giorno dopo gli ingrati si ritrovarono senza
polli, senza galli e senza galline. Così facendo, la
donnola fece capire agli esseri umani che non
bisogna essere taccagni e che si deve sempre essere
riconoscenti.
La leggenda del guaranà (Brasile)
Gli indios Sateré-Maué abitavano anticamente tra i fiumi Madeira
e Tapajòs, un’ampia zona forestale dello stato di Amazonas; ma
qualcuno parla ancora di un mitico luogo d’origine, “là dove le
pietre parlano” che sarebbe localizzato sulla riva sinistra dello
stesso fiume Tapajòs, dove la foresta è più fitta e scusa di
vegetazione.
Gli uomini vanno a caccia e pescano, colgono castagne, noci di cocco, formicoli, lucertole e
altri alimenti. Le donne preparano farina di manioca, coltivano patate dolci e un’infinità di
frutta tropicale. Ma gli indios si attribuiscono con orgoglio la scoperta del guaranà, una
pianta silvestre della zona ricca di proprietà energetiche. Raccolgono i semi del guaranà
prima che si apra l’involucro che li trattiene. Li lavano nell’acqua corrente, li fanno
abbrustolire in forni di fango per poi macinarli nel mortaio. Impastano con acqua la farina
con cui poi fanno dei bastoncini da grattugiare su una pietra ruvida. La farina viene poi
sciolta in acqua, ed ecco la magica bevanda che –dà forza e vita e guarisce tutte le malattie-.
Gli indios Sateré-Maué si dichiarano figli del guaranà e usano nei rituali ornamenti rossi e
verdi, i colori della pianta.
Simbolo della loro cultura è il porantim, un remo magico su cui è incisa simbolicamente la
storia mitica.
Dicono che, all’inizio del tempo, quando si formarono
tutte le cose in cielo e sulla terra, vivevano già tre fratelli:
due maschi con una sorella bellissima che chiamavano
Uniaì.
Uniaì era padrona assoluta di Noçoquem, un luogo
incantato, il più bello che si conoscesse sulla terra. Solo
Uniaì conosceva tutte le piante di quel paradiso: le piante che davano cibo saporoso, quelle
che guarivano dalle malattie, quelle che offrivano grani multicolori per le collane e le piante
dalle quali pendevano, dure come il legno, palle rotonde di color marrone che potevano
servire come scodelle per bere.
Uniaì sapeva tutto ciò di cui necessitavano i due fratelli e faceva loro scoprire ogni meraviglia
a poco a poco. Un giorno piantò un castagno che s’innalzò tanto nel cielo da non potersi
scorgere la cima.
Uniaì non aveva marito. A quel tempo gli animali
vivevano come gli uomini e tutti avrebbero voluto
sposarla, ma i due fratelli non volevano, preferivano
che rimanesse sempre con loro provvedendo alle loro
necessità. Tra gli animali fu un serpentello il primo a
esprimere il suo desiderio. Tutti i giorni lasciava dietro
di sé una scia di profumo che inteneriva subito il cuore.
Uniaì passava di là e sospirava - Ma che profumo
soave!-. Il serpentello, acquattato lì vicino, si scioglieva di tenerezza - Lei mi ama, non lo
disse?- e andava a stirarsi più in là, in mezzo al sentiero. Quando passò la ragazza il
serpentello la fissò negli occhi e la chiese come sposa. Con quel semplice incanto, l'animale
la prese in sposa e concepì con lei un figlio. Ma ai fratelli non andò giù - Adesso lei avrà cura
solo del bambino e non si curerà più di noi- e decisero di non vedere più né la sorella né suo
figlio. Allora Uniaì se ne andò.
Nel frattempo il castagno allargava le sue fronde come un piccolo cielo verde cupo. Dai rami
pendevano già graziosi involucri con dentro una sorpresa: le castagne.
Uniaì aveva costruito la sua capanna molto lontano, ai bordi di un ruscello. Il bimbo
cresceva bello e robusto e la madre ogni giorno lo portava a fare il bagno nell’ora più
luminosa, quando arrivavano vento, luce e farfalle a giocare con l’acqua. La mamma gli
raccontava le storie di Noçoquém, gli raccontava delle piante, dei fiori, degli uccelli, dei
frutti e degli zii e del castagno che aveva piantato. Appena il bimbo cominciò a parlare disse
a Uniaì - Anch’io voglio mangiare le castagne e gli altri
frutti che piacciono agli zii-.
-Non è facile, figlio mio. I tuoi zii sono padroni di quella
terra e io non ci posso più tornare-.
Ma il bambino continuava a insistere.
-Ma è pericoloso. I tuoi zii hanno messo a guardia
un cotia (il roditore Dasyprocta aguti), un cocorito e un pappagallo arara.
-Lo voglio lo stesso- ripeteva il bambino. Si misero in cammino.
Un giorno il cotia, passando per Noçoquém, vide sotto il castagno, per terra, le ceneri del
fuoco dove erano state abbrustolite le castagne. Corse subito dai fratelli per raccontare ciò
che aveva visto. E dopo poco giunse anche il cocorito a riferire che era successo qualcosa di
strano. Allora i due fratelli decisero di mandare la scimmietta Bocca di Viola a custodire il
castagno.
Il giorno dopo il bambino aveva una gran voglia di
mangiare castagne e decise di andare da solo visto che
conosceva la strada.
La scimmietta lo scoprì subito arrampicato sull’albero e
cominciò a scoccare frecce in direzione dell’albero
finché non riuscì a colpirlo e il bimbo cadde a terra,
trafitto.
Quando Uniaì si accorse della mancanza del figlio si mise a correre più forte che poté e
quando arrivò scoprì ciò che era successo. Pianse tanto fino all’ultima lacrima e poi gridò –i
tuoi zii ti volevano così, senza vita. Ma così non sarai!- e poi mormorò una cantilena, come
un incantesimo.
Grande sarai e guarirai gli uomini.
Tutti correranno da te per scacciare i malanni,
avere forza in guerra,
avere un amore più grande
e così anche tu, grande sarai!
Subito dall’occhio sinistro del bambino spuntò una pianta, ma
non era robusta: si trattava del falso guaranà che oggi gli indios
chiamano uranà-hop. Poi dall’occhio destro spuntò il vero
guaranà.
E’ per questo che il frutto di questa pianta assomiglia agli occhi
dei bambini.
Dopo giorni e giorni Uniaì tornò a controllare la pianta e la
trovò grande e piena di frutti maturi. E sotto la piante, con
grande sorpresa vide suo figlio vivo, forte e allegro.
Questo bambino, nato come una pianta dal cuore della terra,
fu il primo indio Maué. Lui è forza e vitalità. Lui è l’origine
della tribù.
La pianta della fortuna (Perù)
Durante l’età dell’oro esisteva nella valle andina un piccolo
villaggio molto prospero: Itau. Gli abitanti lavoravano dalla
mattina alla sera e in tutto il regno il villaggio era citato come
esempio di laboriosità: non si conosceva la pigrizia. - Va a
Itau- diceva l’imperatore a suo figlio- e vedrai ciò che io
chiamo fortezza d’animo-. Il bambino ascoltava incantato
quanto gli diceva suo padre.
Ogni sera al tramonto, l’imperatore raccontava delle belle
storie della tradizione Inca; e quando narrava le prodezze della gente di Itau, finiva sempre
per commuoversi.
Itau era un paese dove non si incontrava un solo uomo ozioso: tutti lavoravano, ma il lavoro
rendeva poco quindi raramente gli abitanti del villaggio potevano mangiare
abbondantemente.
Un giorno una vecchietta di nome Vea sempre preoccupata per il bene del prossimo, decise
di fare qualcosa per Itau. Facendo un giro intorno alla sua casa, vide una pianticella
sconosciuta. Si chinò per osservarla meglio e udì una voce provenire da chissà dove -
Raccoglimi donna!-.
Vea si guardò attorno, ma non riusciva a vedere nessuno. La voce insisteva -Raccogli la
pianta vicina al tuo piede, facendo attenzione a non spezzarne le radici. Poi piantala sulla riva
sinistra del torrente-.
Vea, anche se dubbiosa, decise di seguire le indicazioni della voce, raccolse la pianta e andò
in direzione del corso d’acqua. Quando arrivò là
trovò un lama nero che la fissava intensamente.
Lei piantò il piccolo arbusto e l’animale,
inaspettatamente sputò più volte sulla terra
smossa.
La vecchia si sorprese ma poi si accorse che la
saliva del lama aveva un effetto prodigioso sulla
pianta che stava crescendo rigogliosamente.
Vea rimase tutta la notte a sorvegliare la piantina:
sotto la luna le foglie avevano un bellissimo colore
verde pallido.
La mattina seguente erano comparsi alcuni fiorellini bianchi
che al tramonto si erano già trasformati in tante pallottoline
lucide e rosse: erano maturati i primi frutti.
Cominciò così la storia del pomodoro, ricchezza e vanto di Itau,
in Perù.
Ceà, la pianta mate, leggenda guaranì. (Paraguay)
Un giorno Yaci, la luna, decise di scendere sulla terra perché
era curiosa di vedere i fiumi, i boschi e la foresta. Veramente li
vedeva da sempre però di notte non poteva distinguere il
colore dei fiori né udire il canto degli uccelli che a quell’ora
dormivano. Per questo passava lunghe ore nella tristezza, con
la faccia pallida, conversando con i rospi. A volte si infiltrava
tra le foglie degli alberi, penetrava fin dentro la foresta e
andava curiosando nelle capanne degli uomini… però
dormivano tutti! Yaci avrebbe voluto conversare un poco con i suoi figli, sapere come
stavano e percorrere i vari luoghi che, come le diceva la nuvola Araì, erano così belli di
giorno.
Decise dunque di scendere insieme con
la nuvola e, per non essere riconosciute,
presero forma umana trasformandosi in
due belle donne.
Yaci rimase incantata a vedere le bellezze
del mondo sotto la luce del giorno: il
sole restituiva alle acque tutto l’azzurro
del cielo, i fiori di irupè si aprivano e si
tingevano di viola, giallo, rosso e altri
mille colori, il canto degli uccelli riempiva di musica lo spazio. -Che meraviglia- diceva Yaci e
non si stancava di guardare. Una volta stavano andando a passeggio nella foresta quando,
improvvisamente vennero attaccate da un coccodrillo, ma per fortuna un uomo che passava
di lì intervenne tempestivamente e trapassò l’animale con una freccia e poi con una seconda,
fino ad ucciderlo.
Ma tutto accadde così rapidamente che, quando l’uomo di voltò, Yaci e Araì non c’erano più
e avevano già ripreso la forma naturale e osservavano la scena dall’alto del cielo.
La stessa notte Yacì e Araì gli apparvero in sogno e gli dissero chi erano. -Vogliamo
ringraziarti per quello che hai fatto, hai rischiato la vita per due donne indifese. Cercheremo
per te un regalo degno del tuo nobile cuore. Domani, quando ti sveglierai, troverai una
nuova pianta che chiamerai Caà. Non dimenticare che prima di usare le sue foglie devi
abbrustolirle perché sono velenose. La pianta caà sarà segno di fraterna amicizia e avrà la
virtù di alleviare la stanchezza e rianimare i malati. Sarà compagna
nella solitudine e vincolo di amicizia tra gli uomini-. Così parlò
Yaci e scomparve insieme ad Araì.
L’uomo il giorno dopo constatò con gioia che il sogno si era
avverato ed era comparsa una nuova pianta proprio a fianco della
sua capanna ed era la pianta caà o erba mate, conosciuta anche
col nome di caà-yari e caà-guazù.
Europa
L'utile dono di Atena alla Grecia (Grecia)
L’olivo ha un posto importante nella mitologia greca.
Moltissimi infatti sono i miti e le leggende a esso
collegati. D’altra parte è uno degli alberi più presenti
sul territorio e ai suoi prodotti è da sempre legata una
parte importante dell’economia. Per giustificarne
l’esistenza dunque, sono stati scomodati addirittura gli
dei dell’Olimpo. Si narra che Zeus, padre di tutti gli
dei, avesse indetto una gara tra i suoi figli: chi offriva
alla Grecia il dono più utile avrebbe avuto in premio
Atene e tutta la regione dell’Attica. Gli dei ce la misero tutta, ma a uno a uno vennero
eliminati. Restarono Atena, dea della sapienza e Poseidone,
dio del mare. Quest’ultimo fece sbucare dalla foresta uno
splendido cavallo, mentre Atena trasse dalla terra un nuovo
albero, l’olivo. Zeus non ebbe dubbi, il nuovo albero
sarebbe stato prezioso per gli uomini più del cavallo. Fu
così che aggiudicò la gara ad Atena.
Poseidone, dio del mare, non si accontenta di aver ottenuto, nella spartizione del regno del
padre Crono, la signoria degli oceani. Invidia a suo fratello Zeus il dominio del cielo ed è
avido di terre, che contende, appena può, a tutti gli altri dei.
Poseidone abitava in uno stupendo palazzo sull'isola di Eubea.
La reggia era decorata di madreperla con numerosi intarsi di conchiglie, coralli e gemme
preziose. Quando Poseidone usciva su un carro d'oro trainato da alati cavalli bianchi, era
seguito dalla numerosa corte di tritoni, sirene e nereidi.
Tutte le creature del mare gli ubbidivano e buona parte di quelle della terra lo temevano
perché egli aveva piena signoria sulle onde, i maremoti e le burrasche marine, che inviava
sulle coste quando andava in collera.
Poco lontano dal suo regno c'era una città stupenda, Atene , ricca di splendidi palazzi di
marmo e di templi imponenti, che onorava soltanto la saggia figlia di Zeus, Atena. Il dio del
mare, invidiosissimo, fremeva dalla voglia di diventarne il signore.
Un giorno arrivò col suo carro veloce sul punto più alto di Atene, l'Acropoli, e battendo sulla
roccia con la sua arma, il tridente, fece sgorgare una fonte d'acqua marina.
"Ecco la prova che Atene è mia" gridò il dio ai quattro venti.
"Qui sgorga acqua di mare, e io sono il dio del mare...".
La dea Atena si fece avanti, protestando, ma Poseidone la sfidò: "Ah, sì, questa città è tua? Te
la ridarò se sarai capace di battermi in duello".
Atena scosse la testa.
"Perché combattere?", disse. "Facciamo una gara pacifica : vincerà chi regalerà agli abitanti di
questa terra la cosa più utile".
"Io dono il cavallo!", gridò Poseidone, sicuro di vincere. Che cosa c'era infatti, per quei
tempi, di più utile del veloce cavallo?
Atena piantò in terra la sua lancia e immediatamente spuntò in quel punto una piantina dalle
foglie d'argento, che crebbe a vista d'occhio: era l'ulivo.
Poseidone s'appellò a Zeus, il quale convocò subito una giuria di dei e di dee, in numero
uguale.
A quel punto chiese loro di dare un giudizio: era più utile il cavallo o l'ulivo dai frutti
preziosi?
Difficile prendere una decisione. Dopo infinite ed accese discussioni, che si protrassero per
giorni e giorni, l'eccellente giuria non poté emettere un verdetto definitivo.
Infatti gli dei erano in favore di Poseidone, mentre tutte le dee erano dalla parte di Atena.
Vinsero però queste ultime, perché il padre Zeus, come giudice supremo, si astenne dal
voto, dando la maggioranza alle dee.
Così fu evitato il duello nel quale Atena avrebbe senz'altro avuto la peggio.
Da allora l'ulivo divenne il simbolo della pace e tale è rimasto anche ai nostri giorni.
Il mito di Demetra (Grecia)
Demetra, figlia di Crono e Gea, secondo la tradizione
mitologica è la dea fondatrice e protettrice
dell'agricoltura e delle istituzioni familiari. Il suo nome
significa significare infatti "Dea Madre" o "Dea
dispensatrice". Il mito a cui è legata la figura di
Demetra è quello che racconta del ratto, cioè del
rapimento, di sua figlia Persefone da parte di Ade, dio
degli Inferi.
Persefone è intenta a raccogliere fiori con altre
fanciulle quando, all'improvviso, appare il re degli
Inferi e la costringe a seguirlo sul suo carro. Demetra
sente l'urlo disperato della figlia, ma è troppo lontana
per salvarla.
Inizia così il suo viaggio alla ricerca di Persefone; abbandona l'Olimpo e il suo ruolo di dea
delle messi rendendo del tutto sterile la terra e mettendo in pericolo la sopravvivenza del
genere umano. Zeus, padre di tutti gli dei e re dell'Olimpo, non può permettere che
scompaia il genere umano, e con esso le offerte degli uomini per le divinità in occasione dei
sacrifici. Ordina così a suo fratello Ade di restituire la fanciulla a Demetra.
Ade esegue l'ordine ma, prima di lasciare andare l'amata, le fa mangiare alcuni chicchi di
melograno. Così Persefone, interrompendo il suo digiuno, rimarrà legata per sempre al
mondo degli inferi.
L'origine delle stagioniL'origine delle stagioniL'origine delle stagioniL'origine delle stagioni
Il racconto mitico ci tramanda che da quel momento Persefone trascorrerà sei mesi
sull'Olimpo e sei mesi nel mondo dei morti. Tale alternanza scandisce il ritmo delle stagioni:
i mesi in cui la dea è negli Inferi corrispondono ai mesi invernali durante i quali il grano è
assente dai campi, i mesi in cui è sull'Olimpo corrispondono alla primavera e all'estate, mesi
della rinascita vegetativa e della raccolta del grano.
Il cultoIl cultoIl cultoIl culto
Tutto il mondo mediterraneo è costellato di santuari dedicati alle due divinità e il loro culto
si sviluppa tra il VII e il IV secolo a. C. Tra le offerte ritrovate durante gli scavi predominano
le statuette di Demetra raffigurata con la fiaccola, con il maialino o con le spighe di grano.
Sono simboli legati sia al racconto mitologico che alla funzione svolta dalla divinità.
La fiaccola è servita a Demetra per scendere negli Inferi alla ricerca
della figlia, il maialino e le spighe sono simboli di fertilità. Gli
offerenti di solito portavano nei santuari, come ringraziamento per
il dono dell'agricoltura, le primizie dei raccolti, o sotto forma di
repliche di terracotta o veri e propri cesti colmi di frutta e cereali.
Il mito di Cerere
A Roma, Demetra fu chiamata Cerere, e il nome collettivo
dei chicchi della terra è cereali.
Nel chicco, apparentemente secco eppure capace di
germogliare, si incontrano morte e vita , e quello che
sembrava una fine torna a essere un inizio, in un ciclo che
garantisce la continuità della vita.
E’ proprio questo che vogliono significare i cosiddetti pani
dei morti, e non e caso il giorno dei morti cade nella
stagione della semina.
Cerere (identificata con la dea greca Demetra) era la dea
della fertilità dei campi. Nella vicenda mitica di sua figlia Proserpina (Persefone per i Greci),
rapita e trattenuta sotterra dal dio dei morti ma poi restituita alla madre per una parte
dell'anno, è simboleggiato il ciclo della vegetazione. In onore di Demetra e di Persefone si
celebravano in Grecia i famosi misteri di Eleusi
Figlia di Crono e di Rea, Demetra era per i Greci la divinità che aveva insegnato agli uomini
l'agricoltura, favorendone così il progresso. Il suo stesso nome era interpretato come "Madre
Terra". A Roma ben presto con lei venne identificata Cerere, antica divinità italica
strettamente associata a Tellus, dea della Terra. Cerere era celebrata con la festa delle
Cerealie (19 aprile). Altre feste e sacrifici avevano luogo alla fine della semina e all'inizio
della raccolta. A partire dal 496 a.C. la dea ebbe un tempio sull'Aventino.
Il racconto di un famoso inno omerico proietta in epoca mitica le origini del culto misterico
di Demetra a Eleusi, che prevedeva la celebrazione di riti segreti cui venivano ammessi solo
gli iniziati. Nel racconto Ade (il dio dei morti) si invaghisce della figlia di Demetra,
Persefone, e, mentre ella sta cogliendo fiori in un prato, la rapisce portandola nel suo regno.
Demetra sente il grido di sua figlia e, coprendosi con un velo nero e stringendo nelle mani
fiaccole ardenti, vaga alla sua ricerca per nove giorni, senza nutrirsi né lavarsi. Poi apprende
dal Sole la verità.
Adirata contro Zeus (Giove), che ha permesso il rapimento, Demetra abbandona l'Olimpo e
assume le sembianze di un'umile vecchia. Giunta a Eleusi, viene accolta nella reggia per
servire la regina Metanira. Ma la sua pena non l'abbandona; solo l'ancella Iambe riesce a
indurla al riso con le sue battute spiritose: vengono così ricondotte al mito le origini delle
frasi vivaci e argute che i fedeli solevano scambiarsi durante la processione in onore della
dea. Rifiuta anche il vino rosso che le viene offerto, dicendo che le è consentito bere solo
acqua con farina d'orzo e menta (la bevanda effettivamente in uso nei suoi riti).
Quando la regina le affida le cure del neonato Demofonte, Demetra si affeziona al bimbo e
vorrebbe renderlo immortale temprandolo sulla fiamma del fuoco; ma viene scoperta da
Metanira. La dea, indispettita, interrompe l'operazione e, rivelando la sua identità, chiede
che le venga eretto un tempio lì a Eleusi: ella stessa insegnerà il rito per placarla. Cancellato
ogni segno di vecchiaia, appare ora bellissima, profumata e splendente in tutto il corpo.
Costruito il tempio, Demetra vi prende sede, ma rimane in disparte da tutti gli altri dei,
afflitta per la perdita di sua figlia. Una terribile carestia si abbatte sulla Terra, perché la dea
non permette ai semi di germogliare. Il genere umano rischia di estinguersi e gli stessi
sacrifici agli dei cessano.
Allora Zeus chiede ad Ade di restituire Persefone a sua madre. Ade obbedisce ma,
astutamente, fa prima mangiare alla fanciulla un chicco di melagrana, sì che essa, avendo
diviso del cibo con i morti, non possa distaccarsene completamente. E così sarà: Persefone
abiterà sull'Olimpo per due terzi dell'anno; per un terzo, invece, sarà con il suo sposo negli
Inferi. La vicenda è un'allegoria della natura e del ciclo della vegetazione, che muore e
rinasce.
Pacificata, Demetra fa sorgere le messi dai campi, riempie la Terra di foglie e di fiori, e rivela
ai re di Eleusi i suoi misteri.
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  • 2. Miti e leggende sull'alimentazione In tutte le culture, il problema dell’alimentazione è stato sempre considerato di vitale importanza. Non a caso, nelle leggende e nei miti di tutti i popoli si trovano riferimenti alle piante o agli animali ritenuti fondamentali per la sopravvivenza degli uomini. Di seguito ne offriamo una documentazione, classificandoli per continenti. Il titolo, invece, in modo scherzoso, mette in relazione un mito alimentare moderno e propriamente occidentale, ancorché poco salutare secondo i canoni della dieta mediterranea, con un luogo altro. Buona lettura http://maisong.jimdo.com/
  • 3. IndiceIndiceIndiceIndice • Asia - Un chicco di riso (Birmania) - Il compleanno di Miluotuo (Cina) - Origine del riso (Corea) - Non c'è nulla di più prezioso del riso (Vietnam) - Le banane e lo spirito celeste (Filippine) • Oceania -Il pesce Luna (Australia) • Africa - Perché certi animali diventarono domestici - Cacciatori ed agricoltori (Pigmei) - La pioggia cade quando gracidano le rane (Bantu) • America del Nord - I capelli della vecchia - La spiga (Indiani Wichita) - Come il mais arrivò sulla terra (Sud Dakota) • America Latina - Le origini del mais bianco (El Salvador) - Storia della donnola che aiutò gli uomini a trovare il mais (Guatemala)
  • 4. - La leggenda del guaranà (Brasile) - Le origini del pomodoro (Perù) - L'origine del mate (Paraguay) • Europa - L'utile dono di Atena alla Grecia - Il mito di Demetra - Il mito di Cerere
  • 5. Lontanissimi e presenti: nessuno ci è estraneo. Lella Siniscalco Siamo tutti meravigliosamente diversi. Anonimo
  • 6.
  • 7. Asia Un chicco di riso (Birmania) Si dice che nei tempi passati vivesse in uno di questi villaggi una povera vedova di nome Gahtishu, rimasta sola con una giovane figlia. La donna tirava avanti grazie a un campicello sul fianco di una collina, ma era così povera che non poteva permettersi di perdere nemmeno un chicco di riso prodotto dal suo appezzamento. Immagazzinava con cura il suo raccolto di riso grezzo in un cesto di vimini e, quando poi lo metteva al sole, faceva ben attenzione a non lasciarsi sfuggire per terra neanche un chicco. Tutto il giorno lo teneva d’occhio attentamente in modo che ne polli ne passeri potessero rubarle qualche granello. E così quando lo sbucciava nella macina, lo pestava nel mortaio o lo metteva nel vassoio di vimini per separare la pula dal chicco, non lasciava che un solo granello andasse sprecato. Era così meticolosa che insisteva con sua figlia Nan Sue che stesse attenta a non perdere un solo chicco di riso quando lo lavava prima di cuocerlo e, una volta che il riso era cotto e lo si mangiava, che nessun granello cadesse di lato o rimanesse nel piatto. Nan Sue, spazientita per la pignoleria della madre, una volta ebbe a dire: “oh ma’, che cosa vuoi che sia perdere un grano di riso? Il valore di un chicco è così minuscolo!”. “Non la pensare così, cara figlia mia. Tu hai lavorato anno dopo anno nel nostro appezzamento e puoi ben renderti conto di quanto noi poveri coltivatori dobbiamo lottare durante l’anno per produrre questi chicchi di riso. Cominciando a lavorare all’inizio delle piogge dobbiamo faticare per quattro o cinque mesi al fianco di buoi e bufali, nella pioggia e nel fango; e quando facciamo il raccolto nella stagione fredda dobbiamo rischiare la nostra vita avventurandoci in campi infestati dai serpenti. Supponiamo che per distrazione tu perda un po’ di chicchi durante la raccolta, un altro po’ mentre si asciugano al sole, un po’ durante la macinatura, oppure mentre li pesti nel mortaio o li separi dalla pula e ancora un po’ mentre li lavi, li cucini e li mangi…quanto sarebbe, tutt’insieme la perdita di questi preziosi granelli?” rispose la madre. Per amor di pace Nan Sue promise di non lasciarsi sfuggire un solo chicco durante queste operazioni. Un giorno, mentre lei era fuori nel campo, Gahtishu tirò fuori una misura di riso sbucciato e cominciò a cucinarlo, ma nel fare ciò un chicco cadde e si
  • 8. infilò nel pavimento di bambù della casa. Andò allora sotto per cercarlo, ma non riuscì a trovarlo. Spazzò via i rifiuti e la sabbia finché il terreno sotto il pavimento non fu scoperto, ma ancora non riusciva a trovarlo. Era così assorbita dallo sforzo di ritrovare quel granello di riso che perse la nozione del tempo e si fece buio. Quando Nan Sue tornò a casa e la trovò così china e indaffarata le chiese che cosa stesse facendo. Gahtishu spiegò: “mentre scuotevo il riso un chicco è caduto attraverso il pavimento e non sono ancora riuscita a trovarlo”. E la figlia, scandalizzata: “povera me! Devi farla così lunga per recuperare un misero chicco di riso? Che dirà la gente? Ora è buio, per favore lascia perdere”. “Lascia che dicano quello che vogliono. Un chicco non potrà costituire un pasto, ma tanti granelli così possono farlo. Un solo granello di riso con la buccia può sembrarti di scarso valore, ma seminalo e raccogli i suoi frutti, poi semina di nuovo il raccolto l’anno seguente e raccogli nuovamente; e se in questo modo semini e mieti per sette anni di seguito, sette navi non potrebbero trasportare il tuo intero raccolto”. A questo punto Nan Sue si unì alla ricerca sotto il pavimento e chiese a sua madre di farle il calcolo di come un grano di semenza potesse aumentare e moltiplicarsi in sette anni producendo un tale raccolto. Allora sua madre mostrò le sue capacità di calcolo: “Nel primo anno il tuo unico chicco produrrà una manciata di chicchi. Seminando quella manciata l’anno seguente ne verranno prodotti tre cesti pieni. Se lo semini di nuovo il terzo anno farai un raccolto di 60 ceste. Queste sessanta ne produrranno 1200 al quarto anno. Al quinto le 1200 ne daranno 24000 e queste a loro volta frutteranno 480000 a cesta; così per finire avrai 9 milioni e 600000 cesti. Per stivarle saranno necessarie le stive di sette intere navi, non ti pare?”. Nan Sue fu così impressionata che raddoppiò gli sforzi nelle ricerche, finché trovò il granello che stava nascosto nella fessura di un palo. Quella sera cenarono assai tardi, ma a Nan Sue non importava, perché la dimostrazione di sua madre sulla moltiplicazione di un seme aveva incantato la sua mente. Da allora in poi fu ben attenta a non sprecare neanche un grano di riso e si dice che la sua risolutezza non solo rimase salda fino alla fine, ma si diffuse in tutto il vicinato. - Paese che vai, piatti che trovi. Il lungo viaggio del cibo dall'America Latina all'Europa", supplemento a Volontari per lo Sviluppo, anno IX, n°4, settembre 1991
  • 9. Il compleanno di Miluotuo (Cina) In un tempo infinitamente lontano, la dea Miluotuo mandò le sue tre figlie sulla Terra, perché vivessero la loro vita nel modo che preferivano. Tutte contente, le ragazze si misero in viaggio nel cuore della notte, e, stanche com’erano, appena arrivate si addormentarono. Il giorno dopo la figlia maggiore si alzò all’alba, prese un aratro e con quello arò le grandi e feritili pianure. Da lei discende la gente Han, che lavora la terra e la fa fruttare. La seconda figlia si alzò un po’ più tardi, prese carte, inchiostro, pennelli e libri e si ritirò in città, a studiare e meditare. E’ lei l’antenata della gente Zhuang, particolarmente abile nella pittura, nella calligrafia, nella musica e negli scacchi. La terza figlia si alzò tardissimo e quando vide che le sue sorelle si erano ben sistemate, prendendosi il meglio, scoppiò a piangere e andò a lamentarsi dalla madre. Pigra come sei non meriteresti nulla” le disse Miluotuo “ma ti aiuterò lo stesso; ecco, questo è tutto il riso che abbiamo in dispensa, e laggiù c’è una zona montagnosa dove potrai seminarlo”. La ragazza andò e seminò il suo riso, ma appena spuntarono i germogli i gatti selvatici vennero a calpestarli. Quando poi le piantine misero le foglie, i cervi ne brucarono un bel po’ e quando, infine, maturarono le spighe gli uccelli se le mangiarono dalle prima all’ultima. La terza figlia andò di nuovo da Miluotuo: “Come sono disgraziata, madre! Aiutami tu!”. Allora la dea le regalò un grande tamburo di rame e le consigliò di imparare a suonarlo.
  • 10. “Ma a che cosa mi serve?” chiese la ragazza, e se ne andò avvilita, portandosi dietro l’enorme e pesantissimo strumento. Una volta sulla terra, però, decise di seguire i consigli della madre e sistemò il tamburo sulla montagna, tra le risaie. Così scopri che, suonandolo ogni giorno, riusciva a spaventare e a tenere lontani gli animali che le rovinavano il riso. Il raccolto fu straordinariamente abbondante e le permise di nutrire e crescere molti figli e nipoti che più tardi divennero la gente Yao. E ancora oggi gli Yao, bravi coltivatori di riso, il giorno 29 del quinto mese festeggiano il compleanno della loro nonna divina, Miluotuo, suonando i loro tamburi di rame e danzandoci attorno.
  • 11. Origine del riso (Corea) Nei tempi antichi il riso non si raccoglieva nei campi. Tutte le mattine, un chicco di riso compariva sul focolare del contadino e si infilava nella pentola che serviva per cuocere il riso. La moglie del contadino doveva cuocerlo senza nemmeno sollevare il coperchio della pentola, perché questo gesto era tabù (pantang). Nel pomeriggio la pentola era piena di riso pronto per essere consumato. Un mattino, la moglie del contadino dovette uscire per andare alla fattoria e raccomandò ai bambini di non scoperchiare la pentola del riso durante la sua assenza. Dopo che la madre era uscita, una delle bambine, spinta dalla curiosità, cercò di scoperchiare la pentola di nascosto dalle sorelle più grandi. Chinandosi per guardare dentro, vide una bambina che spari improvvisamente, non lasciandosi dietro che un chicco di riso. La sorella più grande, molto arrabbiata, rimproverò la piccola. Quando la madre tornò, vedendo che non c’era riso nella pentola, comprese che qualcuno l’aveva aperta. Rimproverò la figlia che, disobbediente, aveva infranto il tabù Ma non c’era più nulla da fare. Da quel giorno, tutti devono lavorare sodo per piantare il riso, raccoglierlo e immagazzinarne i grani.
  • 12. Non c’è nulla di più prezioso del riso (Vietnam) Oltre duemila anni or sono, un re della dinastia Hung Vuong, sentendosi invecchiare, convocò a corte i suoi ventidue figli. “Cercate l’alimento più raro e più gustoso affinché io possa offrirlo ai nostri avi per propiziarmi la loro benevolenza. Chi di voi saprà trovare questo cibo sopraffino sarà mio erede e diventerà re”. Tutti i principi si misero alla ricerca delle meraviglie dei mari e delle foreste, ma nessuno di loro riuscì nell’intento. Una notte, tuttavia, un genio apparve in sogno a Lang Lieu, unico fra i figli del re a vivere in povertà. “Non vi è nulla sulla terra di più prezioso del riso.” disse, “Il riso non ha eguali fra gli alimenti. Prendi dunque del riso cotto al vapore e fanne un impasto tondo come il cielo. Con del riso crudo fai una sfoglia, quadrata come la terra. Farcisci questi dolci con carne di maiale ed avvolgile in foglie di banano”. Il giovane Lang Lieu seguì le indicazioni del genio ed offri il suo dolce al re che ne apprezzò il gusto delicato. Tenendo fede alla sua promessa, il sovrano abdicò in favore del figlio. Il dolce tondo fu chiamato banhday, quello quadrato banh chung. Da allora essi vengono offerti in tutte le cerimonie vietnamite, in particolare durante i festeggiamenti per il Tèt che segna l’inizio dell’anno Lunare. E, secondo un vecchio adagio popolare vietnamita, senza banh chung e senza sentenze parallele (frasi augurali scritte in antichi caratteri su carta rossa, colore della felicità) la celebrazione del Nuovo Anno sarebbe incompleta.
  • 13. Le banane e lo spirito celeste (Filippine) C’era una volta una bella ragazza chiamata Kabaye. Era alta, aveva occhi neri e lunghi capelli lucenti. Il colore della sua pelle era d’un bronzo dorato. Una mattina Kayabe stava raccogliendo legna nel bosco, quando le si fece incontro un giovane. Questi aveva l’aspetto di un cacciatore: alto, attraente, vestito con molta cura. Nessuno lo conosceva o sapeva da dove venisse. Neppure si sapeva il suo nome. Questo giovane piacque subito a Kayabe, e lei a lui. Kayabe non sapeva che quel giovane era un ànito, uno spirito celeste. Presto divennero amici. Una amicizia che andò avanti per un lungo tempo, tanto che Kayabe si meravigliava che il giovane non avesse ancora proposto di sposarla. Per questo motivo Kayabe si sentiva infelice e confidava al giovane: “Non ho genitori, né fratelli o sorelle. Anche tu sei solo. Sono certa che saremmo felici se vivessimo assieme”. “Io non volevo svelarti il segreto” spiegò il giovane, “Ma tu devi sapere che io sono un ànito, e non posso sposare una terrestre come te. Io debbo tornare in cielo un giorno!”. Kayabe a questa rivelazione fu molto sorpresa. Non sapeva cosa dire. Solo tratteneva le mani del giovane strette nelle sue. “Ti prego, lasciami andare” supplicò il giovane. “Io ho sempre sperato che tu non venissi a sapere chi ero”. Ci fu un lampo accecante, e il giovane scomparve. Ma la fanciulla stringeva con tanta forza le mani del giovane tra le sue, che questi gliele lasciò. Kayabe, presa da un grande timore, corse a casa e seppellì quelle mani in un angolo del suo giardino. Dopo qualche settimana Kayabe vide spuntare in quel punto del giardino una strana pianta: un albero che crebbe molto in fretta. Ben presto apparvero dei frutti assai originali: erano di un colore giallo, e sembravano dita di una mano. Erano il primo grappolo di banane che sia apparso sulla terra.
  • 14.
  • 15. Oceania -Il pesce Luna (Australia) Molto tempo fa, due sorelle che abitavano sulla terraferma attraversarono a nuoto il tratto di mare che le separava dall’isola. Fin da piccole avevano sognato ad occhi aperti quell’isola e ora, finalmente, era arrivato il momento di esplorarla. Approdarono sulla spiaggia rocciosa e cominciarono a camminare. L’isola non era grande, ma vi crescevano molti alberi, e al centro c’era uno spiazzo erboso con un piccolo lago d’acqua limpida. “Quest’isola è magnifica! – disse la sorella maggiore stendendosi sull’erba – Mi piacerebbe proprio vivere qui! L’acqua da bere è ai nostri piedi, il terreno è caldo, l’erba cresce verde, e questi grandi alberi ci riparano dal sole”. “E il cibo? Di cosa potremmo vivere qui?” chiese l’altra coricandosi al suo fianco. “Sono sicura che su quest’isola ci sono patate, molluschi da raccogliere sulla spiaggia, e radici di giglio d’acqua nel lago...”. Proprio in quel momento si udì un rumore d’acqua. Le due sorelle si alzarono sedute, e videro il dorso ricurvo di un grosso pesce solcare lento la superficie del lago. E scivolare via. “... e poi c’è pesce!”. La ragazza fu in piedi con un balzo e corse lungo la sponda del lago. Trovò un bastone, lo scheggiò per appuntirlo, e si mise in attesa sulla riva. Il pesce ricomparve poco dopo e la ragazza lo arpionò con forza: ci fu un grande fremito nell’acqua. “Vieni ad aiutarmi!” gridò. Saltarono insieme nelle acque del lago, afferrarono il pesce morente e lo gettarono sulla riva. “Su quest’isola è anche facile procurarsi il cibo! – disse la sorella maggiore, quella che lo aveva catturato – Raccogliamo della legna: si mangia!”. Poco dopo il fuoco scoppiettava insieme alle risate delle due sorelle, e in breve le pietre furono abbastanza calde per poter arrostire il pesce. “Il pesce da solo non è gustoso – disse la sorella più piccola – Ci vogliono radici, erbe e
  • 16. verdure da arrostire insieme al pesce!”. “D’accordo... tanto su quest’isola c’è tutto quello che vogliamo. Vedi cosa trovi laggiù, mentre io cerco nell’altra direzione!”. Più tardi tornarono con un ricco bottino ma, quando arrivarono alle pietre ormai rosse di calore, il pesce era scomparso. Videro che si era trascinato sulla sabbia, e le tracce proseguivano nell’erba, verso gli alberi. Si misero a seguire le sue tracce finché giunsero ai piedi di un grande albero. “Guarda!”. Il pesce era già a metà del tronco, e continuava ad arrampicarsi verso l’alto. La sorella più grande allora afferrò un ramo e fece per salire sull’albero. “Non farlo! – la fermò l’altra – Potresti cadere e farti male. Dove vuoi che vada un pesce? Quando arriverà ai rami più alti prima o poi cadrà di sicuro, e così noi lo potremo arrostire sul fuoco senza fatica”. Il pesce intanto continuava a salire lentamente lungo il tronco. Quando raggiunse la cima, i rami si piegarono al suo peso, ma il pesce non si fermò. Con un guizzo si lanciò verso l’alto, nel buio della notte, e continuò a salire. La sua pelle argentata brillava accanto alla debole luce delle stelle. Le due sorelle rimasero a fissarlo stupite, per ore, senza dire nulla, finché il pesce scomparve dietro le colline della terraferma. Tornarono al fuoco, e si distesero lì accanto, ma non riuscirono a dormire. Il giorno dopo cucinarono le verdure e arrostirono nelle ceneri i molluschi che nel frattempo avevano raccolto sulla spiaggia. Attendevano con impazienza la notte per vedere se nel cielo sarebbe apparso il pesce. Finché il sole tramontò. Allora videro un chiarore argenteo che illuminava il cielo a oriente, oltre l’orizzonte del mare. Il pesce salì lentamente in cielo. Sembrava un po’ più magro di quando si era arrampicato sull’albero ed era scappato dalla terra, e come se avesse dormito su un fianco. Da allora ogni notte il cielo fu rischiarato dal pesce che compiva il suo viaggio nel cielo, ma appariva ogni volta più magro, finché una notte scomparve e ritornò il buio. La mattina successiva le due sorelle tornarono a nuoto a casa, sulla terraferma, e raccontarono a tutti la vicenda misteriosa del pesce.
  • 17. Ma poi il pesce riapparve in cielo, e cominciò a farsi ogni notte più grosso fino a diventare rotondo. Poi ricominciò a diminuire di nuovo per sparire e per poi crescere ancora. Da allora accade sempre così.
  • 18.
  • 19. Africa Perché certi animali diventarono domestici Tanto tempo fa tutti i bovini, le pecore e le capre vivevano nelle foreste. Poi, un giorno, Tororut convocò tutti gli animali in un certo posto della giungla, e accese là un gran fuoco. E quando g li animali videro il fuoco si spaventarono e scapparono di nuovo nelle foreste. Rimasero soltanto i bovini, le pecore e le capre, che non si spaventarono. E Tororut fu contento di questi animali e li benedì, e decretò che da quel momento sarebbero vissuti sempre con l’uomo, che avrebbe mangiato la loro carne e bevuto il loro latte.
  • 20. Cacciatori ed agricoltori (Pigmei) Un Pigmeo ed un Nero andarono insieme a osservare degli scimpanzé. Sulla strada il Nero convinse il Pigmeo ad assaggiare le banane, ma il Pigmeo non sapendo che cosa fossero all' inizio era diffidente, poi ammise che erano veramente buone e si addormentò. Il Nero tuttavia era preoccupato perché non era sicuro che quel frutto non fosse velenoso, ma quando il Pigmeo lo assicurò di stare bene, i due fecero scorpacciata di banane. Vollero così introdurre quei buonissimi e dolcissimi frutti nei loro villaggi e decisero di coltivarli. Il Pigmeo, a differenza del Nero che ebbe buoni risultati, non sapeva come fare e non riuscì a coltivare niente. Si convinse quindi che per lui sarebbe stato meglio restare un cacciatore, anche se spesso faceva scorpacciate di banane da chi le aveva coltivate.
  • 21. La pioggia cade quando gracidano le rane (Bantu) Una volta accadde che dal cielo non scendesse più pioggia per molto tempo e che gli animali della foresta si radunassero e iniziassero a invocare la pioggia nelle lingue che conoscevano. Quando arrivò il turno delle rane, esse gracidarono per ore e le nuvole iniziarono a radunarsi. Le rane dissero agli amici di fare delle buche per raccogliere l’acqua. Poi iniziò a piovere e le rane dissero che a quel punto avrebbero potuto trovare erba verde e loro sarebbero andate ad abitare nelle paludi formate dalle buche riempite d’acqua.
  • 22.
  • 23. America del Nord I capelli della vecchia Fin dai tempi più lontani, gli Indiani hanno usato il granturco al posto del grano, che non conoscevano. Questa storia racconta come per la prima volta il granturco comparve sulla terra. Tanto, tanto tempo fa, una vecchia e suo nipote si misero in viaggio attraverso il paese degli Indiani. Nessuno sapeva da dove venissero né dove andassero e nessuno lungo il cammino volle dar loro ospitalità, dividere con loro cibo e fuoco. Era un brutto periodo, quello: gli Indiani avevano dissotterrato l'ascia di guerra e le tribù combattevano l'una contro l'altra. Ma la vecchia non si scoraggiava. “Vedrai” diceva al nipote, “Prima o poi troveremo chi si prenderà cura di noi”. Cammina, cammina, tra montagne e praterie, un giorno i due giunsero all'accampamento della tribù degli Alligatori, gente povera ma di buon cuore. Il loro capo, Dente di Alligatore, disse ai due viaggiatori stanchi: “Potete restare con noi, dormire sotto una tenda e scaldarvi al nostro fuoco, ma purtroppo non troverete niente da mangiare. I nostri terreni di caccia non sono ricchi di selvaggina e inoltre dobbiamo sacrificare le prede migliori agli Alligatori, per non perdere la loro protezione”. “Saremo felici di condividere il vostro destino, qualunque esso sia” rispose la vecchia. “Io, in cambio dell'ospitalità, avrò cura dei bambini”. Dente di Alligatore le indicò una tenda vuota e lei, dopo averlo ringraziato, ci si sistemò insieme al nipote. L'unico bagaglio che aveva, un sacco di pelle di bisonte, lo depose in un angolo scuro. La mattina seguente, all'alba, i cacciatori partirono in cerca di selvaggina e le donne si sparpagliarono nella prateria per raccogliere erbe e radici. Nel villaggio rimasero solo i bambini che, come al solito, si misero a giocare per ingannare la fame, in attesa che ritornassero i genitori con qualcosa da mettere sotto i denti. Le ore erano lunghe a passare, con lo stomaco
  • 24. vuoto, e i giochi erano sempre gli stessi. Quella mattina, però, ci fu una novità. La vecchia uscì dalle tenda e chiese ai bambini: “Volete che vi racconti una storia?”. “Sì, sì!” risposero tutti in coro. E la vecchia raccontò come erano nati gli alberi. “In tempi molto, molto lontani, la terra era coperta solo di erbe e fiori, non c'era neanche un albero. Poi, un giorno, il Grande Manitù, guardando giù dalle nuvole, sentì il desiderio di accarezzare quei fiori che ondeggiavano al vento sugli steli sottili. Allora ordinò agli steli di crescere, di crescere fino a raggiungere il palmo delle sue mani. Fu subito obbedito e pini, aceri, abeti, salirono verso il cielo fin quasi a toccarlo. Ora bastava che il Grande Manitù stendesse la mano per poter accarezzare quelle chiome verdi che la brezza faceva sussurrare”. Finita la storia, la vecchia guardò i bambini e capì due cose: che la storia era piaciuta molto, ma che non aveva fatto dimenticare la fame. Allora rientrò nella tenda, si mise ad armeggiare intorno a un gran pentolone e poco dopo ecco alzarsi nell'aria un profumino appetitoso. Poi uscì di nuovo e distribuì a ciascun bambino una ciotola di pappa morbida, colore dell'oro, buonissima e nutriente. “E fatta con il granturco” disse. “Se vi comportate bene, ne avrete tutti i giorni”. E così fu. I cacciatori partivano tutte le mattine all'alba in cerca di selvaggina, le donne si sparpagliavano nella prateria per raccoglier erbe e radici, la vecchia raccontava ai bambini una bella storia e poi dava loro una ciotola colma di pappa di granturco. Così passò il tempo e anche l'ultimo mese dell'anno, quello della Lunga Notte, finì. La vecchia continuava ogni giorno a distribuire la sua pappa ai bambini affamati, ma negli ultimi tempi era diventata più debole, più magra, sembrava evaporare lentamente come il fumo che usciva dal pentolone. Una mattina non poté più alzarsi da letto. Allora chiamò il nipote e gli disse: “Ragazzo mio, presto abbandonerò questo mondo, ma anche quando non ci sarò più la tribù degli Alligatori continuerà a ricordarmi. Ho seminato un po' di granturco in un pezzo di terra non lontano dall'accampamento. I semi hanno già messo le radici e germoglieranno a primavera. Io ho fatto la mia parte, ora tocca ai bambini custodirli, innaffiarli e zapparli, se vogliono avere un buon raccolto e non soffrire mai più la fame”. Per qualche tempo ancora, la vecchia consegnò al nipote il pentolone pieno di pappa fumante perché la distribuisse al posto suo; poi, quando la prima pannocchia di granturco maturò nel campicello vicino all'accampamento, essa scomparve nel nulla, come se non fosse mai esistita. Tutti la cercarono, ma invano. “Non la vedremo più” disse alla fine li capo Dente di Alligatore, “ma sarà sempre viva nel nostro ricordo e nel nostro cuore”. Poi indicò
  • 25. il granturco che cresceva alto e rigoglioso e aggiunse: “Guardate: si è trasformata in quelle piante che ci ha donato perché la fame non ci perseguiti più. Fu così che la vecchia misteriosa ripagò la tribù degli Alligatori per l'ospitalità ricevuta. Da allora in poi gli Indiani coltivarono con amore i loro campi di granturco e, quando i bianchi filamenti spuntavano dalle pannocchia dorate, vedevano in essi i capelli candidi della vecchia che non avrebbero mai dimenticato.
  • 26. La spiga (Indiani Wichita) Secondo un mito degli indiani Wichita, il dio creatore diede alla prima donna una spiga e al primo uomo la voglia di camminare. I due andarono di villaggio in villaggio. Lui insegnò agli uomini come costruire archi e frecce; lei insegnò alle donne come coltivare il grano e farne cibo. Compiuta la missione, i due scomparvero e tornarono in cielo, dove sono ancora: lei è la Luna, lui la Stella del mattino. Agli indiani hanno lasciato in dono la caccia e l’agricoltura.
  • 27. Come il mais arrivò sulla terra (Sud Dakota) Molto tempo fa vivevano sulla terra dei giganti, ed erano così forti che non avevano paura di nulla. Quando smisero di far levare fumo in onore degli dei delle quattro direzioni, Nesaru abbassò lo sguardo su di loro e si adirò. “Ho fatto i giganti troppo forti” disse Nesaru. “Non li tengo più. Credono di essere come me. Li distruggerò coprendo d’acqua la terra, ma risparmierò la gente comune”. Nasaru mandò gli animali a guidare la gente comune in una caverna così grande che tutti gli animali e tutte le persone poterono abitarla insieme. Poi sigillò l’entrata della caverna e inondò la terra, così tutti i giganti, e solo loro, annegarono. Per ricordarsi che c’era gente sotto terra in attesa di essere liberata quanto l’inondazione fosse finita, Nasaru piantò del mais nel cielo. Appena il mais fu maturo, egli tolse una pannocchia dal campo e la trasformò in una donna, che fu Madre Mais. “Devi scendere sulla terra” le disse Nesaru “e far uscire la mia gente da sottosuolo. Guidala al luogo in cui tramonta il sole, perché la loro patria sarà in occidente”. Madre Mais scese sulla terra e, udendo tuonare a oriente, seguì l’indicazione del suono fino alla caverna dove la gente stava in attesa. Ma la porta della caverna si richiuse su di lei, che non riuscì a ritrovare la strada per ricondurre la gente fuori, sopra la terra. “Dobbiamo lasciare questo luogo, questo buio” disse loro. “C’è luce sopra la terra. Chi mi aiuterà a portare la mia gente fuori dalla terra?”. Il Tasso si fece avanti e disse “Madre Mais, io ti aiuterò”. Anche la Talpa si alzò e disse “Io aiuterò il Tasso a scavare il terreno, in modo che possiamo vedere la luce”. Poi venne il Topo Nasolungo e disse “Io aiuterò gli altri due”. Il Tasso incominciò a scavare verso l’alto. Dopo un po’ ricadde sfinito. “Madre Mais, sono molto stanco” disse. Poi scavò la Talpa, finché non fu anch’essa esausta. Il Topo Nasolungo prese il posto della Talpa e scavò, e quando esso fu stanco il Tasso ricominciò a scavare. I tre
  • 28. lavorarono a turno, finché alla fine il Topo Nasolungo cacciò il naso attraverso il terreno e poté vedere un po’ di luce. Il Topo tornò giù e disse “Madre Mais, ho spinto il naso attraverso la terra fino a vedere la luce, ma il grande scavare ha reso il mio naso piccolo e aguzzo. D’ora in poi tutti sapranno, dal mio naso, che sono stato io a raggiungere per primo la superficie della terra”. Ora salì la Talpa fino al buco e completò lo scavo finché non fu fuori. Il sole era salito alto nel cielo dall’oriente ed era così luminoso che accecò la Talpa, la quale corse indietro e disse: “Madre Mais, sono stata accecata dalla luminosità del sole, e non posso più vivere sulla terra. Devo farmi una casa sotterranea. Da questo momento tutte le Talpe saranno cieche e non potranno vedere la luce del giorno, ma potranno vedere di notte. Durante il giorno resteranno sotto terra”. Poi salì il Tasso e allargò il buco così che potessero passarvi anche le persone. Uscendo all’esterno il Tasso chiuse gli occhi, ma i raggi del sole lo colpirono scurendogli le gambe e tracciando una striscia nera sulla sua faccia. Egli tornò giù e disse: “Madre Mais, ho ricevuto questi segni neri su di me, e vorrei rimanere così, in modo che tutti si ricordino che io sono stato fra coloro che hanno aiutato la tua gente a uscire da sotto terra”. “Molto bene” disse Madre Mais. “Sia come hai detto”. Poi ella guidò la gente fuori, all’aperto, e la gente si rallegrò di essere sulla terra all’aperto. Mentre tutti erano lì al sole, Madre Mais disse: Popolo mio, ora faremo un viaggio verso occidente, verso il luogo dove tramonta il sole. Prima di incamminarci, coloro che desiderano restare qui – come il Tasso, il Topo e la Talpa – possono farlo”. Alcuni animali decisero di tornare alle loro tane sotterranee, altri scelsero di seguire Madre Mais. Il viaggio era cominciato. Procedendo, a un certo punto videro delle montagne levarsi di fronte a loro. Giunsero a un profondo canyon. La china era troppo ripida perché gli uomini potessero scenderla, e anche se vi fossero riusciti, la china opposta era anch’essa troppo ripida per risalirla. Madre Mais chiese aiuto e un uccello grigio-azzurro salì volteggiando su ali che battevano rapide. Aveva un grosso becco, un folto ciuffo sul capo e il petto a strisce. L’uccello era il Martin Pescatore. “Madre Mais”, egli disse “sarò io a mostrarti la strada”. Il Martin Pescatore volò sul fianco opposto del canyon e col becco batté molte volte sulla parete finché la terra cadde in fondo al canyon. Poi volò indietro e beccò l’altra parete finché cadde abbastanza terra perché si formasse un ponte. La gente lo ringraziò a gran voce. “Quelli che vogliono unirsi a me” disse il Martin Pescatore “possono rimanere qui. Faremo di queste montagne la nostra patria”. Alcuni rimasero con lui, ma la maggior parte proseguì il cammino.
  • 29. Dopo un po’ di tempo giunsero a un altro ostacolo, una cupa foresta, con alberi così alti che sembravano toccare il sole, molto fitti e così irti di spine da formare un groviglio impenetrabile. Ancora Madre Mais chiese aiuto. Questa volta si presentò davanti a lei un Gufo, che disse “Io aprirò un sentiero per la tua gente attraverso questa foresta. E chiunque vorrà restare con me potrà farlo e vivere in questa foresta per sempre”. Il Gufo poi volò dentro la foresta. Agitando le ali spostò gli alberi, in modo da aprire un sentiero perché la gente potesse passarvi. Madre Mais allora guidò la gente oltre la foresta, e così andarono avanti. Proseguendo, d’un tratto si trovarono di fronte a un grande lago. La distesa d’acqua era troppo vasta e profonda perché si potesse attraversarla e la gente incominciò a parlare di tornare indietro. Ma non poteva farlo, perché Nesaru aveva ordinato a Madre Mais di condurre gli uomini sempre avanti, verso occidente. Un uccello acquatico con la testa nera e il dorso a quadri si presentò davanti a Madre Mais e disse: “Io sono la Strolaga. Farò un passaggio attraverso quest’acqua. La gente smetta di piangere, l’aiuterò”. Madre Mais guardò la Strolaga e disse: “Preparaci un passaggio e alcuni di noi resteranno qui con te”. La Strolaga volò via e saltò nel lago, muovendosi così in fretta da dividere le acque, e quando uscì dall’altra parte del lago lasciò dietro di sé un sentiero. Madre Mais condusse la gente attraverso il passaggio asciutto e alcuni tornarono indietro e restarono con la Strolaga. Gli altri invece proseguirono il cammino. Infine giunsero a un luogo piano accanto a un fiume e Madre Mais disse loro di costruire lì un villaggio. ”Ora avrete il mio mais da piantare” disse. “Così, mangiandolo, crescerete e vi moltiplicherete”. Dopo che ebbero costruito il villaggio e piantato il mais, Madre Mais fece ritorno al Mondo Superiore. Le persone, tuttavia, non avevano né norme né leggi alle quali attenersi, né capi né stregoni che le consigliassero, e presto accadde che passassero tutto il loro tempo a giocare. Il primo gioco a cui giocarono fu una specie di hockey, nel quale si dividevano in due squadre e usavano bastoni ricurvi per buttare la palla nella porta degli avversari. Poi giocarono a scagliare giavellotti attraverso anelli messi sopra aste piantate nel terreno. Col tempo, i giocatori perdenti si arrabbiarono a tal punto che presero a uccidere i vincitori. Nesaru fu scontento del comportamento degli uomini e insieme con Madre Mais venne sulla terra. Disse agli uomini che dovevano avere un capo e qualche stregone che insegnasse
  • 30. loro come si deve vivere. Mentre Nesaru insegnava agli uomini a scegliersi un capo attraverso prove di coraggio e di saggezza, Madre Mais insegnò loro canti e cerimonie. Dopo che si furono scelti un capo, Nesaru diede a costui il suo stesso nome, quindi comunicò agli stregoni i segreti della magia. Insegnò loro a fare pipe per offrire fumo agli dei delle quattro direzioni. Quando tutto questo fu fatto, Nesaru se ne andò via verso il sole calante per preparare luoghi per nuovi villaggi. Madre Mais guidò gli uomini lungo sentieri attraverso le pianure e oltre i corsi d’acqua fino a quel luogo dove Nesaru aveva piantato radici ed erbe medicinali per gli stregoni. Lì essi costruirono villaggi lungo un fiume che più tardi i Bianchi chiamarono Fiume Republican, nel Kansas. Il primo giorno che giunsero in questo paese, Madre Mais disse loro di offrire fumo agli dei dei cieli e a tutti gli dei degli animali. Mentre così facevano, un Cane giunse correndo nell’accampamento e con alti lai accusò Madre Mais di essersi comportata male andando via e lasciandolo indietro. “Io sono venuto dal Sole” gridò, “ e il dio del Sole è così arrabbiato perché sono stato lasciato indietro che manderà il Turbine a disperdere gli uomini”. Madre Mais pregò il Cane di salvare gli uomini placando il Turbine. “Solo rinunciando alla mia libertà”, rispose il Cane “potrò farlo. Non potrò più cacciare solo come mio fratello Lupo, o vagare libero come il Coyote. Dovrò sempre dipendere dagli uomini”. Ma quando giunse il Turbine rotando e tuonando attraverso la terra, il Cane si pose fra esso e gli uomini. “Rimarrò per sempre con gli uomini” gridò al Turbine. “Sarò il guardiano di tutto ciò che posseggono”. Quando il Gran Vento fu cessato, Madre Mais disse: “Gli dei sono gelosi. Se dimenticherete di offrire loro il fumo, si adireranno e manderanno tremende bufere”. Nella ricca terra accanto al fiume la gente piantò il suo mais, ed ella disse: “Mi trasformerò in albero di Cedro per rammentarvi che sono Madre Mais, che vi ha dato la vita. Sono stata io, Madre Mais, a condurvi qui da oriente. Devo diventare Cedro per poter restare con voi. Sul fianco destro dell’albero sarà messa una pietra perché vi ricordiate di Nesaru, che ha portato ordine e saggezza a voi uomini”. Il mattino seguente, un Cedro già adulto sorgeva davanti alle dimore degli uomini. Accanto ad esso c’era una grossa pietra. Gli uomini seppero così che Madre Mais e Nesaru avrebbero vegliato su di loro attraverso tutti i tempi a venire e che li avrebbero tenuti uniti e fatti vivere a lungo.
  • 31.
  • 32. America Latina Le origini del mais bianco (El Salvador) Molti anni fa nacque, a Pipiles, in una notte di luna piena la figlia del signore del villaggio: aveva bellissimi occhi neri e un radioso sorriso che le illuminavano il volto. Crebbe molto bella tanto che tutti i principi dei villaggi vicini la chiedevano in sposa, ma il padre non sapeva decidersi. Alla fanciulla piaceva passeggiare nel bosco, ammirare le montagne e bagnarsi nel fiume quando il sole era alto nel cielo. Uno giorno che proprio si trovava a fare il bagno sentì una voce provenire dalla montagna che diceva - Fanciulla, fiore amato dallo spirito del giorno, se mi vuoi conoscere segui le orme che troverai accanto alle rocce-. La giovane, incuriosita, seguì le orme fino a una roccia dove si fermò a riposarsi. E subito la voce - Fanciulla, fiore amato dallo spirito del giorno, segui le orme fino a quando arriverai a una grotta-. Si mise in cammino e trovò, seduto, un bellissimo giovane con un copricapo tempestato di brillanti - Sono il signore di Murcielager- le disse - e se rimarrai con me, avrai un figlio forte come la roccia e bello come questo bosco-. La fanciulla rimase con il giovane e dopo un po’ di tempo partorì un bambino dal sorriso radioso e dai denti candidi come quelli della mamma. Nel frattempo però nel villaggio di Pipiles la gente soffriva la fame perché un grosso animale aveva mangiato il cuore del mais che doveva servire per la semina. Quando la giovane apprese della disgrazia si recò dal padre il quale, ritenendola responsabile dell’accaduto, le ordinò - Vai e trova semi di mais affinché il nostro popolo cessi di soffrire la fame-. La figlia partì e camminò fino alla grotta del signore di Murcielager a cui raccontò tutte le sue pene. L’uomo ascoltò e poi disse - Non disperare, domani torna al villaggio e dì agli uomini di preparare i campi e, al momento della semina, strappati i denti e seminali-.
  • 33. La fanciulla, per amore del suo popolo, si sacrificò e tutti si misero al lavoro. Il tempo passò e quando il mais cominciò a dare i suoi frutti, gli abitanti del villaggio scoprirono con meraviglia che i grani della pannocchia erano bianchi e brillanti come i denti della donna. Il mais bianco era il regalo fatto dagli dei alla gente di Pipiles in ricordo della giovane che era stata disposta a strapparsi i denti per salvare il suo popolo.
  • 34. Storia della donnola che aiutò gli uomini a trovare il mais (Guatemala) Una volta, ci fu un' epoca in cui il cibo finì. Prima di conoscere il mais, la gente mangiava un'erba molto saporita, ma molto scarsa. All'improvviso, smise di piovere. All'inizio, nessuno se rese conto, perché esistevano ancora arbusti di quell'erba chiamata Uk’ u’x wa. Beh, in realtà non si mangiava l'arbusto, bensì le radici di quell'arbusto. Ma d'un tratto, siccome non pioveva, non la si trovò più. Le nonne e i nonni penetravano nel bosco, si addentravano nella foresta, si perdevano sulla montagna, ma non trovavano nulla. Tornavano sconsolati dicendo: “Il cibo è finito! Non ci sono più radici da mangiare!”. E allora la fame tormentava lo stomaco come una manciata di spine. “Il cibo è finito”, dicevano le nonne. “Che facciamo?” dicevano i nonni. Lo sconforto s'impadronì dell'anima degli esseri umani. I bambini cominciarono a piangere, chiedendo da mangiare. “Non ce n'è”, gli dicevano i genitori. I genitori cominciarono a piangere, perché non potevano dare da mangiare ai loro figli. “Non ce n'è”, dicevano le nonne. Le nonne e i nonni scoppiarono in lacrime, perché li intristiva molto veder piangere i loro figli e i loro nipoti. Passava di là una donnola, che, vedendo piangere la gente, si commosse e ne ebbe compassione. “Che cosa vi succede? Perché invece di ballare e far festa, avete quell'aria cupa e i volti coperti di lacrime? Qual è la pena che vi affligge?” “Ah, signora donnola”, disse una nonna, “se lei sapesse!” “Ah, signora donnola”, disse un nonno, “se lei sapesse!”. La donnola li guardò, un po’ perplessa e si avvicinò a una coppia di giovani, anch'essi in lacrime. “Ho incontrato una nonna e un nonno che stavano piangendo”, gli disse, “e adesso vedo piangere anche voi. Che cosa sta succedendo in questo paese?”. “Ah, signora donnola”, disse la donna, “se lei sapesse!”. “Ah, signora donnola”, disse l'uomo, “se lei sapesse!”. Ancora più perplessa, la donnola si avvicinò a due bambini piccoli che piangevano. “Bambini”, gli domandò la donnola perplessa, “ho incontrato la nonna e il nonno, la mamma e il papà, e stavano piangendo. Adesso trovo voi, e anche voi state piangendo. Si può sapere che cosa vi succede?”. “Abbiamo fame! Il cibo è finito!” singhiozzarono i bambini. La donnola si commosse così tanto che fu sul punto di mettersi a piangere anche lei.
  • 35. Si commosse così tanto che decise di aiutarli a risolvere il problema. Riunì le nonne, le madri, i nonni, i padri, le bambine e i bambini. “Conosco un luogo in cui, sotto una pietra, troverete tutto il cibo di cui avere bisogno...” disse, mostrando denti e gengive in un sorriso felice. “Dove, dove, dove?” le domandavano agitati e angosciati. “E su una collina di nome Chajuyub’, ma non dovete andare a mani vuote. Dovete fare un lungo pellegrinaggio, portare molti fiori, e accompagnare la processione con zufoli e tamburi, e inoltre dovete fare grandi cerimonie, e dovete anche bruciare resina di pino...”. “Sì, lo faremo”, promisero solennemente le nonne e i nonni. “E una volta fatto tutto questo, allora troverete una pietra chiamata Pek...”. La donnola fece un silenzio teatrale. “Sotto quella pietra c'è del cibo chiamato mais, che abbonda più di tutti gli altri cibi...”. La gente non poteva credere a quello che diceva la donnola. Era troppo bello! “Non può essere...” protestarono, “ci stai mentendo...”. “Vi do la mia parola d'onore di donnola”, affermò lei tutta seria “In quel luogo, sotto la pietra Pek, troverete il mais”. Le gente del paese era ancora incredula. E se non era vero? Allora la donnola disse “Molto bene, verrò con voi per mostrarvi il luogo esatto dove si trova nascosto il mais.” La gente del paese organizzò una grande processione con tutte le varietà di fiori, i gerani rossi, le buganvillee color fuoco, le delicate orchidee, i garofani appassionati, le rose profumate; erano così tanti tutti quei fiori, simili a formiche che in fila portano le loro provviste, che non si vedeva la gente, ma sembrava che a muoversi fosse una grande processione di fiori. Portavano inoltre le resine di pino accese, suonavano i tamburi e gli zufoli emettevano nell’aria un suono acuto che fluttuava in mezzo all’aroma dei fiori. Era davvero un bello spettacolo la processione della gente del paese che andava dietro alla donnola. Cammina che ti cammina, arrivarono a una radura nel bosco. Là organizzarono cerimonie, bruciarono l’incenso e suonarono musica sacra. “E’ qui”, gli aveva detto la donnola. “Adesso fate sì che i vostri fiori profumino, che le resine si accendano e che gli zufoli suonino accompagnati dai tamburi”. La gente obbedì e si mise ad aspettare. Aspettò, aspettò e aspettò ancora.
  • 36. All’improvviso, si udirono i ruggiti della scimmia saraguate, che annuncia sempre la pioggia. Iniziò quindi a piovere, prima con goccioloni grandi come monete d’acqua gettate dal cielo che si schiantarono contro il terreno sollevando polvere. Poi le gocce si andarono addensando, fino a formare una cortina di pioggia agitata da un vento impetuoso, RRRRRRRRRUM! Scorreva una cortina. RRRRRRRRRRUUUUUUUUM! Se ne apriva un’altra. La pioggia cadeva dal cielo a catinelle, incontenibile. I bambini rimasero sotto l’acqua, a correre e a saltare nelle pozzanghere, ridendo come matti perché si schizzavano a vicenda. In seguito, cominciarono i fulmini e i tuoni. I bambini andarono sparati a rifugiarsi dai loro genitori. Una luce istantanea dipingeva di bianco gli alberi, le foglie, i volti della gente e, subito dopo, BROOOOOOM! Un gran tuono rimbombava all'orizzonte. All'improvviso, un fulmine cadde sulla pietra Pek e la spaccò in due. BROOOOOOM! Fece il tuono, che si diresse poi dietro alle montagne. La pietra si era aperta, e un filo di fumo color cenere si sollevava da quel luogo. Quando smise di piovere, la gente del paese corse a vedere che cosa c'era sotto le pietre. Erano quintali e quintali di chicchi di mais. C'era cibo per tutti! Il mais che era stato bruciato dal fulmine era completamente nero. Il mais lontano invece era ancora bianco. Quello che si trovava in mezzo era di colore rosso e giallo. Per questo esistono quattro varietà di mais. Allora la gente del paese disse: “Dobbiamo portare il mais alle nostre case, ma prima dobbiamo separare i semi, per seminarlo e raccoglierlo ogni anno”. Fu così che gli uomini conobbero il mais. Seminarono il mais nero e venne fuori nero. Seminarono il mais giallo e venne fuori giallo. Seminarono il mais rosso e venne fuori rosso. Seminarono il mais bianco e venne fuori bianco. Le piantine di mais, invece, erano tutte uguali: lunghe canne con grandi foglie verdi addormentate di lato. E da allora furono il cibo dell'umanità. Quando la gente del paese ebbe placato la fame, decise di festeggiare la donnola. “Signora donnola!” la chiamarono. “E’ stata davvero di parola, e quindi le faremo una gran festa.” La donnola sbatté le palpebre varie volte, come per dire: “Avete visto che avevo ragione”. La gente del paese decise di darle le migliori galline, i
  • 37. migliori galli e i migliori tacchini che ognuno aveva in casa. E così fu: molti uscirono dalle loro casa con le galline, che erano già ingrassate mangiando mais, e altri con galli grassi per aver becchettato il nuovo cibo, e altri ancora con i signori tacchini dalla cresta rossa, da offrire alla donnola. Siccome però i taccagni non mancano mai, ci fu chi nascose le proprie galline e i propri galli, e al loro posto portò alla donnola dei pulcini piccolissimi. La donnola si accorse della loro meschinità e decise di dar loro una lezione. Perché bisogna sempre saper essere grati quando si riceve un favore. Quella stessa notte, quando ormai tutti dormivano, la donnola ritornò al paese ed entrò nei pollai dei taccagni che non avevano voluto regalarle un bel gallo o una bella gallina o un del tacchino. Furtivamente se li portò via, e il giorno dopo gli ingrati si ritrovarono senza polli, senza galli e senza galline. Così facendo, la donnola fece capire agli esseri umani che non bisogna essere taccagni e che si deve sempre essere riconoscenti.
  • 38. La leggenda del guaranà (Brasile) Gli indios Sateré-Maué abitavano anticamente tra i fiumi Madeira e Tapajòs, un’ampia zona forestale dello stato di Amazonas; ma qualcuno parla ancora di un mitico luogo d’origine, “là dove le pietre parlano” che sarebbe localizzato sulla riva sinistra dello stesso fiume Tapajòs, dove la foresta è più fitta e scusa di vegetazione. Gli uomini vanno a caccia e pescano, colgono castagne, noci di cocco, formicoli, lucertole e altri alimenti. Le donne preparano farina di manioca, coltivano patate dolci e un’infinità di frutta tropicale. Ma gli indios si attribuiscono con orgoglio la scoperta del guaranà, una pianta silvestre della zona ricca di proprietà energetiche. Raccolgono i semi del guaranà prima che si apra l’involucro che li trattiene. Li lavano nell’acqua corrente, li fanno abbrustolire in forni di fango per poi macinarli nel mortaio. Impastano con acqua la farina con cui poi fanno dei bastoncini da grattugiare su una pietra ruvida. La farina viene poi sciolta in acqua, ed ecco la magica bevanda che –dà forza e vita e guarisce tutte le malattie-. Gli indios Sateré-Maué si dichiarano figli del guaranà e usano nei rituali ornamenti rossi e verdi, i colori della pianta. Simbolo della loro cultura è il porantim, un remo magico su cui è incisa simbolicamente la storia mitica. Dicono che, all’inizio del tempo, quando si formarono tutte le cose in cielo e sulla terra, vivevano già tre fratelli: due maschi con una sorella bellissima che chiamavano Uniaì. Uniaì era padrona assoluta di Noçoquem, un luogo incantato, il più bello che si conoscesse sulla terra. Solo Uniaì conosceva tutte le piante di quel paradiso: le piante che davano cibo saporoso, quelle che guarivano dalle malattie, quelle che offrivano grani multicolori per le collane e le piante dalle quali pendevano, dure come il legno, palle rotonde di color marrone che potevano servire come scodelle per bere. Uniaì sapeva tutto ciò di cui necessitavano i due fratelli e faceva loro scoprire ogni meraviglia a poco a poco. Un giorno piantò un castagno che s’innalzò tanto nel cielo da non potersi scorgere la cima.
  • 39. Uniaì non aveva marito. A quel tempo gli animali vivevano come gli uomini e tutti avrebbero voluto sposarla, ma i due fratelli non volevano, preferivano che rimanesse sempre con loro provvedendo alle loro necessità. Tra gli animali fu un serpentello il primo a esprimere il suo desiderio. Tutti i giorni lasciava dietro di sé una scia di profumo che inteneriva subito il cuore. Uniaì passava di là e sospirava - Ma che profumo soave!-. Il serpentello, acquattato lì vicino, si scioglieva di tenerezza - Lei mi ama, non lo disse?- e andava a stirarsi più in là, in mezzo al sentiero. Quando passò la ragazza il serpentello la fissò negli occhi e la chiese come sposa. Con quel semplice incanto, l'animale la prese in sposa e concepì con lei un figlio. Ma ai fratelli non andò giù - Adesso lei avrà cura solo del bambino e non si curerà più di noi- e decisero di non vedere più né la sorella né suo figlio. Allora Uniaì se ne andò. Nel frattempo il castagno allargava le sue fronde come un piccolo cielo verde cupo. Dai rami pendevano già graziosi involucri con dentro una sorpresa: le castagne. Uniaì aveva costruito la sua capanna molto lontano, ai bordi di un ruscello. Il bimbo cresceva bello e robusto e la madre ogni giorno lo portava a fare il bagno nell’ora più luminosa, quando arrivavano vento, luce e farfalle a giocare con l’acqua. La mamma gli raccontava le storie di Noçoquém, gli raccontava delle piante, dei fiori, degli uccelli, dei frutti e degli zii e del castagno che aveva piantato. Appena il bimbo cominciò a parlare disse a Uniaì - Anch’io voglio mangiare le castagne e gli altri frutti che piacciono agli zii-. -Non è facile, figlio mio. I tuoi zii sono padroni di quella terra e io non ci posso più tornare-. Ma il bambino continuava a insistere. -Ma è pericoloso. I tuoi zii hanno messo a guardia un cotia (il roditore Dasyprocta aguti), un cocorito e un pappagallo arara. -Lo voglio lo stesso- ripeteva il bambino. Si misero in cammino. Un giorno il cotia, passando per Noçoquém, vide sotto il castagno, per terra, le ceneri del fuoco dove erano state abbrustolite le castagne. Corse subito dai fratelli per raccontare ciò che aveva visto. E dopo poco giunse anche il cocorito a riferire che era successo qualcosa di strano. Allora i due fratelli decisero di mandare la scimmietta Bocca di Viola a custodire il castagno.
  • 40. Il giorno dopo il bambino aveva una gran voglia di mangiare castagne e decise di andare da solo visto che conosceva la strada. La scimmietta lo scoprì subito arrampicato sull’albero e cominciò a scoccare frecce in direzione dell’albero finché non riuscì a colpirlo e il bimbo cadde a terra, trafitto. Quando Uniaì si accorse della mancanza del figlio si mise a correre più forte che poté e quando arrivò scoprì ciò che era successo. Pianse tanto fino all’ultima lacrima e poi gridò –i tuoi zii ti volevano così, senza vita. Ma così non sarai!- e poi mormorò una cantilena, come un incantesimo. Grande sarai e guarirai gli uomini. Tutti correranno da te per scacciare i malanni, avere forza in guerra, avere un amore più grande e così anche tu, grande sarai! Subito dall’occhio sinistro del bambino spuntò una pianta, ma non era robusta: si trattava del falso guaranà che oggi gli indios chiamano uranà-hop. Poi dall’occhio destro spuntò il vero guaranà. E’ per questo che il frutto di questa pianta assomiglia agli occhi dei bambini. Dopo giorni e giorni Uniaì tornò a controllare la pianta e la trovò grande e piena di frutti maturi. E sotto la piante, con grande sorpresa vide suo figlio vivo, forte e allegro. Questo bambino, nato come una pianta dal cuore della terra, fu il primo indio Maué. Lui è forza e vitalità. Lui è l’origine della tribù.
  • 41. La pianta della fortuna (Perù) Durante l’età dell’oro esisteva nella valle andina un piccolo villaggio molto prospero: Itau. Gli abitanti lavoravano dalla mattina alla sera e in tutto il regno il villaggio era citato come esempio di laboriosità: non si conosceva la pigrizia. - Va a Itau- diceva l’imperatore a suo figlio- e vedrai ciò che io chiamo fortezza d’animo-. Il bambino ascoltava incantato quanto gli diceva suo padre. Ogni sera al tramonto, l’imperatore raccontava delle belle storie della tradizione Inca; e quando narrava le prodezze della gente di Itau, finiva sempre per commuoversi. Itau era un paese dove non si incontrava un solo uomo ozioso: tutti lavoravano, ma il lavoro rendeva poco quindi raramente gli abitanti del villaggio potevano mangiare abbondantemente. Un giorno una vecchietta di nome Vea sempre preoccupata per il bene del prossimo, decise di fare qualcosa per Itau. Facendo un giro intorno alla sua casa, vide una pianticella sconosciuta. Si chinò per osservarla meglio e udì una voce provenire da chissà dove - Raccoglimi donna!-. Vea si guardò attorno, ma non riusciva a vedere nessuno. La voce insisteva -Raccogli la pianta vicina al tuo piede, facendo attenzione a non spezzarne le radici. Poi piantala sulla riva sinistra del torrente-. Vea, anche se dubbiosa, decise di seguire le indicazioni della voce, raccolse la pianta e andò in direzione del corso d’acqua. Quando arrivò là trovò un lama nero che la fissava intensamente. Lei piantò il piccolo arbusto e l’animale, inaspettatamente sputò più volte sulla terra smossa. La vecchia si sorprese ma poi si accorse che la saliva del lama aveva un effetto prodigioso sulla pianta che stava crescendo rigogliosamente. Vea rimase tutta la notte a sorvegliare la piantina: sotto la luna le foglie avevano un bellissimo colore verde pallido.
  • 42. La mattina seguente erano comparsi alcuni fiorellini bianchi che al tramonto si erano già trasformati in tante pallottoline lucide e rosse: erano maturati i primi frutti. Cominciò così la storia del pomodoro, ricchezza e vanto di Itau, in Perù.
  • 43. Ceà, la pianta mate, leggenda guaranì. (Paraguay) Un giorno Yaci, la luna, decise di scendere sulla terra perché era curiosa di vedere i fiumi, i boschi e la foresta. Veramente li vedeva da sempre però di notte non poteva distinguere il colore dei fiori né udire il canto degli uccelli che a quell’ora dormivano. Per questo passava lunghe ore nella tristezza, con la faccia pallida, conversando con i rospi. A volte si infiltrava tra le foglie degli alberi, penetrava fin dentro la foresta e andava curiosando nelle capanne degli uomini… però dormivano tutti! Yaci avrebbe voluto conversare un poco con i suoi figli, sapere come stavano e percorrere i vari luoghi che, come le diceva la nuvola Araì, erano così belli di giorno. Decise dunque di scendere insieme con la nuvola e, per non essere riconosciute, presero forma umana trasformandosi in due belle donne. Yaci rimase incantata a vedere le bellezze del mondo sotto la luce del giorno: il sole restituiva alle acque tutto l’azzurro del cielo, i fiori di irupè si aprivano e si tingevano di viola, giallo, rosso e altri mille colori, il canto degli uccelli riempiva di musica lo spazio. -Che meraviglia- diceva Yaci e non si stancava di guardare. Una volta stavano andando a passeggio nella foresta quando, improvvisamente vennero attaccate da un coccodrillo, ma per fortuna un uomo che passava di lì intervenne tempestivamente e trapassò l’animale con una freccia e poi con una seconda, fino ad ucciderlo. Ma tutto accadde così rapidamente che, quando l’uomo di voltò, Yaci e Araì non c’erano più e avevano già ripreso la forma naturale e osservavano la scena dall’alto del cielo. La stessa notte Yacì e Araì gli apparvero in sogno e gli dissero chi erano. -Vogliamo ringraziarti per quello che hai fatto, hai rischiato la vita per due donne indifese. Cercheremo per te un regalo degno del tuo nobile cuore. Domani, quando ti sveglierai, troverai una nuova pianta che chiamerai Caà. Non dimenticare che prima di usare le sue foglie devi abbrustolirle perché sono velenose. La pianta caà sarà segno di fraterna amicizia e avrà la
  • 44. virtù di alleviare la stanchezza e rianimare i malati. Sarà compagna nella solitudine e vincolo di amicizia tra gli uomini-. Così parlò Yaci e scomparve insieme ad Araì. L’uomo il giorno dopo constatò con gioia che il sogno si era avverato ed era comparsa una nuova pianta proprio a fianco della sua capanna ed era la pianta caà o erba mate, conosciuta anche col nome di caà-yari e caà-guazù.
  • 45.
  • 46. Europa L'utile dono di Atena alla Grecia (Grecia) L’olivo ha un posto importante nella mitologia greca. Moltissimi infatti sono i miti e le leggende a esso collegati. D’altra parte è uno degli alberi più presenti sul territorio e ai suoi prodotti è da sempre legata una parte importante dell’economia. Per giustificarne l’esistenza dunque, sono stati scomodati addirittura gli dei dell’Olimpo. Si narra che Zeus, padre di tutti gli dei, avesse indetto una gara tra i suoi figli: chi offriva alla Grecia il dono più utile avrebbe avuto in premio Atene e tutta la regione dell’Attica. Gli dei ce la misero tutta, ma a uno a uno vennero eliminati. Restarono Atena, dea della sapienza e Poseidone, dio del mare. Quest’ultimo fece sbucare dalla foresta uno splendido cavallo, mentre Atena trasse dalla terra un nuovo albero, l’olivo. Zeus non ebbe dubbi, il nuovo albero sarebbe stato prezioso per gli uomini più del cavallo. Fu così che aggiudicò la gara ad Atena. Poseidone, dio del mare, non si accontenta di aver ottenuto, nella spartizione del regno del padre Crono, la signoria degli oceani. Invidia a suo fratello Zeus il dominio del cielo ed è avido di terre, che contende, appena può, a tutti gli altri dei. Poseidone abitava in uno stupendo palazzo sull'isola di Eubea. La reggia era decorata di madreperla con numerosi intarsi di conchiglie, coralli e gemme preziose. Quando Poseidone usciva su un carro d'oro trainato da alati cavalli bianchi, era seguito dalla numerosa corte di tritoni, sirene e nereidi. Tutte le creature del mare gli ubbidivano e buona parte di quelle della terra lo temevano perché egli aveva piena signoria sulle onde, i maremoti e le burrasche marine, che inviava sulle coste quando andava in collera. Poco lontano dal suo regno c'era una città stupenda, Atene , ricca di splendidi palazzi di marmo e di templi imponenti, che onorava soltanto la saggia figlia di Zeus, Atena. Il dio del mare, invidiosissimo, fremeva dalla voglia di diventarne il signore.
  • 47. Un giorno arrivò col suo carro veloce sul punto più alto di Atene, l'Acropoli, e battendo sulla roccia con la sua arma, il tridente, fece sgorgare una fonte d'acqua marina. "Ecco la prova che Atene è mia" gridò il dio ai quattro venti. "Qui sgorga acqua di mare, e io sono il dio del mare...". La dea Atena si fece avanti, protestando, ma Poseidone la sfidò: "Ah, sì, questa città è tua? Te la ridarò se sarai capace di battermi in duello". Atena scosse la testa. "Perché combattere?", disse. "Facciamo una gara pacifica : vincerà chi regalerà agli abitanti di questa terra la cosa più utile". "Io dono il cavallo!", gridò Poseidone, sicuro di vincere. Che cosa c'era infatti, per quei tempi, di più utile del veloce cavallo? Atena piantò in terra la sua lancia e immediatamente spuntò in quel punto una piantina dalle foglie d'argento, che crebbe a vista d'occhio: era l'ulivo. Poseidone s'appellò a Zeus, il quale convocò subito una giuria di dei e di dee, in numero uguale. A quel punto chiese loro di dare un giudizio: era più utile il cavallo o l'ulivo dai frutti preziosi? Difficile prendere una decisione. Dopo infinite ed accese discussioni, che si protrassero per giorni e giorni, l'eccellente giuria non poté emettere un verdetto definitivo. Infatti gli dei erano in favore di Poseidone, mentre tutte le dee erano dalla parte di Atena. Vinsero però queste ultime, perché il padre Zeus, come giudice supremo, si astenne dal voto, dando la maggioranza alle dee. Così fu evitato il duello nel quale Atena avrebbe senz'altro avuto la peggio. Da allora l'ulivo divenne il simbolo della pace e tale è rimasto anche ai nostri giorni.
  • 48. Il mito di Demetra (Grecia) Demetra, figlia di Crono e Gea, secondo la tradizione mitologica è la dea fondatrice e protettrice dell'agricoltura e delle istituzioni familiari. Il suo nome significa significare infatti "Dea Madre" o "Dea dispensatrice". Il mito a cui è legata la figura di Demetra è quello che racconta del ratto, cioè del rapimento, di sua figlia Persefone da parte di Ade, dio degli Inferi. Persefone è intenta a raccogliere fiori con altre fanciulle quando, all'improvviso, appare il re degli Inferi e la costringe a seguirlo sul suo carro. Demetra sente l'urlo disperato della figlia, ma è troppo lontana per salvarla. Inizia così il suo viaggio alla ricerca di Persefone; abbandona l'Olimpo e il suo ruolo di dea delle messi rendendo del tutto sterile la terra e mettendo in pericolo la sopravvivenza del genere umano. Zeus, padre di tutti gli dei e re dell'Olimpo, non può permettere che scompaia il genere umano, e con esso le offerte degli uomini per le divinità in occasione dei sacrifici. Ordina così a suo fratello Ade di restituire la fanciulla a Demetra. Ade esegue l'ordine ma, prima di lasciare andare l'amata, le fa mangiare alcuni chicchi di melograno. Così Persefone, interrompendo il suo digiuno, rimarrà legata per sempre al mondo degli inferi. L'origine delle stagioniL'origine delle stagioniL'origine delle stagioniL'origine delle stagioni Il racconto mitico ci tramanda che da quel momento Persefone trascorrerà sei mesi sull'Olimpo e sei mesi nel mondo dei morti. Tale alternanza scandisce il ritmo delle stagioni: i mesi in cui la dea è negli Inferi corrispondono ai mesi invernali durante i quali il grano è assente dai campi, i mesi in cui è sull'Olimpo corrispondono alla primavera e all'estate, mesi della rinascita vegetativa e della raccolta del grano. Il cultoIl cultoIl cultoIl culto Tutto il mondo mediterraneo è costellato di santuari dedicati alle due divinità e il loro culto si sviluppa tra il VII e il IV secolo a. C. Tra le offerte ritrovate durante gli scavi predominano le statuette di Demetra raffigurata con la fiaccola, con il maialino o con le spighe di grano. Sono simboli legati sia al racconto mitologico che alla funzione svolta dalla divinità.
  • 49. La fiaccola è servita a Demetra per scendere negli Inferi alla ricerca della figlia, il maialino e le spighe sono simboli di fertilità. Gli offerenti di solito portavano nei santuari, come ringraziamento per il dono dell'agricoltura, le primizie dei raccolti, o sotto forma di repliche di terracotta o veri e propri cesti colmi di frutta e cereali.
  • 50. Il mito di Cerere A Roma, Demetra fu chiamata Cerere, e il nome collettivo dei chicchi della terra è cereali. Nel chicco, apparentemente secco eppure capace di germogliare, si incontrano morte e vita , e quello che sembrava una fine torna a essere un inizio, in un ciclo che garantisce la continuità della vita. E’ proprio questo che vogliono significare i cosiddetti pani dei morti, e non e caso il giorno dei morti cade nella stagione della semina. Cerere (identificata con la dea greca Demetra) era la dea della fertilità dei campi. Nella vicenda mitica di sua figlia Proserpina (Persefone per i Greci), rapita e trattenuta sotterra dal dio dei morti ma poi restituita alla madre per una parte dell'anno, è simboleggiato il ciclo della vegetazione. In onore di Demetra e di Persefone si celebravano in Grecia i famosi misteri di Eleusi Figlia di Crono e di Rea, Demetra era per i Greci la divinità che aveva insegnato agli uomini l'agricoltura, favorendone così il progresso. Il suo stesso nome era interpretato come "Madre Terra". A Roma ben presto con lei venne identificata Cerere, antica divinità italica strettamente associata a Tellus, dea della Terra. Cerere era celebrata con la festa delle Cerealie (19 aprile). Altre feste e sacrifici avevano luogo alla fine della semina e all'inizio della raccolta. A partire dal 496 a.C. la dea ebbe un tempio sull'Aventino. Il racconto di un famoso inno omerico proietta in epoca mitica le origini del culto misterico di Demetra a Eleusi, che prevedeva la celebrazione di riti segreti cui venivano ammessi solo gli iniziati. Nel racconto Ade (il dio dei morti) si invaghisce della figlia di Demetra, Persefone, e, mentre ella sta cogliendo fiori in un prato, la rapisce portandola nel suo regno. Demetra sente il grido di sua figlia e, coprendosi con un velo nero e stringendo nelle mani fiaccole ardenti, vaga alla sua ricerca per nove giorni, senza nutrirsi né lavarsi. Poi apprende dal Sole la verità. Adirata contro Zeus (Giove), che ha permesso il rapimento, Demetra abbandona l'Olimpo e assume le sembianze di un'umile vecchia. Giunta a Eleusi, viene accolta nella reggia per servire la regina Metanira. Ma la sua pena non l'abbandona; solo l'ancella Iambe riesce a indurla al riso con le sue battute spiritose: vengono così ricondotte al mito le origini delle frasi vivaci e argute che i fedeli solevano scambiarsi durante la processione in onore della
  • 51. dea. Rifiuta anche il vino rosso che le viene offerto, dicendo che le è consentito bere solo acqua con farina d'orzo e menta (la bevanda effettivamente in uso nei suoi riti). Quando la regina le affida le cure del neonato Demofonte, Demetra si affeziona al bimbo e vorrebbe renderlo immortale temprandolo sulla fiamma del fuoco; ma viene scoperta da Metanira. La dea, indispettita, interrompe l'operazione e, rivelando la sua identità, chiede che le venga eretto un tempio lì a Eleusi: ella stessa insegnerà il rito per placarla. Cancellato ogni segno di vecchiaia, appare ora bellissima, profumata e splendente in tutto il corpo. Costruito il tempio, Demetra vi prende sede, ma rimane in disparte da tutti gli altri dei, afflitta per la perdita di sua figlia. Una terribile carestia si abbatte sulla Terra, perché la dea non permette ai semi di germogliare. Il genere umano rischia di estinguersi e gli stessi sacrifici agli dei cessano. Allora Zeus chiede ad Ade di restituire Persefone a sua madre. Ade obbedisce ma, astutamente, fa prima mangiare alla fanciulla un chicco di melagrana, sì che essa, avendo diviso del cibo con i morti, non possa distaccarsene completamente. E così sarà: Persefone abiterà sull'Olimpo per due terzi dell'anno; per un terzo, invece, sarà con il suo sposo negli Inferi. La vicenda è un'allegoria della natura e del ciclo della vegetazione, che muore e rinasce. Pacificata, Demetra fa sorgere le messi dai campi, riempie la Terra di foglie e di fiori, e rivela ai re di Eleusi i suoi misteri.