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Matricola: 0000598596
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
SCUOLA DI MEDICINA E CHIRURGIA
Corso di Laurea in Infermieristica
Family Presence: tra evidenza e tradizione
Tesi di Laurea in Cure Intensive e Pronto Soccorso
Presentata da: Relatore:
Chiar.mo Prof.
Peterson Fiona Grace
Mantovani Massimo
Sessione I
Anno Accademico 2013/2014
“Non possiamo bandire i pericoli ma possiamo bandire le paure.
Non dobbiamo sminuire la vita stando nel timore della morte”.
~ David Sarnoff
INDICE
Premessa 6
CAPITOLO 1 8
INTRODUZIONE 8
1.1 LE ORIGINI DI FAMILY PRESENCE 9
1.2 SOSTEGNO DI ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI 9
1.3 MANCANZA DI LINEE GUIDA 10
1.4 “DOMANDA E OFFERTA” 11
CAPITOLO 2 14
PERCHÉ FAMILY PRESENCE? TRA EVIDENZA E TRADIZIONE 14
2.1 UN MODELLO DI ASSISTENZA CENTRATA SULLA FAMIGLIA 14
2.2 IL CODICE DEONTOLOGICO DELL’INFERMIERE 17
2.3 PREVENZIONE DI ERRORI 19
2.4 UMANIZZAZIONE DELLE CURE 20
2.5 TERAPIE INTENSIVE “APERTE” 22
2.6 L’INFLUENZA DEL CONTESTO LAVORATIVO 24
CAPITOLO 3 26
INDICAZIONI MEDICHE 26
3.1 IL LEGAME PAZIENTE-FAMIGLIA ED I BISOGNI DEI FAMILIARI 27
3.2 L’INFLUENZA DEI FAMILIARI NEL CORSO DELLA RIANIMAZIONE 29
CAPITOLO 4 32
LE PREFERENZE DEI PAZIENTI 32
4.1 LE TESTIMONIANZE DI PAZIENTI RIANIMATI 34
CAPITOLO 5 43
QUALITÀ DI VITA 43
5.1 RIPERCUSSIONI PSICOLOGICHE SUI FAMILIARI 43
5.2 RIDUZIONE DI PROBLEMI PSICOSOCIALI 46
5.3 FACILITAZIONE DEL PROCESSO DI LUTTO 47
5.4 VEDERE CHE TUTTO IL POSSIBILE È STATO FATTO 48
5.5 I RICORDI DEI FAMILIARI: NATURA, CONTENUTO E RIMPIANTI 49
CAPITOLO 6 53
FATTORI CONTESTUALI 53
6.1 LA NECESSITÀ DI DISTANZA EMOTIVA E MECCANISMI DI AUTOPROTEZIONE 55
6.2 COMPROMISSIONE D’INSEGNAMENTO 57
6.3 RIPERCUSSIONI MEDICO-LEGALI 57
6.4 RISERVATEZZA E PRIVACY 59
CAPITOLO 7 61
FAMILY FACILITATOR: UNA FIGURA A SUPPORTO DELLA FAMIGLIA 61
7.1 TRE ESPERIENZE DI SUCCESSO 62
7.2 INFERMIERE, ASSISTENTE SOCIALE O CLERO? 65
7.3 IL RUOLO DEL FAMILY FACILITATOR 66
7.3.1 PRIMA DELL’EVENTO: VALUTAZIONE E PREPARAZIONE DELLA FAMIGLIA 66
7.3.2 DURANTE L’EVENTO 68
7.3.3 DOPO L’EVENTO: DEBRIEFING PER ÉQUIPE E FAMIGLIA 71
CAPITOLO 8 73
CONCLUSIONI 73
8.1 EDUCAZIONE ED ESPOSIZIONE A FAMILY PRESENCE 74
8.2 LINEE GUIDA E PROTOCOLLI SCRITTI 76
Riferimenti 79
Bibliografia 91
Ringraziamenti 95
6
Premessa
“Un punto importante emerso dalla letteratura concerne il fatto che non vi siano elementi atti
a giustificare l’esclusione a priori dei familiari durante la rianimazione cardio-polmonare e
altre manovre invasive. Il cambiamento avvenuto nella medicina, da un approccio
paternalistico a uno collaborativo con i familiari, si è registrato anche in questa area di
studio” (Prati & Monti 2010).
Durante le mie esperienze di tirocinio come studentessa d’infermieristica, sono sempre rimasta
incuriosita e perplessa dalla pratica di escludere sistematicamente i familiari ed amici
dall’osservazione di qualsiasi procedura o fase assistenziale. Infatti, come ci ricordano Prati e
Monti nella citazione di cui sopra, non esistono elementi a giustificare a priori questa pratica.
Parenti e familiari sono sempre più sollecitati a collaborare nei processi di cura ed assistenza
del loro caro, dalla semplice assistenza durante i pasti, all’assistenza di base, a manovre più
complesse come il primo soccorso vitale con defibrillatore (il cui uso ormai è alla portata di
tutti purché adeguatamente formati e la quale presenza, nei luoghi di vita quotidiana come i
centri commerciali, scuole ed aeroporti sia ormai prevista per legge), per poi essere esclusi
durante momenti assistenziali più difficili, dolorosi e stressanti per il paziente, quando il
bisogno di un familiare si fa più pressante, ma la cui presenza viene sistematicamente negata.
La tesi consiste in una review della letteratura sul tema di Family Presence, nella speranza di
presentare l’evidenza più recente. La maggioranza della letteratura proviene dagli Stati Uniti ed
il Regno Unito, dove questa pratica è ormai ampiamente conosciuta ed applicata. In Italia si
tratta ancora di un concetto molto giovane, quasi sconosciuto, ma spero che questa tesi possa
fornire degli spunti di riflessione validi e convincenti, portando ad una maggior
consapevolezza per quanto riguarda i vantaggi (e anche gli svantaggi) di Family Presence per i
pazienti, i familiari ed il sistema sanitario stesso. In particolare, i vantaggi, sono una maggior
fiducia da parte dell’utenza, la soddisfazione dei bisogni espressi dai pazienti ed una prognosi
7
migliore a lungo termine per quanto riguarda l’elaborazione di un’eventuale lutto, tutti
elementi che si traducono in benefici per la società in generale.
Ho scelto di adottare il metodo di analisi etico proposto da Jonsen e colleghi (1998), che
permette una veduta completa della questione di Family Presence e che ci permette di
analizzare tutti i fili che vanno a comporre questo tema complesso e controverso, ma di grande
attualità.
Per lo scopo di questa tesi, con il termine Family Presence si intende la presenza di parenti,
familiari, compagni o amici del paziente durante la rianimazione cardiopolmonare (da ora
RCP) e procedure invasive.
Buona lettura.
8
CAPITOLO 1
INTRODUZIONE
“Una volta sono stata traumatizzata durante un arresto cardiaco pediatrico… dove il padre
ha assistito all’arresto della sua figlia e non gli è stato permesso di entrare durante la
rianimazione cardiopolmonare. Ha chiesto ripetutamente di poter entrare per ‘dire addio’
mentre sua figlia era ancora in vita. Voleva tenerla per mano. Non soltanto non gli è stato
permesso di entrare, ma la sicurezza è stata chiamata per tenerlo fuori. La bimba non è
sopravvissuta. Aveva sei anni. Lui voleva solo stare con lei al momento della morte, e questo
gliel’abbiamo negato” (Infermiera del Pronto Soccorso, MacLean et al. 2003).
Il termine “Family Presence” si può definire come “la presenza del partner o di uno o più
membri della famiglia, in una posizione che dà un contatto visivo o fisico con il paziente
durante procedure invasive o rianimazione cardiopolmonare” (Tomlinson 2010; McGahey
2002). Dagli anni '80, quando la questione di Family Presence ha cominciato a ricevere
dell’attenzione da parte degli operatori sanitari, ricercatori e l’opinione pubblica, la letteratura
non ha fatto altro che confermare il dato che la maggior parte dei familiari desidera essere
presente durante quelli che potrebbero essere gli ultimi momenti di vita di un loro caro (Prati &
Monti 2010; Hanson & Strawser 1992; Barratt & Wallis 1998; Meyers et al. 1998; Robinson et
al. 1998; Eichhorn et al. 2001). Pazienti e familiari sono sempre di più dei “consumatori
consapevoli” per quanto riguarda la loro salute e i propri diritti (Halm 2005), e pretendono
sempre di più che i familiari possano rimanere con il paziente durante le manovre di
emergenza, a prescindere dall’esito aspettato (Fulbrook 2007; Mazer 2006). Considerando che
tanti pazienti sottoposti a manovre rianimatorie non sopravvivono, la questione della presenza
dei familiari durante quelli che forse saranno i momenti finali della vita del loro caro merita
ulteriore considerazione (Offord 1998). Seppure gli ultimi anni abbiano visto un cambiamento
di tendenza, con sempre più operatori sanitari che offrono ai familiari la possibilità di assistere
alle manovre rianimatorie (Jarvis 1998; Robinson et al. 1998; Walker 1999; Grice et al. 2003;
9
Gold et al. 2006), Family Presence rimane una questione ancora molto controversa, caldamente
dibattuta e che divide il personale sanitario (Haddad 2002; Kissoon 2006).
1.1 LE ORIGINI DI FAMILY PRESENCE
Le origini di Family Presence risalgono all’anno 1982, presso il Foote Hospital di Jackson,
Michigan, negli Stati Uniti, quando due familiari hanno fatto richiesta di assistere alla
rianimazione del loro parente, dopodiché l’ospedale ha condotto uno studio retrospettivo di 18
familiari che avevano di recente subito la perdita di un parente, portando l’ospedale ad istituire
un programma formale di Family Presence (Hanson & Strawser 1992). I possibili benefici di
Family Presence sono riportati in numerosi studi e comprendono, un’atmosfera più umana che
privilegi la dignità del paziente, aumentando la collaborazione dell’utente, prevenendo dei
conflitti (Van der Woning 1999; Eichhorn et al. 2001) e con la possibilità di vedere gli sforzi
compiuti dagli operatori sanitari per salvare il proprio caro (Wagner 2004; Fulbrook et al.
2007). La letteratura dimostra anche che Family Presence aiuta i parenti ad affrontare meglio il
processo del lutto (Doyle et al. 1987; Robinson et al. 1998; Monti et al. 2014).
1.2 SOSTEGNO DI ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI
Sotto l’aspetto del dilemma etico e linea guida pratica, Family Presence è stato largamente
esplorato e dibattuto negli ultimi vent’anni, ed è sostenuto da molte associazioni
infermieristiche e mediche in tutto il mondo – l’American Heart Association, UK Resuscitation
Council, The Royal College of Nursing, American Association of Critical Care Nurses,
Emergency Nurses Association (ENA), European Federation of Critical Care Nursing
Association, European Society of Paediatric and Neonatal Intensive Care, e la European
Society of Cardiology Council on Cardiovascular Nursing (Fulbrook et al. 2007). Nelle ultime
decadi, la medicina si è progressivamente allontanata da un paradigma paternalista, nel quale il
medico “omnisciente” diagnostica e tratta il paziente, che dovrebbe passivamente “aderire” al
regime di trattamento prescritto, in favore di un’assistenza centrata sulla famiglia, che
riconosce il ruolo integrale che la famiglia stessa gioca nella salute e benessere del paziente,
10
oltre al fatto che integrare e supportare la famiglia nel processo di cure anche durante le
emergenze è fondamentale per soddisfare tutti i bisogni del paziente (Children’s Hospital of
Philadelphia 2006). Elementi caratteristici di questo nuovo modello di cure sono per esempio
gli orari di visita più lunghi e più flessibili, il “rooming in” (che permette alla donna di tenere il
figlio appena nato nella propria stanza di ospedale, senza limiti di orario); la presenza di
familiari in sala parto al momento della nascita, e miglioramenti nella condivisione
dell’informazione, per esempio il progetto SOLE in Italia (Kuzin et al. 2007; ENA 2009;
Linder et al. 2004); poiché il coinvolgimento della famiglia è previsto in ogni fase del
continuum della vita, è logico che Family Presence dovrebbe essere permesso sia alla morte
che alla nascita, nonché in ogni momento intermedio della vita stessa (Tomlinson et al. 2010).
Nonostante ciò, rimane ancora molto viva l’idea paternalista di “dover proteggere” i familiari,
ai quali viene sistematicamente negato l’accesso ai loro cari durante questo momento di
profonda crisi (Harteveldt 2005; Blundell et al. 2004).
1.3 MANCANZA DI LINEE GUIDA
Il bisogno di affrontare il tema di Family Presence è urgente per vari motivi, innanzitutto la
mancanza di linee guida. Nella dichiarazione di posizione dell’EfCCNa ed ESPNIC, leggiamo
quanto segue al punto 7: “Tutte le unità di terapia intensiva e rianimazione dovrebbero avere
linee guida multidisciplinari in forma scritta, sulla presenza dei familiari durante la
rianimazione cardiopolmonare” (Fulbrook et al 2007). Nonostante ciò, e nonostante l’interesse
sempre maggiore per un modello di assistenza centrata sulla famiglia e la presenza dei familiari
durante procedure invasive e d’emergenza, molti ospedali non hanno delle politiche formali a
riguardo (Gold et al. 2006), forse un segno che la direzione sanitaria non ha mai sentito
l’esigenza di dedicare attenzione a questo tema (Prati & Monti 2010). Un sondaggio effettuato
tra i membri dell’American Association of Critical Care Nurses e l’Emergency Nurses
Association ha dimostrato che solo il 5% dei rispondenti lavorava presso reparti con delle
politiche scritte formali a riguardo (MacLean et al. 2003). Questa lacuna, la mancanza di
protocolli operativi che diano regole chiare, univoche sul comportamento da tenersi nei
confronti dei familiari nelle differenti situazioni che possono presentarsi all’interno della
11
propria unità operativa, ha il potenziale di creare delle variazioni nella pratica dei vari
professionisti, che sarà inevitabilmente una fonte di confusione e frustrazione per gli operatori
sanitari e familiari (Kuzin et al. 2007).
1.4 “DOMANDA E OFFERTA”
Il bisogno di affrontare il tema di Family Presence è anche indifferibile per quello che
potremmo chiamare una sorta di “dicotomia tra domanda e offerta”. Da una parte la salute
della popolazione sta cambiando, non solo a livello nazionale ma anche globale. L’obesità, che
spesso si associa a malattie cardiovascolari, a livello globale è quasi raddoppiata da 1980,
mentre l’arresto cardiaco porta a 600,000 morti ogni anno nei paesi industrializzati
(Gueugniaud et al. 2008; Lloyd-Jones et al. 2010), 73,000 solo in Italia, uno ogni nove minuti.
“Un dramma, una vera e propria strage…che l’Italia, paese scaramantico forse all’eccesso e
che alla morte e alla malattia preferisce non guardare in faccia, ignora” (Mirco Jurinovich,
operatore della Croce Rossa, Il Giorno 12/09/2010). Questo aspetto, di evitare il tema della
morte, è sollevato anche da Giovanni Monchiero, Presidente Scuola di Umanizzazione della
Medicina onlus: “Bisogna tornare a coltivare una visione umanistica della vita che ci aiuti ad
accettare che la morte è parte ineliminabile della condizione umana. Religioni e filosofie
hanno costruito, nei millenni, varie risposte all’angoscioso problema della morte. Nasconderci
il tema, come accade oggi, è la via più stupida”.
Questi cambiamenti nella salute italiana e globale sono accompagnati da una richiesta sempre
maggiore nei confronti dei cittadini a partecipare nel soccorso di altri, spesso senza la
possibilità di rimanere con il loro caro una volta arrivato in ospedale. Anche se gli operatori
sanitari credono che assistere alla rianimazione di una persona amata sia dolorosa per i
familiari, negare Family Presence sarebbe ugualmente angoscioso secondo lo studio di Barratt
& Wallis (1998), che riportano l’episodio della signora che ha visto defibrillare due volte il suo
marito (una volta nel salotto di casa, la seconda volta in ambulanza), ma nonostante ciò non le è
stato permesso di entrare nella sala di rianimazione. Sempre più associazioni volontari offrono
corsi di primo soccorso al pubblico, e data la presenza obbligatoria di defibrillatori semi-
12
automatici nei posti pubblici prevista per legge (aeroporti, supermercati, centri sportivi, scuole,
discoteche…) insieme alle statistiche sulla frequenza d’infarto cardiaco, la possibilità di
assistere allo stesso è tutt’altro che remota. Si stima che più del 70% degli arresti cardiaci
occorra in casa; fuori dalle mura domestiche, l’arresto cardiaco può capitare in qualsiasi posto
frequentato dalla popolazione. Il 9 settembre 2009, un uomo di 64 anni è stato colto da un
arresto cardiaco all’interno di un centro commerciale di Casalecchio di Reno, Bologna, salvato
dal massaggio cardiaco e dal defibrillatore presente in loco (Resto del Carlino, 12 settembre
2009). Un altro episodio in un supermercato ha visto coinvolto un 70enne riminese, accasciato
a terra mentre si trovava alla cassa (Romagna Corriere, 18 marzo 2009), mentre un giovane
avvocato di 35 anni è deceduto durante un’udienza al tribunale di Torre Annunziata
(TorreSette, 30 settembre 2009). Una giovane mamma tedesca è stata colta da un arresto
cardiaco improvviso mentre soggiornava in un campeggio sull’isola di Elba, salvata dall’uso
del defibrillatore presente all’interno dell’impianto turistico, grazie agli impegni del progetto
Salvacuore, che ha reso l’isola uno dei punti d’eccellenza sul territorio nazionale, dove
vengono insegnate le manovre di rianimazione cardiopolmonare a tutti gli studenti delle classi
superiori del 4° e 5° anno. Anche a Rimini, nel luglio del 2011, un uomo di 77 anni è collassato
accanto all’ombrellone, mentre un altro uomo di 72 anni è stato colto da arresto cardiaco alle
22 di sera mentre ballava ad un bagno sulla spiaggia (Defibrillazione Precoce, 05 luglio 2011).
Secondo l’AUSL di Rimini, “attualmente sulle spiagge da Casal Borsetti a Cattolica sono
presenti 102 defibrillatori”. Infine il “Progetto Church”, a cura della Fondazione Don Gnocchi
di Milano, ha lanciato un progetto per attrezzare le chiese della città (considerate luoghi di
rischio in quanto frequentate da anziani) con defibrillatori automatici. Le parrocchie finora
interessate sono dodici (La Repubblica, 08 luglio 2009).
Nel novembre del 1999, è morto Marco Bandera, un giovane studente della scuola superiore,
che è collassato nella palestra di scuola (Defibrillazione precoce 03 novembre 2010).
L’autopsia ha stabilito che il suo cuore si è fermato per un’anomalia genetica, e che poteva
essere salvato con l’uso di un defibrillatore. Si ricorda anche la legge 3 aprile 2001, n. 120
("Utilizzo dei defibrillatori semiautomatici in ambiente extraospedaliero"), secondo la quale
“È consentito l'uso del defibrillatore semiautomatico in sede extraospedaliera anche al
13
personale sanitario non medico, nonché al personale non sanitario che abbia ricevuto una
formazione specifica nelle attività di rianimazione cardio‐ polmonare”. Dato il basso costo di
questo presidio, la sua diffusione sempre più ampia, la sua facilità d’uso e l’alta probabilità che
consentirà il cuore a continuare a battere, “oggigiorno è un obbligo legale o morale di ogni
cittadino o persona comune in Europa di prestare aiuto al meglio delle proprie conoscenze a
patto che ciò non comporti rischi personali” (ESC-ERC Recommendations for the Use of
Automated External Defibrillators (AEDs) in Europe 2004). Più passano gli anni, quindi, più
questi due mondi – quello del sistema sanitario che cura il paziente, e quello laico, sollecitato
sempre di più a partecipare alle manovre salvavita – si scontreranno. Forse è arrivato il
momento di chiedersi fino a che punto è logico e giusto escludere i familiari dalla fine di un
processo in cui è richiesta sempre di più la loro partecipazione, e in cui – in qualità di parente o
persona con la quale il paziente ha un legame più o meno stretto – hanno un investimento
emotivo.
È chiaro che anche se una sempre maggiore pressione per una più diffusa accettazione e
istituzione di Family Presence sarà esercitata dai familiari, il vero cambiamento deve venire
dagli operatori sanitari. Come notano Gabriele Prati e Massimo Monti: “Lavorare in Area
Critica obbliga ad agire in situazioni complesse difficili e a volte drammatiche, ma spesso la
gratificazione ottenuta in particolari frangenti ripaga di ogni sforzo. Allo stesso tempo
interagire con l’utenza e i loro cari eliminando steccati, bastioni e barriere rende inizialmente
maggiormente dispendioso lo svolgimento della propria professione ma a lungo termine la
gratificazione aumenta quando si comprende che il familiare è un alleato e non un nemico”
(Prati & Monti 2010).
14
CAPITOLO 2
PERCHÉ FAMILY PRESENCE? TRA EVIDENZA E TRADIZIONE
“Non sono una visitatrice. Sono sua sorella” (Ellie Crawford, sorella di un paziente ricoverato
in terapia intensiva).
“Siamo noi i visitatori nelle vite dei nostri pazienti, non i loro cari” (Jaspreet Benepal,
infermiera).
Quando la fondatrice e direttrice generale dell’istituto americano Institute for Patient- and
Family-Centered Care (IPFFC) Beverly Johnson era piccola, negli anni Cinquanta, ha contratto
la poliomielite. E’ stata ricoverata in ospedale, ma ai suoi genitori è stato permesso di farle
visita solo una volta al mese e ha deciso di cambiare questa situazione. Il IPFFC considera il
familiare come “socio nel processo di assistenza” invece di visitatore e nel giugno del 2014 ha
lanciato la campagna Better Together (“Meglio Insieme”), per sollecitare tutti gli ospedali ad
eliminare orari di visita restrittivi e aprire le porte alle famiglie 24 ore su 24 (IPFCC 2014).
2.1 UN MODELLO DI ASSISTENZA CENTRATA SULLA FAMIGLIA
L’assistenza centrata sulla famiglia aggiunge un’altra dimensione alla tradizionale interazione
tra il paziente e il sanitario. I familiari sono ormai coinvolti in aspetti d’assistenza in
precedenza riservati solo per il personale sanitario (Kuzin et al. 2007). Basti ricordare i corsi
preparatori alla gravidanza, la presenza (dove gradita dalla partoriente) del padre in sala parto,
il “rooming in” per facilitare il primo “attaccamento materno-neonatale”, la possibilità di
permanenza anche notturna delle madri nei reparti pediatrici accanto ai bambini ammalati, una
più ampia apertura degli orari di visita ai degenti da parte dei familiari e, più recentemente, la
disciplina delle cure palliative. Si tratta di esempi di una progressiva modificazione
dell'approccio in passato dominante negli ospedali - caratterizzato da un atteggiamento
“dirigistico e paternalistico” e da una concezione oggettiva della persona ricoverata
15
(considerata come semplice “corpo da trattare”) - verso una maggiore apertura alle esigenze
umane e ad una più disponibile collaborazione con le famiglie che anche in Italia si va
gradualmente realizzando (Comitato Nazionale per la Bioetica 2013).
Nel 2007, la European Federation of Critical Care Nursing Associations (EfCCNa) e la
European Society of Paediatric Neonatal Intensive Care (ESPNIC) hanno rilasciato una
dichiarazione di posizione comune per quanto riguarda Family Presence: “La Federazione
europea delle associazioni infermieristiche di area critica e la Società europea di area critica
pediatrica e neonatale, hanno formulato la presente dichiarazione di position statement
condivisa. La presente dichiarazione, dove possibile, è basata su evidenze scientifiche e
sull’opinione di esperti rilevata nella letteratura medica ed infermieristica (…) Le linee guida
europee sulla rianimazione (Baskett et al. 2005) sono favorevoli alla presenza dei familiari
durante la rianimazione cardiopolmonare (RCP). In ogni caso, in disaccordo con le evidenze
empiriche, tale pratica è spesso disincentivata da atteggiamenti paternalistici e congetture
(Boyd 2000; Tsai 2002; Kissoon 2006; Walker 2006). (…) Inoltre, la domanda pubblica
sempre più desidera che sia consentita ai familiari la possibilità di rimanere con i loro cari
durante la RCP, indipendentemente dall’esito del paziente (Mazer et al. 2006). (…) La
posizione [dell’EfCCNa e dell’ESPNIC] è sostenuta dall’opinione che “i familiari sono
cruciali per la salute ed il benessere dei pazienti”. I primi due punti della dichiarazione
stessa, inoltre stipulano che “tutti i pazienti hanno il diritto di avere i membri della famiglia
presenti durante la rianimazione” e “ai membri della famiglia di un paziente deve essere
offerta la possibilità di essere presenti durante la rianimazione del proprio caro” (Fulbrook et
al. 2007).
Le linee guida sulla presenza dei familiari durante l’RCP diramate nel 2005 dall’American
Heart Association, citati da Monti et al. (2014) ci forniscono un buon quadro sull’attuale
opinione degli operatori sanitari per quanto riguarda Family Presence, riassumendo anche
quanto in genere consigliato dalla letteratura: “Nonostante i migliori sforzi, molti tentativi
rianimatori falliscono (...) I familiari sono spesso stati esclusi dall’essere presenti durante la
rianimazione di un proprio caro. Studi hanno dimostrato la presenza di diverse opinioni dei
16
sanitari a proposito della presenza dei familiari durante l’RCP. Molti sottolineano la possibilità
che il familiare potrebbe cedere emotivamente ed interferire con le procedure rianimatorie, altri
che il parente potrebbe sincopare e che, la loro presenza aumenterebbe l’esposizione a
responsabilità legali. Comunque molti studi hanno dimostrato il desiderio da parte dei familiari
di volere essere presenti durante l’RCP. Membri di famiglie senza un background medico
hanno confermato che essere al fianco del proprio caro e poterlo salutare per l’ultima volta è
confortante. Altri familiari hanno riportato che l’essere presenti li ha aiutati a sopportare
meglio la morte del proprio caro e, ancor più indicativo, lo rifarebbero. Altri studi dimostrano
reazioni positive dei familiari, molti di loro hanno sentito di aiutare il loro caro e questo ha
facilitato la loro elaborazione del lutto. (…) Quindi, in assenza di dati che documentano danni
e alla luce dei dati che suggeriscono che può essere utile offrire ai familiari la possibilità di
assistere alla RCP sembra cosa ragionevole e desiderata (sempre che il paziente, se adulto, non
abbia dato a priori ragione di non volere la presenza dei familiari). Raramente i familiari
chiedono di essere presenti durante la RCP se non sono stimolati a farlo dagli operatori
sanitari. I membri del team rianimatorio dovrebbero essere sensibili alla presenza dei familiari
durante la RCP, assegnando un membro dell’equipe a fianco della famiglia per rispondere alle
loro domande, chiarire le informazioni date dal resto del team e per dare supporto” (American
Heart Association 2005).
Family Presence e la filosofia dell’assistenza centrata sulla famiglia sono anche molto coerenti
con i principi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’istituzione internazionale preposta
alla tutela della salute che si è subito prefissato lo scopo di condurre tutti i popoli al livello di
salute più elevato possibile, basandosi appunto sul principio che la salute è “uno stato di
completo benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto assenza di malattia e infermità”
(OMS, 1946). Nella Carta di Ottawa, presentata alla 1° Conferenza Internazionale sulla
Promozione della Salute, riunita ad Ottawa il 21 novembre 1986, possiamo leggere “La
promozione della salute è il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo
sulla propria salute e di migliorarla. Per raggiungere uno stato di completo benessere fisico,
mentale e sociale, un individuo o un gruppo deve essere capace di identificare e realizzare le
proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di cambiare l’ambiente circostante o di farvi
17
fronte. La salute è quindi vista come una risorsa per la vita quotidiana, non è l’obiettivo del
vivere. La salute è un concetto positivo che valorizza le risorse personali e sociali, come pure
le capacità fisiche. Quindi la promozione della salute non è una responsabilità esclusiva del
settore sanitario, ma va al di là degli stili di vita e punta al benessere”.
2.2 IL CODICE DEONTOLOGICO DELL’INFERMIERE
Il Codice Deontologico dell’Infermiere, insieme al profilo professionale e all’ordinamento
didattico, definisce il campo proprio di attività dell’infermiere. Anche se la pratica di Family
Presence non viene esplicitamente nominata dal Codice, vari sono gli articoli coerenti con
questa pratica:
Articolo 3
La responsabilità dell'infermiere consiste nell’assistere, nel curare e nel prendersi cura della
persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell'individuo.
Articolo 4
L'infermiere presta assistenza secondo principi di equità e giustizia, tenendo conto dei valori
etici, religiosi e culturali, nonché del genere e delle condizioni sociali della persona.
Articolo 20
L'infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito e valuta con lui i bisogni assistenziali,
anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e facilitarlo nell’esprimere le
proprie scelte.
Articolo 32
L'infermiere si impegna a promuovere la tutela degli assistiti che si trovano in condizioni che
ne limitano lo sviluppo o l'espressione, quando la famiglia e il contesto non siano adeguati ai
loro bisogni.
18
Articolo 35
L'infermiere presta assistenza qualunque sia la condizione clinica e fino al termine della vita
all’assistito, riconoscendo l'importanza della palliazione e del conforto ambientale, fisico,
psicologico, relazionale, spirituale.
Articolo 37
L’infermiere, quando l’assistito non è in grado di manifestare la propria volontà, tiene conto
di quanto da lui chiaramente espresso in precedenza e documentato.
Articolo 39
L'infermiere sostiene i familiari e le persone di riferimento dell’assistito, in particolare nella
evoluzione terminale della malattia e nel momento della perdita e della elaborazione del lutto.
Articolo 47
L'infermiere, ai diversi livelli di responsabilità, contribuisce ad orientare le politiche e lo
sviluppo del sistema sanitario, al fine di garantire il rispetto dei diritti degli assistiti, l'utilizzo
equo ed appropriato delle risorse e la valorizzazione del ruolo professionale.
La centralità della persona è prevista anche dal Codice di Deontologia Medica del 16 dicembre
2006, che così recita all’art. 20: “Rispetto dei diritti della persona: Il medico deve improntare
la propria attività professionale al rispetto dei diritti fondamentali della persona”.
Permettere ai familiari di assistere alla rianimazione del proprio caro assicura la soddisfazione
dei bisogni emotivi, fisici e psicosociali dei pazienti e familiari secondo la filosofia di
assistenza centrata sulla famiglia. Un approccio, che riconosce le capacità della famiglia di
fornire cura e supporto e che tiene la loro inclusione come membri attivi dell’équipe medica in
gran conto. In quest’ottica, Family Presence, durante la rianimazione e procedure invasive è
fondamentale per questa filosofia d’assistenza (Santos González et al. 2010). Le famiglie
giocano un ruolo vitale nella salute e benessere del paziente e supportare, integrare la famiglia
nel processo di cure d’emergenza è vitale per soddisfare tutti i bisogni del paziente (Childrens’
Hospital of Philadelphia 2006). Kovacs et al. (2006) e Meeker & Jezewski (2005) consigliano
19
un approccio centrato sulla famiglia sia nell’area acuta sia nelle cure palliative (Lederman &
Wacht 2014). Il nome di questo modello - assistenza centrata sul paziente e sulla famiglia,
PFCC - esprime bene la misura in cui gli operatori sanitari dovrebbero riconoscere
l’importanza del ruolo chiave che giocano i parenti nella cura dei pazienti. In un certo senso,
questo nuovo paradigma rende il Giuramento di Ippocrate (che non prende in considerazione
né l’autonomia del paziente né la sua famiglia) obsoleto (Lederman & Wacht 2014; Jotterand
2005).
2.3 PREVENZIONE DI ERRORI
“Isolare i pazienti nei loro momenti più vulnerabili dalle persone che li conoscono meglio, li
mette a rischio per errori clinici, danni emotivi, inconsistenze assistenziali, impreparazione
per le transizioni insite nel processo di cura e costi non necessari. Eppure in tanti ospedali e
sistemi sanitari, politiche di visita sorpassate separano ancora le famiglie e persone care dai
pazienti durante i ricoveri in ospedale” (IPFCC).
Joanna Kaufmann del Institute for Patient and Family Centred Care, racconta l’episodio del
ricovero della propria madre di 86 anni, una persona molto orientata che non era mai stata in
ospedale in precedenza. Era allergica all’aspirina e si era dimenticata di informare il personale
sanitario. Quando l’infermiera è arrivata con una soluzione endovenosa di questo farmaco,
fortunatamente la Kaufmann era presente e ha potuto intervenire. “Delle volte le persone
dimenticano certe cose. Il fatto che c’ero ha salvato l’infermiera e mia madre da una possibile
catastrofe” (Joanna Kaufmann, IPFCC, intervistata sulla Tommy Schnurmacher Show, CJAD
Radio, Montreal, Canada, il 30 luglio 2014). Melissa Thomason, una paziente ricoverata in
terapia intensiva aggiunge: “Ero intubata e avevo paura di morire a causa di una reazione
avversa al fentanile in passato. Ne erano a conoscenza mio marito e mia madre – ma non
c’erano. Quella situazione terrificante si è verificata perché le regole dell’ospedale non
permettevano alla mia famiglia di stare con me in terapia intensiva” (IPFCC).
20
2.4 UMANIZZAZIONE DELLE CURE
Il modello di assistenza centrata sulla famiglia rientra nella più ampia questione
dell'umanizzazione delle cure, tesa a promuovere un sempre maggior rispetto della persona nei
trattamenti e nelle strutture sanitarie, un processo scandito da vari passi storici, soprattutto la
legge 23 dicembre 1978, n. 833 (“Istituzione del servizio sanitario nazionale”), che recita al
primo punto: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e
interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. La tutela della salute fisica
e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana”. Questo
cambiamento, che segna il passaggio del rapporto tra cittadino e sistema sanitario, da un
sistema mutualistico caratterizzato da un grado sempre maggiore di autonomia, ha visto il
superamento del sistema stesso, ponendo il cittadino al centro del sistema pubblico di
promozione e tutela della salute, nel rispetto di articolo 32 della Costituzione Italiana ed i
successivi correttivi (d.lgs. n.502 del 1992 e d.lgs. n.517 del 1993). Il trattamento medico-
chirurgico è retto dal principio di libertà; ormai, infatti, il cittadino ha il diritto di scegliere il
proprio medico di base, di cambiare scelta in caso d’incompatibilità, di scegliere la struttura
sanitaria che ritiene più idonea per le proprie esigenze e di rifiutare di sottoporrsi a trattamenti
medici che non ritiene giusti per lui. I trattamenti medici richiedono il “consenso informato”;
ciò significa che al trattamento medico-chirurgico è preliminare un’attività del medico volta ad
informare il paziente. Si viene così a configurare un vero e proprio diritto all’informazione,
segno tangibile del “nuovo e diverso modo di realizzare il rapporto medico-paziente in termini
non più pietistico-autoritari ma fondamentalmente paritari” (Corrà 1999). Non è un caso,
infatti, oggi il rapporto medico-paziente viene anche chiamato “alleanza terapeutica”.
Patrizia Zannini in Bioetica in Pillole scrive: “Umanizzare la medicina significa mettere al
centro la persona con le sue componenti fisiche, mentali, emotivi, spirituali e relazionali. Si
può chiamare paziente, malato, cliente, utente, cittadino, ma quello che non cambia è che si ha
davanti una persona. Questo però non deve far dimenticare la relazione: fin dal concepimento,
l’individuo è una soggettività in relazione; relazione con i famigliari, con la società, con il
medico. Chi è dunque il malato? Il malato è essenzialmente persona. Non è il corpo ad essere
malato, ma la persona stessa. Il medico viene a contatto nell’immediatezza con un corpo su cui
21
è chiamato ad intervenire con tutta la sua abilità e professionalità. Ma per l’ammalato il corpo è
il suo essere; quando si interviene sul corpo, si tocca la profondità dell’io interiore (…) Anche
quando si parla il linguaggio della scienza e si applica esclusivamente un sapere medico,
questo passa attraverso una persona, il medico, ed è rivolto ad una persona, il paziente. Che lo
si voglia o no si entra in relazione, anche quando si crede di essersi attenuti a comunicazioni
esclusivamente tecniche”.
In Italia, il Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 aveva inserito fra gli obiettivi prioritari
l’umanizzazione (Prati & Monti 2010), ponendo come macro obiettivo del Servizio Sanitario
Nazionale non solo quello della promozione “della salute dei cittadini”, bensì quello della
promozione del “benessere e della salute dei cittadini e delle comunità” nella consapevolezza
che, “la vera ricchezza del sistema sanitario è la salute dei cittadini”. L'umanizzazione delle
cure è anche “il fulcro del nuovo per la Salute”, un accordo finanziario e programmatico tra il
Governo e le Regioni di valenza triennale per gli anni 2014-2016, siglato il 10 luglio 2014.
Articolo 4 del Patto è dedicato all’umanizzazione delle cure, e dichiara quanto segue: “Nel
rispetto della centralità della persona nella sua interezza fisica psicologica e sociale, le Regioni
e le Province Autonome si impegnano ad attuare interventi di umanizzazione in ambito
sanitario che coinvolgono gli aspetti strutturali, organizzativi e relazionali dell’assistenza. … Si
conviene di predisporre un programma annuale di umanizzazione delle cure che comprenda la
definizione di almeno un'attività progettuale in tema di formazione del personale ed un'attività
progettuale in tema di cambiamento organizzativo indirizzato prioritariamente alle seguenti
aree assistenziali; Area critica, Pediatria, Comunicazione, Oncologia, Assistenza
domiciliare…” (Patto per la Salute, 2014 – 2016).
Dal punto di vista normativo italiano, la svolta verso un’umanizzazione maggiore delle cure è
stata data dal decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, (“Riordino della disciplina in
materia di sanità”), all’art. 14 nel quale si fa riferimento alla personalizzazione e
umanizzazione dell’assistenza per un adeguamento delle prestazioni alle esigenze dei cittadini.
Altre normative comprendono il decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517, il decreto del
22
Presidente del Consiglio dei Ministri, 19 maggio 1995, sulla “Carta dei servizi” e il decreto
ministeriale, 15 ottobre 1996, del Ministro della Sanità.
2.5 TERAPIE INTENSIVE “APERTE”
Un’altra area di grande pertinenza per quanto riguarda il concetto di Family Presence è la
terapia intensiva. Era il 2002 quando Hilmar Burchardi, all’epoca presidente dell’European
Society of Intensive Care Medicine (ESICM) ha scritto in un editoriale della rivista ufficiale
dell’ESICM: “È tempo di riconoscere che le Terapie Intensive devono essere un luogo dove
l’umanità abbia alta priorità. È tempo di aprire quelle Terapia Intensive che sono ancora
chiuse”. Nonostante vari cambiamenti in questa direzione, la “apertura” delle Terapie Intensive
è ancora lontana dall’essere pienamente una “realtà” (Comitato Nazionale per la Bioetica
2013).
Al contrario della linea di condotta tradizionalmente adottata dai reparti di terapia intensiva, in
linea generale, non ci sono solidi motivi scientifici per impedire o limitare eccessivamente
l’accesso di familiari e visitatori (Burchardi 2002; Berwick & Kotagal 2004; Davidson et al.
2007; Slota et al. 2003); soltanto seri rischi per la salute pubblica – come fasi epidemiche di
particolare gravità – possono eccezionalmente giustificare l'impedimento delle visite (Rogers
2004). Invece si è visto che una maggior apertura nell’area critica per familiari e visitatori “non
solo non è pericolosa, ma anzi è benefica, sia per loro che per i pazienti”; il tanto temuto
aumento nel tasso d’infezione (uno dei principali motivi avanzati per favorire la restrizione
degli orari di visita) non si è verificato, mentre sia le complicanze cardio-vascolari sia gli
anxiety score hanno visto una riduzione statisticamente significativa, mentre gli indici
ormonali di stress dei pazienti ricoverati si sono rivelati significativamente più bassi. Infine
anche le madri di bambini ricoverati in terapie intensive “aperte” dimostrano livelli di ansia più
contenuti rispetto a quelle di bambini nelle terapie intensive con “accesso limitato”.
23
L’Italia è uno dei paesi con gli orari di visita più restrittivi; il 9% dei reparti di terapia
intensiva italiani non modifica le proprie regole per l’acceso dei visitatori se il paziente
ricoverato è un bambino, il 21% nemmeno se il paziente sta morendo. Un quarto delle terapie
intensive per adulti e un terzo di terapie intensive pediatriche non hanno una sala d’attesa per i
familiari. Attualmente, le ore di visita nelle terapie intensive pediatriche italiane sono in media
cinque al giorno; solo il 12% dei reparti non pone restrizioni nelle 24 ore alla presenza dei
genitori mentre il 59% non permette la presenza costante di un genitore nemmeno nelle ore
diurne (Giannini & Miccinesi 2011). Solo il 30% delle terapie intensive neonatali consente
l’ingresso ai genitori 24 ore al giorno, contro il 100% di quelle svedesi, danesi e inglesi, o il
71% di quelle francesi (Greisen et al. 2009; Comitato Nazionale per la Bioetica 2013).
Nonostante il sostegno schiacciante da parte delle associazioni professionali, l’abbondanza di
letteratura a favore di Family Presence e poco a sfavore, c’è ancora una grande discrepanza tra
la teoria e la pratica. Lo studio di Prati & Monti (2010) è interessante, perché evidenzia la
contraddizione che esiste ancora tra teoria e pratica. Diverse realtà operative (terapia intensiva,
pronto soccorso e 118) sono state prese in considerazione, ponendo varie domande agli
operatori sanitari. Il 66% del personale si esprime a sfavore sulla presenza di un parente
durante la visita o durante manovre assistenziali, anche se richiesta dal paziente; esaminando
ogni realtà in modo separato, emerge un quadro diverso con differenze statisticamente
significative, con 93%, 53% e 30% del personale a sfavore di questa pratica in terapia
intensiva, pronto soccorso e 118 rispettivamente. La chiusura del personale aumenta quando si
tratta di rianimazione cardiopolmonare, con l’89% del personale a sfavore della presenza dei
parenti durante le manovre rianimatorie. Anche qui, si verificano delle differenze in funzione
del reparto operativo, con il 98% e il 97% nei reparti di terapia intensiva e nel pronto soccorso
rispettivamente, mentre solo il 57% degli operatori del 118 ha risposto in modo negativo.
Secondo questi risultati, quindi, gli operatori riconoscono l’importanza della presenza dei
familiari durante manovre invasive o di emergenza (infatti, il 62% degli operatori crede che
questa sia una pratica giusta), una convinzione, però, che non si traduce nel proprio operato,
dove il 66% non permette Family Presence, una percentuale che sale all’89% quando si tratta
di manovre di rianimazione.
24
2.6 L’INFLUENZA DEL CONTESTO LAVORATIVO
Un altro aspetto interessante è l’influenza del contesto di lavoro sul comportamento
dell’operatore. “In altre parole chi svolge la sua professione in terapia intensiva e in parte nel
pronto soccorso, è tutelato da una struttura architettonica, una ‘roccaforte’ che porta ad
abituarsi ad operare senza la presenza di estranei. Al contrario chi presta servizio nel servizio
di soccorso extraospedaliero si trova ad operare in contesti meno ‘protetti’ come la strada o le
abitazioni dei chiamanti. Ne deriva che in alcune condizioni, come nella strada, gli operatori
sono obbligati a lavorare sotto gli occhi dei familiari. Oppure se pensiamo all’intervento
nell’abitazione, l’operatore può sentire un minor potere nel chiedere ad un familiare di uscire
da una camera di sua proprietà. Al contrario operatori sanitari che lavorano all’interno
dell’ospedale hanno un maggiore potere nel chiedere ai familiari di uscire dalla stanza. In
queste risposte possiamo notare un effetto esemplificato dalla frase ‘a casa mia comando io’:
gli operatori che prestano servizio intraospedaliero si sentono maggiormente ‘padroni’ del
contesto e in questo senso, si sentono maggiormente titolati a gestire la presenza dei familiari,
mentre nel servizio extraospedaliero gli operatori possono sentirsi ‘ospiti’ e quindi meno
propensi a ‘chiudere la scena’, alla vista dei familiari, in quanto possono avere l’inconfutabile
diritto ad accedere a qualsiasi ambiente qualora lo desiderino. Dal momento che, generalmente
questo aspetto non è proceduralizzato, la spiegazione più plausibile per tali pratiche operative,
risiede in norme organizzative non scritte, ma passate da un operatore all’altro in via ufficiosa:
‘si fa così’ oppure ‘si è sempre fatto così’” (Prati & Monti 2010).
“La nostra è una società che non vuole ‛vedere morire’, che censura la morte e la nasconde.
Ma nessuna branca medica più di quella intensiva rende evidente come la medicina sia in
realtà governata da limiti [Wildes 1995]. Quasi ogni giorno medici e infermieri delle terapie
intensive toccano con mano la dimensione del limite e affrontano la morte. Alla luce delle
considerazioni esposte in precedenza circa il significato della ‛terapie intensive aperta’, anche
la morte può essere affrontata in modo diverso, con linguaggi e gesti differenti da quelli
abituali. In genere, infatti, siamo abituati al gesto di consegnare un corpo dopo la morte, ma
invece possiamo creare le condizioni perché la persona sia accompagnata nel tempo della
morte. Sempre che le circostanze lo permettano e che la morte non sia un evento acuto e
25
inatteso, è importante permettere ai familiari di rimanere con la persona cara anche nel tempo
finale della sua vita, restandole vicini, accarezzandola (o tenendola in braccio nel caso sia un
bambino), parlandole con i gesti e il lessico speciali della loro intimità. Sono passaggi difficili
e complessi ma di enorme importanza. Inoltre tutti questi gesti di commiato rappresentano la
prima tappa per una corretta elaborazione del lutto” (Comitato Nazionale per la Bioetica
2013).
26
CAPITOLO 3
INDICAZIONI MEDICHE
“Sono riuscita a convincere il medico a permettere la presenza dei genitori durante la
rianimazione del loro figlio. Ho ricevuto una lettera, esprimendo quanto hanno apprezzato la
possibilità di rimanere con il loro figlio durante gli ultimi minuti della sua vita. Hanno detto
che erano stati sempre con lui da quando era nato e volevano esserci anche al momento della
sua morte. Hanno detto che poter assistere all’evento gli ha aiutato ad elaborare il lutto”
(Infermiera, nello studio di MacLean et al. 2003).
Jonsen et al. (1998) ci forniscono un metodo di analisi etica clinica, molto utile per la
risoluzione di questioni etiche nell’area critica, e che prende in considerazione quattro temi
distinti – indicazioni mediche, preferenze dei pazienti, qualità di vita e fattori contestuali. Nei
seguenti quattro capitoli, quindi, esplorerò ognuno di questi quattro aspetti, per cercare di
capire i vantaggi e svantaggi di Family Presence per tutte le persone coinvolte in questa
pratica, operatori sanitari, pazienti e familiari.
Si comincia con un’esaminazione delle indicazioni mediche che inciderebbero in modo
rilevante sulle possibilità del paziente di trarre beneficio oppure di subire danni come risultato
di una decisione di offrire Family Presence o meno. Queste indicazioni si focalizzano
tipicamente sugli obiettivi del trattamento medico, e sull’impatto del problema etico sul
raggiungimento di questi obiettivi. In questo caso, la letteratura indica che Family Presence
normalmente non interferisce con interventi medici tesi ad assicurare la sopravvivenza del
paziente. Inoltre, i risultati di studi di ricerca indicano che permettere Family Presence può
essere di grande conforto per i pazienti e per le loro famiglie. L’American Heart Association
stima che meno del 15% di tutti i pazienti ricoverati a cui si pratica RCP sopravvivono, per
essere dimessi dalla struttura dove sono stati rianimati. Alla luce di questo alto tasso di
mortalità e il desiderio dei pazienti di essere vicini ai loro familiari al momento della morte, in
termini di indicazioni mediche, Family Presence sarebbe una pratica consigliabile.
27
3.1 IL LEGAME PAZIENTE-FAMIGLIA ED I BISOGNI DEI FAMILIARI
Moltissimi studi riportano il desiderio delle persone di volere rimanere con la persona cara
durante una rianimazione cardiopolmonare (sondaggio NBC Dateline 1999; Davis 2000;
Mazer 2006; Mangurten et al. 2006; Meyers et al. 2000; Kidby 2003; Sacchetti et al. 1996;
Robinson et al. 1998; Hanson & Strawser 1992; Morris 1998). Studi della rianimazione di
pazienti, sia adulti sia pediatrici, dimostrano che la maggioranza dei familiari trae beneficio
dalla possibilità di assistere alla rianimazione del loro caro (Hanson & Strawser 1992; Back &
Rooke 1994; Boie et al. 1999; Dingeman et al. 2007; McGahey-Oakland et al. 2007). Inoltre le
linee guida dell’American Heart Association/International Liaison Committee on Resuscitation
(AHA/ILCR) (2000) sostengono che i familiari hanno un posto legittimo nel processo
rianimatorio e non dovrebbero essere esclusi (Maxton 2008). Tradizione ha voluto, che la
rianimazione del paziente avvenga al riparo dallo sguardo del pubblico, limitando l’accesso ai
familiari, con dei bisogni che rimangono insoddisfatti. Nell’eventualità di una rianimazione
non riuscita, alle famiglie, normalmente, è consentito di vedere il paziente solo una volta che è
stato reso “presentabile”, creando una realtà che distorce la verità del processo rianimatorio e
che contribuisce alla confusione della famiglia e al loro fraintendimento di ciò che è successo
(Timmermans 1997). Nello studio di Back & Rooke (1994), inoltre, il 75% del personale
medico ed infermieristico era d’accordo con l’affermazione che: “I parenti dovrebbero avere
l’opportunità di rimanere con un familiare che necessita di rianimazione cardiopolmonare, a
condizione che si disponga di un supporto professionale adeguato” (Barratt & Wallis 1998).
Nel contesto di un sistema sanitario basato sul modello biomedico (dove si tende a concentrarsi
sulla malattia da trattare invece che della persona nel suo insieme come nel modello olistico),
in qualità di operatore sanitario si tende spesso a dimenticare l’importanza del legame tra
paziente e famiglia. Come rilevano Gabriele Prati e Massimo Monti: “il progresso delle
scienze mediche ed infermieristiche richiede sempre più un costante aggiornamento sulle
nozioni tecniche e biologiche con il rischio di trascurare lo spazio dedicato al rapporto
umano, componente importante nel processo di cura” (Prati & Monti 2010). Baumhover &
Hughes (2009), pongono una particolare enfasi sull’aspetto spirituale di Family Presence,
fornendo vari motivi a favore di questa pratica, quali il mantenimento del legame tra pazienti e
28
familiari e la facilitazione del processo di lutto. Inoltre una politica di Family Presence,
permette un senso di chiusura e guarigione, con un’ultima opportunità di dire addio; riduce ed
aiuta a prevenire i sensi di colpa, preoccupazione od ansia per aver abbandonato una persona
amata in crisi; soddisfa i bisogni emotivi e spirituali di pazienti e famiglie; aiuta i familiari a
sentirsi partecipanti attivi nel processo di cura, perché possono fornire informazioni sul
paziente e rispondere ad eventuali domande dei sanitari, nonché migliorare la presa di decisioni
grazie al fatto che i familiari sono più consapevoli della gravità e la realtà della condizione
clinica del paziente; minimizza l’agonia di dover aspettare senza sapere come sta il paziente.
Aiuta anche il paziente di sentire che hanno avuto le cure migliori possibili e che non sono soli
(MacLean et al. 2003; Meyers et al. 2000; Duran et al. 2007; Mangurten et al. 2005; Eichhorn
et al. 2001).
La letteratura dimostra che le persone hanno determinati bisogni, quando la salute di una
persona cara è a repentaglio, quali una comunicazione sincera, costante ed esauriente; stare
vicino al paziente sia fisicamente che emotivamente; sentire che i sanitari hanno a cuore il
benessere del paziente; vederlo spesso e sapere precisamente gli interventi e procedure eseguite
(Leske 1992; Berns & Colvin 1998; Molter 1979; Sundara 2011; Chien et al. 2006; Sacco et al.
2009; Duran et al. 2007). Family Presence è un possibile modo per venire incontro a questi
bisogni e soddisfa la necessità di sostegni emotivi del paziente da parte dei suoi cari. Alcuni
studi suggeriscono che alcuni di questi bisogni (il bisogno del paziente di avere i familiari
accanto e il bisogno dei familiari di ricevere informazione e stare accanto alla persona amata),
tendono ad essere sottovalutati dagli operatori sanitari, quando in realtà rappresentano
necessità che le famiglie dei pazienti ricoverati in terapia intensiva manifestano maggiormente
(Comitato Nazionale per la Bioetica 2013; Biancofiore et al. 2005; Leske 1986; Bijttebier et al.
2001). Come altri studi (Miles et al. 1989; Farrell & Frost 1992; Coyne 1995) Fiona Maxton
(2008), cita il fattore di stress più importante per i genitori, come la paura di essere separati dal
loro figlio, in particolare durante procedure invasive e rianimazione cardiopolmonare (RCP).
Non sorprende, quindi, che i genitori abbiano un bisogno impellente di rimanere accanto al
loro figlio durante questa procedura. Capiscono la possibilità che il bambino possa non
sopravvivere e hanno un bisogno profondo di stargli accanto. Ciò permette loro di superare
29
eventuali paure per quanto riguarda la natura brutale della rianimazione; una considerazione
cruciale per gli operatori che temono delle ripercussioni psicologiche negative per i genitori
che desiderano assistere alla rianimazione del loro figlio (Schilling 1994; Van der Woning
1997; Jarvis 1998).
3.2 L’INFLUENZA DEI FAMILIARI NEL CORSO DELLA RIANIMAZIONE
Interferenza fisica nelle manovre rianimatorie è forse la “controindicazione” più temuta; molti
sanitari temono che, disturbi sensoriali come odori, sangue e l’angoscia del paziente sarebbero
emotivamente e psicologicamente traumatici per i familiari (Back & Rooke 1994; Goodenough
& Brysiewicz 2003; Ong et al. 2004), che la natura traumatica di queste procedure possa far sì
che questo trauma sfoci in comportamenti negativi da parte dei familiari, come per esempio
svenire, essere d’intralcio o interferire fisicamente; emozioni incontrollate che potrebbero
impedire gli sforzi dell’équipe. La paura dell’interruzione del processo rianimatorio da parte
dei familiari - oppure che i bisogni dei familiari faranno sì che l’attenzione dell’équipe sarà
deviata dal paziente, compromettendo la qualità dell’assistenza - è molto viva tra il personale
sanitario, ed è citato da tantissimi studi (York 2004; Redley & Hood 2004; Sacchetti et al.
2003; Eppich & Arnold 2003; Boudreaux et al. 2002; Fein et al. 2004; Helmer et al. 2000;
Eichhorn et al. 1996; Malone 1993; McGahey 2002; Meyers et al. 2000; Ellison 2003;
Schilling 1994; Linder et al. 2004; Crisci 1994; Adams 1994; Tomlinson 2010; Resuscitation
Council UK 1996; Chalk 1995; Duran et al. 2007). Molti operatori sono dell’opinione che gli
operatori sanitari hanno il diritto di determinare ciò di cui hanno bisogno per svolgere il loro
lavoro in modo sicuro ed efficace (Haddad 2002). Afferma uno degli operatori intervistati:
“Ogni individuo dell’équipe di rianimazione ha bisogno di tempo per pensare in modo lucido e
prendere decisioni istantanee senza distrazioni. Anche se il protocollo d’emergenza è radicato
nell’operato di ognuno di noi, la risposta del paziente ad ogni sforzo di rianimarlo
rappresenta una variabile ignota che richiede la nostra attenzione più completa ed una
risposta rapida. Mentre in qualche raro caso il familiare possa capire l’intensità di questa
scena, permettere ai familiari di assistere alla rianimazione come regola generale sarebbe
imprudente”. Un altro infermiere si interroga sulle motivazioni che spingono i familiari di
30
volere essere presenti: “Forse per mantenere un legame fisico, come tenersi per mano? Perché
non mi ricordo di aver mai osservato una rianimazione dove il familiare avrebbe potuto
avvicinarsi così tanto senza essere d’intralcio". Le diverse associazioni mediche ed
infermieristiche sono unanime nella loro posizione che, la sicurezza di paziente ed operatore
sanitario debba rimanere la priorità primaria, quindi qualsiasi interruzione da parte dei familiari
è un problema serio che merita la giusta considerazione; tuttavia c’è scarsa evidenza per
confermare questa ipotesi (Haddad 2002).
Tuttavia la letteratura rivela pochi problemi o episodi d’interferenza (Halm 2005); le paure
iniziali del personale sanitario di Foote Hospital (dov’è stato istituito il primo programma
formale di Family Presence), dove i familiari avrebbero interferito con le procedure
rianimatorie non si sono realizzate (Hanson & Strawser 1992; Hodge & Marshall 2009), un
risultato confermato dallo studio di Sacchetti e colleghi (2005), che ha riscontrato solo due
episodi d’interferenza durante Family Presence in un setting pediatrico; entrambi gli episodi si
sono rivelati minori e non hanno alterato la gestione del paziente in maniera significativa. Una
madre, che ha assistito in piedi alla rachicentesi del figlio, ha quasi sincopato, ma una volta
sedutasi, la procedura è stata completata senza ulteriori incidenti. Un’altra madre ha interrotto
la riduzione della spalla lussata della figlia, perché riteneva che gli analgesici somministrati
fossero inadeguati, nonostante la sedazione adeguata con propofol. Il comportamento tipico del
paziente è stato descritto alla madre, la riduzione è stata completata senza difficoltà. Alla fine
della procedura, la figlia ha confermato alla madre di non aver avvertito dolore durante la
riduzione. Anche i dati raccolti da Foote Hospital, l’ospedale che si potrebbe ritenere il
“pioniere” di Family Presence, indicano che il rischio derivante da un’interruzione del processo
rianimatorio da parte di parenti è spesso esagerato, dimostrando che i familiari raramente erano
di disturbo (Hanson & Strawser 1992); al contrario, i familiari “frequentemente dovevano
essere condotti al capezzale e incoraggiati a toccare e parlare con il paziente” (Rosenczweig
1998).
Uno studio britannico su 25 familiari di pazienti rianimati (Robinson et al. 1998), non ha
riscontrato nessun episodio di interruzione da parte di questi familiari, mentre lo studio di
31
Mangurten et al. (2006), svolto in ospedale è giunto a simili conclusioni, dove 65 episodi di
Family Presence non hanno subito interruzioni. Secondo lo studio di Duran et al. (2007),
familiari e pazienti erano consapevoli del fatto che Family Presence era permesso, a condizione
che ciò non comportasse nessuna interferenza con l’operato dell’équipe; alcuni familiari si
sono addirittura spostati dal capezzale del paziente quando diventavano troppo sconvolti
(Meyers et al. 2000; Eichhorn et al. 2001; Morse & Pooler 2002). Questi risultati indicano che
pazienti e familiari spesso non solo sono consapevoli dei propri limiti, ma sono anche in grado
di determinare quando Family Presence non è appropriata (Duran et al. 2007).
Un altro modo in cui la presenza dei parenti può influenzare il comportamento dell’équipe è
una maggior difficoltà ad interrompere la rianimazione, anche quando questa sembra futile
(Adams 1994; Boudreaux et al. 2002; Chalk 1995; Resuscitation Council 1996). Secondo lo
studio di Meyers et al. (2000), il 15% dei sanitari era dell’opinione che le cure aggressive e la
rianimazione cardiopolmonare fossero prolungate a causa della presenza dei familiari. In certi
casi, invece, la famiglia potrebbe aiutare l’équipe a decidere quando interrompere la
rianimazione (Barratt 1998). Nello studio di Maxton (2008), i familiari in certi casi hanno
perorato la causa del paziente e hanno partecipato nella presa delle decisioni, inclusa
l’interruzione di una rianimazione futile. Un genitore racconta: “Era verso la fine, ho detto ai
medici “Quanto tempo volete farla soffrire?”… Gli ho chiesto di interrompere… di farla
andare, e l’hanno fatto”.
32
CAPITOLO 4
LE PREFERENZE DEI PAZIENTI
“Se il paziente sottoposto ad intervento rianimatorio ha precedentemente espresso un
desiderio in merito alla presenza dei familiari, questo dovrebbe essere rispettato” (Fulbrook et
al 2007).
Le preferenze dei pazienti sono un elemento chiave dell’analisi clinica e dovrebbero costituire
il secondo dei nostri quattro temi da considerare. A volte le preferenze del paziente, per quanto
riguarda le sue cure mediche, vengono comunicate direttamente ai familiari o agli operatori
sanitari; se così non fosse, è possibile che possano essere dedotte da altri consensi già forniti
dal paziente. In ogni caso, le ricerche indicano che, pazienti e famiglie desiderino la possibilità
di Family Presence; praticamente tutte le persone a cui viene offerta accetteranno (Hanson &
Strawser 1992; Belanger & Reed 1997; Chalk 1995: Rosenczweig 1998; Meyers et al. 1998,
2000; Eichhorn et al. 2001; ENA 2001) e che è la volontà di pazienti e le loro famiglie di
essere in stretto contatto nelle situazioni potenzialmente letali (Meyers et al. 1998, 2000;
Eichhorn et al. 2001). Per quanto riguarda i pazienti ricoverati in terapia intensiva, la
separazione dai propri cari è una causa importante di sofferenza (Nelson et al. 2001;
Biancofiore et al. 2005), spesso un “ulteriore ed ingiustificato prezzo da pagare, non legato alla
malattia o all’evento acuto che ha provocato il ricovero” (Comitato Nazionale per la Bioetica
2013).
Nonostante la mole sempre più imponente di letteratura sul tema di Family Presence,
pochissimi studi hanno indagato sulle preferenze di pazienti a riguardo, anche se la letteratura
esistente suggerisce che le loro opinioni – come quelli degli operatori sanitari – sono
contrastanti. Nello studio di Grice et al. (2003), solo il 29% dei 50 pazienti in attesa di
chirurgia cardiaca elettiva era a favore della presenza dei familiari durante un’eventuale
rianimazione cardiopolmonare; la preoccupazione principale di questi pazienti era l’effetto
traumatico che la procedura potesse avere sui familiari. In questo studio, quasi tutti i pazienti e
33
familiari erano dell’opinione che le loro preferenze per Family Presence dovessero essere
stabilite ancor prima del momento del ricovero in terapia intensiva (Halm 2005). Per contro,
Gulla et al. (2004) hanno studiato 482 adulti nordamericani nel reparto del pronto soccorso, di
cui il 64% era a favore della presenza di un familiare durante RCP. E nello studio dei Duran et
al. (2007) su 62 pazienti ricoverati in vari setting clinici, la maggioranza era dell’opinione che
Family Presence fosse un diritto e che questa possibilità dovesse essere sistematicamente
offerta alle famiglie. Tuttavia nessuno di questi studi aveva coinvolto pazienti già sottoposti a
procedure rianimative.
Fino ad oggi, lo studio di Eichhorn e colleghi (2001), che ha intervistato un paziente rianimato
e otto che hanno subito delle procedure invasive, rimane uno dei pochi ad aver indagato sulle
esperienze di pazienti sottoposti a procedure invasive o RCP alla presenza di un familiare; i
risultati suggeriscono che nonostante alcune problematiche legate alla presenza del familiare, i
vantaggi sia per i pazienti, sia per i familiari, abbiano più peso rispetto al potenziale per
conseguenze avverse (McMahon-Parkes et al. 2009). I nove pazienti intervistati si erano sentiti
confortati dalla presenza dei familiari, erano dell’opinione che i familiari avevano perorato la
loro causa, fornito informazioni importanti agli operatori sanitari, ed erano consapevoli che
Family Presence fosse appropriato, a patto che non interferisse con il lavoro dell’équipe. I
pazienti, nonostante fossero a favore della presenza dei familiari perché confortante, espressero
preoccupazione per il suo potenziale impatto negativo (Mason 2003, Duran et al. 2007).
Durante le varie procedure, i pazienti hanno sperimentato sensazioni di paura e dolore, tuttavia,
la presenza dei familiari li ha fatti sentire più amati, più sicuri e sostenuti, meno impauriti e
meno soli. Nessuno si è dichiarato di sentirsi a disagio a causa di Family Presence; al contrario
hanno avuto la percezione che i familiari agissero come difensori, durante le procedure. Ciò ha
aiutato i pazienti a tollerare procedure difficili e dolorose e allo stesso tempo di umanizzare il
paziente per gli operatori. Alcuni erano perfino dell’opinione che avessero ricevuto delle cure
migliori e più umane grazie alla presenza dei familiari. Altri temi emersi sono, il mantenimento
del legame tra paziente e famiglia, la convinzione che Family Presence sia un diritto e l’effetto
che Family Presence ha sulle famiglie e l’ambiente sanitario (Halm 2005; Hodge & Marshall
2009).
34
Lo studio di Bishop e colleghi (2013) che ha esaminato il tema di Family Presence durante il
cambio delle medicazioni dei pazienti ustionati, un momento assistenziale dove i familiari sono
tradizionalmente esclusi, ha evidenziato numerosi benefici per il paziente. Un paziente ha
commentato: “Mi sento più rilassata durante il cambio delle medicazioni quando mia moglie è
con me”; un altro ha detto che è stato “molto gentile e comprensivo nel coinvolgere i familiari e
permetterli di essere presenti.”. In uno studio di Sproul et al. (2009), l’88% di pazienti
ustionati ha ritenuto, il supporto della famiglia di grande importanza per la loro ripresa.
Secondo lo studio di MacLean et al. (2003), quasi tutti i pazienti pediatrici hanno preferito
avere i genitori presenti durante procedure mediche stressanti (Turner 1997; Wolfram &
Turner 1997; Gonzalez et al. 1989; Jerret 1985; Ross & Ross 1984; Fiorentini 1993; Diniaco &
Ingoldsby 1983), ed erano dell’opinione che la presenza dei genitori era l’intervento più
efficace per gestire il loro dolore.
4.1 LE TESTIMONIANZE DI PAZIENTI RIANIMATI
McMahon-Parkes et al. (2009) hanno reclutato un totale di 62 pazienti dai reparti di
emergenza, medicina generale e di urgenza, cardiologia e pneumologia in quattro grandi
ospedali universitari nel sud-ovest dell’Inghilterra. 21 pazienti sono stati rianimati in seguito ad
un collasso e perdita di coscienza e segni vitali, venendo trattati con una o più delle seguenti
tecniche: primo soccorso vitale (basic life support), defibrillazione, cardioversione, intubazione
endotracheale e/o la somministrazione aggressiva di fluidi (in seguito identificati con il termine
“paziente rianimato” e un numero identificativo). Altri 41 pazienti, che non necessitavano la
rianimazione, ma che erano ricoverati in emergenza, sono stati reclutati nel gruppo dei pazienti
non-rianimati (in seguito identificati con il termine “caso d’emergenza” e un numero
identificativo). I membri di questo gruppo sono stati sottoposti a trattamenti d’emergenza, ma
nessuno di loro ha subito un collasso improvviso che necessitava uno degli interventi
sopraccitati. Trattandosi di uno studio unico nel suo genere, con racconti in prima persona di
chi ha subito la rianimazione cardiopolmonare o comunque è stato ricoverato in emergenza, ho
scelto di includere una traduzione di queste esperienze fortemente personali, le quali
35
costituiscono prospettive preziose per poter fare un quadro il più possibile completo ed
equilibrato sulla questione di Family Presence. Da questo studio di McMahon-Parkes et al.
(2009) sono emersi tre temi principali - “essere presente”, “benessere degli altri” e “gestione
dell’evento da parte degli operatori”.
Ecco presentati i risultati e le riflessioni che nascono da questo studio:
“Essere presente”
Analogamente ai familiari, anche i pazienti ritengono che Family Presence sia un loro diritto,
con la convinzione che, le famiglie hanno un bisogno intrinseco di stare insieme e che Family
Presence abbia aiutato loro a fronteggiare il momento difficile (rianimazione o procedure
invasive). Nonostante la natura angosciosa dell’evento, è stato percepito in fin dei conti come
benefico poter fornire informazioni importanti riguardo il paziente, aiutando la famiglia a
funzionare come unità (Eichhorn et al. 2001). Numerosi studi dimostrano la volontà dei
genitori di rimanere col proprio figlio, anche durante procedure molto invasive, quali RCP
(Khan 2007; Perez Alonso et al. 2009; Powers & Rubenstein 2009), di poter partecipare alle
sue cure quanto possibile, per ridurre lo stress e le incertezze (Maxton 2008; Eberly et al. 1985;
Carter & Miles 1989; Miles et al. 1989; Heuer 1993; Woodfield 1997; Meyer et al. 1998),
mentre nello studio di Gonzalez et al. (2010), l’80% dei familiari credeva che la loro presenza
fosse di beneficio, a prescindere dall’età del paziente.
Per alcuni pazienti nello studio di McMahon-Parkes e colleghi, il concetto di “semplicemente
essere presente” (caso d’emergenza #32) non implicava una mera presenza fisica, piuttosto una
nozione più estesa di “stare con e per il paziente”, una riflessione delle dinamiche di cura
all’interno della famiglia stessa. In molti casi, i rispondenti consideravano Family Presence un
dovere familiare e di responsabilità nei confronti del paziente: “E’ il mio dovere esserci, come
padre o marito” (paziente rianimato #11). “Non potrei perdonarmelo, se non ci dovessi essere”
(caso d’emergenza #15). Molti partecipanti erano dell’opinione che la presenza dei familiari
potesse influenzare la rianimazione del loro caro, dando forza e coraggio, perché i familiari
“farebbero il tifo” per il paziente (paziente rianimato #1), “parlerebbero con lui” (caso
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d’emergenza #23) o “incoraggiandolo a rimanere con loro” (paziente rianimato #7). Ci sono
evidenze aneddotiche che, la presenza di una persona amata, potrebbe essere di beneficio al
paziente, incrementando la volontà di vivere nei momenti della rianimazione: “Avevo una
paziente di 40 anni che è andata in arresto cardiaco al pronto soccorso. Abbiamo fatto entrare
il marito per starle accanto e lui continuava a dirle che l’amava e che doveva stare in vita per
i loro figli. Lei si è ripresa completamente. Dice di ricordare la maggior parte della
rianimazione e la presenza del suo marito. Io credo che questo abbia aiutato a mantenerla in
vita” (Lederman & Wacht 2014). Pazienti che sono in arresto e che sono sottoposti alla
rianimazione cardiopolmonare, potrebbero essere più consapevoli rispetto a quello che si è
creduto in precedenza. Con la possibilità di una consapevolezza fugace, può essere che il
paziente tragga beneficio dalla possibilità di esprimere un messaggio “finale”, oppure di essere
rassicurato prima di iniziare trattamenti invasivi, come la ventilazione meccanica
(Resuscitation Council 1996). Questo aspetto viene sottolineato anche da un infermiere in
California: "Vorrei incoraggiare i familiari ad essere presenti, tenere il paziente per mano e
parlargli nell’orecchio - sempre che si possa fare senza essere d’intralcio all’équipe che sta
eseguendo la rianimazione. Una voce e un tocco familiare hanno un valore terapeutico per il
paziente" (Haddad 2002). Altri partecipanti erano più filosofici, suggerendo che sarebbe
improbabile per il paziente incosciente capire se i familiari fossero vicini: “Siccome non sei
consapevole di ciò che sta succedendo, non credo che [Family Presence] farebbe molta
differenza” (paziente rianimato #8). “Saresti in una condizione per la quale non ti
importerebbe!” (caso d’emergenza #9).
“Supporto e aiuto emotivo”
In genere, i partecipanti erano dell’opinione che il supporto e incoraggiamento dei familiari
durante la rianimazione sarebbe di beneficio o lo era stato. Questo aiuto comprendeva gesti
come tocco espressivo o comunicazione verbale. “Se si riesce a trovare il contatto con una
mano, si può trovare conforto” (paziente rianimato #3). A causa della percezione dell’ambiente
di rianimazione, come potenzialmente spaventoso e stressante, molti partecipanti erano
dell’opinione che la presenza di un familiare aiuterebbe a creare un’atmosfera di fiducia,
promuovendo un senso di sicurezza e mantenendo un legame con i familiari: “Mi sentirei più
37
sicuro che qualcuno [un familiare] fosse con me” (paziente rianimato #4). “Quando ti svegli
sarebbe bello vedere qualcuno di familiare e amichevole, invece di un medico o infermiere che
non conosci” (caso d’emergenza #2).
“Perorazione della loro causa”
Un’aspettativa dei pazienti nei confronti dei familiari è quella di perorare (o difendere) la loro
causa. Prevedendo una compromissione delle loro capacità di interpretare le informazioni o
prendere decisioni autonome, alcuni partecipanti hanno espresso il desiderio che i familiari
rappresentassero i loro interessi: “Non ero in grado di prendere delle decisioni, quindi avere
qualcuno con me a perorare la mia causa è stato importante” (paziente rianimato #20). Altri
rispondenti invece pensavano che sarebbe inappropriato far assumere questo ruolo ai familiari,
perché il peggioramento repentino della salute del paziente potrebbe scattare una crisi
familiare, compromettendo inevitabilmente la capacità dei familiari stessi a prendere delle
decisioni in modo razionale: “Sarebbe troppo traumatico per i familiari dover prendere una
decisione simile” (paziente rianimato #9). Si solleva anche la possibilità che possono nascere
dei conflitti d’interesse tra i familiari e gli individui che richiedono la rianimazione: “Mia figlia
stava urlando, supplicandoli di rianimarmi. Sono stata rianimata per il suo beneficio, non
perché fosse la cosa migliore per me… Lei non ha il diritto di prendere delle decisioni per
conto mio” (paziente rianimato #14).
“Vedere e comprendere”
Una convinzione molto comune tra i partecipanti era che, assistere alla rianimazione,
giocherebbe un ruolo importante nel ridurre l’ansia della famiglia e a risolvere eventuali
malintesi o dubbi nutriti dai familiari in merito all’assistenza prestata al loro caro. Osservare
l’équipe medica eseguire procedure salvavita sul loro caro aiuterebbe i familiari a comprendere
la realtà della situazione: “Vedrebbero che i medici hanno fatto tutto il possibile. Se non
fossero presenti, ci potrebbero essere dei dubbi persistenti. I familiari potrebbero quindi avere
un’impressione esatta di ciò che è successo” (caso d’emergenza #24). “Potrebbero vedere che
qualcuno si era veramente impegnato e che aveva fatto il possibile!” (paziente rianimato #8).
Un partecipante ha suggerito che, assistere alla rianimazione permetterebbe alla sua famiglia di
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comprendere la gravità della sua malattia: “Gli farebbe bene capire quanto ero malato!”
(paziente rianimato #19). Un’altra paziente era dell’opinione che assistere alla rianimazione,
per quanto violento, potrebbe aiutare il figlio a vederla “in una luce diversa, non come una
madre che può sempre andare avanti. Non sono Superman, solamente una donna comune”
(caso d’emergenza #39). Il desiderio di capire e di sapere la sequenza di eventi prima, durante
e dopo la rianimazione era altrettanto importante per chi è sopravvissuto. Il valore nell’avere
un familiare presente era di spiegare al paziente ciò che era successo mentre era privo di sensi:
“Se l’esito è positivo, c’è un beneficio perché la persona che ha assistito alla procedura ha
visto ciò che l’équipe ha fatto e può raccontarti cos’è successo” (paziente rianimato #21). “È
stato veramente importante... avere qualcuno lì a poterti spiegare ciò che è successo dopo
l’evento, con un linguaggio non-medico (…) È bello sentire il racconto da una prospettiva
personale” (paziente rianimato #20). In circostanze dove erano presenti degli amici piuttosto
che dei familiari, questi potrebbero raccogliere le informazioni pertinenti e comunicarle ai
familiari dopo l’evento: “Se si trattasse di un caro amico e la famiglia non aveva la possibilità
di esserci, potrebbe ricevere le informazioni e rassicurazione da qualcuno vicino al paziente”
(caso d’emergenza #37). Alcuni hanno perfino suggerito che un’amico potrebbe “proteggerli”
da ulteriore angoscia, dandoli una versione “revisionata” e “temperata” dei momenti finali del
paziente: “Sarebbero di conforto alla famiglia. Potrebbero mentire un pochino e dire che fosse
stato meglio rispetto alla verità!” (caso d’emergenza #34).
“Essere presenti alla fine”
Molti partecipanti erano dell’opinione che le famiglie desiderassero poter stare con i loro cari a
prescindere dall’esito, ma anche in questo caso le loro opinioni erano contrastanti. Per i
pazienti non responsivi o quelli che potrebbero riprendere temporaneamente conoscenza,
essere presenti darebbe la possibilità di scambiare dei sentimenti d’affetto durante i momenti
finali, incoraggiare l’accettazione della morte e lenire il dolore delle persone in lutto: “Mia
figlia sentirebbe il bisogno di essere presente. Darebbe una possibilità di chiusura” (caso
d’emergenza #6). “Se morissi, loro avrebbero la possibilità di dire addio. Ti sentiresti come
“tradito” se perdessi questi ultimi momenti” (paziente rianimato #17). A volte i motivi dei
pazienti erano legati alla natura stessa della situazione: “È una presenza durante un’occasione
39
importante e se capitasse il peggio… almeno avresti passato quel tempo con loro” (caso
d’emergenza #13).
Alcuni preferivano non essere soli nell’eventualità che la rianimazione non fosse riuscita: “Sul
momento non ero consapevole di nulla, ma col senno di poi ero felice che loro ci fossero. Non
voglio essere solo quando ‘tiro le cuoia’!” (paziente rianimato #10). Una minoranza di
partecipanti, però, preferirebbe affrontare la morte da soli, oppure temono l’invasione della
propria privacy da parte di parenti estranei. “Vorrei semplicemente essere da solo” (paziente
rianimato #11). “Sono una persona indipendente e ho sempre fatto le cose da solo… Non
vorrei che mi vedessero così, punto e basta!” (caso d’emergenza #26).
“Benessere degli altri”
In generale i rispondenti erano favorevoli a Family Presence; tuttavia alcuni erano turbati delle
possibili conseguenze negative per i familiari ed erano desiderosi di proteggere il benessere di
chi potrebbe scegliere di assistere alla rianimazione: “Aggiungerebbe ulteriore dolore durante
un periodo già per sé angoscioso. Avrebbero già abbastanza sul piatto” (caso d’emergenza
#29). Per questo motivo, alcuni partecipanti preferivano nominare i familiari che a loro avviso
sarebbero in grado di affrontare la situazione: “Mio marito sarebbe andato in panico, e mio
figlio più grande sarebbe andato a pezzi” (paziente rianimato #4). “Posso sempre contare su
mio fratello, ma lui potrebbe essere troppo sconvolto. Ma mia cognata ha lavorato come
infermiera e sarebbe in grado di reggere la situazione” (caso d’emergenza #17).
Analogamente nello studio di Grice et al. (2003), quasi tutti i pazienti e familiari erano
dell’opinione che le loro preferenze per Family Presence dovessero essere chieste al momento
del ricovero del paziente; è anche giusto che la volontà del paziente in merito a Family
Presence venga rispettata (Resuscitation Council 1996). L’autonomia decisionale del malato,
inoltre, risulta valorizzata almeno quando il paziente è in grado di esprimere la propria volontà
circa la presenza accanto a sé di persone con le quali intrattiene relazioni significative. Infatti,
il paziente – quando le circostanze lo permettano – dovrebbe avere la possibilità di indicare
quali persone siano particolarmente significative per lui e chi desidera quindi avere accanto nel
difficile tempo della malattia. Questo, del resto, è uno dei principali bisogni espressi dai
40
pazienti ricoverati in terapia intensiva (Olsen et al. 2009; Comitato Nazionale per la Bioetica
2013). Benjamin et al. (2004) hanno riportato uno studio che esamina le preferenze dei pazienti
in merito a Family Presence nell’eventualità della loro rianimazione. Da un campione di 200
pazienti, 144 (il 72%) hanno affermato di volere i familiari presenti, anche se 81 (il 56%) di
questi, hanno indicato di volere solo la presenza di determinati membri della famiglia. La
prima preferenza era marito o moglie, seguito da un genitore (Hodge & Marshall 2009).
Allo stesso tempo, i partecipanti hanno rilevato l’importanza di rispettare la volontà di ogni
familiare: “È una questione che riguarda la famiglia e quello che vogliono loro” (caso
d’emergenza #17). “Se volessero essere presenti, vorrei che gli fosse offerta la possibilità, per
il loro beneficio” (caso d’emergenza #22). Alcuni tuttavia erano preoccupati riguardo i
possibili effetti negativi che l’osservazione della rianimazione potrebbe avere su chi sceglie di
essere presente: “Se il tentativo di rianimazione non andasse a buon fine, non vorrei che quello
fosse il loro ultimo ricordo di me” (caso d’emergenza #16).
“Gestione dell’evento da parte degli operatori”
All’interno di questo tema finale sono emersi tre sottotemi intercorrelati rispetto al modo in cui
il personale sanitario dovrebbe gestire la rianimazione – “Lavorare senza interruzioni”
“decisioni del personale sanitario” e “mantenere un rapporto di fiducia con il paziente”.
“Lavorare senza interruzioni”
Pur essendo favorevoli a Family Presence, alcuni partecipanti erano dell’opinione che l’équipe
dovrebbe poter lavorare senza ostacoli durante l’eseguimento di manovre salvavita e altresì
deve essere “permesso di lavorare senza interruzioni” (paziente rianimato #8). “Rianimare un
paziente è una cosa seria e non è giusto nei confronti dei medici dover tenere un occhio sul
paziente e l’altro sulla famiglia. Devono poter focalizzare la loro completa attenzione sul
paziente” (caso d’emergenza #30). L’aspettativa che, il personale sanitario dovrebbe
concentrare i propri sforzi sui pazienti invece che sui bisogni dei familiari, era un’opinione
particolarmente prevalente tra i casi d’emergenza: “Vorrei che i familiari non fossero presenti
per motivi ‘egoistici’; vorrei che i medici si concentrassero su di me” (caso d’emergenza #23).
41
“Decisioni del personale sanitario”
Un altro tema emerso dallo studio di McMahon-Parkes e colleghi era quello dell’equilibrio
delicato tra assicurare che i familiari rimanessero una presenza non intrusiva, ma allo stesso
tempo protetti dalla vista di procedure potenzialmente angoscianti. In linea generale, i
partecipanti si fidavano del giudizio del personale nell’agire negli interessi dell’équipe, il
paziente e la famiglia stessa: “Se i familiari sono d‘intralcio, il personale ha il diritto di
chiedergli di andarsene” (paziente rianimato #15). “Se l’équipe deve fare qualcosa che ai loro
occhi sembrerà sgradevole, allora gli operatori dovrebbero chiedergli di lasciare la stanza”
(caso d’emergenza #27). “Ci sono cose che i familiari non dovrebbero vedere” (paziente
rianimato #8). “I medici e gli infermieri dovrebbero poter usare la loro discrezione” (paziente
rianimato #16). Altri partecipanti, invece, ritenevano che pur avendo il dovere di avvisare i
parenti che, certe procedure potrebbero essere spiacevoli ed angoscianti da vedere, la decisione
finale di rimanere o meno dovrebbe essere dei familiari e che fosse diritto degli stessi a
decidere quanto tempo rimanere a fianco del paziente: “Se si trattasse di una procedura
invasiva o intima… ma loro volessero comunque rimanere, io credo che sia giusto così” (caso
d’emergenza #2). Purché non siano da ostacolo, i familiari dovrebbero poter rimanere quanto
tempo desiderano. Non ci dovrebbero essere delle barriere” (caso d’emergenza #24). Infine,
un rispondente ha commentato che, richiedere sistematicamente ai familiari di uscire dalla
stanza prima dei trattamenti o procedure invasive “sarebbe contrario allo scopo di permettere
la presenza dei familiari. Il familiare dovrebbe poter vedere esattamente ciò che è stato fatto
per salvare la vita ad una persona cara” (caso d’emergenza #11).
“Mantenere un rapporto di fiducia con il paziente”
In un clima dove la riservatezza ed il rispetto per l’autonomia del paziente sono considerati dei
principi centrali di una buona pratica professionale (Baskett & Lim 2004), è cruciale capire e
assecondare le opinioni e preferenze dei pazienti riguarda Family Presence dove possibile.
Determinare le volontà di un paziente durante una rianimazione o in una situazione che sta
precipitando non è realistico; a maggior ragione, capire le opinioni di pazienti che sono stati
rianimati, potrebbe essere utile al sanitario a decidere se permettere la presenza dei familiari
durante RCP sia realmente negli interessi del paziente.
42
La maggioranza dei rispondenti ha fiducia nei professionisti a mantenere la riservatezza e
dignità. Sorprendentemente, la maggior parte dei pazienti era indifferente all’idea dell’aperta
discussione con i familiari riguardo questioni di salute confidenziali. Quando la situazione
rende necessaria svelare dati riservati, i pazienti richiedono al personale sanitario di usare
discrezione e comunicare questi dati con sensibilità ed un’occhio di riguardo per il benessere
delle famiglie: “Scoprire queste informazioni sottopone la famiglia ad ulteriore pressione, non
è piacevole scoprire delle informazioni in quel modo, per errore… Sarebbe meglio esserne
informato in modo più controllato e delicato” (caso d’emergenza #16). I pazienti erano
comunque pragmatici, accettando in questo particolare contesto la difficoltà di controllare
quello che sentono i familiari; occasionalmente sarebbe comunque auspicabile per i familiari di
essere a conoscenza di certi fatti, in modo da permettere loro di capire il motivo di determinate
decisioni: “Potrebbe essere un fatto postivo perché almeno vedono il quadro completo! Non
sarebbe fattibile farli entrare ed uscire dalla stanza mentre si discute delle cose” (caso
d’emergenza #19). “Ovviamente la questione di riservatezza è importante, ma se la famiglia
deve prendere una decisione ci sono certi dettagli che devono sapere” (paziente rianimato
#20).
43
CAPITOLO 5
QUALITÀ DI VITA
La terza dei quattro temi di Jonsen e colleghi (1998) è la questione di qualità di vita. La
letteratura infermieristica descrive varie preoccupazioni in merito di questo tema,
preoccupazioni espresse da pazienti e familiari che hanno vissuto l’esperienza di Family
Presence durante RCP. Per molti anni, gli operatori sanitari sono stati riluttanti a permettere
Family Presence a causa del trauma emotivo, che potrebbe causare a familiari, assistendo alla
RCP. Nell’opinione dei pazienti, invece, Family Presence eleva la loro dignità agli occhi del
personale sanitario. Per i familiari, Family Presence rappresenta un’opportunità di chiusura, per
riappacificarsi, una possibilità di “dire addio” (Eichhorn et al. 2001). Anche se il rischio di
trauma emotivo come risultato di Family Presence è stato citato da molti operatori sanitari,
familiari e pazienti, la maggioranza dei familiari, coloro i quali hanno vissuto questa
esperienza, hanno indicato che questi episodi non hanno inciso in modo avverso sulla loro
qualità di vita (Meyers et al. 2000).
5.1 RIPERCUSSIONI PSICOLOGICHE SUI FAMILIARI
Uno dei motivi principali che spinge il personale sanitario a negare Family Presence è la
convinzione che la rianimazione del proprio caro sarà troppo traumatica. Secondo un medico
del pronto soccorso del Vancouver General Hospital: “Assistere ad un’équipe di estranei che
spingono dei tubi disperatamente giù per la gola di un parente, che forano ogni braccio con
aghi di grosso calibro o che in situazioni estreme, aprono il torace, sarebbe non solo
traumatico da vedere, ma potrebbe anche lasciare il parente con un ricordo finale
raccapricciante” (Rosenczweig 1998). Un altro medico nello studio di Haddad (2002) afferma:
“Le rianimazioni non sono piacevoli, e se stesse succedendo davanti ai tuoi occhi, sarebbe
molto difficile assorbire qualsiasi informazione che viene data”. Seguendo queste logiche,
quindi, le famiglie dovrebbero essere “messi al riparo” da questa situazione angosciante, in
modo che i loro ultimi ricordi del paziente siano tranquilli e non allarmanti.
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Quest’opinione è molto diffusa tra il personale sanitario, ovvero sia, il fatto di vedere
procedure di emergenze, come intubazione o defibrillazione sia troppo doloroso per i familiari
(Adams et al. 1994; Meyers et al. 2000; Ellison 2003; Duran et al. 2007; MacLean et al. 2003);
un motivo citato da ben l’86% del campione di personale intervistato nello studio di Boudreaux
e colleghi (2002). Alcune testimonianze raccolte durante lo studio di Lederman & Wacht
(2014): “assistere alla rianimazione sarà un peso emotivo per la famiglia”; “vedere e sentire
le compressioni, il ricordo rimarrà con loro per sempre”; “sarebbe una scena troppo
traumatica”; “potrebbe essere l’ultimo ricordo che la famiglia ha del loro caro.” Spesso
quindi, le paure del personale sono genuine, motivate da un desiderio di proteggere i familiari.
Infatti, molti sanitari credono che, assistendo ad un evento traumatico come la rianimazione
cardiopolmonare, un familiare possa sperimentare emozioni negative tanto da sviluppare
problematiche psicologiche (Schilling 1994; Fein et al. 2004). Comunque questa ipotesi non è
ancora stata confutata da evidenze (Robinson et al. 1998; Meyers et al. 2000; Eichhorn et al.
2001; Holzhauser et al. 2006; Fulbrook et al. 2007; Weslien et al. 2006).
Non ci sono evidenze che, negando alla famiglia la possibilità di assistere alla rianimazione del
loro caro sia benefico; le evidenze dimostrano invece che la famiglia possa sperimentare
sentimenti d’impotenza, ansia, panico oppure colpa, se vengono esclusi (ENA 2005; Marrone
& Fogg 2005; Blair 2004). Inoltre Boyd (2000) osservò che molti dei presunti ostacoli alla
presenza dei familiari sono solo dibattiti teoretici e nessuno di loro è stato espresso da ordini
professionali (Fulbrook et al. 2007). L’evidenza indica che queste paure di trauma psicologico
sperimentato dai familiari in seguito alla rianimazione cardiopolmonare o altre manovre
invasive non sono state confermate (Belanger & Reed 1997; Doyle et al. 1987; Meyers et al.
2000; Robinson et al. 1998; Hanson & Strawser 1992; Clark & Carter 2002; Boudreaux et al.
2002; MacLean et al. 2003) e, che spesso, la fantasia è peggiore rispetto alla realtà (Martin
1991). Per i familiari, Family Presence rappresenta un’opportunità di chiusura e di dire addio
alla persona amata, mentre i pazienti hanno riscontrato una maggior umanizzazione (con
maggior cura e più diligenza nei propri confronti) con la presenza dei propri cari (Eichhorn et
al. 2001). La maggioranza dei familiari ha inoltre indicato che le loro esperienze con Family
45
Presence non hanno inciso negativamente sulla loro qualità di vita (Meyers et al. 2000). Invece
molte famiglie ritengono che, Family Presence sia non solo un diritto, ma anche un’esperienza
positiva (Mian et al. 2007). Le ricerche di Meyers et al. (2000) citano numerose opinioni di
familiari che hanno assistito alla rianimazione, descrivendo l’esperienza come “naturale” e
“forte” (Harteveldt 2005). Nello studio di Meyers et al. (2000), la maggioranza dei familiari (il
96%) appoggiava il diritto dei familiari di essere presente durante procedure invasive e di
emergenza, un risultato coerente con quello di altri studi (Kuzin et al. 2007; Sacchetti et al.
1996; Mitchell & Lynch 1997; Doyle et al. 1987; Powers & Rubenstein 1999). Sarah Adams,
che ha perso il fratello Richard in un incidente durante una gara equestre, racconta: “Il
personale mi chiese varie volte di lasciare la scena, ma ho voluto rimanere… Mi sconvolse che
cercavano in continuazione di farmi andare via… Non avrei voluto essere altrove in quel
momento. Volevo che lui sapesse che gli fossi vicino nel momento di bisogno” (Adams et al.
1994).
Lo studio di Bishop et al. (2013), svolto in un reparto di grandi ustioni, riporta che il reparto
aveva sempre scelto di escludere i familiari durante il cambio delle medicazioni, per paura che
la loro presenza causasse un aumento del tasso d’infezioni e che i familiari non sarebbero stati
in grado di tollerare la vista delle ferite. I pazienti ustionati hanno bisogno di cure specifiche
una volta a casa e le evidenze dimostrano che queste restrizioni contribuivano
all’insoddisfazione dei pazienti e familiari e alla mancanza delle conoscenze necessarie per
curare al meglio il paziente una volta a casa (Sundara 2011; Brodland & Andreasen 1974;
Reddish & Blumenfield 1984; Blakeney et al. 2008). Secondo lo studio di Mitchell et al.
(2009), i familiari che assistono alle cure del proprio caro percepiscono un maggiore rispetto,
collaborazione e supporto dal personale sanitario rispetto ai familiari che non lo fanno. Nello
studio di Sproul et al. (2009), l’88% dei pazienti ustionati ritiene il supporto della famiglia, una
componente di grande importanza per la loro ripresa; nel loro studio del 2005, Muangman e
colleghi citano il supporto sociale, come possibile fattore contribuente alla sopravvivenza dei
pazienti ricoverati. Nel loro studio, l’81% dei pazienti sopravvissuti fino alla dimissione, aveva
qualche tipo di supporto sociale, contro solo il 35% dei non sopravvissuti. Non solo; due studi
(Smith et al. 2011; Hanson et al. 2008) hanno dimostrato che la presenza dei familiari può
46
ridurre l’ansia e il dolore durante il cambio delle medicazioni; ciò nonostante la positività di
questi risultati, la presenza dei familiari durante queste procedure non è diventata una prassi
normale (Bishop et al. 2013).
5.2 RIDUZIONE DI PROBLEMI PSICOSOCIALI
Vari studi su pazienti ustionati rivelano che il supporto dei familiari è in grado di portare ad
una riduzione di problemi psicosociali a lungo termine, quali depressione, ansia e sindrome
post-traumatico da stress (Wu et al. 2009; Park et al. 2008; Wallis et al. 2006). Family
Presence è stata associata ad una riduzione di ansia, di senso di impotenza e di preoccupazione
nei familiari, portando ad un miglioramento nella salute mentale a lungo termine; infatti, i
familiari che hanno partecipato a Family Presence hanno sperimentato tassi ridotti di disturbo
post-traumatico da stress, immagini intrusive e sintomi legati alla perdita. Family Presence
aiuta anche a facilitare il processo del lutto nell’eventualità di una rianimazione non riuscita
(Robinson et al. 1998; Meyers et al. 2000; Hodge & Marshall 2009; Mangurten et al. 2005;
Jabre et al. 2013).
Le preoccupazioni riguardo il benessere emotivo dei familiari, rappresentano un ostacolo a
Family Presence (Redley & Hood 1996; MacLean et al. 2003). Anche se gli operatori sanitari
temono che questo possa avere un impatto negativo sui familiari, ciò, in realtà, non si è
verificato (Meyers et al. 2000.) In uno studio sugli effetti psicologici di Family Presence,
Robinson et al. (1998) non hanno riscontrato segni di trauma psicologico in familiari che hanno
assistito alla rianimazione cardiopolmonare; gli stessi sono rimasti soddisfatti della loro
decisione di rimanere accanto al loro caro. Nello studio di Duran et al. (2007), i familiari erano
dell’opinione di poter tollerare emotivamente un episodio di Family Presence, il 31% dei quali,
aveva vissuto l’esperienza precedentemente. Non solo, quando è stato domandato ai familiari
se sceglierebbero di essere presenti durante la rianimazione (se la situazione si ripresentasse),
quasi tutti (il 95%) hanno risposto in maniera positiva (Duran et al. 2007, Mangurten et al.
2005). Questi risultati sono coerenti con quelli di Meyers et al. (1998), nel loro studio
retrospettivo, di famiglie che avevano assistito alla RCP di un familiare al pronto soccorso, che
47
è in seguito deceduto. Nel campione di 25 famiglie, 20 (l’80%) hanno risposto di voler essere
presente se la possibilità gli venisse offerta. Quasi tutti i rispondenti, 24 su 25 (il 96%), erano
dell’opinione che i familiari dovrebbero poter rimanere con i loro cari, e 17 su 25 (il 68%) che
la loro presenza potrebbe essere stata di aiuto al paziente (Hodge & Marshall 2009). Da vari
studi (Belanger & Reed 1997; Doyle et al. 1987; Meyers et al. 2000; Resuscitation Council
1996), emergono dati, secondo i quali, tra il 94% ed il 100% dei parenti che hanno assistito alla
rianimazione, esprimono il parere di fare la stessa scelta se l’opportunità si ripresentasse.
Family Presence, quindi, viene vissuto dalla maggioranza dei partecipanti non solo come un
diritto, ma anche come di importanza e di beneficio sia per i pazienti che per i loro familiari
(Halm 2005).
5.3 FACILITAZIONE DEL PROCESSO DI LUTTO
Uno dei motivi principali a favore di Family Presence – e forse uno dei più sorprendenti – è la
facilitazione del processo del lutto nell’eventualità che il paziente non sopravviva. Nelle parole
di Sarah Adams, “insistere a rimanere mi ha aiutato ad accettare psicologicamente la sua
morte” (Adams et al. 1994). Nello studio di Meyers et al. (2000), in tentativi di rianimazione
riusciti, i familiari parlano di un’esperienza condivisa, fortemente emotiva, dove hanno potuto
offrire del conforto al loro caro. “Mia madre è morta di cancro al seno nel 2008. Ho potuto
essere presente con le mie due sorelle al momento della sua scomparsa e partecipare alle sue
cure prima della morte. In quel momento non ho né capito né apprezzato l’importanza
dell’esperienza. Io e le mie sorelle abbiamo potuto cominciare a piangerla fin da subito,
perché abbiamo potuto capire quanto era malata e abbiamo aiutato il personale dell’ospizio
ogni giorno ad assisterla. Anche se l’esperienza è stata incredibilmente emotiva, non la vorrei
mai cancellare. È stata di grande aiuto a tutti di poter dire addio alla mia mamma e di poter
starle accanto nei suoi ultimi momenti. Sono convinta che fosse anche confortante per lei
averci al suo fianco”. Anche in casi dove il tentativo di rianimazione non è andato a buon fine,
i familiari si sono sentiti meno preoccupati (rispetto ad uno scenario dove la loro presenza non
era permesso), l’esperienza gli è stata di aiuto nell’affrontare la realtà della perdita, ciò ha
facilitato il processo del lutto nei mesi successivi (Harteveldt 2005; Doyle et al. 1987).
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Family Presence

  • 1. Matricola: 0000598596 Alma Mater Studiorum – Università di Bologna SCUOLA DI MEDICINA E CHIRURGIA Corso di Laurea in Infermieristica Family Presence: tra evidenza e tradizione Tesi di Laurea in Cure Intensive e Pronto Soccorso Presentata da: Relatore: Chiar.mo Prof. Peterson Fiona Grace Mantovani Massimo Sessione I Anno Accademico 2013/2014
  • 2.
  • 3. “Non possiamo bandire i pericoli ma possiamo bandire le paure. Non dobbiamo sminuire la vita stando nel timore della morte”. ~ David Sarnoff
  • 4.
  • 5. INDICE Premessa 6 CAPITOLO 1 8 INTRODUZIONE 8 1.1 LE ORIGINI DI FAMILY PRESENCE 9 1.2 SOSTEGNO DI ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI 9 1.3 MANCANZA DI LINEE GUIDA 10 1.4 “DOMANDA E OFFERTA” 11 CAPITOLO 2 14 PERCHÉ FAMILY PRESENCE? TRA EVIDENZA E TRADIZIONE 14 2.1 UN MODELLO DI ASSISTENZA CENTRATA SULLA FAMIGLIA 14 2.2 IL CODICE DEONTOLOGICO DELL’INFERMIERE 17 2.3 PREVENZIONE DI ERRORI 19 2.4 UMANIZZAZIONE DELLE CURE 20 2.5 TERAPIE INTENSIVE “APERTE” 22 2.6 L’INFLUENZA DEL CONTESTO LAVORATIVO 24 CAPITOLO 3 26 INDICAZIONI MEDICHE 26 3.1 IL LEGAME PAZIENTE-FAMIGLIA ED I BISOGNI DEI FAMILIARI 27 3.2 L’INFLUENZA DEI FAMILIARI NEL CORSO DELLA RIANIMAZIONE 29
  • 6. CAPITOLO 4 32 LE PREFERENZE DEI PAZIENTI 32 4.1 LE TESTIMONIANZE DI PAZIENTI RIANIMATI 34 CAPITOLO 5 43 QUALITÀ DI VITA 43 5.1 RIPERCUSSIONI PSICOLOGICHE SUI FAMILIARI 43 5.2 RIDUZIONE DI PROBLEMI PSICOSOCIALI 46 5.3 FACILITAZIONE DEL PROCESSO DI LUTTO 47 5.4 VEDERE CHE TUTTO IL POSSIBILE È STATO FATTO 48 5.5 I RICORDI DEI FAMILIARI: NATURA, CONTENUTO E RIMPIANTI 49 CAPITOLO 6 53 FATTORI CONTESTUALI 53 6.1 LA NECESSITÀ DI DISTANZA EMOTIVA E MECCANISMI DI AUTOPROTEZIONE 55 6.2 COMPROMISSIONE D’INSEGNAMENTO 57 6.3 RIPERCUSSIONI MEDICO-LEGALI 57 6.4 RISERVATEZZA E PRIVACY 59 CAPITOLO 7 61 FAMILY FACILITATOR: UNA FIGURA A SUPPORTO DELLA FAMIGLIA 61 7.1 TRE ESPERIENZE DI SUCCESSO 62 7.2 INFERMIERE, ASSISTENTE SOCIALE O CLERO? 65 7.3 IL RUOLO DEL FAMILY FACILITATOR 66 7.3.1 PRIMA DELL’EVENTO: VALUTAZIONE E PREPARAZIONE DELLA FAMIGLIA 66 7.3.2 DURANTE L’EVENTO 68 7.3.3 DOPO L’EVENTO: DEBRIEFING PER ÉQUIPE E FAMIGLIA 71
  • 7. CAPITOLO 8 73 CONCLUSIONI 73 8.1 EDUCAZIONE ED ESPOSIZIONE A FAMILY PRESENCE 74 8.2 LINEE GUIDA E PROTOCOLLI SCRITTI 76 Riferimenti 79 Bibliografia 91 Ringraziamenti 95
  • 8.
  • 9. 6 Premessa “Un punto importante emerso dalla letteratura concerne il fatto che non vi siano elementi atti a giustificare l’esclusione a priori dei familiari durante la rianimazione cardio-polmonare e altre manovre invasive. Il cambiamento avvenuto nella medicina, da un approccio paternalistico a uno collaborativo con i familiari, si è registrato anche in questa area di studio” (Prati & Monti 2010). Durante le mie esperienze di tirocinio come studentessa d’infermieristica, sono sempre rimasta incuriosita e perplessa dalla pratica di escludere sistematicamente i familiari ed amici dall’osservazione di qualsiasi procedura o fase assistenziale. Infatti, come ci ricordano Prati e Monti nella citazione di cui sopra, non esistono elementi a giustificare a priori questa pratica. Parenti e familiari sono sempre più sollecitati a collaborare nei processi di cura ed assistenza del loro caro, dalla semplice assistenza durante i pasti, all’assistenza di base, a manovre più complesse come il primo soccorso vitale con defibrillatore (il cui uso ormai è alla portata di tutti purché adeguatamente formati e la quale presenza, nei luoghi di vita quotidiana come i centri commerciali, scuole ed aeroporti sia ormai prevista per legge), per poi essere esclusi durante momenti assistenziali più difficili, dolorosi e stressanti per il paziente, quando il bisogno di un familiare si fa più pressante, ma la cui presenza viene sistematicamente negata. La tesi consiste in una review della letteratura sul tema di Family Presence, nella speranza di presentare l’evidenza più recente. La maggioranza della letteratura proviene dagli Stati Uniti ed il Regno Unito, dove questa pratica è ormai ampiamente conosciuta ed applicata. In Italia si tratta ancora di un concetto molto giovane, quasi sconosciuto, ma spero che questa tesi possa fornire degli spunti di riflessione validi e convincenti, portando ad una maggior consapevolezza per quanto riguarda i vantaggi (e anche gli svantaggi) di Family Presence per i pazienti, i familiari ed il sistema sanitario stesso. In particolare, i vantaggi, sono una maggior fiducia da parte dell’utenza, la soddisfazione dei bisogni espressi dai pazienti ed una prognosi
  • 10. 7 migliore a lungo termine per quanto riguarda l’elaborazione di un’eventuale lutto, tutti elementi che si traducono in benefici per la società in generale. Ho scelto di adottare il metodo di analisi etico proposto da Jonsen e colleghi (1998), che permette una veduta completa della questione di Family Presence e che ci permette di analizzare tutti i fili che vanno a comporre questo tema complesso e controverso, ma di grande attualità. Per lo scopo di questa tesi, con il termine Family Presence si intende la presenza di parenti, familiari, compagni o amici del paziente durante la rianimazione cardiopolmonare (da ora RCP) e procedure invasive. Buona lettura.
  • 11. 8 CAPITOLO 1 INTRODUZIONE “Una volta sono stata traumatizzata durante un arresto cardiaco pediatrico… dove il padre ha assistito all’arresto della sua figlia e non gli è stato permesso di entrare durante la rianimazione cardiopolmonare. Ha chiesto ripetutamente di poter entrare per ‘dire addio’ mentre sua figlia era ancora in vita. Voleva tenerla per mano. Non soltanto non gli è stato permesso di entrare, ma la sicurezza è stata chiamata per tenerlo fuori. La bimba non è sopravvissuta. Aveva sei anni. Lui voleva solo stare con lei al momento della morte, e questo gliel’abbiamo negato” (Infermiera del Pronto Soccorso, MacLean et al. 2003). Il termine “Family Presence” si può definire come “la presenza del partner o di uno o più membri della famiglia, in una posizione che dà un contatto visivo o fisico con il paziente durante procedure invasive o rianimazione cardiopolmonare” (Tomlinson 2010; McGahey 2002). Dagli anni '80, quando la questione di Family Presence ha cominciato a ricevere dell’attenzione da parte degli operatori sanitari, ricercatori e l’opinione pubblica, la letteratura non ha fatto altro che confermare il dato che la maggior parte dei familiari desidera essere presente durante quelli che potrebbero essere gli ultimi momenti di vita di un loro caro (Prati & Monti 2010; Hanson & Strawser 1992; Barratt & Wallis 1998; Meyers et al. 1998; Robinson et al. 1998; Eichhorn et al. 2001). Pazienti e familiari sono sempre di più dei “consumatori consapevoli” per quanto riguarda la loro salute e i propri diritti (Halm 2005), e pretendono sempre di più che i familiari possano rimanere con il paziente durante le manovre di emergenza, a prescindere dall’esito aspettato (Fulbrook 2007; Mazer 2006). Considerando che tanti pazienti sottoposti a manovre rianimatorie non sopravvivono, la questione della presenza dei familiari durante quelli che forse saranno i momenti finali della vita del loro caro merita ulteriore considerazione (Offord 1998). Seppure gli ultimi anni abbiano visto un cambiamento di tendenza, con sempre più operatori sanitari che offrono ai familiari la possibilità di assistere alle manovre rianimatorie (Jarvis 1998; Robinson et al. 1998; Walker 1999; Grice et al. 2003;
  • 12. 9 Gold et al. 2006), Family Presence rimane una questione ancora molto controversa, caldamente dibattuta e che divide il personale sanitario (Haddad 2002; Kissoon 2006). 1.1 LE ORIGINI DI FAMILY PRESENCE Le origini di Family Presence risalgono all’anno 1982, presso il Foote Hospital di Jackson, Michigan, negli Stati Uniti, quando due familiari hanno fatto richiesta di assistere alla rianimazione del loro parente, dopodiché l’ospedale ha condotto uno studio retrospettivo di 18 familiari che avevano di recente subito la perdita di un parente, portando l’ospedale ad istituire un programma formale di Family Presence (Hanson & Strawser 1992). I possibili benefici di Family Presence sono riportati in numerosi studi e comprendono, un’atmosfera più umana che privilegi la dignità del paziente, aumentando la collaborazione dell’utente, prevenendo dei conflitti (Van der Woning 1999; Eichhorn et al. 2001) e con la possibilità di vedere gli sforzi compiuti dagli operatori sanitari per salvare il proprio caro (Wagner 2004; Fulbrook et al. 2007). La letteratura dimostra anche che Family Presence aiuta i parenti ad affrontare meglio il processo del lutto (Doyle et al. 1987; Robinson et al. 1998; Monti et al. 2014). 1.2 SOSTEGNO DI ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI Sotto l’aspetto del dilemma etico e linea guida pratica, Family Presence è stato largamente esplorato e dibattuto negli ultimi vent’anni, ed è sostenuto da molte associazioni infermieristiche e mediche in tutto il mondo – l’American Heart Association, UK Resuscitation Council, The Royal College of Nursing, American Association of Critical Care Nurses, Emergency Nurses Association (ENA), European Federation of Critical Care Nursing Association, European Society of Paediatric and Neonatal Intensive Care, e la European Society of Cardiology Council on Cardiovascular Nursing (Fulbrook et al. 2007). Nelle ultime decadi, la medicina si è progressivamente allontanata da un paradigma paternalista, nel quale il medico “omnisciente” diagnostica e tratta il paziente, che dovrebbe passivamente “aderire” al regime di trattamento prescritto, in favore di un’assistenza centrata sulla famiglia, che riconosce il ruolo integrale che la famiglia stessa gioca nella salute e benessere del paziente,
  • 13. 10 oltre al fatto che integrare e supportare la famiglia nel processo di cure anche durante le emergenze è fondamentale per soddisfare tutti i bisogni del paziente (Children’s Hospital of Philadelphia 2006). Elementi caratteristici di questo nuovo modello di cure sono per esempio gli orari di visita più lunghi e più flessibili, il “rooming in” (che permette alla donna di tenere il figlio appena nato nella propria stanza di ospedale, senza limiti di orario); la presenza di familiari in sala parto al momento della nascita, e miglioramenti nella condivisione dell’informazione, per esempio il progetto SOLE in Italia (Kuzin et al. 2007; ENA 2009; Linder et al. 2004); poiché il coinvolgimento della famiglia è previsto in ogni fase del continuum della vita, è logico che Family Presence dovrebbe essere permesso sia alla morte che alla nascita, nonché in ogni momento intermedio della vita stessa (Tomlinson et al. 2010). Nonostante ciò, rimane ancora molto viva l’idea paternalista di “dover proteggere” i familiari, ai quali viene sistematicamente negato l’accesso ai loro cari durante questo momento di profonda crisi (Harteveldt 2005; Blundell et al. 2004). 1.3 MANCANZA DI LINEE GUIDA Il bisogno di affrontare il tema di Family Presence è urgente per vari motivi, innanzitutto la mancanza di linee guida. Nella dichiarazione di posizione dell’EfCCNa ed ESPNIC, leggiamo quanto segue al punto 7: “Tutte le unità di terapia intensiva e rianimazione dovrebbero avere linee guida multidisciplinari in forma scritta, sulla presenza dei familiari durante la rianimazione cardiopolmonare” (Fulbrook et al 2007). Nonostante ciò, e nonostante l’interesse sempre maggiore per un modello di assistenza centrata sulla famiglia e la presenza dei familiari durante procedure invasive e d’emergenza, molti ospedali non hanno delle politiche formali a riguardo (Gold et al. 2006), forse un segno che la direzione sanitaria non ha mai sentito l’esigenza di dedicare attenzione a questo tema (Prati & Monti 2010). Un sondaggio effettuato tra i membri dell’American Association of Critical Care Nurses e l’Emergency Nurses Association ha dimostrato che solo il 5% dei rispondenti lavorava presso reparti con delle politiche scritte formali a riguardo (MacLean et al. 2003). Questa lacuna, la mancanza di protocolli operativi che diano regole chiare, univoche sul comportamento da tenersi nei confronti dei familiari nelle differenti situazioni che possono presentarsi all’interno della
  • 14. 11 propria unità operativa, ha il potenziale di creare delle variazioni nella pratica dei vari professionisti, che sarà inevitabilmente una fonte di confusione e frustrazione per gli operatori sanitari e familiari (Kuzin et al. 2007). 1.4 “DOMANDA E OFFERTA” Il bisogno di affrontare il tema di Family Presence è anche indifferibile per quello che potremmo chiamare una sorta di “dicotomia tra domanda e offerta”. Da una parte la salute della popolazione sta cambiando, non solo a livello nazionale ma anche globale. L’obesità, che spesso si associa a malattie cardiovascolari, a livello globale è quasi raddoppiata da 1980, mentre l’arresto cardiaco porta a 600,000 morti ogni anno nei paesi industrializzati (Gueugniaud et al. 2008; Lloyd-Jones et al. 2010), 73,000 solo in Italia, uno ogni nove minuti. “Un dramma, una vera e propria strage…che l’Italia, paese scaramantico forse all’eccesso e che alla morte e alla malattia preferisce non guardare in faccia, ignora” (Mirco Jurinovich, operatore della Croce Rossa, Il Giorno 12/09/2010). Questo aspetto, di evitare il tema della morte, è sollevato anche da Giovanni Monchiero, Presidente Scuola di Umanizzazione della Medicina onlus: “Bisogna tornare a coltivare una visione umanistica della vita che ci aiuti ad accettare che la morte è parte ineliminabile della condizione umana. Religioni e filosofie hanno costruito, nei millenni, varie risposte all’angoscioso problema della morte. Nasconderci il tema, come accade oggi, è la via più stupida”. Questi cambiamenti nella salute italiana e globale sono accompagnati da una richiesta sempre maggiore nei confronti dei cittadini a partecipare nel soccorso di altri, spesso senza la possibilità di rimanere con il loro caro una volta arrivato in ospedale. Anche se gli operatori sanitari credono che assistere alla rianimazione di una persona amata sia dolorosa per i familiari, negare Family Presence sarebbe ugualmente angoscioso secondo lo studio di Barratt & Wallis (1998), che riportano l’episodio della signora che ha visto defibrillare due volte il suo marito (una volta nel salotto di casa, la seconda volta in ambulanza), ma nonostante ciò non le è stato permesso di entrare nella sala di rianimazione. Sempre più associazioni volontari offrono corsi di primo soccorso al pubblico, e data la presenza obbligatoria di defibrillatori semi-
  • 15. 12 automatici nei posti pubblici prevista per legge (aeroporti, supermercati, centri sportivi, scuole, discoteche…) insieme alle statistiche sulla frequenza d’infarto cardiaco, la possibilità di assistere allo stesso è tutt’altro che remota. Si stima che più del 70% degli arresti cardiaci occorra in casa; fuori dalle mura domestiche, l’arresto cardiaco può capitare in qualsiasi posto frequentato dalla popolazione. Il 9 settembre 2009, un uomo di 64 anni è stato colto da un arresto cardiaco all’interno di un centro commerciale di Casalecchio di Reno, Bologna, salvato dal massaggio cardiaco e dal defibrillatore presente in loco (Resto del Carlino, 12 settembre 2009). Un altro episodio in un supermercato ha visto coinvolto un 70enne riminese, accasciato a terra mentre si trovava alla cassa (Romagna Corriere, 18 marzo 2009), mentre un giovane avvocato di 35 anni è deceduto durante un’udienza al tribunale di Torre Annunziata (TorreSette, 30 settembre 2009). Una giovane mamma tedesca è stata colta da un arresto cardiaco improvviso mentre soggiornava in un campeggio sull’isola di Elba, salvata dall’uso del defibrillatore presente all’interno dell’impianto turistico, grazie agli impegni del progetto Salvacuore, che ha reso l’isola uno dei punti d’eccellenza sul territorio nazionale, dove vengono insegnate le manovre di rianimazione cardiopolmonare a tutti gli studenti delle classi superiori del 4° e 5° anno. Anche a Rimini, nel luglio del 2011, un uomo di 77 anni è collassato accanto all’ombrellone, mentre un altro uomo di 72 anni è stato colto da arresto cardiaco alle 22 di sera mentre ballava ad un bagno sulla spiaggia (Defibrillazione Precoce, 05 luglio 2011). Secondo l’AUSL di Rimini, “attualmente sulle spiagge da Casal Borsetti a Cattolica sono presenti 102 defibrillatori”. Infine il “Progetto Church”, a cura della Fondazione Don Gnocchi di Milano, ha lanciato un progetto per attrezzare le chiese della città (considerate luoghi di rischio in quanto frequentate da anziani) con defibrillatori automatici. Le parrocchie finora interessate sono dodici (La Repubblica, 08 luglio 2009). Nel novembre del 1999, è morto Marco Bandera, un giovane studente della scuola superiore, che è collassato nella palestra di scuola (Defibrillazione precoce 03 novembre 2010). L’autopsia ha stabilito che il suo cuore si è fermato per un’anomalia genetica, e che poteva essere salvato con l’uso di un defibrillatore. Si ricorda anche la legge 3 aprile 2001, n. 120 ("Utilizzo dei defibrillatori semiautomatici in ambiente extraospedaliero"), secondo la quale “È consentito l'uso del defibrillatore semiautomatico in sede extraospedaliera anche al
  • 16. 13 personale sanitario non medico, nonché al personale non sanitario che abbia ricevuto una formazione specifica nelle attività di rianimazione cardio‐ polmonare”. Dato il basso costo di questo presidio, la sua diffusione sempre più ampia, la sua facilità d’uso e l’alta probabilità che consentirà il cuore a continuare a battere, “oggigiorno è un obbligo legale o morale di ogni cittadino o persona comune in Europa di prestare aiuto al meglio delle proprie conoscenze a patto che ciò non comporti rischi personali” (ESC-ERC Recommendations for the Use of Automated External Defibrillators (AEDs) in Europe 2004). Più passano gli anni, quindi, più questi due mondi – quello del sistema sanitario che cura il paziente, e quello laico, sollecitato sempre di più a partecipare alle manovre salvavita – si scontreranno. Forse è arrivato il momento di chiedersi fino a che punto è logico e giusto escludere i familiari dalla fine di un processo in cui è richiesta sempre di più la loro partecipazione, e in cui – in qualità di parente o persona con la quale il paziente ha un legame più o meno stretto – hanno un investimento emotivo. È chiaro che anche se una sempre maggiore pressione per una più diffusa accettazione e istituzione di Family Presence sarà esercitata dai familiari, il vero cambiamento deve venire dagli operatori sanitari. Come notano Gabriele Prati e Massimo Monti: “Lavorare in Area Critica obbliga ad agire in situazioni complesse difficili e a volte drammatiche, ma spesso la gratificazione ottenuta in particolari frangenti ripaga di ogni sforzo. Allo stesso tempo interagire con l’utenza e i loro cari eliminando steccati, bastioni e barriere rende inizialmente maggiormente dispendioso lo svolgimento della propria professione ma a lungo termine la gratificazione aumenta quando si comprende che il familiare è un alleato e non un nemico” (Prati & Monti 2010).
  • 17. 14 CAPITOLO 2 PERCHÉ FAMILY PRESENCE? TRA EVIDENZA E TRADIZIONE “Non sono una visitatrice. Sono sua sorella” (Ellie Crawford, sorella di un paziente ricoverato in terapia intensiva). “Siamo noi i visitatori nelle vite dei nostri pazienti, non i loro cari” (Jaspreet Benepal, infermiera). Quando la fondatrice e direttrice generale dell’istituto americano Institute for Patient- and Family-Centered Care (IPFFC) Beverly Johnson era piccola, negli anni Cinquanta, ha contratto la poliomielite. E’ stata ricoverata in ospedale, ma ai suoi genitori è stato permesso di farle visita solo una volta al mese e ha deciso di cambiare questa situazione. Il IPFFC considera il familiare come “socio nel processo di assistenza” invece di visitatore e nel giugno del 2014 ha lanciato la campagna Better Together (“Meglio Insieme”), per sollecitare tutti gli ospedali ad eliminare orari di visita restrittivi e aprire le porte alle famiglie 24 ore su 24 (IPFCC 2014). 2.1 UN MODELLO DI ASSISTENZA CENTRATA SULLA FAMIGLIA L’assistenza centrata sulla famiglia aggiunge un’altra dimensione alla tradizionale interazione tra il paziente e il sanitario. I familiari sono ormai coinvolti in aspetti d’assistenza in precedenza riservati solo per il personale sanitario (Kuzin et al. 2007). Basti ricordare i corsi preparatori alla gravidanza, la presenza (dove gradita dalla partoriente) del padre in sala parto, il “rooming in” per facilitare il primo “attaccamento materno-neonatale”, la possibilità di permanenza anche notturna delle madri nei reparti pediatrici accanto ai bambini ammalati, una più ampia apertura degli orari di visita ai degenti da parte dei familiari e, più recentemente, la disciplina delle cure palliative. Si tratta di esempi di una progressiva modificazione dell'approccio in passato dominante negli ospedali - caratterizzato da un atteggiamento “dirigistico e paternalistico” e da una concezione oggettiva della persona ricoverata
  • 18. 15 (considerata come semplice “corpo da trattare”) - verso una maggiore apertura alle esigenze umane e ad una più disponibile collaborazione con le famiglie che anche in Italia si va gradualmente realizzando (Comitato Nazionale per la Bioetica 2013). Nel 2007, la European Federation of Critical Care Nursing Associations (EfCCNa) e la European Society of Paediatric Neonatal Intensive Care (ESPNIC) hanno rilasciato una dichiarazione di posizione comune per quanto riguarda Family Presence: “La Federazione europea delle associazioni infermieristiche di area critica e la Società europea di area critica pediatrica e neonatale, hanno formulato la presente dichiarazione di position statement condivisa. La presente dichiarazione, dove possibile, è basata su evidenze scientifiche e sull’opinione di esperti rilevata nella letteratura medica ed infermieristica (…) Le linee guida europee sulla rianimazione (Baskett et al. 2005) sono favorevoli alla presenza dei familiari durante la rianimazione cardiopolmonare (RCP). In ogni caso, in disaccordo con le evidenze empiriche, tale pratica è spesso disincentivata da atteggiamenti paternalistici e congetture (Boyd 2000; Tsai 2002; Kissoon 2006; Walker 2006). (…) Inoltre, la domanda pubblica sempre più desidera che sia consentita ai familiari la possibilità di rimanere con i loro cari durante la RCP, indipendentemente dall’esito del paziente (Mazer et al. 2006). (…) La posizione [dell’EfCCNa e dell’ESPNIC] è sostenuta dall’opinione che “i familiari sono cruciali per la salute ed il benessere dei pazienti”. I primi due punti della dichiarazione stessa, inoltre stipulano che “tutti i pazienti hanno il diritto di avere i membri della famiglia presenti durante la rianimazione” e “ai membri della famiglia di un paziente deve essere offerta la possibilità di essere presenti durante la rianimazione del proprio caro” (Fulbrook et al. 2007). Le linee guida sulla presenza dei familiari durante l’RCP diramate nel 2005 dall’American Heart Association, citati da Monti et al. (2014) ci forniscono un buon quadro sull’attuale opinione degli operatori sanitari per quanto riguarda Family Presence, riassumendo anche quanto in genere consigliato dalla letteratura: “Nonostante i migliori sforzi, molti tentativi rianimatori falliscono (...) I familiari sono spesso stati esclusi dall’essere presenti durante la rianimazione di un proprio caro. Studi hanno dimostrato la presenza di diverse opinioni dei
  • 19. 16 sanitari a proposito della presenza dei familiari durante l’RCP. Molti sottolineano la possibilità che il familiare potrebbe cedere emotivamente ed interferire con le procedure rianimatorie, altri che il parente potrebbe sincopare e che, la loro presenza aumenterebbe l’esposizione a responsabilità legali. Comunque molti studi hanno dimostrato il desiderio da parte dei familiari di volere essere presenti durante l’RCP. Membri di famiglie senza un background medico hanno confermato che essere al fianco del proprio caro e poterlo salutare per l’ultima volta è confortante. Altri familiari hanno riportato che l’essere presenti li ha aiutati a sopportare meglio la morte del proprio caro e, ancor più indicativo, lo rifarebbero. Altri studi dimostrano reazioni positive dei familiari, molti di loro hanno sentito di aiutare il loro caro e questo ha facilitato la loro elaborazione del lutto. (…) Quindi, in assenza di dati che documentano danni e alla luce dei dati che suggeriscono che può essere utile offrire ai familiari la possibilità di assistere alla RCP sembra cosa ragionevole e desiderata (sempre che il paziente, se adulto, non abbia dato a priori ragione di non volere la presenza dei familiari). Raramente i familiari chiedono di essere presenti durante la RCP se non sono stimolati a farlo dagli operatori sanitari. I membri del team rianimatorio dovrebbero essere sensibili alla presenza dei familiari durante la RCP, assegnando un membro dell’equipe a fianco della famiglia per rispondere alle loro domande, chiarire le informazioni date dal resto del team e per dare supporto” (American Heart Association 2005). Family Presence e la filosofia dell’assistenza centrata sulla famiglia sono anche molto coerenti con i principi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’istituzione internazionale preposta alla tutela della salute che si è subito prefissato lo scopo di condurre tutti i popoli al livello di salute più elevato possibile, basandosi appunto sul principio che la salute è “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto assenza di malattia e infermità” (OMS, 1946). Nella Carta di Ottawa, presentata alla 1° Conferenza Internazionale sulla Promozione della Salute, riunita ad Ottawa il 21 novembre 1986, possiamo leggere “La promozione della salute è il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla. Per raggiungere uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, un individuo o un gruppo deve essere capace di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di cambiare l’ambiente circostante o di farvi
  • 20. 17 fronte. La salute è quindi vista come una risorsa per la vita quotidiana, non è l’obiettivo del vivere. La salute è un concetto positivo che valorizza le risorse personali e sociali, come pure le capacità fisiche. Quindi la promozione della salute non è una responsabilità esclusiva del settore sanitario, ma va al di là degli stili di vita e punta al benessere”. 2.2 IL CODICE DEONTOLOGICO DELL’INFERMIERE Il Codice Deontologico dell’Infermiere, insieme al profilo professionale e all’ordinamento didattico, definisce il campo proprio di attività dell’infermiere. Anche se la pratica di Family Presence non viene esplicitamente nominata dal Codice, vari sono gli articoli coerenti con questa pratica: Articolo 3 La responsabilità dell'infermiere consiste nell’assistere, nel curare e nel prendersi cura della persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell'individuo. Articolo 4 L'infermiere presta assistenza secondo principi di equità e giustizia, tenendo conto dei valori etici, religiosi e culturali, nonché del genere e delle condizioni sociali della persona. Articolo 20 L'infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito e valuta con lui i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e facilitarlo nell’esprimere le proprie scelte. Articolo 32 L'infermiere si impegna a promuovere la tutela degli assistiti che si trovano in condizioni che ne limitano lo sviluppo o l'espressione, quando la famiglia e il contesto non siano adeguati ai loro bisogni.
  • 21. 18 Articolo 35 L'infermiere presta assistenza qualunque sia la condizione clinica e fino al termine della vita all’assistito, riconoscendo l'importanza della palliazione e del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale. Articolo 37 L’infermiere, quando l’assistito non è in grado di manifestare la propria volontà, tiene conto di quanto da lui chiaramente espresso in precedenza e documentato. Articolo 39 L'infermiere sostiene i familiari e le persone di riferimento dell’assistito, in particolare nella evoluzione terminale della malattia e nel momento della perdita e della elaborazione del lutto. Articolo 47 L'infermiere, ai diversi livelli di responsabilità, contribuisce ad orientare le politiche e lo sviluppo del sistema sanitario, al fine di garantire il rispetto dei diritti degli assistiti, l'utilizzo equo ed appropriato delle risorse e la valorizzazione del ruolo professionale. La centralità della persona è prevista anche dal Codice di Deontologia Medica del 16 dicembre 2006, che così recita all’art. 20: “Rispetto dei diritti della persona: Il medico deve improntare la propria attività professionale al rispetto dei diritti fondamentali della persona”. Permettere ai familiari di assistere alla rianimazione del proprio caro assicura la soddisfazione dei bisogni emotivi, fisici e psicosociali dei pazienti e familiari secondo la filosofia di assistenza centrata sulla famiglia. Un approccio, che riconosce le capacità della famiglia di fornire cura e supporto e che tiene la loro inclusione come membri attivi dell’équipe medica in gran conto. In quest’ottica, Family Presence, durante la rianimazione e procedure invasive è fondamentale per questa filosofia d’assistenza (Santos González et al. 2010). Le famiglie giocano un ruolo vitale nella salute e benessere del paziente e supportare, integrare la famiglia nel processo di cure d’emergenza è vitale per soddisfare tutti i bisogni del paziente (Childrens’ Hospital of Philadelphia 2006). Kovacs et al. (2006) e Meeker & Jezewski (2005) consigliano
  • 22. 19 un approccio centrato sulla famiglia sia nell’area acuta sia nelle cure palliative (Lederman & Wacht 2014). Il nome di questo modello - assistenza centrata sul paziente e sulla famiglia, PFCC - esprime bene la misura in cui gli operatori sanitari dovrebbero riconoscere l’importanza del ruolo chiave che giocano i parenti nella cura dei pazienti. In un certo senso, questo nuovo paradigma rende il Giuramento di Ippocrate (che non prende in considerazione né l’autonomia del paziente né la sua famiglia) obsoleto (Lederman & Wacht 2014; Jotterand 2005). 2.3 PREVENZIONE DI ERRORI “Isolare i pazienti nei loro momenti più vulnerabili dalle persone che li conoscono meglio, li mette a rischio per errori clinici, danni emotivi, inconsistenze assistenziali, impreparazione per le transizioni insite nel processo di cura e costi non necessari. Eppure in tanti ospedali e sistemi sanitari, politiche di visita sorpassate separano ancora le famiglie e persone care dai pazienti durante i ricoveri in ospedale” (IPFCC). Joanna Kaufmann del Institute for Patient and Family Centred Care, racconta l’episodio del ricovero della propria madre di 86 anni, una persona molto orientata che non era mai stata in ospedale in precedenza. Era allergica all’aspirina e si era dimenticata di informare il personale sanitario. Quando l’infermiera è arrivata con una soluzione endovenosa di questo farmaco, fortunatamente la Kaufmann era presente e ha potuto intervenire. “Delle volte le persone dimenticano certe cose. Il fatto che c’ero ha salvato l’infermiera e mia madre da una possibile catastrofe” (Joanna Kaufmann, IPFCC, intervistata sulla Tommy Schnurmacher Show, CJAD Radio, Montreal, Canada, il 30 luglio 2014). Melissa Thomason, una paziente ricoverata in terapia intensiva aggiunge: “Ero intubata e avevo paura di morire a causa di una reazione avversa al fentanile in passato. Ne erano a conoscenza mio marito e mia madre – ma non c’erano. Quella situazione terrificante si è verificata perché le regole dell’ospedale non permettevano alla mia famiglia di stare con me in terapia intensiva” (IPFCC).
  • 23. 20 2.4 UMANIZZAZIONE DELLE CURE Il modello di assistenza centrata sulla famiglia rientra nella più ampia questione dell'umanizzazione delle cure, tesa a promuovere un sempre maggior rispetto della persona nei trattamenti e nelle strutture sanitarie, un processo scandito da vari passi storici, soprattutto la legge 23 dicembre 1978, n. 833 (“Istituzione del servizio sanitario nazionale”), che recita al primo punto: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana”. Questo cambiamento, che segna il passaggio del rapporto tra cittadino e sistema sanitario, da un sistema mutualistico caratterizzato da un grado sempre maggiore di autonomia, ha visto il superamento del sistema stesso, ponendo il cittadino al centro del sistema pubblico di promozione e tutela della salute, nel rispetto di articolo 32 della Costituzione Italiana ed i successivi correttivi (d.lgs. n.502 del 1992 e d.lgs. n.517 del 1993). Il trattamento medico- chirurgico è retto dal principio di libertà; ormai, infatti, il cittadino ha il diritto di scegliere il proprio medico di base, di cambiare scelta in caso d’incompatibilità, di scegliere la struttura sanitaria che ritiene più idonea per le proprie esigenze e di rifiutare di sottoporrsi a trattamenti medici che non ritiene giusti per lui. I trattamenti medici richiedono il “consenso informato”; ciò significa che al trattamento medico-chirurgico è preliminare un’attività del medico volta ad informare il paziente. Si viene così a configurare un vero e proprio diritto all’informazione, segno tangibile del “nuovo e diverso modo di realizzare il rapporto medico-paziente in termini non più pietistico-autoritari ma fondamentalmente paritari” (Corrà 1999). Non è un caso, infatti, oggi il rapporto medico-paziente viene anche chiamato “alleanza terapeutica”. Patrizia Zannini in Bioetica in Pillole scrive: “Umanizzare la medicina significa mettere al centro la persona con le sue componenti fisiche, mentali, emotivi, spirituali e relazionali. Si può chiamare paziente, malato, cliente, utente, cittadino, ma quello che non cambia è che si ha davanti una persona. Questo però non deve far dimenticare la relazione: fin dal concepimento, l’individuo è una soggettività in relazione; relazione con i famigliari, con la società, con il medico. Chi è dunque il malato? Il malato è essenzialmente persona. Non è il corpo ad essere malato, ma la persona stessa. Il medico viene a contatto nell’immediatezza con un corpo su cui
  • 24. 21 è chiamato ad intervenire con tutta la sua abilità e professionalità. Ma per l’ammalato il corpo è il suo essere; quando si interviene sul corpo, si tocca la profondità dell’io interiore (…) Anche quando si parla il linguaggio della scienza e si applica esclusivamente un sapere medico, questo passa attraverso una persona, il medico, ed è rivolto ad una persona, il paziente. Che lo si voglia o no si entra in relazione, anche quando si crede di essersi attenuti a comunicazioni esclusivamente tecniche”. In Italia, il Piano Sanitario Nazionale 2011-2013 aveva inserito fra gli obiettivi prioritari l’umanizzazione (Prati & Monti 2010), ponendo come macro obiettivo del Servizio Sanitario Nazionale non solo quello della promozione “della salute dei cittadini”, bensì quello della promozione del “benessere e della salute dei cittadini e delle comunità” nella consapevolezza che, “la vera ricchezza del sistema sanitario è la salute dei cittadini”. L'umanizzazione delle cure è anche “il fulcro del nuovo per la Salute”, un accordo finanziario e programmatico tra il Governo e le Regioni di valenza triennale per gli anni 2014-2016, siglato il 10 luglio 2014. Articolo 4 del Patto è dedicato all’umanizzazione delle cure, e dichiara quanto segue: “Nel rispetto della centralità della persona nella sua interezza fisica psicologica e sociale, le Regioni e le Province Autonome si impegnano ad attuare interventi di umanizzazione in ambito sanitario che coinvolgono gli aspetti strutturali, organizzativi e relazionali dell’assistenza. … Si conviene di predisporre un programma annuale di umanizzazione delle cure che comprenda la definizione di almeno un'attività progettuale in tema di formazione del personale ed un'attività progettuale in tema di cambiamento organizzativo indirizzato prioritariamente alle seguenti aree assistenziali; Area critica, Pediatria, Comunicazione, Oncologia, Assistenza domiciliare…” (Patto per la Salute, 2014 – 2016). Dal punto di vista normativo italiano, la svolta verso un’umanizzazione maggiore delle cure è stata data dal decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, (“Riordino della disciplina in materia di sanità”), all’art. 14 nel quale si fa riferimento alla personalizzazione e umanizzazione dell’assistenza per un adeguamento delle prestazioni alle esigenze dei cittadini. Altre normative comprendono il decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517, il decreto del
  • 25. 22 Presidente del Consiglio dei Ministri, 19 maggio 1995, sulla “Carta dei servizi” e il decreto ministeriale, 15 ottobre 1996, del Ministro della Sanità. 2.5 TERAPIE INTENSIVE “APERTE” Un’altra area di grande pertinenza per quanto riguarda il concetto di Family Presence è la terapia intensiva. Era il 2002 quando Hilmar Burchardi, all’epoca presidente dell’European Society of Intensive Care Medicine (ESICM) ha scritto in un editoriale della rivista ufficiale dell’ESICM: “È tempo di riconoscere che le Terapie Intensive devono essere un luogo dove l’umanità abbia alta priorità. È tempo di aprire quelle Terapia Intensive che sono ancora chiuse”. Nonostante vari cambiamenti in questa direzione, la “apertura” delle Terapie Intensive è ancora lontana dall’essere pienamente una “realtà” (Comitato Nazionale per la Bioetica 2013). Al contrario della linea di condotta tradizionalmente adottata dai reparti di terapia intensiva, in linea generale, non ci sono solidi motivi scientifici per impedire o limitare eccessivamente l’accesso di familiari e visitatori (Burchardi 2002; Berwick & Kotagal 2004; Davidson et al. 2007; Slota et al. 2003); soltanto seri rischi per la salute pubblica – come fasi epidemiche di particolare gravità – possono eccezionalmente giustificare l'impedimento delle visite (Rogers 2004). Invece si è visto che una maggior apertura nell’area critica per familiari e visitatori “non solo non è pericolosa, ma anzi è benefica, sia per loro che per i pazienti”; il tanto temuto aumento nel tasso d’infezione (uno dei principali motivi avanzati per favorire la restrizione degli orari di visita) non si è verificato, mentre sia le complicanze cardio-vascolari sia gli anxiety score hanno visto una riduzione statisticamente significativa, mentre gli indici ormonali di stress dei pazienti ricoverati si sono rivelati significativamente più bassi. Infine anche le madri di bambini ricoverati in terapie intensive “aperte” dimostrano livelli di ansia più contenuti rispetto a quelle di bambini nelle terapie intensive con “accesso limitato”.
  • 26. 23 L’Italia è uno dei paesi con gli orari di visita più restrittivi; il 9% dei reparti di terapia intensiva italiani non modifica le proprie regole per l’acceso dei visitatori se il paziente ricoverato è un bambino, il 21% nemmeno se il paziente sta morendo. Un quarto delle terapie intensive per adulti e un terzo di terapie intensive pediatriche non hanno una sala d’attesa per i familiari. Attualmente, le ore di visita nelle terapie intensive pediatriche italiane sono in media cinque al giorno; solo il 12% dei reparti non pone restrizioni nelle 24 ore alla presenza dei genitori mentre il 59% non permette la presenza costante di un genitore nemmeno nelle ore diurne (Giannini & Miccinesi 2011). Solo il 30% delle terapie intensive neonatali consente l’ingresso ai genitori 24 ore al giorno, contro il 100% di quelle svedesi, danesi e inglesi, o il 71% di quelle francesi (Greisen et al. 2009; Comitato Nazionale per la Bioetica 2013). Nonostante il sostegno schiacciante da parte delle associazioni professionali, l’abbondanza di letteratura a favore di Family Presence e poco a sfavore, c’è ancora una grande discrepanza tra la teoria e la pratica. Lo studio di Prati & Monti (2010) è interessante, perché evidenzia la contraddizione che esiste ancora tra teoria e pratica. Diverse realtà operative (terapia intensiva, pronto soccorso e 118) sono state prese in considerazione, ponendo varie domande agli operatori sanitari. Il 66% del personale si esprime a sfavore sulla presenza di un parente durante la visita o durante manovre assistenziali, anche se richiesta dal paziente; esaminando ogni realtà in modo separato, emerge un quadro diverso con differenze statisticamente significative, con 93%, 53% e 30% del personale a sfavore di questa pratica in terapia intensiva, pronto soccorso e 118 rispettivamente. La chiusura del personale aumenta quando si tratta di rianimazione cardiopolmonare, con l’89% del personale a sfavore della presenza dei parenti durante le manovre rianimatorie. Anche qui, si verificano delle differenze in funzione del reparto operativo, con il 98% e il 97% nei reparti di terapia intensiva e nel pronto soccorso rispettivamente, mentre solo il 57% degli operatori del 118 ha risposto in modo negativo. Secondo questi risultati, quindi, gli operatori riconoscono l’importanza della presenza dei familiari durante manovre invasive o di emergenza (infatti, il 62% degli operatori crede che questa sia una pratica giusta), una convinzione, però, che non si traduce nel proprio operato, dove il 66% non permette Family Presence, una percentuale che sale all’89% quando si tratta di manovre di rianimazione.
  • 27. 24 2.6 L’INFLUENZA DEL CONTESTO LAVORATIVO Un altro aspetto interessante è l’influenza del contesto di lavoro sul comportamento dell’operatore. “In altre parole chi svolge la sua professione in terapia intensiva e in parte nel pronto soccorso, è tutelato da una struttura architettonica, una ‘roccaforte’ che porta ad abituarsi ad operare senza la presenza di estranei. Al contrario chi presta servizio nel servizio di soccorso extraospedaliero si trova ad operare in contesti meno ‘protetti’ come la strada o le abitazioni dei chiamanti. Ne deriva che in alcune condizioni, come nella strada, gli operatori sono obbligati a lavorare sotto gli occhi dei familiari. Oppure se pensiamo all’intervento nell’abitazione, l’operatore può sentire un minor potere nel chiedere ad un familiare di uscire da una camera di sua proprietà. Al contrario operatori sanitari che lavorano all’interno dell’ospedale hanno un maggiore potere nel chiedere ai familiari di uscire dalla stanza. In queste risposte possiamo notare un effetto esemplificato dalla frase ‘a casa mia comando io’: gli operatori che prestano servizio intraospedaliero si sentono maggiormente ‘padroni’ del contesto e in questo senso, si sentono maggiormente titolati a gestire la presenza dei familiari, mentre nel servizio extraospedaliero gli operatori possono sentirsi ‘ospiti’ e quindi meno propensi a ‘chiudere la scena’, alla vista dei familiari, in quanto possono avere l’inconfutabile diritto ad accedere a qualsiasi ambiente qualora lo desiderino. Dal momento che, generalmente questo aspetto non è proceduralizzato, la spiegazione più plausibile per tali pratiche operative, risiede in norme organizzative non scritte, ma passate da un operatore all’altro in via ufficiosa: ‘si fa così’ oppure ‘si è sempre fatto così’” (Prati & Monti 2010). “La nostra è una società che non vuole ‛vedere morire’, che censura la morte e la nasconde. Ma nessuna branca medica più di quella intensiva rende evidente come la medicina sia in realtà governata da limiti [Wildes 1995]. Quasi ogni giorno medici e infermieri delle terapie intensive toccano con mano la dimensione del limite e affrontano la morte. Alla luce delle considerazioni esposte in precedenza circa il significato della ‛terapie intensive aperta’, anche la morte può essere affrontata in modo diverso, con linguaggi e gesti differenti da quelli abituali. In genere, infatti, siamo abituati al gesto di consegnare un corpo dopo la morte, ma invece possiamo creare le condizioni perché la persona sia accompagnata nel tempo della morte. Sempre che le circostanze lo permettano e che la morte non sia un evento acuto e
  • 28. 25 inatteso, è importante permettere ai familiari di rimanere con la persona cara anche nel tempo finale della sua vita, restandole vicini, accarezzandola (o tenendola in braccio nel caso sia un bambino), parlandole con i gesti e il lessico speciali della loro intimità. Sono passaggi difficili e complessi ma di enorme importanza. Inoltre tutti questi gesti di commiato rappresentano la prima tappa per una corretta elaborazione del lutto” (Comitato Nazionale per la Bioetica 2013).
  • 29. 26 CAPITOLO 3 INDICAZIONI MEDICHE “Sono riuscita a convincere il medico a permettere la presenza dei genitori durante la rianimazione del loro figlio. Ho ricevuto una lettera, esprimendo quanto hanno apprezzato la possibilità di rimanere con il loro figlio durante gli ultimi minuti della sua vita. Hanno detto che erano stati sempre con lui da quando era nato e volevano esserci anche al momento della sua morte. Hanno detto che poter assistere all’evento gli ha aiutato ad elaborare il lutto” (Infermiera, nello studio di MacLean et al. 2003). Jonsen et al. (1998) ci forniscono un metodo di analisi etica clinica, molto utile per la risoluzione di questioni etiche nell’area critica, e che prende in considerazione quattro temi distinti – indicazioni mediche, preferenze dei pazienti, qualità di vita e fattori contestuali. Nei seguenti quattro capitoli, quindi, esplorerò ognuno di questi quattro aspetti, per cercare di capire i vantaggi e svantaggi di Family Presence per tutte le persone coinvolte in questa pratica, operatori sanitari, pazienti e familiari. Si comincia con un’esaminazione delle indicazioni mediche che inciderebbero in modo rilevante sulle possibilità del paziente di trarre beneficio oppure di subire danni come risultato di una decisione di offrire Family Presence o meno. Queste indicazioni si focalizzano tipicamente sugli obiettivi del trattamento medico, e sull’impatto del problema etico sul raggiungimento di questi obiettivi. In questo caso, la letteratura indica che Family Presence normalmente non interferisce con interventi medici tesi ad assicurare la sopravvivenza del paziente. Inoltre, i risultati di studi di ricerca indicano che permettere Family Presence può essere di grande conforto per i pazienti e per le loro famiglie. L’American Heart Association stima che meno del 15% di tutti i pazienti ricoverati a cui si pratica RCP sopravvivono, per essere dimessi dalla struttura dove sono stati rianimati. Alla luce di questo alto tasso di mortalità e il desiderio dei pazienti di essere vicini ai loro familiari al momento della morte, in termini di indicazioni mediche, Family Presence sarebbe una pratica consigliabile.
  • 30. 27 3.1 IL LEGAME PAZIENTE-FAMIGLIA ED I BISOGNI DEI FAMILIARI Moltissimi studi riportano il desiderio delle persone di volere rimanere con la persona cara durante una rianimazione cardiopolmonare (sondaggio NBC Dateline 1999; Davis 2000; Mazer 2006; Mangurten et al. 2006; Meyers et al. 2000; Kidby 2003; Sacchetti et al. 1996; Robinson et al. 1998; Hanson & Strawser 1992; Morris 1998). Studi della rianimazione di pazienti, sia adulti sia pediatrici, dimostrano che la maggioranza dei familiari trae beneficio dalla possibilità di assistere alla rianimazione del loro caro (Hanson & Strawser 1992; Back & Rooke 1994; Boie et al. 1999; Dingeman et al. 2007; McGahey-Oakland et al. 2007). Inoltre le linee guida dell’American Heart Association/International Liaison Committee on Resuscitation (AHA/ILCR) (2000) sostengono che i familiari hanno un posto legittimo nel processo rianimatorio e non dovrebbero essere esclusi (Maxton 2008). Tradizione ha voluto, che la rianimazione del paziente avvenga al riparo dallo sguardo del pubblico, limitando l’accesso ai familiari, con dei bisogni che rimangono insoddisfatti. Nell’eventualità di una rianimazione non riuscita, alle famiglie, normalmente, è consentito di vedere il paziente solo una volta che è stato reso “presentabile”, creando una realtà che distorce la verità del processo rianimatorio e che contribuisce alla confusione della famiglia e al loro fraintendimento di ciò che è successo (Timmermans 1997). Nello studio di Back & Rooke (1994), inoltre, il 75% del personale medico ed infermieristico era d’accordo con l’affermazione che: “I parenti dovrebbero avere l’opportunità di rimanere con un familiare che necessita di rianimazione cardiopolmonare, a condizione che si disponga di un supporto professionale adeguato” (Barratt & Wallis 1998). Nel contesto di un sistema sanitario basato sul modello biomedico (dove si tende a concentrarsi sulla malattia da trattare invece che della persona nel suo insieme come nel modello olistico), in qualità di operatore sanitario si tende spesso a dimenticare l’importanza del legame tra paziente e famiglia. Come rilevano Gabriele Prati e Massimo Monti: “il progresso delle scienze mediche ed infermieristiche richiede sempre più un costante aggiornamento sulle nozioni tecniche e biologiche con il rischio di trascurare lo spazio dedicato al rapporto umano, componente importante nel processo di cura” (Prati & Monti 2010). Baumhover & Hughes (2009), pongono una particolare enfasi sull’aspetto spirituale di Family Presence, fornendo vari motivi a favore di questa pratica, quali il mantenimento del legame tra pazienti e
  • 31. 28 familiari e la facilitazione del processo di lutto. Inoltre una politica di Family Presence, permette un senso di chiusura e guarigione, con un’ultima opportunità di dire addio; riduce ed aiuta a prevenire i sensi di colpa, preoccupazione od ansia per aver abbandonato una persona amata in crisi; soddisfa i bisogni emotivi e spirituali di pazienti e famiglie; aiuta i familiari a sentirsi partecipanti attivi nel processo di cura, perché possono fornire informazioni sul paziente e rispondere ad eventuali domande dei sanitari, nonché migliorare la presa di decisioni grazie al fatto che i familiari sono più consapevoli della gravità e la realtà della condizione clinica del paziente; minimizza l’agonia di dover aspettare senza sapere come sta il paziente. Aiuta anche il paziente di sentire che hanno avuto le cure migliori possibili e che non sono soli (MacLean et al. 2003; Meyers et al. 2000; Duran et al. 2007; Mangurten et al. 2005; Eichhorn et al. 2001). La letteratura dimostra che le persone hanno determinati bisogni, quando la salute di una persona cara è a repentaglio, quali una comunicazione sincera, costante ed esauriente; stare vicino al paziente sia fisicamente che emotivamente; sentire che i sanitari hanno a cuore il benessere del paziente; vederlo spesso e sapere precisamente gli interventi e procedure eseguite (Leske 1992; Berns & Colvin 1998; Molter 1979; Sundara 2011; Chien et al. 2006; Sacco et al. 2009; Duran et al. 2007). Family Presence è un possibile modo per venire incontro a questi bisogni e soddisfa la necessità di sostegni emotivi del paziente da parte dei suoi cari. Alcuni studi suggeriscono che alcuni di questi bisogni (il bisogno del paziente di avere i familiari accanto e il bisogno dei familiari di ricevere informazione e stare accanto alla persona amata), tendono ad essere sottovalutati dagli operatori sanitari, quando in realtà rappresentano necessità che le famiglie dei pazienti ricoverati in terapia intensiva manifestano maggiormente (Comitato Nazionale per la Bioetica 2013; Biancofiore et al. 2005; Leske 1986; Bijttebier et al. 2001). Come altri studi (Miles et al. 1989; Farrell & Frost 1992; Coyne 1995) Fiona Maxton (2008), cita il fattore di stress più importante per i genitori, come la paura di essere separati dal loro figlio, in particolare durante procedure invasive e rianimazione cardiopolmonare (RCP). Non sorprende, quindi, che i genitori abbiano un bisogno impellente di rimanere accanto al loro figlio durante questa procedura. Capiscono la possibilità che il bambino possa non sopravvivere e hanno un bisogno profondo di stargli accanto. Ciò permette loro di superare
  • 32. 29 eventuali paure per quanto riguarda la natura brutale della rianimazione; una considerazione cruciale per gli operatori che temono delle ripercussioni psicologiche negative per i genitori che desiderano assistere alla rianimazione del loro figlio (Schilling 1994; Van der Woning 1997; Jarvis 1998). 3.2 L’INFLUENZA DEI FAMILIARI NEL CORSO DELLA RIANIMAZIONE Interferenza fisica nelle manovre rianimatorie è forse la “controindicazione” più temuta; molti sanitari temono che, disturbi sensoriali come odori, sangue e l’angoscia del paziente sarebbero emotivamente e psicologicamente traumatici per i familiari (Back & Rooke 1994; Goodenough & Brysiewicz 2003; Ong et al. 2004), che la natura traumatica di queste procedure possa far sì che questo trauma sfoci in comportamenti negativi da parte dei familiari, come per esempio svenire, essere d’intralcio o interferire fisicamente; emozioni incontrollate che potrebbero impedire gli sforzi dell’équipe. La paura dell’interruzione del processo rianimatorio da parte dei familiari - oppure che i bisogni dei familiari faranno sì che l’attenzione dell’équipe sarà deviata dal paziente, compromettendo la qualità dell’assistenza - è molto viva tra il personale sanitario, ed è citato da tantissimi studi (York 2004; Redley & Hood 2004; Sacchetti et al. 2003; Eppich & Arnold 2003; Boudreaux et al. 2002; Fein et al. 2004; Helmer et al. 2000; Eichhorn et al. 1996; Malone 1993; McGahey 2002; Meyers et al. 2000; Ellison 2003; Schilling 1994; Linder et al. 2004; Crisci 1994; Adams 1994; Tomlinson 2010; Resuscitation Council UK 1996; Chalk 1995; Duran et al. 2007). Molti operatori sono dell’opinione che gli operatori sanitari hanno il diritto di determinare ciò di cui hanno bisogno per svolgere il loro lavoro in modo sicuro ed efficace (Haddad 2002). Afferma uno degli operatori intervistati: “Ogni individuo dell’équipe di rianimazione ha bisogno di tempo per pensare in modo lucido e prendere decisioni istantanee senza distrazioni. Anche se il protocollo d’emergenza è radicato nell’operato di ognuno di noi, la risposta del paziente ad ogni sforzo di rianimarlo rappresenta una variabile ignota che richiede la nostra attenzione più completa ed una risposta rapida. Mentre in qualche raro caso il familiare possa capire l’intensità di questa scena, permettere ai familiari di assistere alla rianimazione come regola generale sarebbe imprudente”. Un altro infermiere si interroga sulle motivazioni che spingono i familiari di
  • 33. 30 volere essere presenti: “Forse per mantenere un legame fisico, come tenersi per mano? Perché non mi ricordo di aver mai osservato una rianimazione dove il familiare avrebbe potuto avvicinarsi così tanto senza essere d’intralcio". Le diverse associazioni mediche ed infermieristiche sono unanime nella loro posizione che, la sicurezza di paziente ed operatore sanitario debba rimanere la priorità primaria, quindi qualsiasi interruzione da parte dei familiari è un problema serio che merita la giusta considerazione; tuttavia c’è scarsa evidenza per confermare questa ipotesi (Haddad 2002). Tuttavia la letteratura rivela pochi problemi o episodi d’interferenza (Halm 2005); le paure iniziali del personale sanitario di Foote Hospital (dov’è stato istituito il primo programma formale di Family Presence), dove i familiari avrebbero interferito con le procedure rianimatorie non si sono realizzate (Hanson & Strawser 1992; Hodge & Marshall 2009), un risultato confermato dallo studio di Sacchetti e colleghi (2005), che ha riscontrato solo due episodi d’interferenza durante Family Presence in un setting pediatrico; entrambi gli episodi si sono rivelati minori e non hanno alterato la gestione del paziente in maniera significativa. Una madre, che ha assistito in piedi alla rachicentesi del figlio, ha quasi sincopato, ma una volta sedutasi, la procedura è stata completata senza ulteriori incidenti. Un’altra madre ha interrotto la riduzione della spalla lussata della figlia, perché riteneva che gli analgesici somministrati fossero inadeguati, nonostante la sedazione adeguata con propofol. Il comportamento tipico del paziente è stato descritto alla madre, la riduzione è stata completata senza difficoltà. Alla fine della procedura, la figlia ha confermato alla madre di non aver avvertito dolore durante la riduzione. Anche i dati raccolti da Foote Hospital, l’ospedale che si potrebbe ritenere il “pioniere” di Family Presence, indicano che il rischio derivante da un’interruzione del processo rianimatorio da parte di parenti è spesso esagerato, dimostrando che i familiari raramente erano di disturbo (Hanson & Strawser 1992); al contrario, i familiari “frequentemente dovevano essere condotti al capezzale e incoraggiati a toccare e parlare con il paziente” (Rosenczweig 1998). Uno studio britannico su 25 familiari di pazienti rianimati (Robinson et al. 1998), non ha riscontrato nessun episodio di interruzione da parte di questi familiari, mentre lo studio di
  • 34. 31 Mangurten et al. (2006), svolto in ospedale è giunto a simili conclusioni, dove 65 episodi di Family Presence non hanno subito interruzioni. Secondo lo studio di Duran et al. (2007), familiari e pazienti erano consapevoli del fatto che Family Presence era permesso, a condizione che ciò non comportasse nessuna interferenza con l’operato dell’équipe; alcuni familiari si sono addirittura spostati dal capezzale del paziente quando diventavano troppo sconvolti (Meyers et al. 2000; Eichhorn et al. 2001; Morse & Pooler 2002). Questi risultati indicano che pazienti e familiari spesso non solo sono consapevoli dei propri limiti, ma sono anche in grado di determinare quando Family Presence non è appropriata (Duran et al. 2007). Un altro modo in cui la presenza dei parenti può influenzare il comportamento dell’équipe è una maggior difficoltà ad interrompere la rianimazione, anche quando questa sembra futile (Adams 1994; Boudreaux et al. 2002; Chalk 1995; Resuscitation Council 1996). Secondo lo studio di Meyers et al. (2000), il 15% dei sanitari era dell’opinione che le cure aggressive e la rianimazione cardiopolmonare fossero prolungate a causa della presenza dei familiari. In certi casi, invece, la famiglia potrebbe aiutare l’équipe a decidere quando interrompere la rianimazione (Barratt 1998). Nello studio di Maxton (2008), i familiari in certi casi hanno perorato la causa del paziente e hanno partecipato nella presa delle decisioni, inclusa l’interruzione di una rianimazione futile. Un genitore racconta: “Era verso la fine, ho detto ai medici “Quanto tempo volete farla soffrire?”… Gli ho chiesto di interrompere… di farla andare, e l’hanno fatto”.
  • 35. 32 CAPITOLO 4 LE PREFERENZE DEI PAZIENTI “Se il paziente sottoposto ad intervento rianimatorio ha precedentemente espresso un desiderio in merito alla presenza dei familiari, questo dovrebbe essere rispettato” (Fulbrook et al 2007). Le preferenze dei pazienti sono un elemento chiave dell’analisi clinica e dovrebbero costituire il secondo dei nostri quattro temi da considerare. A volte le preferenze del paziente, per quanto riguarda le sue cure mediche, vengono comunicate direttamente ai familiari o agli operatori sanitari; se così non fosse, è possibile che possano essere dedotte da altri consensi già forniti dal paziente. In ogni caso, le ricerche indicano che, pazienti e famiglie desiderino la possibilità di Family Presence; praticamente tutte le persone a cui viene offerta accetteranno (Hanson & Strawser 1992; Belanger & Reed 1997; Chalk 1995: Rosenczweig 1998; Meyers et al. 1998, 2000; Eichhorn et al. 2001; ENA 2001) e che è la volontà di pazienti e le loro famiglie di essere in stretto contatto nelle situazioni potenzialmente letali (Meyers et al. 1998, 2000; Eichhorn et al. 2001). Per quanto riguarda i pazienti ricoverati in terapia intensiva, la separazione dai propri cari è una causa importante di sofferenza (Nelson et al. 2001; Biancofiore et al. 2005), spesso un “ulteriore ed ingiustificato prezzo da pagare, non legato alla malattia o all’evento acuto che ha provocato il ricovero” (Comitato Nazionale per la Bioetica 2013). Nonostante la mole sempre più imponente di letteratura sul tema di Family Presence, pochissimi studi hanno indagato sulle preferenze di pazienti a riguardo, anche se la letteratura esistente suggerisce che le loro opinioni – come quelli degli operatori sanitari – sono contrastanti. Nello studio di Grice et al. (2003), solo il 29% dei 50 pazienti in attesa di chirurgia cardiaca elettiva era a favore della presenza dei familiari durante un’eventuale rianimazione cardiopolmonare; la preoccupazione principale di questi pazienti era l’effetto traumatico che la procedura potesse avere sui familiari. In questo studio, quasi tutti i pazienti e
  • 36. 33 familiari erano dell’opinione che le loro preferenze per Family Presence dovessero essere stabilite ancor prima del momento del ricovero in terapia intensiva (Halm 2005). Per contro, Gulla et al. (2004) hanno studiato 482 adulti nordamericani nel reparto del pronto soccorso, di cui il 64% era a favore della presenza di un familiare durante RCP. E nello studio dei Duran et al. (2007) su 62 pazienti ricoverati in vari setting clinici, la maggioranza era dell’opinione che Family Presence fosse un diritto e che questa possibilità dovesse essere sistematicamente offerta alle famiglie. Tuttavia nessuno di questi studi aveva coinvolto pazienti già sottoposti a procedure rianimative. Fino ad oggi, lo studio di Eichhorn e colleghi (2001), che ha intervistato un paziente rianimato e otto che hanno subito delle procedure invasive, rimane uno dei pochi ad aver indagato sulle esperienze di pazienti sottoposti a procedure invasive o RCP alla presenza di un familiare; i risultati suggeriscono che nonostante alcune problematiche legate alla presenza del familiare, i vantaggi sia per i pazienti, sia per i familiari, abbiano più peso rispetto al potenziale per conseguenze avverse (McMahon-Parkes et al. 2009). I nove pazienti intervistati si erano sentiti confortati dalla presenza dei familiari, erano dell’opinione che i familiari avevano perorato la loro causa, fornito informazioni importanti agli operatori sanitari, ed erano consapevoli che Family Presence fosse appropriato, a patto che non interferisse con il lavoro dell’équipe. I pazienti, nonostante fossero a favore della presenza dei familiari perché confortante, espressero preoccupazione per il suo potenziale impatto negativo (Mason 2003, Duran et al. 2007). Durante le varie procedure, i pazienti hanno sperimentato sensazioni di paura e dolore, tuttavia, la presenza dei familiari li ha fatti sentire più amati, più sicuri e sostenuti, meno impauriti e meno soli. Nessuno si è dichiarato di sentirsi a disagio a causa di Family Presence; al contrario hanno avuto la percezione che i familiari agissero come difensori, durante le procedure. Ciò ha aiutato i pazienti a tollerare procedure difficili e dolorose e allo stesso tempo di umanizzare il paziente per gli operatori. Alcuni erano perfino dell’opinione che avessero ricevuto delle cure migliori e più umane grazie alla presenza dei familiari. Altri temi emersi sono, il mantenimento del legame tra paziente e famiglia, la convinzione che Family Presence sia un diritto e l’effetto che Family Presence ha sulle famiglie e l’ambiente sanitario (Halm 2005; Hodge & Marshall 2009).
  • 37. 34 Lo studio di Bishop e colleghi (2013) che ha esaminato il tema di Family Presence durante il cambio delle medicazioni dei pazienti ustionati, un momento assistenziale dove i familiari sono tradizionalmente esclusi, ha evidenziato numerosi benefici per il paziente. Un paziente ha commentato: “Mi sento più rilassata durante il cambio delle medicazioni quando mia moglie è con me”; un altro ha detto che è stato “molto gentile e comprensivo nel coinvolgere i familiari e permetterli di essere presenti.”. In uno studio di Sproul et al. (2009), l’88% di pazienti ustionati ha ritenuto, il supporto della famiglia di grande importanza per la loro ripresa. Secondo lo studio di MacLean et al. (2003), quasi tutti i pazienti pediatrici hanno preferito avere i genitori presenti durante procedure mediche stressanti (Turner 1997; Wolfram & Turner 1997; Gonzalez et al. 1989; Jerret 1985; Ross & Ross 1984; Fiorentini 1993; Diniaco & Ingoldsby 1983), ed erano dell’opinione che la presenza dei genitori era l’intervento più efficace per gestire il loro dolore. 4.1 LE TESTIMONIANZE DI PAZIENTI RIANIMATI McMahon-Parkes et al. (2009) hanno reclutato un totale di 62 pazienti dai reparti di emergenza, medicina generale e di urgenza, cardiologia e pneumologia in quattro grandi ospedali universitari nel sud-ovest dell’Inghilterra. 21 pazienti sono stati rianimati in seguito ad un collasso e perdita di coscienza e segni vitali, venendo trattati con una o più delle seguenti tecniche: primo soccorso vitale (basic life support), defibrillazione, cardioversione, intubazione endotracheale e/o la somministrazione aggressiva di fluidi (in seguito identificati con il termine “paziente rianimato” e un numero identificativo). Altri 41 pazienti, che non necessitavano la rianimazione, ma che erano ricoverati in emergenza, sono stati reclutati nel gruppo dei pazienti non-rianimati (in seguito identificati con il termine “caso d’emergenza” e un numero identificativo). I membri di questo gruppo sono stati sottoposti a trattamenti d’emergenza, ma nessuno di loro ha subito un collasso improvviso che necessitava uno degli interventi sopraccitati. Trattandosi di uno studio unico nel suo genere, con racconti in prima persona di chi ha subito la rianimazione cardiopolmonare o comunque è stato ricoverato in emergenza, ho scelto di includere una traduzione di queste esperienze fortemente personali, le quali
  • 38. 35 costituiscono prospettive preziose per poter fare un quadro il più possibile completo ed equilibrato sulla questione di Family Presence. Da questo studio di McMahon-Parkes et al. (2009) sono emersi tre temi principali - “essere presente”, “benessere degli altri” e “gestione dell’evento da parte degli operatori”. Ecco presentati i risultati e le riflessioni che nascono da questo studio: “Essere presente” Analogamente ai familiari, anche i pazienti ritengono che Family Presence sia un loro diritto, con la convinzione che, le famiglie hanno un bisogno intrinseco di stare insieme e che Family Presence abbia aiutato loro a fronteggiare il momento difficile (rianimazione o procedure invasive). Nonostante la natura angosciosa dell’evento, è stato percepito in fin dei conti come benefico poter fornire informazioni importanti riguardo il paziente, aiutando la famiglia a funzionare come unità (Eichhorn et al. 2001). Numerosi studi dimostrano la volontà dei genitori di rimanere col proprio figlio, anche durante procedure molto invasive, quali RCP (Khan 2007; Perez Alonso et al. 2009; Powers & Rubenstein 2009), di poter partecipare alle sue cure quanto possibile, per ridurre lo stress e le incertezze (Maxton 2008; Eberly et al. 1985; Carter & Miles 1989; Miles et al. 1989; Heuer 1993; Woodfield 1997; Meyer et al. 1998), mentre nello studio di Gonzalez et al. (2010), l’80% dei familiari credeva che la loro presenza fosse di beneficio, a prescindere dall’età del paziente. Per alcuni pazienti nello studio di McMahon-Parkes e colleghi, il concetto di “semplicemente essere presente” (caso d’emergenza #32) non implicava una mera presenza fisica, piuttosto una nozione più estesa di “stare con e per il paziente”, una riflessione delle dinamiche di cura all’interno della famiglia stessa. In molti casi, i rispondenti consideravano Family Presence un dovere familiare e di responsabilità nei confronti del paziente: “E’ il mio dovere esserci, come padre o marito” (paziente rianimato #11). “Non potrei perdonarmelo, se non ci dovessi essere” (caso d’emergenza #15). Molti partecipanti erano dell’opinione che la presenza dei familiari potesse influenzare la rianimazione del loro caro, dando forza e coraggio, perché i familiari “farebbero il tifo” per il paziente (paziente rianimato #1), “parlerebbero con lui” (caso
  • 39. 36 d’emergenza #23) o “incoraggiandolo a rimanere con loro” (paziente rianimato #7). Ci sono evidenze aneddotiche che, la presenza di una persona amata, potrebbe essere di beneficio al paziente, incrementando la volontà di vivere nei momenti della rianimazione: “Avevo una paziente di 40 anni che è andata in arresto cardiaco al pronto soccorso. Abbiamo fatto entrare il marito per starle accanto e lui continuava a dirle che l’amava e che doveva stare in vita per i loro figli. Lei si è ripresa completamente. Dice di ricordare la maggior parte della rianimazione e la presenza del suo marito. Io credo che questo abbia aiutato a mantenerla in vita” (Lederman & Wacht 2014). Pazienti che sono in arresto e che sono sottoposti alla rianimazione cardiopolmonare, potrebbero essere più consapevoli rispetto a quello che si è creduto in precedenza. Con la possibilità di una consapevolezza fugace, può essere che il paziente tragga beneficio dalla possibilità di esprimere un messaggio “finale”, oppure di essere rassicurato prima di iniziare trattamenti invasivi, come la ventilazione meccanica (Resuscitation Council 1996). Questo aspetto viene sottolineato anche da un infermiere in California: "Vorrei incoraggiare i familiari ad essere presenti, tenere il paziente per mano e parlargli nell’orecchio - sempre che si possa fare senza essere d’intralcio all’équipe che sta eseguendo la rianimazione. Una voce e un tocco familiare hanno un valore terapeutico per il paziente" (Haddad 2002). Altri partecipanti erano più filosofici, suggerendo che sarebbe improbabile per il paziente incosciente capire se i familiari fossero vicini: “Siccome non sei consapevole di ciò che sta succedendo, non credo che [Family Presence] farebbe molta differenza” (paziente rianimato #8). “Saresti in una condizione per la quale non ti importerebbe!” (caso d’emergenza #9). “Supporto e aiuto emotivo” In genere, i partecipanti erano dell’opinione che il supporto e incoraggiamento dei familiari durante la rianimazione sarebbe di beneficio o lo era stato. Questo aiuto comprendeva gesti come tocco espressivo o comunicazione verbale. “Se si riesce a trovare il contatto con una mano, si può trovare conforto” (paziente rianimato #3). A causa della percezione dell’ambiente di rianimazione, come potenzialmente spaventoso e stressante, molti partecipanti erano dell’opinione che la presenza di un familiare aiuterebbe a creare un’atmosfera di fiducia, promuovendo un senso di sicurezza e mantenendo un legame con i familiari: “Mi sentirei più
  • 40. 37 sicuro che qualcuno [un familiare] fosse con me” (paziente rianimato #4). “Quando ti svegli sarebbe bello vedere qualcuno di familiare e amichevole, invece di un medico o infermiere che non conosci” (caso d’emergenza #2). “Perorazione della loro causa” Un’aspettativa dei pazienti nei confronti dei familiari è quella di perorare (o difendere) la loro causa. Prevedendo una compromissione delle loro capacità di interpretare le informazioni o prendere decisioni autonome, alcuni partecipanti hanno espresso il desiderio che i familiari rappresentassero i loro interessi: “Non ero in grado di prendere delle decisioni, quindi avere qualcuno con me a perorare la mia causa è stato importante” (paziente rianimato #20). Altri rispondenti invece pensavano che sarebbe inappropriato far assumere questo ruolo ai familiari, perché il peggioramento repentino della salute del paziente potrebbe scattare una crisi familiare, compromettendo inevitabilmente la capacità dei familiari stessi a prendere delle decisioni in modo razionale: “Sarebbe troppo traumatico per i familiari dover prendere una decisione simile” (paziente rianimato #9). Si solleva anche la possibilità che possono nascere dei conflitti d’interesse tra i familiari e gli individui che richiedono la rianimazione: “Mia figlia stava urlando, supplicandoli di rianimarmi. Sono stata rianimata per il suo beneficio, non perché fosse la cosa migliore per me… Lei non ha il diritto di prendere delle decisioni per conto mio” (paziente rianimato #14). “Vedere e comprendere” Una convinzione molto comune tra i partecipanti era che, assistere alla rianimazione, giocherebbe un ruolo importante nel ridurre l’ansia della famiglia e a risolvere eventuali malintesi o dubbi nutriti dai familiari in merito all’assistenza prestata al loro caro. Osservare l’équipe medica eseguire procedure salvavita sul loro caro aiuterebbe i familiari a comprendere la realtà della situazione: “Vedrebbero che i medici hanno fatto tutto il possibile. Se non fossero presenti, ci potrebbero essere dei dubbi persistenti. I familiari potrebbero quindi avere un’impressione esatta di ciò che è successo” (caso d’emergenza #24). “Potrebbero vedere che qualcuno si era veramente impegnato e che aveva fatto il possibile!” (paziente rianimato #8). Un partecipante ha suggerito che, assistere alla rianimazione permetterebbe alla sua famiglia di
  • 41. 38 comprendere la gravità della sua malattia: “Gli farebbe bene capire quanto ero malato!” (paziente rianimato #19). Un’altra paziente era dell’opinione che assistere alla rianimazione, per quanto violento, potrebbe aiutare il figlio a vederla “in una luce diversa, non come una madre che può sempre andare avanti. Non sono Superman, solamente una donna comune” (caso d’emergenza #39). Il desiderio di capire e di sapere la sequenza di eventi prima, durante e dopo la rianimazione era altrettanto importante per chi è sopravvissuto. Il valore nell’avere un familiare presente era di spiegare al paziente ciò che era successo mentre era privo di sensi: “Se l’esito è positivo, c’è un beneficio perché la persona che ha assistito alla procedura ha visto ciò che l’équipe ha fatto e può raccontarti cos’è successo” (paziente rianimato #21). “È stato veramente importante... avere qualcuno lì a poterti spiegare ciò che è successo dopo l’evento, con un linguaggio non-medico (…) È bello sentire il racconto da una prospettiva personale” (paziente rianimato #20). In circostanze dove erano presenti degli amici piuttosto che dei familiari, questi potrebbero raccogliere le informazioni pertinenti e comunicarle ai familiari dopo l’evento: “Se si trattasse di un caro amico e la famiglia non aveva la possibilità di esserci, potrebbe ricevere le informazioni e rassicurazione da qualcuno vicino al paziente” (caso d’emergenza #37). Alcuni hanno perfino suggerito che un’amico potrebbe “proteggerli” da ulteriore angoscia, dandoli una versione “revisionata” e “temperata” dei momenti finali del paziente: “Sarebbero di conforto alla famiglia. Potrebbero mentire un pochino e dire che fosse stato meglio rispetto alla verità!” (caso d’emergenza #34). “Essere presenti alla fine” Molti partecipanti erano dell’opinione che le famiglie desiderassero poter stare con i loro cari a prescindere dall’esito, ma anche in questo caso le loro opinioni erano contrastanti. Per i pazienti non responsivi o quelli che potrebbero riprendere temporaneamente conoscenza, essere presenti darebbe la possibilità di scambiare dei sentimenti d’affetto durante i momenti finali, incoraggiare l’accettazione della morte e lenire il dolore delle persone in lutto: “Mia figlia sentirebbe il bisogno di essere presente. Darebbe una possibilità di chiusura” (caso d’emergenza #6). “Se morissi, loro avrebbero la possibilità di dire addio. Ti sentiresti come “tradito” se perdessi questi ultimi momenti” (paziente rianimato #17). A volte i motivi dei pazienti erano legati alla natura stessa della situazione: “È una presenza durante un’occasione
  • 42. 39 importante e se capitasse il peggio… almeno avresti passato quel tempo con loro” (caso d’emergenza #13). Alcuni preferivano non essere soli nell’eventualità che la rianimazione non fosse riuscita: “Sul momento non ero consapevole di nulla, ma col senno di poi ero felice che loro ci fossero. Non voglio essere solo quando ‘tiro le cuoia’!” (paziente rianimato #10). Una minoranza di partecipanti, però, preferirebbe affrontare la morte da soli, oppure temono l’invasione della propria privacy da parte di parenti estranei. “Vorrei semplicemente essere da solo” (paziente rianimato #11). “Sono una persona indipendente e ho sempre fatto le cose da solo… Non vorrei che mi vedessero così, punto e basta!” (caso d’emergenza #26). “Benessere degli altri” In generale i rispondenti erano favorevoli a Family Presence; tuttavia alcuni erano turbati delle possibili conseguenze negative per i familiari ed erano desiderosi di proteggere il benessere di chi potrebbe scegliere di assistere alla rianimazione: “Aggiungerebbe ulteriore dolore durante un periodo già per sé angoscioso. Avrebbero già abbastanza sul piatto” (caso d’emergenza #29). Per questo motivo, alcuni partecipanti preferivano nominare i familiari che a loro avviso sarebbero in grado di affrontare la situazione: “Mio marito sarebbe andato in panico, e mio figlio più grande sarebbe andato a pezzi” (paziente rianimato #4). “Posso sempre contare su mio fratello, ma lui potrebbe essere troppo sconvolto. Ma mia cognata ha lavorato come infermiera e sarebbe in grado di reggere la situazione” (caso d’emergenza #17). Analogamente nello studio di Grice et al. (2003), quasi tutti i pazienti e familiari erano dell’opinione che le loro preferenze per Family Presence dovessero essere chieste al momento del ricovero del paziente; è anche giusto che la volontà del paziente in merito a Family Presence venga rispettata (Resuscitation Council 1996). L’autonomia decisionale del malato, inoltre, risulta valorizzata almeno quando il paziente è in grado di esprimere la propria volontà circa la presenza accanto a sé di persone con le quali intrattiene relazioni significative. Infatti, il paziente – quando le circostanze lo permettano – dovrebbe avere la possibilità di indicare quali persone siano particolarmente significative per lui e chi desidera quindi avere accanto nel difficile tempo della malattia. Questo, del resto, è uno dei principali bisogni espressi dai
  • 43. 40 pazienti ricoverati in terapia intensiva (Olsen et al. 2009; Comitato Nazionale per la Bioetica 2013). Benjamin et al. (2004) hanno riportato uno studio che esamina le preferenze dei pazienti in merito a Family Presence nell’eventualità della loro rianimazione. Da un campione di 200 pazienti, 144 (il 72%) hanno affermato di volere i familiari presenti, anche se 81 (il 56%) di questi, hanno indicato di volere solo la presenza di determinati membri della famiglia. La prima preferenza era marito o moglie, seguito da un genitore (Hodge & Marshall 2009). Allo stesso tempo, i partecipanti hanno rilevato l’importanza di rispettare la volontà di ogni familiare: “È una questione che riguarda la famiglia e quello che vogliono loro” (caso d’emergenza #17). “Se volessero essere presenti, vorrei che gli fosse offerta la possibilità, per il loro beneficio” (caso d’emergenza #22). Alcuni tuttavia erano preoccupati riguardo i possibili effetti negativi che l’osservazione della rianimazione potrebbe avere su chi sceglie di essere presente: “Se il tentativo di rianimazione non andasse a buon fine, non vorrei che quello fosse il loro ultimo ricordo di me” (caso d’emergenza #16). “Gestione dell’evento da parte degli operatori” All’interno di questo tema finale sono emersi tre sottotemi intercorrelati rispetto al modo in cui il personale sanitario dovrebbe gestire la rianimazione – “Lavorare senza interruzioni” “decisioni del personale sanitario” e “mantenere un rapporto di fiducia con il paziente”. “Lavorare senza interruzioni” Pur essendo favorevoli a Family Presence, alcuni partecipanti erano dell’opinione che l’équipe dovrebbe poter lavorare senza ostacoli durante l’eseguimento di manovre salvavita e altresì deve essere “permesso di lavorare senza interruzioni” (paziente rianimato #8). “Rianimare un paziente è una cosa seria e non è giusto nei confronti dei medici dover tenere un occhio sul paziente e l’altro sulla famiglia. Devono poter focalizzare la loro completa attenzione sul paziente” (caso d’emergenza #30). L’aspettativa che, il personale sanitario dovrebbe concentrare i propri sforzi sui pazienti invece che sui bisogni dei familiari, era un’opinione particolarmente prevalente tra i casi d’emergenza: “Vorrei che i familiari non fossero presenti per motivi ‘egoistici’; vorrei che i medici si concentrassero su di me” (caso d’emergenza #23).
  • 44. 41 “Decisioni del personale sanitario” Un altro tema emerso dallo studio di McMahon-Parkes e colleghi era quello dell’equilibrio delicato tra assicurare che i familiari rimanessero una presenza non intrusiva, ma allo stesso tempo protetti dalla vista di procedure potenzialmente angoscianti. In linea generale, i partecipanti si fidavano del giudizio del personale nell’agire negli interessi dell’équipe, il paziente e la famiglia stessa: “Se i familiari sono d‘intralcio, il personale ha il diritto di chiedergli di andarsene” (paziente rianimato #15). “Se l’équipe deve fare qualcosa che ai loro occhi sembrerà sgradevole, allora gli operatori dovrebbero chiedergli di lasciare la stanza” (caso d’emergenza #27). “Ci sono cose che i familiari non dovrebbero vedere” (paziente rianimato #8). “I medici e gli infermieri dovrebbero poter usare la loro discrezione” (paziente rianimato #16). Altri partecipanti, invece, ritenevano che pur avendo il dovere di avvisare i parenti che, certe procedure potrebbero essere spiacevoli ed angoscianti da vedere, la decisione finale di rimanere o meno dovrebbe essere dei familiari e che fosse diritto degli stessi a decidere quanto tempo rimanere a fianco del paziente: “Se si trattasse di una procedura invasiva o intima… ma loro volessero comunque rimanere, io credo che sia giusto così” (caso d’emergenza #2). Purché non siano da ostacolo, i familiari dovrebbero poter rimanere quanto tempo desiderano. Non ci dovrebbero essere delle barriere” (caso d’emergenza #24). Infine, un rispondente ha commentato che, richiedere sistematicamente ai familiari di uscire dalla stanza prima dei trattamenti o procedure invasive “sarebbe contrario allo scopo di permettere la presenza dei familiari. Il familiare dovrebbe poter vedere esattamente ciò che è stato fatto per salvare la vita ad una persona cara” (caso d’emergenza #11). “Mantenere un rapporto di fiducia con il paziente” In un clima dove la riservatezza ed il rispetto per l’autonomia del paziente sono considerati dei principi centrali di una buona pratica professionale (Baskett & Lim 2004), è cruciale capire e assecondare le opinioni e preferenze dei pazienti riguarda Family Presence dove possibile. Determinare le volontà di un paziente durante una rianimazione o in una situazione che sta precipitando non è realistico; a maggior ragione, capire le opinioni di pazienti che sono stati rianimati, potrebbe essere utile al sanitario a decidere se permettere la presenza dei familiari durante RCP sia realmente negli interessi del paziente.
  • 45. 42 La maggioranza dei rispondenti ha fiducia nei professionisti a mantenere la riservatezza e dignità. Sorprendentemente, la maggior parte dei pazienti era indifferente all’idea dell’aperta discussione con i familiari riguardo questioni di salute confidenziali. Quando la situazione rende necessaria svelare dati riservati, i pazienti richiedono al personale sanitario di usare discrezione e comunicare questi dati con sensibilità ed un’occhio di riguardo per il benessere delle famiglie: “Scoprire queste informazioni sottopone la famiglia ad ulteriore pressione, non è piacevole scoprire delle informazioni in quel modo, per errore… Sarebbe meglio esserne informato in modo più controllato e delicato” (caso d’emergenza #16). I pazienti erano comunque pragmatici, accettando in questo particolare contesto la difficoltà di controllare quello che sentono i familiari; occasionalmente sarebbe comunque auspicabile per i familiari di essere a conoscenza di certi fatti, in modo da permettere loro di capire il motivo di determinate decisioni: “Potrebbe essere un fatto postivo perché almeno vedono il quadro completo! Non sarebbe fattibile farli entrare ed uscire dalla stanza mentre si discute delle cose” (caso d’emergenza #19). “Ovviamente la questione di riservatezza è importante, ma se la famiglia deve prendere una decisione ci sono certi dettagli che devono sapere” (paziente rianimato #20).
  • 46. 43 CAPITOLO 5 QUALITÀ DI VITA La terza dei quattro temi di Jonsen e colleghi (1998) è la questione di qualità di vita. La letteratura infermieristica descrive varie preoccupazioni in merito di questo tema, preoccupazioni espresse da pazienti e familiari che hanno vissuto l’esperienza di Family Presence durante RCP. Per molti anni, gli operatori sanitari sono stati riluttanti a permettere Family Presence a causa del trauma emotivo, che potrebbe causare a familiari, assistendo alla RCP. Nell’opinione dei pazienti, invece, Family Presence eleva la loro dignità agli occhi del personale sanitario. Per i familiari, Family Presence rappresenta un’opportunità di chiusura, per riappacificarsi, una possibilità di “dire addio” (Eichhorn et al. 2001). Anche se il rischio di trauma emotivo come risultato di Family Presence è stato citato da molti operatori sanitari, familiari e pazienti, la maggioranza dei familiari, coloro i quali hanno vissuto questa esperienza, hanno indicato che questi episodi non hanno inciso in modo avverso sulla loro qualità di vita (Meyers et al. 2000). 5.1 RIPERCUSSIONI PSICOLOGICHE SUI FAMILIARI Uno dei motivi principali che spinge il personale sanitario a negare Family Presence è la convinzione che la rianimazione del proprio caro sarà troppo traumatica. Secondo un medico del pronto soccorso del Vancouver General Hospital: “Assistere ad un’équipe di estranei che spingono dei tubi disperatamente giù per la gola di un parente, che forano ogni braccio con aghi di grosso calibro o che in situazioni estreme, aprono il torace, sarebbe non solo traumatico da vedere, ma potrebbe anche lasciare il parente con un ricordo finale raccapricciante” (Rosenczweig 1998). Un altro medico nello studio di Haddad (2002) afferma: “Le rianimazioni non sono piacevoli, e se stesse succedendo davanti ai tuoi occhi, sarebbe molto difficile assorbire qualsiasi informazione che viene data”. Seguendo queste logiche, quindi, le famiglie dovrebbero essere “messi al riparo” da questa situazione angosciante, in modo che i loro ultimi ricordi del paziente siano tranquilli e non allarmanti.
  • 47. 44 Quest’opinione è molto diffusa tra il personale sanitario, ovvero sia, il fatto di vedere procedure di emergenze, come intubazione o defibrillazione sia troppo doloroso per i familiari (Adams et al. 1994; Meyers et al. 2000; Ellison 2003; Duran et al. 2007; MacLean et al. 2003); un motivo citato da ben l’86% del campione di personale intervistato nello studio di Boudreaux e colleghi (2002). Alcune testimonianze raccolte durante lo studio di Lederman & Wacht (2014): “assistere alla rianimazione sarà un peso emotivo per la famiglia”; “vedere e sentire le compressioni, il ricordo rimarrà con loro per sempre”; “sarebbe una scena troppo traumatica”; “potrebbe essere l’ultimo ricordo che la famiglia ha del loro caro.” Spesso quindi, le paure del personale sono genuine, motivate da un desiderio di proteggere i familiari. Infatti, molti sanitari credono che, assistendo ad un evento traumatico come la rianimazione cardiopolmonare, un familiare possa sperimentare emozioni negative tanto da sviluppare problematiche psicologiche (Schilling 1994; Fein et al. 2004). Comunque questa ipotesi non è ancora stata confutata da evidenze (Robinson et al. 1998; Meyers et al. 2000; Eichhorn et al. 2001; Holzhauser et al. 2006; Fulbrook et al. 2007; Weslien et al. 2006). Non ci sono evidenze che, negando alla famiglia la possibilità di assistere alla rianimazione del loro caro sia benefico; le evidenze dimostrano invece che la famiglia possa sperimentare sentimenti d’impotenza, ansia, panico oppure colpa, se vengono esclusi (ENA 2005; Marrone & Fogg 2005; Blair 2004). Inoltre Boyd (2000) osservò che molti dei presunti ostacoli alla presenza dei familiari sono solo dibattiti teoretici e nessuno di loro è stato espresso da ordini professionali (Fulbrook et al. 2007). L’evidenza indica che queste paure di trauma psicologico sperimentato dai familiari in seguito alla rianimazione cardiopolmonare o altre manovre invasive non sono state confermate (Belanger & Reed 1997; Doyle et al. 1987; Meyers et al. 2000; Robinson et al. 1998; Hanson & Strawser 1992; Clark & Carter 2002; Boudreaux et al. 2002; MacLean et al. 2003) e, che spesso, la fantasia è peggiore rispetto alla realtà (Martin 1991). Per i familiari, Family Presence rappresenta un’opportunità di chiusura e di dire addio alla persona amata, mentre i pazienti hanno riscontrato una maggior umanizzazione (con maggior cura e più diligenza nei propri confronti) con la presenza dei propri cari (Eichhorn et al. 2001). La maggioranza dei familiari ha inoltre indicato che le loro esperienze con Family
  • 48. 45 Presence non hanno inciso negativamente sulla loro qualità di vita (Meyers et al. 2000). Invece molte famiglie ritengono che, Family Presence sia non solo un diritto, ma anche un’esperienza positiva (Mian et al. 2007). Le ricerche di Meyers et al. (2000) citano numerose opinioni di familiari che hanno assistito alla rianimazione, descrivendo l’esperienza come “naturale” e “forte” (Harteveldt 2005). Nello studio di Meyers et al. (2000), la maggioranza dei familiari (il 96%) appoggiava il diritto dei familiari di essere presente durante procedure invasive e di emergenza, un risultato coerente con quello di altri studi (Kuzin et al. 2007; Sacchetti et al. 1996; Mitchell & Lynch 1997; Doyle et al. 1987; Powers & Rubenstein 1999). Sarah Adams, che ha perso il fratello Richard in un incidente durante una gara equestre, racconta: “Il personale mi chiese varie volte di lasciare la scena, ma ho voluto rimanere… Mi sconvolse che cercavano in continuazione di farmi andare via… Non avrei voluto essere altrove in quel momento. Volevo che lui sapesse che gli fossi vicino nel momento di bisogno” (Adams et al. 1994). Lo studio di Bishop et al. (2013), svolto in un reparto di grandi ustioni, riporta che il reparto aveva sempre scelto di escludere i familiari durante il cambio delle medicazioni, per paura che la loro presenza causasse un aumento del tasso d’infezioni e che i familiari non sarebbero stati in grado di tollerare la vista delle ferite. I pazienti ustionati hanno bisogno di cure specifiche una volta a casa e le evidenze dimostrano che queste restrizioni contribuivano all’insoddisfazione dei pazienti e familiari e alla mancanza delle conoscenze necessarie per curare al meglio il paziente una volta a casa (Sundara 2011; Brodland & Andreasen 1974; Reddish & Blumenfield 1984; Blakeney et al. 2008). Secondo lo studio di Mitchell et al. (2009), i familiari che assistono alle cure del proprio caro percepiscono un maggiore rispetto, collaborazione e supporto dal personale sanitario rispetto ai familiari che non lo fanno. Nello studio di Sproul et al. (2009), l’88% dei pazienti ustionati ritiene il supporto della famiglia, una componente di grande importanza per la loro ripresa; nel loro studio del 2005, Muangman e colleghi citano il supporto sociale, come possibile fattore contribuente alla sopravvivenza dei pazienti ricoverati. Nel loro studio, l’81% dei pazienti sopravvissuti fino alla dimissione, aveva qualche tipo di supporto sociale, contro solo il 35% dei non sopravvissuti. Non solo; due studi (Smith et al. 2011; Hanson et al. 2008) hanno dimostrato che la presenza dei familiari può
  • 49. 46 ridurre l’ansia e il dolore durante il cambio delle medicazioni; ciò nonostante la positività di questi risultati, la presenza dei familiari durante queste procedure non è diventata una prassi normale (Bishop et al. 2013). 5.2 RIDUZIONE DI PROBLEMI PSICOSOCIALI Vari studi su pazienti ustionati rivelano che il supporto dei familiari è in grado di portare ad una riduzione di problemi psicosociali a lungo termine, quali depressione, ansia e sindrome post-traumatico da stress (Wu et al. 2009; Park et al. 2008; Wallis et al. 2006). Family Presence è stata associata ad una riduzione di ansia, di senso di impotenza e di preoccupazione nei familiari, portando ad un miglioramento nella salute mentale a lungo termine; infatti, i familiari che hanno partecipato a Family Presence hanno sperimentato tassi ridotti di disturbo post-traumatico da stress, immagini intrusive e sintomi legati alla perdita. Family Presence aiuta anche a facilitare il processo del lutto nell’eventualità di una rianimazione non riuscita (Robinson et al. 1998; Meyers et al. 2000; Hodge & Marshall 2009; Mangurten et al. 2005; Jabre et al. 2013). Le preoccupazioni riguardo il benessere emotivo dei familiari, rappresentano un ostacolo a Family Presence (Redley & Hood 1996; MacLean et al. 2003). Anche se gli operatori sanitari temono che questo possa avere un impatto negativo sui familiari, ciò, in realtà, non si è verificato (Meyers et al. 2000.) In uno studio sugli effetti psicologici di Family Presence, Robinson et al. (1998) non hanno riscontrato segni di trauma psicologico in familiari che hanno assistito alla rianimazione cardiopolmonare; gli stessi sono rimasti soddisfatti della loro decisione di rimanere accanto al loro caro. Nello studio di Duran et al. (2007), i familiari erano dell’opinione di poter tollerare emotivamente un episodio di Family Presence, il 31% dei quali, aveva vissuto l’esperienza precedentemente. Non solo, quando è stato domandato ai familiari se sceglierebbero di essere presenti durante la rianimazione (se la situazione si ripresentasse), quasi tutti (il 95%) hanno risposto in maniera positiva (Duran et al. 2007, Mangurten et al. 2005). Questi risultati sono coerenti con quelli di Meyers et al. (1998), nel loro studio retrospettivo, di famiglie che avevano assistito alla RCP di un familiare al pronto soccorso, che
  • 50. 47 è in seguito deceduto. Nel campione di 25 famiglie, 20 (l’80%) hanno risposto di voler essere presente se la possibilità gli venisse offerta. Quasi tutti i rispondenti, 24 su 25 (il 96%), erano dell’opinione che i familiari dovrebbero poter rimanere con i loro cari, e 17 su 25 (il 68%) che la loro presenza potrebbe essere stata di aiuto al paziente (Hodge & Marshall 2009). Da vari studi (Belanger & Reed 1997; Doyle et al. 1987; Meyers et al. 2000; Resuscitation Council 1996), emergono dati, secondo i quali, tra il 94% ed il 100% dei parenti che hanno assistito alla rianimazione, esprimono il parere di fare la stessa scelta se l’opportunità si ripresentasse. Family Presence, quindi, viene vissuto dalla maggioranza dei partecipanti non solo come un diritto, ma anche come di importanza e di beneficio sia per i pazienti che per i loro familiari (Halm 2005). 5.3 FACILITAZIONE DEL PROCESSO DI LUTTO Uno dei motivi principali a favore di Family Presence – e forse uno dei più sorprendenti – è la facilitazione del processo del lutto nell’eventualità che il paziente non sopravviva. Nelle parole di Sarah Adams, “insistere a rimanere mi ha aiutato ad accettare psicologicamente la sua morte” (Adams et al. 1994). Nello studio di Meyers et al. (2000), in tentativi di rianimazione riusciti, i familiari parlano di un’esperienza condivisa, fortemente emotiva, dove hanno potuto offrire del conforto al loro caro. “Mia madre è morta di cancro al seno nel 2008. Ho potuto essere presente con le mie due sorelle al momento della sua scomparsa e partecipare alle sue cure prima della morte. In quel momento non ho né capito né apprezzato l’importanza dell’esperienza. Io e le mie sorelle abbiamo potuto cominciare a piangerla fin da subito, perché abbiamo potuto capire quanto era malata e abbiamo aiutato il personale dell’ospizio ogni giorno ad assisterla. Anche se l’esperienza è stata incredibilmente emotiva, non la vorrei mai cancellare. È stata di grande aiuto a tutti di poter dire addio alla mia mamma e di poter starle accanto nei suoi ultimi momenti. Sono convinta che fosse anche confortante per lei averci al suo fianco”. Anche in casi dove il tentativo di rianimazione non è andato a buon fine, i familiari si sono sentiti meno preoccupati (rispetto ad uno scenario dove la loro presenza non era permesso), l’esperienza gli è stata di aiuto nell’affrontare la realtà della perdita, ciò ha facilitato il processo del lutto nei mesi successivi (Harteveldt 2005; Doyle et al. 1987).