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Bibliografia:



  1)   Vita                (Nicolò)
  2)   Primo Governo       (Nicolò)
  3)   Secondo Governo    (Riccardo)
  4)   Politica Estera    (Alice)
  5)   Politica Interna   (Roberto)




                                       1
VITA:

Nasce a Ribera in Sicilia nel 1818 e muore a Napoli nel 1901.
A 21 anni fonda un giornale letterario l’ORETEO, laureato in legge alla fine del 1845 si trasferisce
a Napoli dove esercitò l’avvocatura facendo da tramite fra gli ambienti liberali della capitale e
quelli siciliani. Scoppiata la rivoluzione a Palermo (12 gennaio 1848) si affrettò a raggiungere
l'isola e prese parte attiva alla guida dell'insurrezione. Qui fonda un suo giornale l’APOSTOLATO.
Inoltre fece parte del Comitato di guerra e fu nella Camera dei Comuni uno dei capi dell’estrema
sinistra democratica e autonomista. Dopo la restaurazione del governo borbonico, 15 maggio 1849,
fu escluso dai benefici dell'amnistia e costretto a rifugiarsi in Piemonte, dove iniziò a collaborare
con i giornali dell’opposizione (Concordia e Progresso). Qui cercò invano di ottenere un impiego
come segretario comunale di Verolengo. Coinvolto nella cospirazione mazziniana di Milano del 6
febbraio 1853, fu espulso dal Piemonte e costretto a rifugiarsi a Malta, fonda anche qui un giornale
“la Valigia” di tendenza unitario-democratica, e mantiene i contatti con alcuni esuli mazziniani.
Proprio per questo fu espulso anche da Malta e nel 1855 lo troviamo a Londra, dove conosce da
vicino Mazzini.

                                    Lo troviamo poi a Parigi e a Lisbona, a continuare la lotta
                                    contro la guerra regia sabauda. Entra due volte in Italia
                                    clandestinamente, e scende in Sicilia per preparare
                                    l’insurrezione. Lui la principale mente politica dell'impresa
                                    Garibaldina dei quot;Millequot;, diventando ad impresa conclusa il
                                    segretario di stato di Garibaldi, e fondando a Palermo un suo
                                    giornale quot;Il precursorequot;; dove sostiene il rinvio dell'annessione
                                    al Piemonte fin quando Garibaldi abbia unito all'Italia, Roma e
                                    le Venezie. Furono proprio questi i motivi che portarono i forti
                                    contrasti con Cavour e con la destra, accentuati quando entrò a
                                    Torino nel nuovo Parlamento nel 1861, distinguendosi come
                                    uno dei maggiori esponenti della sinistra.
                                    Crispi muore a Napoli il 12 agosto 1901.



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IL PRIMO GOVERNO DI CRISPI (1887-1891)

Gradatamente si allontana dal mazzinianesimo, tradì Cattaneo dopo aver pensato a lungo a un'Italia
federale, prese le distanze dal quot;pittorescoquot; Garibaldi, e si avvicina alla monarchia, quando sostenne
nel 1864, che quot;la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbequot;, dichiarando così nel 1865 di
aderire al regime sabaudo, pur rimanendo su posizioni di sinistra.
Il suo momento giunse quando nel 1876, caduta la destra, formato la sinistra il suo primo governo,
lui è presidente della Camera. Per il suo temperamento focoso con i suoi avversari e polemico con i
suoi stessi amici, non lo credevano adatto a quel posto - ma lui fece atto di costrizione e promise di

quot;mantenere la più stretta imparzialità nel presiedere e regolare le vostre discussioni; a destra, a
sinistra, al centro e sui seggi ministeriali io non distinguo partiti, io non riconosco che uomini
devoti al bene della patria comunequot;.

Gli furono affidate alcune delicate missioni all'estero; soprattutto per saggiare la possibilità di
un'alleanza italo-tedesco. L'anno dopo, 1877 riuscì ad entrare nel secondo ministero DEPRETIS
come ministro degli Interni. L'uomo focoso tornò a farsi sentire, rivelandosi come un quot;uomo fortequot;,
uomo di governo di primissimo piano; ma non piacque ai suoi antichi e nuovi nemici che
aspettarono l'occasione buona per abbatterlo. E trovarono l'occasione, scatenando una violenta
campagna di diffamazione per un suo matrimonio nel periodo esule a Malta nel lontano 1854 con
una donna, contratto con un occasionale sacerdote; Crispi si era poi risposato civilmente a Napoli.
Fu accusato di bigamia, si scatenò ad arte l'indignazione contro l'uomo di stato, fu aperto un
procedimento penale, ed alcuni ministri minacciarono di dimettersi in massa se non sarebbe stato
allontanato dal Governo. Crispi si dimise dal governo e da deputato.
Il tribunale ritenne poi non valido quel matrimonio di Malta, chiuse il processo con un quot;non luogoquot;,
e Crispi ritornò al suo posto di deputato, diventando l'infaticato assertore di una politica più
energica, un deluso della politica estera del governo, seguitando ad accusarlo di mediocrità. Poi
nell'82-83, attaccò il quot;trasformismoquot; di Depretis, staccandosi dalla sinistra governativa con un suo
programma definito di quot;pura sinistraquot;, costituendo la quot;Pentarchiaquot;. Ma Crispi, quot;trasformandosiquot;
anche lui, più tardi, il 4 aprile dell'87 pochi mesi prima della morte di Depretis accettò di far parte
del suo ministero come ministro degli interni.
Torniamo al 30 luglio 1887; il giorno dopo la morte di DEPRETIS. Privo del suo capo, il ministero
si dimise; ma il Re respinse le dimissioni e chiamò alla presidenza del Consiglio FRANCESCO
CRISPI, il quale tenne per sé il portafoglio dell'Interno e, prese anche l'interim degli Esteri, dando
subito alla politica italiana, che con il Depretis era stata fiacca, indecisa e incolore, un indirizzo più
preciso, più risoluto e più energico; che alcuni iniziarono a chiamare quot;dittatorialequot;; e, in effetti,
Crispi, in crescendo, rimase sempre di più al di qua del limite fra stato liberale e stato democratico,
finendo da ultimo su posizioni nettamente autoritarie. Non per nulla, dopo i fallimenti degli ultimi
suoi anni, entrato nell'ombra, più tardi Crispi, l'ex uomo della sinistra estrema, acquisterà per le
correnti nazionalistiche e per il fascismo un valore di simbolo e di precursore; compreso il suo
filogermanesimo, il filocolonialismo, l'antifrancesismo, la megalomania e l'autoritarismo dell'quot;uomo
fortequot;.

In questo articolo della quot;Gazzetta dell'Emiliaquot; del 29 giugno 1893, Carducci difende Crispi dalle
disgrazie e dall'accusa di megalomania:

quot;Di Francesco Crispi io sento e penso che è il solo grande uomo di Stato cresciuto dalla
democrazia italiana del 1860, il quale confermandone gli ideali abbia mostrato di saperli attuare:
che venuto al potere nel 1876 o durato di poi avrebbe evitato molti errori alla parte del progresso e
data forza alla patria dentro e fuori: che tardi venuto pure si dimostrò il solo, dopo Cavour, vero
ministro italiano. Megalomania! E' in formula retorica e pedantesca uno sfogo tra invido e pauroso

                                                                                                        3
di animi brevi. Crispi è megalomane come Mazzini, come Vittorio Emanuele, come Garibaldi, che
volevano l'Italia forte e rispettata. Altrimenti, a che averla fatta? La micromania e procomania
vedemmo a che approdino. Per tutto ciò io, che non fui ministeriale mai e fin anzi di parecchi
ministeri repressore talvolta forse oltre il giusto, sono devoto a Francesco Crispi, e auguro e fo voti
che al governo della mia nazione non manchi all'uopo l'animoso e pensoso vegliardo che al genio
di Garibaldi e ai fati d'Italia segnò e aprì termine di unità la Siciliaquot;.



SECONDO GOVERNO (1893-1896)

Dopo le dimissioni di Giolitti, Crispi riprese il potere nel successivo mese di dicembre (1893) e lo
mantenne per circa 3 anni, sino al marzo 1896. Il suo primo pensiero fu il ristabilimento dell'ordine
interno, che egli non perseguì, come Giolitti, cercando di rendersi conto delle reali condizioni del
Paese e di avviare conseguentemente le riforme sociali di cui aveva urgente bisogno; all'opposto,
egli fece ricorso a duri sistemi repressivi e ad atteggiamenti addirittura reazionari specie contro i
socialisti, che di quelle riforme si erano fatti sostenitori ed interpreti.
Considerando infatti le lotte operaie e contadine un attentato all'unità e alla sicurezza dello Stato, un
delitto contro la giustizia oltre che una violazione del legittimo titolo di proprietà, di fronte
all'estendersi di manifestazioni di protesta, Crispi scelse la maniera forte.
l4 gennaio 1894 proclamò lo stato d'assedio in Sicilia: di conseguenza i Fasci di combattimento
furono immediatamente sciolti d'autorità e i loro leaders furono tutti arrestati, mentre all'esercito e ai
tribunali militari veniva affidato il compito di riportare l'ordine nell'isola stroncando definitivamente
il movimento.

Provvedimenti analoghi vennero presi in Lunigiana, dove l'agitazione dei cavatori di marmo,
innescata dalle pesanti condizioni di vita e di lavoro di questi operai, si stava trasformando sotto
l'influenza degli anarchici in un tentativo di insurrezione armata.

Qualche mese più tardi Crispi estese a tutto il territorio nazionale l'attacco al movimento operaio,
decretando lo scioglimento del PSI (Il Partito Socialista Italiano fu un partito politico fondato nel
1892 e operante fino al 1994.) e delle organizzazioni ad esso aderenti. Dopo aver così soffocato
ogni fermento, neppure si preoccupò di dare una soluzione positiva alla crisi, accentuata -oltre che
dall'arretratezza dell'agricoltura- da uno stentato decollo dell'industria e da uno scarso sviluppo
dell'attività commerciale malgrado l'impegno creditizio posto in atto proprio in quegli anni
soprattutto dalle Banche popolari, sorte un po' ovunque per iniziativa di uno statista ed economista
di alto livello quale fu Luigi Luzzatti (Venezia, 1 marzo 1841 – Roma, 29 marzo 1927) è stato un
giurista e economista italiano, che fu Presidente del Consiglio dei Ministri dal 31 marzo 1910 al 29
marzo 1911.

È stato il fondatore della Banca Popolare di Milano e Presidente dello stesso istituto di credito dal
1865 al 1870, oltre ad esserne stato Presidente Onorario dal 1870 al 1927.

Quando ormai tutto sembrava avviato per il meglio, nella colonia Eritrea la situazione iniziò a
deteriorarsi. Il negus etiopico Menelik, una volta consolidatosi sul trono, aveva rotto gli accordi di
Uccialli e, geloso dell'indipendenza del suo Paese e per di più segretamente sollecitato dalla Francia
contraria all'espansione coloniale italiana, aveva dato inizio alle ostilità.

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Rifornito di armi moderne dai Francesi, attraverso il porto di
                                     Gibuti egli aveva lanciato all'attacco, nel febbraio 1895, un
                                     esercito di quasi 100.000 uomini riuscendo a sopraffare
                                     sull'Amba Alagi un presidio italiano al comando del maggiore
                                     Pietro Toselli; poi sempre avanzando verso nord, aveva
                                     costretto alla resa, dopo un assedio di 40 giorni, il presidio di
                                     Macallé agli ordini del maggiore Giuseppe Galliano. Infine
                                     giunto ad Abba Garima nella pianura di Adua, si era scontrato
                                     il 1 marzo 1896 con il grosso delle nostre truppe -poco più di
                                     15.000 uomini al comando del generale Oreste Baratieri-
                                     infliggendo loro una dura sconfitta.
                                     L'esito dello scontro fu determinato sia dalla superiorità
                                     numerica dell'esercito etiopico, sia da gravi carenze logistiche
                                     e di collegamento e da tragici equivoci ed errori compiuti
                                     dallo stesso Baratteri. In seguito a questo grave insuccesso, i
                                     numerosi avversari di Crispi, capeggiati da Felice Cavallotti
                                     (Fu il fondatore, insieme ad Agostino Bertani, del Partito
Radicale storico, movimento attivo tra il 1877 e l'avvento del Fascismo. Cavallotti fu considerato il
capo incontrastato dell'quot;Estrema Sinistraquot; nel parlamento dell'Italia liberale pregiolittiana) e dalla
Sinistra estrema, attaccarono duramente il vecchio statista, il quale non osò neppure affrontare il
Parlamento e si dimise il 9 marzo 1896, scomparendo così per sempre dalla vita politica italiana.


Approfondimento sui fasci siciliani

Sull'esempio dei fasci operai nati nell'Italia centro-settentrionale, il movimento fu un tentativo di
riscatto delle classi meno abbienti, inizialmente formato dal proletariato urbano ed a cui si
aggiunsero braccianti agricoli, quot;zolfataiquot; (minatori), lavoratori della marineria ed operai. Essi
protestavano sia nei confronti della proprietà terriera siciliana, spesso collusa con ambienti mafiosi
che dello stato, che appoggiava apertamente la classe benestante. La società siciliana era allora
parecchio arretrata, il feudalesimo pur se abolito ufficialmente agli inizi del XIX secolo aveva
condizionato la distribuzione delle terre e quindi delle ricchezze. L'unità d'Italia dall'altro lato, non
aveva portato i benefici sociali sperati ed il malcontento covava fra i ceti più umili. Il movimento
chiedeva fondamentalmente delle riforme, soprattutto fiscali ed una più radicale nell'ambito agrario,
che permettesse una revisione dei patti agrari (abolizione delle gabelle) e la redistribuzione delle
terre.

I Fasci furono ufficialmente fondati il 1 maggio del 1891, a Catania e guidati da Giuseppe de Felice
Giuffrida. Il movimento era però nato in maniera spontanea già alcuni anni prima a Messina. A
questo fece seguito il Fascio di Palermo (29 giugno 1892) guidato da Rosario Garibaldi Bosco e la
costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani ( agosto 1892). A questi due fasci se ne aggiunsero
altri e già a fine 1892 il movimento si era diffuso in tutto il resto dell'isola con sedi in tutti i
capoluoghi tranne Caltanissetta. Il 20 gennaio 1893 a Caltavuturo (PA) 500 contadini di ritorno
dall'occupazione simbolica di terre di demanio vengono dispersi da soldati e carabinieri con i fucili
e tredici manifestanti cadono vittime. Al massacro di Caltavuturu seguono numerose manifestazioni
di solidarietà da parte dei Fasci e sul piano nazionale e tendono ad aumentare l'esasperazione dello
scontro sociale.




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1) Il Congresso di Palermo

Il 21 e 22 maggio 1893 si tiene il congresso di Palermo vi parteciparono 500 delegati di quasi 90
Fasci e circoli socialisti. Venne eletto il Comitato Centrale, composto da nove membri: Giacomo
Montalto per la provincia di Trapani, Nicola Petrina per la provincia di Messina, Giuseppe De
Felice Giuffrida per la provincia di Catania, Luigi Leone per la provincia di Siracusa, Antonio
Licata per la provincia di Girgenti, Agostino Lo Piano Pomar per la provincia di Caltanissetta,
Rosario Garibaldi Bosco, Nicola Barbato e Bernardino Verro per la provincia di Palermo

L'apice del movimento fu raggiunto nell'autunno del 1893, quando il movimento organizzò scioperi
in tutta l'isola e tentò un'effimera insurrezione. La società siciliana fu sconvolta, ovunque si ebbero
violenti scontri sociali, ed il movimento dettò le proprie condizioni alla proprietà terriera per il
rinnovo dei contratti.

2) La repressione

In questo contesto il presidente del consiglio Francesco Crispi, nel tentativo di ristabilire l'ordine
ascoltò le sole istanze dei possidenti, ed adottò la linea dura con un intervento militare. Il
movimento fu sciolto e i capi vennero arrestati. Il 30 maggio il tribunale militare di Palermo
condannò Giuseppe de Felice Giuffrida a 18 anni di carcere, Rosario Bosco, Nicola Barbato e
Bernardino Verro a 12 anni di carcere quali capi e responsabili dei Fasci siciliani. L'on. de Felice fu
difeso in sede giudiziaria dall' avvocato siciliano G.B. Impallomeni. Nel 1895 con un'atto di
amnistia venne concessa la clemenza a tutti i condannati in seguito ai fatti dei Fasci siciliani.

Si concludeva in modo violento il primo vero movimento organizzato di lotta alla mafia dei
proprietari fondiari, e di emancipazione delle classi più umili.



POLITICA ESTERA:

Menelik II (Ankober, 17 agosto 1844 - Addis Abeba, 12 dicembre 1913), conosciuto anche come
Sahle Maryam di Shewa, imperatore d'Abissinia (oggi Etiopia) dal 1889 al 1913.

Nel 1889 successe all'imperatore Giovanni IV, unì il territorio dello Shewa a quelli del Tigrè e
dell'Amhara, e firmò con l'Italia il trattato di Uccialli.



La stella indica la città di uccialli

Il trattato di Uccialli fu stipulato fra Italia e Etiopia
il 2 maggio 1889 nell'accampamento del negus
Menelik, re di Etiopia, ad Uccialli; in base a questo
documento il sovrano etiope riconosceva l'Eritrea
come colonia italiana. Vennero stipulate due
versioni del trattato, nelle lingue dei due contraenti,
italiano e amarico; le due versioni differivano nella
stesura dell'articolo 17, nella versione italiana si



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stabiliva che il negus quot;consente di servirsiquot; del governo italiano per quot;tutte le trattative d'affari che
avesse con altri governiquot;, mentre nella versione in amarico si affermava che il negus quot;può trattare
tutti gli affari che desidera con i regni di Europa mediante l'aiuto del regno d'Italiaquot;.

Ne nacque una controversia, poiché l'Italia si ritenne autorizzata a porre il proprio protettorato
sull'Etiopia, in base alla versione italiana, mentre Menelik contestava l'interpretazione, che non gli
era stata chiarita né certo letta dall'ambasciatore d'Italia conte Pietro Antonelli.

Dopo l'incidente di Dogali, nel quale circa trecento Italiani mal condotti in uno sconfinamento
dall'Eritrea vennero annientati dalle forze etiopiche, la situazione precipitò verso un tentativo di
invasione diretta delle truppe del governo di Francesco Crispi. Oltre ventimila italiani ed eritrei,
dopo aver ricevuto messaggi di sollecito del Crispi sotto presione a Roma, attaccarono presso il
colle dichiadane meheret sopra Adua, all'alba del 1° marzo 1896. Di cinque generali piemontesi ben
riconoscibili per le casacche bianche, tre furono fatti prigionieri, due morirono, l'esercito invasore
messo in rotta nel volgere di una giornata.


1) QUESTIONE BULGARA

Una delle questioni di politica estera che il DEPRETIS aveva lasciato insolute era quella bulgara. Il
7 luglio l'Assemblea bulgara aveva eletto proprio re il principe FERDINANDO di Sassonia
Coburgo-Gotha, il quale era sostenuto dall'Austria e dall'Inghilterra ed osteggiato dalla Russia e
dalla Francia. Crispi, la cui politica tendeva ad isolare la Francia in Occidente, a sottrarre i Balcani
all'influenza Russa, cercò di rovesciare il segno decisamente difensivo della Triplice Alleanza in
direzione offensiva, così da farne un utile sostegno all’espansione italiana nel Mediterraneo. Si
schierò apertamente a favore del Coburgo e propose alla Gran Bretagna una convenzione militare
per il caso di un intervento armato. Anche il tedesco BISMARCK voleva rafforzata la Triplice
Alleanza e nella stessa estate del 1887 tempestivamente fece sapere a CRISPI per mezzo
dell'ambasciatore italiano a Berlino che desiderava molto rivederlo, ma che non osava invitarlo, per
non mancar di riguardo al Re. CRISPI -che aveva una grande e ostentata ammirazione per il
cancelliere germanico- aderì subito al desiderio e, dopo avere conferito con il re il 28 settembre a
Monza e il 29 a Milano, partì per la Germania.

2) VISITA DEL CRISPI A BISMARCK

Il 1° ottobre CRISPI era a Friedrichsruh, ospite gradito della famiglia del BISMARCK e vi si
trattenne tre giorni. Il 2 ottobre, il cancelliere, parlando della politica tedesca, disse che il suo paese
desiderava la pace, ma che due sole potenze europee, la Francia e la Russia, dimostravano di non
volerla. Quanto a quest'ultima potenza Bismarck dichiarò che a lui poco importava che andasse a
Costantinopoli, che anzi ne era contento perché si sarebbe indebolita. Ma il Crispi non la pensava
così.

quot;Non possiamo permettere - rispose - che la Russia vada a Costantinopoli. La Russia a
Costantinopoli sarebbe padrona del Mediterraneo .... Codesto grande impero, allargando il suo
dominio in Europa, potrebbe farne una sua base, imperando facilmente sull'Oriente e sull'Europa.
Ad impedire che questo avvenga l'Italia segue la sua politica tradizionale. Nel 1854 Cavour
concorse alla guerra in Crimea unendosi alla Francia ed all'Inghilterra, proprio per questo scopo,
e oggi l'Italia non potrebbe fare altrimentiquot;.




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E aggiungeva:

quot;In aprile noi potremo mettere mezzo milione di soldati in prima linea, oltre la riserva e la
territoriale. Il nostro paese è tranquillo; noi non temiamo partiti sovversivi. I nostri
internazionalisti sono rari e non verrebbero mai all'azione. In caso di spedizione all'estero potremo
fare i maggiori sforzi, perché all'interno non avremo da temere delle insurrezioniquot;.

Dopo aver parlato della questione bulgara, e del proposito del Governo italiano di vendicare Dogali,
CRISPI accennò alle sue preoccupazioni prodotte dal probabile contegno della Francia:

 quot;Io voglio sperare - disse - che la Francia starà tranquilla, ma dovrò osservare che i trattati del
1882 e del febbraio 1887 sono incompleti. Si previdero le ipotesi del concorso reciproco di una
delle due potenze in caso di una guerra; ma non si pensò a fare una convenzione militare, e che io
ritengo sia necessaria. Nessuno può sapere né quando né come scoppierà la guerra. Può essere un
fatto improvviso; e non si deve attenderlo per metterci d'accordo nella parte che ciascuno di noi
dovrà prendere alla difesa comune. Giova stabilire al più presto un piano di difesa e di offesa,
prevedendo tutte le ipotesi, affinché scoppiata la guerra, ciascun di noi sappia quello che deve fare.
Insomma una convenzione militare è completamento ai trattati di alleanzaquot;.

Infine CRISPI parlò della situazione in cui si trovavano gl'Italiani ancora soggetti all'impero austro-
ungarico.

 quot;Io non domando - disse - privilegi per la popolazione italiana. Domando solo che sia trattata
come tutte le altre nazioni dell'Impero. Il governo austriaco ci guadagnerebbe, perché toglierebbe
ogni motivo a lagnanze e se la renderebbe amica. V. A. non può comprendere quale danno derivi
dai cattivi trattamenti ed in quale imbarazzo l'Austria metta il governo italiano. Tutte le volte che
giungono in Italia notizie di violenze fatte agli Italiani dall'Austria, il sentimento nazionale si
ridesta ed i partiti politici se ne valgono di pretesto per turbare la pace pubblicaquot;.

La visita di Crispi a Bismarck sollevò le critiche di quanti sostenevano un riavvicinamento alla
Francia e suscitò il più vivo malumore nella vicina repubblica, ma aumentò paradossalmente il
prestigio al Primo Ministro italiano, il quale, non poteva e non doveva fare una politica amichevole
verso la potenza che aveva inflitto all'Italia le recenti umiliazioni, e aveva cercato di chiudere alla
stessa ogni via di espansione nel Mediterraneo.


3) APPORTI FRA L'ITALIA E LA FRANCIA - INCIDENTI ITALO-FRANCESI -

Peggiori erano i rapporti tra la Francia e l'Italia. Nonostante le buone accoglienze al discorso di
Torino, la Francia non poteva perdonare all'Italia la politica a lei ostile in Oriente e soprattutto la
sua antifrancese alleanza con gl'imperi centrali e non tralasciava occasione per manifestare il suo
malanimo, provocando incidenti che potevano portare ad un conflitto armato. Il primo di questi
incidenti avvenne nel dicembre del 1887. Essendo morto a Firenze un suddito tunisino, il console
francese aveva chiuso nel proprio archivio, tutti i titoli che riguardavano la successione. Il pretore
del 1° mandamento di quella città, con mandato del tribunale, forzò la porta del Consolato e
s'impossessò dei documenti che contenevano l'eredità del suddito tunisino. L'atto del magistrato
provocò vivaci proteste della Francia, ma CRISPI si rifiutò di dare le soddisfazioni che chiedeva,
mostrando che l'operato del console era stato illegale perché tra l'Italia e la Reggenza Tunisi vigeva
sempre il trattato del 1868, che riconosceva la competenza dei tribunali italiani.
Il secondo incidente, si verificò nella primavera del 1888. Il 30 maggio aveva il comandante delle
truppe italiane a Massaua imposto a tutti i proprietari d'immobili e a tutti i commercianti italiani e

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stranieri una piccola tassa mensile, che due francesi, spalleggiati e forse aizzati dal MERCINIER,
console francese, non vollero pagare. CRISPI intervenne e ordinò alle autorità militari d'Africa, di
non considerare il Mercinier quale rappresentante della Francia, perché sfornito di regolare
exequatur; poi portò la questione davanti alle cancellerie delle grandi potenze europee, dimostrando
che la tesi del governo francese - il quale sosteneva che l'Italia non aveva diritto d'imporre tasse agli
stranieri perché vigevano a Massaua le capitolazioni - era sbagliata, essendo effettiva la sovranità
italiana su quella città e non essendo possibili le capitolazioni in un paese musulmano amministrato
da una potenza cristiana.
L'occupazione italiana di Zula, avvenuta il 4 agosto del 1888, suscitò proteste da parte della
Francia, la quale diceva di vantare diritti su quelle terre; ma su questo punto il governo francese non
ritenne d'insistere troppo e la cosa finì lì.
Più grave fu invece l'incidente avvenuto nel settembre del 1888 a Tunisi. Il Bey (dal turco Beg,
ossia quot;signorequot;) con la firma del rappresentante francese, aveva promulgato due leggi: con la prima
sottoponeva le scuole italiane all'ispezione del rappresentante della Francia, rendeva obbligatorio
l'insegnamento della lingua francese e imponeva condizioni arbitrarie a quegli insegnanti italiani
che avessero voluto aprire scuole private; con la seconda, proibiva le associazioni non autorizzate.
Contemporaneamente il Crispi informò i gabinetti di Londra, Berlino e Vienna, sostenendo che le
leggi del Bey non potevano essere applicate agli Italiani essendo Tunisi un paese a capitolazione. Il
21 ottobre, avendo il ministro degli Esteri francese GALLET dichiarato che i reclami italiani
costituivano delle provocazioni, CRISPI rispose:

quot;In verità, il signor Gollet vuole ripetere la favola del lupo e dell'agnello, ed io non intendo
prestarmi a fare la parte dell'agnello .... Il provocatore è colui che ci ha offesi e noi siamo i
provocatiquot;.

 Fu così che il buon diritto dell'Italia fu riconosciuto.
Ancora dal 15 dicembre del 1886, in seguito a voto parlamentare, era stato denunciato dal governo
italiano per il 31 dicembre del 1887 il trattato di commercio italo-francese. Nel denunciarlo, il
governo italiano dichiarava di esser disposto ad aprire i negoziati per un trattato migliore. Nei primi
del settembre del 1887 fu mandato a Parigi l'on. BOSELLI (Enrico Boselli (Bologna, 7
gennaio 1957) è un politico italiano. È segretario e leader nazionale dei Socialisti Democratici
Italiani (SDI) sin dall'atto di costituzione del partito, avvenuto il 10 maggio 1998.) per accordarsi
con il presidente dei ministri ROUVIER e alla fine del mese giunsero alla capitale francese i
negoziatori italiani onorevoli BRANCA, ELLENA e LUZZATTI, che però non conclusero nulla.
Verso la fine di dicembre i negoziati furono ripresi a Roma, ma neppure qui si concluse qualcosa di
positivo, e nei primi di febbraio i delegati francesi MARIO e TEISSERENC de BORT partirono.
Significative furono le parole di quest'ultimo, nel congedarsi, con l'on. ELLENA:

quot;Finché sarete nella triplice non sarà possibile un accordo commerciale tra l'Italia e la Franciaquot;.

Il 27 febbraio 1888 furono rotte le relazioni commerciali tra i due Stati e due giorni dopo il governo
italiano dovette applicare le tariffe generali e differenziali, a partire dal 1° marzo successivo.
Per ritorsione il governo di Parigi inpose a sua volta dazi quasi proibitivi ai prodotti italiani.
Quello stesso giorno CRISPI, dando comunicazione alla Camera delle trattative non riuscite con la
Francia, dichiarò:

quot;In ogni guerra, ci sono morti e feriti, e morti e feriti ci possono essere pure nelle battaglie
economiche. Tuttavia un popolo forte non si scoraggia perciò noi dobbiamo guardare allo scopo,
al fine che ci siamo posti dinanzi: ebbene, questo scopo, questo fine è tale che merita tutti i nostri
sforzi, e sono sicuro che sapremo raggiungerlo. Dopo aver conquistato l'indipendenza nazionale;
dopo esser diventati politicamente un grande Stato, certo dei suoi destini, bisogna che ci

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rafforziamo anche economicamente e finanziariamente per renderci indipendenti dalle altre
nazioniquot;.

Enorme fu il danno che la lotta economica con la Francia causò all'Italia e in modo speciale alle
province del Mezzogiorno, e non meno grande fu il danno finanziario. Fu fatta una campagna
accanita ed infame in Francia contro le azioni italiane, che nella borsa di Parigi erano
sprezzantemente chiamate quot;macaroniquot;; furono ritirati i capitali francesi investiti nella Penisola; nei
giornali francesi fu descritta l'Italia come il paese più miserabile. Fu talmente spietata la lotta contro
i titoli italiani che CRISPI fu costretto a invocare tramite BISMARCK l'intervento dell'alta banca
germanica, consigliato anche da MAGLIANI (Agostino Magliani, senatore del Regno e politico
italiano. Fu Ministro delle Finanze del Regno d'Italia in parecchi Governi di Benedetto Cairòli,
Agostino Depretis e Francesco Crispi.) che suggerì di quot;ricomprare sul mercato di Parigi quanto più
sia possibile le azioni italianequot; e di quot;indurre le Banche tedesche a scontare gli effetti cambiari del
commercio italiano, mostrando di avere in noi la fiducia che la Francia ci nega nel momento
attualequot;.

La batosta fu grossa per l'agricoltura; ma bisogna dire che una crisi agraria era già in atto su scala
europea fin dal 1880; più accentuata in Italia dovute alle condizioni di arretratezza dell'economia
italiana. Già l'anno prima, nell'87, in Italia era stata approvata la nuova tariffa generale che
aumentava in modo rilevante i dazi protettivi applicati all'importazione di alcuni prodotti agricoli e
della maggior parte di quei beni che potevano essere invece prodotti dall'industria nazionale. Ma fu
un'applicazione anomala, perchè quasi esentava dal dazio le materie prime necessarie alle grandi
industrie, mentre invece colpiva le importazioni di prodotti agricoli, come i cereali, lo zucchero,
ecc. L'intenzione buona era quella di incentivare i due settori, per soddisfare la domanda interna
senza far ricorso alle importazioni. Mentre invece solo un settore si avvantaggiò.
Storicamente è ricordata come quot;scelta protezionisticaquot;, votata alla Camera il 24 giugno 1887 con
199 voti a favore e 37 contrari; al Senato il 10 luglio con 69 a favore e 12 contro. Su questa scelta, e
sul ruolo svolto nello sviluppo economico italiano, alcuni economisti e storici si sono divisi. I più
concordano nell'attribuirgli una funzione essenziale per l'affermazione e il consolidamento di alcune
attività industriali (quasi interamente a favore dei grandi gruppi nati o operanti nel Nord Italia -
tessile, siderurgico, chimico ecc.), altri ritengono che abbia avuto dei risvolti negativi, in quanto
sacrificò l'agricoltura e soprattutto tutte le culture specializzate dell'Italia meridionale. In queste
condizioni, aggiuntasi poi la quot;batostaquot; francese (chiudendo per rivalsa le sue importazioni
dall'Italia) causò un danno ancora maggiore al settore agricolo, e in particolare al meridione le cui
esportazioni verso la Francia erano piuttosto consistenti. Nè ebbe il meridione quelle attenzioni, che
invece la Germania riservò alle industrie italiane del nord; e paradossalmente anche il meridione i
suoi utili preferì investirli nel nord, consolidando quell'alleanza degli agrari del sud con la borghesia
industriale del nord che si era già stabilita in seguito al processo di unificazione.


In questo frangente delle ritorsioni francesi, a favore dell'Italia intervenne il sindacato formato dal
banchiere BLEICHROEDER, dalla Deutsche Bank e dall Discontogeselleschaft, che arrestò la
discesa delle azioni italiane alla borsa di Parigi. L'anno seguente, essendo ricominciata l'offensiva
francese contro la valuta italiana, furono ancora le banche tedesche a sostenere il credito del
consolidato italiano. Per meglio tutelare il credito nazionale, nell'estate del 1890, il governo Crispi,
favorì la creazione dell'quot;Istituto Italiano di Credito Fondiarioquot; cui contribuì anche con capitali
propri un sindacato tedesco; e nel 1894, sotto la spinta dello statista siciliano, sorse la quot;Banca
Commerciale Italianaquot; con capitali germanici. Guidata da tre ebrei, questi si lanciarono sugli
investimenti della grande industria italiana, soprattutto siderurgica. Ma dovettero con non poca
fatica conciliare la redditività in Italia dei loro patrioti, con le pressioni delle forze politiche italiane
tese a favorire solo alcuni grossi gruppi. Tuttavia riuscirono a far decollare quelle industrie

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siderurgiche impegnate negli armamenti. Paradossalmente le stesse industrie che poi, nella Grande
Guerra, contribuirono a fornire le armi per combattere la stessa Germania.



                                      Francesco Crispi

                      La politica estera tra cinismo e avventurismo
                                           (1887)

Nota


Questo discorso di fronte al Parlamento, tenuto dal presidente del Consiglio Francesco Crispi,
mostra chiaramente il cinismo e l'immoralità su cui si basa la politica estera dello stato
italiano. Il nazionalismo nei Balcani viene incoraggiato (può tornare utile) mentre ci si
prepara a nuove aggressioni in Africa. Su tutto domina l'arroganza che porterà alle solite
avventure criminali (espansionismo coloniale) seguite, come d'abitudine, da disfatte militari e
politiche.

Io vado, pel mio paese, altero di ricordarlo, poiché mai, in una unione completa e
cordiale come quella dell'Italia e de' suoi alleati, è stata tanto rispettata la sua
dignità, sono stati tanto garantiti i suoi interessi .


Ma, oltreché con le alleanze, proseguiamo l'intento della pace col volere la giustizia.
Ciò vi spiega, o signori, la nostra politica in Oriente. Ivi ciò che domandiamo è il
rispetto dei diritti dei popoli, conciliato, in quanto è possibile, col rispetto dei
trattati che formano il diritto pubblico europeo; ciò che speriamo è lo sviluppo
progressivo delle autonomie locali. Si hanno, nella penisola dei Balcani, quattro
nazionalità distinte, ciascuna avente la sua lingua, la sua sede secolare, le sue
tradizioni antichissime, e - ciò che è più - la coscienza della propria individualità
come nazione e l'aspirazione alla indipendenza. Ebbene, questi popoli che anelano,
come ogni ente, a vita libera, aiutiamoli a riprendere possesso di loro stessi, senza
lotte, senza spargimento di sangue, senza nuovi martiri. Non è questa la politica più
degna d'Italia, più conforme alle sue origini ed a' nostri principi? E riflettete, o
signori: questa non è soltanto politica di principi e di sentimenti, è altresì politica
d'interessi ben intesi. I popoli balcanici, che colà rappresentano la giovinezza con le
sue inesperienze, ma anche l'avvenire con le sue speranze e le sue forze, non
dimenticheranno l'aiuto disinteressato che l'Italia avrà loro prestato [. . .].

Pace vogliamo adunque, ma con onore, poiché poniamo l'onore più in alto che non
siano i benefizi della pace stessa. Ed è per ciò che, mentre abbiamo lavorato ad
assicurarla in Europa, ove hanno sede i supremi nostri interessi, ed abbiamo
provveduto a che non ne sia turbato a nostro danno l'equilibrio, né sulla terra, né
sul mare, prepariamo armamenti in Africa, dove la ingiustificata aggressione di un
popolo semibarbaro ha condotto a gloriosa morte cinquecento dei nostri soldati.
L'offesa vuole degna riparazione, e l'avremo. Importa che su quella terra d'Africa
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dove, o bene o male - è vano ormai ricercarlo - ci siamo insediati, il prestigio del
nome italiano sia mantenuto illeso, e, quando offeso, sia vendicato. La nazione non
ha guardato a sacrifizi, ed ha fatto bene. Non vogliamo avventure, non guerre di
conquista, che anzi condanniamo apertamente. Nostra ambizione è che l'Italia si
rifaccia e s'espanda là dove spontaneamente vanno i suoi figli, non soltanto cacciati
dalla transitoria miseria, ma consigliati dai più facili guadagni, attirati dalle ospitali
simpatie, tormentati nobilmente da quella febbre dell'ignoto, che ha già fatto
misurare dai navigatori italiani, allargare dagl'italiani mercanti i confini del mondo
conosciuto. Ma vogliamo che là, in Africa, tra i due domini vicini, sia, secondo
giustizia, stabilita una demarcazione che non si possa impunemente varcare a
braccio armato. Il confine che vogliamo è quello che strategicamente è necessario
alla sicurezza dei nostri possedimenti ed al benessere dei nostri presidi. Una volta
ottenuto e questo confine e la riparazione dovutaci, saremo lieti di aprire la nostra
frontiera alle merci, alle derrate, ai prodotti nostri e dell'Abissinia, onde avviare fra
i due paesi quella doppia corrente di scambi che per l'avvenire ci può ripromettere
non scarsi compensi. Ma l'offesa va anzitutto riparata, e poiché il valore dei quot;leoniquot;
italiani non fa più dubbio, ormai per gli Abissini, bisogna che acquistino dell'Italia
come nazione un concetto adeguato e che la luce della nostra potenza li abbagli.
Vittorio Emanuele, che fu il patriottismo incoronato, lasciò morendo per
testamento agl'Italiani, che l'Italia deve essere, non rispettata soltanto, ma temuta.
E temuti ed amati intendiamo essere ad un tempo da tutti.



                                (da Francesco Crispi, Scritti e discorsi politici, 1849-1890)




POLITICA INTERNA:

Convinto avversario del parlamentarismo e delle quot;astrattequot; ideologie liberali, egli svolse fra il 1887
e il 1896 una lunga pratica di governo, che può essere divisa in due fasi ben distinte. Iniziata
nell'agosto del 1887 e conclusa nel 1891, la prima fase fu contraddistinta da un indirizzo in buona
parte diverso rispetto a quello seguito da Depretis. Sotto la sua direzione la trasformazione dello
stato, già avviata nell'epoca del trasformismo, giunse a una compiuta maturazione: lo stato fu
concepito come uno strumento finalizzato alla politica di potenza e all'estensione del prestigio
internazionale e, in quanto tale, legittimato ad esercitare una dura pressione sulla società civile.

In questo intreccio di autoritarismo e imperialismo emergeva il segno delle crescenti difficoltà
incontrate dalla nascente nazione italiana in una fase di pesante congiuntura economica e politica.
L'aggravarsi della crisi agraria, l'espandere della crisi edilizia e i fallimenti della banche più esposte
nel settore delle costruzioni, le difficoltà dell'industria, favorite anche dalla quot;finanza allegraquot;
praticata negli anni precedenti dal ministro Agostino Magliani, avevano creato una situazione di
acuta tensione sociale, caratterizzata da scioperi e tumulti nelle città e nelle campagne. Inoltre la
difficile situazione internazionale e i fallimenti della spedizione militare nel Mar Rosso andarono
accentuando il clima di malessere e di frustrazione rischiando di ridare fiato ai gruppi irredentisti.

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A ciò si aggiungeva la crisi istituzionale approfonditasi negli ultimi anni del governo Depretis con il
rafforzamento di quel che la destra definì il quot;mostruoso connubioquot; tra accentramento e
parlamentarismo, che comportava una sempre più estesa invadenza del personale politico (deputati
e autorità di governo) nelle questioni amministrative e una pericolosa degenerazione clientelare.
Influiva inoltre sul nuovo modello politico, il carattere quot;strutturalequot; che andava assumendo il blocco
sociale protezionista industriale-agrario, interessato ad una politica di potenza e di riarmo.

L'attività di governo di Crispi si orientò subito verso una profonda riforma dello stato, una
connotazione in senso aggressivo delle alleanze internazionali e una decisa espansione coloniale in
Africa. Nel periodo dei primi due ministeri da lui presieduti, fu approvato un elevato numero di
provvedimenti legislativi di grande importanza al fine di completare l'opera di accentramento dello
stato già avviata negli anni precedenti. L'ordinamento e la funzione dei prefetti dipesero dal governo
centrale in misura superiore al passato, e si configurarono come strumento di controllo politico del
potere centrale nella periferia.

Con la legge del 12 febbraio 1888 sul riordinamento dell'amministrazione centrale dello stato
furono rafforzati i poteri dell'esecutivo rispetto al parlamento e quelli del presidente del consiglio
all'interno del governo.

Con la riforma sanitaria del 22 dicembre 1888, al vecchio concetto della quot;carità legalequot; subentrò il
moderno principio dell'interesse pubblico alla tutela della salute dei cittadini, anche se ciò fu
realizzato nell'ambito di una concezione che vedeva l'attività di prevenzione e di intervento sanitario
più come un'attività di polizia che non di assistenza. Appartiene a questo periodo la riforma del
codice penale (1889), rimasta legata al nome del ministro della giustizia Giuseppe Zanardelli. Essa
prevedeva tra l'altro:

      1. il tacito riconoscimento dello sciopero, che, non risultando menzionato dal nuovo testo
         legislativo, non poteva essere più considerato illegale e come tale vietato;
      2. l'abolizione della pena di morte e la sua sostituzione con l'ergastolo per i reati più gravi: il
         che poneva l'Italia al primo posto tra le nazioni civili nella pratica attuazione di quanto
         Cesare Beccaria aveva sostenuto nel '700.

Non meno importante fu anche -quale prima concreta soddisfazione offerta alle aspirazioni e alle
richieste dei partiti democratici- la nuova legge comunale e provinciale del 10 febbraio 1889. Essa
estendeva l'accesso ai consigli comunali ai rappresentanti della minoranza fino ad allora esclusi in
quanto tutti i posti in consiglio venivano riservati alla lista vincente, e istituiva la nomina del
presidente delle Amministrazioni provinciali da parte non più del prefetto bensì dei consiglieri
eletti; parimenti i sindaci dei comuni con più di 10.000 abitanti furono eletti dai Consigli Comunali
e non più investiti da un Regio Decreto su designazione di un prefetto.

Il Testo Unico del 28 marzo 1895 determinando un sensibile aumento del numero degli elettori e
dei deputati da eleggere, contribuì ad avvicinare le classi popolari alla vita pubblica e a favorire la
nascita di formazioni politiche decisamente più democratiche rispetto a quelle del recente passato.
Inoltre al fine di dare una struttura più organica e accentrata allo stato, fu unificata la Corte di
Cassazione; venne istituita una quarta sezione del Consiglio di Stato, con funzioni non
semplicemente consultive come le prime tre, bensì giurisdizionali; fu organizzato il corpo delle
guardie di Pubblica Sicurezza allo scopo evidente di consolidare l'esecutivo, la cui inefficienza ed
incisività rispondeva pienamente a una concezione borghese dello stato, ampiamente diffusa tra i
politici del tempo a qualunque gruppo appartenessero.



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Schematicamente:

● Legge del 12 febbraio 1888 sul riordinamento dell’amministrazione centrale dello stato furono
rafforzati i poteri dell’esecutivo rispetto al parlamento e quelli del presidente del consiglio
all’interno del governo.

● Legge del 19 novembre del 1887 sul voto delle donne. Due proposte furono respinte, quella di
SALANDRA che voleva il suffragio universale amministrativo, e quella degli onorevoli PERUZZI
e PANTANO che volevano fosse concesso il quot;voto amministrativo alle donnequot;. Opponendosi a
quest'ultima proposta, CRISPI disse:

quot;Per me la donna, regina dei cuori finché resterà estranea alle lotte della pubblica cosa, non sarà
più il tesoro delle famiglie, non sarà la provvidenza e la previdenza del marito e dei figli se la
caccerete nella politica. Sensibile ed impressionabile, com'è, non potrebbe avere sempre la mente
serena e tranquilla, qualora si occupasse della cosa pubblica. Amante ed amica, essa è un
conforto; è per noi, quando dalla lotta politica, dai contrasti dell'aula parlamentare, ritorniamo
nelle nostre, famiglie, per avere pace e tranquillità, per assicurarci quella calma, che ci fu turbata
in tutto il giorno, per trovare quel riposo al quale abbiamo diritto, sarebbe una grande sventura, o
signori, che ricominciassero, entrando in casa, i contrasti e le lotte D'altra parte, quando voi
distaccate la donna dalla famiglia e la gettate nella pubblica piazza voi fate, o signori, della donna
non più l'angelo consolatore della famiglia ma il demone tentatore. Né voglio io ricordare
l'influenza possibile dei confessionali; è un tema che abbiamo trattato abbastanza per doverci
ritornare sopraquot;.

● Legge del dicembre del 1888, fu approvata inoltre, la legge che regolava l'emigrazione

● Legge del 22 dicembre 1888 venne approvata la legge destinata a tutelare la sanità pubblica e
l'igiene. A proposito di quest'ultima legge, è importante il regolamento per la prostituzione, con il
quale si tentò di giovare alla salute pubblica e di difendere il buon costume.

● Altre riforme, dovute queste allo ZANARDELLI, furono l'abolizione dei tribunali di commercio
e l'unificazione a Roma della Cassazione penale. Anche la legislazione penale fu unificata e il 22
novembre del 1888 il ministro Zanardelli fu autorizzato dal Parlamento a pubblicare il nuovo codice
penale che il re sanzionò il 30 giugno del 1889 ed entrò in vigore il 1° gennaio del 1890.
Il nuovo codice penale prevedeva:
1) il tacito riconoscimento dello sciopero.
2) l’abolizione della pene di morte e la sua sostituzione con l’ergastolo per i reati più gravi.

● Legge del 10 febbraio 1889, essa estendeva l’accesso ai consigli comunali ai rappresentanti della
minoranza fino ad allora esclusi in quanto tutti i posti in consiglio venivano riservati alla lista
vincente, e istituiva la nomina del presidente delle amministrazioni provinciali da parte non più del
prefetto bensì dei consiglieri eletti.


I RAPPORTI FRA LA CHIESA E LO STATO

Tra la Chiesa e lo Stato, fallito il vago tentativo di riconciliazione narrato nel precedente capitolo, i
rapporti s'inasprirono ancora di più. L'Italia ufficialmente non partecipò alle feste del Giubileo, ma
il Governo non fece nessuno atto poco riguardoso verso la Santa Sede, ma fece sì che l'ordine
pubblico non fosse turbato e il Re, anzi, mandando al sindaco di Roma il quot;solitoquot; telegramma per il
20 settembre (Breccia di Porta Pia), aveva alluso alla quot;fausta ricorrenzaquot; giubilare.

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Ingannato da quest'espressione, il duca di Torlonia, sindaco di Roma, ritenne suo dovere, quale
rappresentante di una città che era la capitale del Cattolicesimo, di rendere omaggio al Capo della
Chiesa e si recò dal cardinale vicario pregandolo di porgere le proprie congratulazioni al Pontefice.
Il cardinale restituì la visita. Appresa la notizia, Crispi propose al Consiglio dei Ministri, che
accettò, di rimuovere dall'ufficio il Torlonia; e per questo suo provvedimento ebbe lodi da più parti.


Questo fatto, naturalmente, contribuì a tendere di più i rapporti fra la Chiesa e lo Stato, che
divennero ancor più aspri quando si discussero in Parlamento gli articoli del nuovo codice penale
che contenevano disposizioni contro gli abusi del Clero. Proteste vivaci mossero i vescovi del
Mezzogiorno, dell'Umbria, della Toscana e del Veneto che si lanciarono in vivaci proteste; il
Pontefice protestò pure lui nel Concistoro del 1° giugno del 1888, dichiarando che quelle
disposizioni offendevano la libertà e la dignità del clero e della stessa Chiesa; ma tutto fu inutile.
Crispi si rianimò del suo anticlericalismo rendendo di nuovo particolarmente acuta la tensione fra
Stato e Chiesa:

fu abolito l’insegnamento religioso nelle scuole primarie ad opera del ministro della pubblica
istruzione Paolo Borselli;
le istituzioni di beneficenza (le cosiddette “opere pie”) furono sottratte alla sorveglianza delle
autorità ecclesiastiche e vennero da allora in poi amministrate da autorità civili e controllate dai
prefetti;
fu istituita la punibilità per i ministri del culto che si fossero comportati in modo sleale ed
oltraggioso nei confronti dello stato e ei suoi legittimi rappresentanti;
infine nel 1889 nel campo dei fiori a Roma fu eretto un monumento a Giordano Bruno simbolo
dell’inconciliabilità fra pensiero laico e pensiero religioso.

Dopo che il movimento cattolico era stato colpito da Crispi, si assistette all’ingresso dei cattolici
nella vita politica e sociale della nazione. In realtà, tenuto conto del divieto del Papa Pio IX (non
expedit) ai fedeli di partecipare alla vita politica, l’azione cattolica si sviluppò prevalentemente al
campo sociale.
Il 15 maggio 1891 il Papa leone XIII emanò l’enciclica Rerum Novarum nella quale veniva
riconosciuta l’esigenza di una più equa distribuzione della ricchezza e anche la legittimità per i
lavoratori di riunirsi ed organizzarsi in sindacati; per questo il movimento cattolico ebbe un
notevole aumento degli aderenti.


CESSA LA MEGALOMANIA CRISPINA

L'Italia non aveva una struttura produttiva e un'organizzazione militare adeguate a sostenere una
politica estera aggressiva; in tali condizioni la politica di CRISPI risultò piuttosto avventurosa che
aggressiva. La sconfitta di Adua spense sul nascere ogni velleità di grande potenza e fino alla
Guerra di Libia la classe dirigente del Regno ritornò ad una politica estera più tradizionale.

Gli obiettivi principali dei governi succeduti a Crispi furono la liquidazione del fallimentare
tentativo coloniale e il riavvicinamento alla Francia, pur senza modificare i rapporti di alleanza che
legavano l'Italia alla Germania e all'Austria-Ungheria. Una politica estera di pace e di amicizia,
dopo l'infelice parentesi della quot;megalomaniaquot; crispina.
Parlando alla Camera nel 1897, GIOLITTI sostenne che il disastro della politica estere crispina era
da addebitare alla quot;sproporzione tra il fine che si vuole raggiungere, ed i mezzi che si vogliano
adoperarequot;.


                                                                                                    15
Gli uomini politici più realistici erano pienamente consapevoli che l'Italia non era in grado di
competere con le altre potenze europee nella conquista di imperi coloniali che richiedeva forze
economiche e militari e non soltanto velleitarismo. All'Italia, ultima delle grandi potenze europee,
superata anche da Giappone e Stati Uniti, non restava altra, realistica, possibilità che di affermare il
suo modesto prestigio e di difendere i suoi interessi con una politica moderata. In questa direzione
si mossero i ministri degli esteri che si succedettero dopo Crispi: Visconti-Venosta, Canevaro,
Prinetti, Tittoni, Di San Giuliano, Guicciardini.
Visconti-Venosta, che era stato ministro degli esteri dal 14 dicembre 1869 fino al 18 marzo 1876;
cioè fino alla caduta delle Destra, tornò agli Esteri con di RUDINI' e vi restò fino al febbraio 1901,
salvo una parentesi dal 1 giugno 1898 al 14 maggio 1899. Visconti-Venosta, a suo tempo, si era
opposto all'alleanza con la Germania, era pertanto l'uomo giusto per operare un riavvicinamento e
una riconciliazione con la Francia, dopo i rapporti di ostilità nel periodo crispino. Visconti-Venosta
liquidò anche l'altra eredità crispina, la politica coloniale:

quot;le imprese coloniali non si possono considerare indipendentemente dalle condizioni e dai mezzi
che sono loro necessari per renderle possibili e proficue. Queste condizioni e questi mezzi sono
l'iniziativa ed il concorso del capitale privato, una bilancia dello Stato che conceda le spese
necessarie perché le occupazioni coloniali non rimangano sterili e senza valore, e soprattutto
l'appoggio del paese, perché, se vi è una politica che per essere seriamente condotta e praticata
richiede il favore dell'opinione pubblica, questa è la politica coloniale. Se queste condizioni
mancano, allora, tra l'obbiettivo che si persegue e i mezzi con cui si persegue sorge un contrasto
alle cui spine un paese si espone a lasciare qualche brano del suo prestigio e della sua dignitàquot;.

Visconti-Venosta diede un quot;colpo di timonequot; alla politica estera:
con gli accordi del 21 novembre 1896 portò a soluzione la questione tunisina e con il trattato
commerciale del 21 novembre 1898 pose fine alla decennale guerra doganale fra i due paesi;
avviò trattative per definire la questione della Tripolitania e delle Cirenaica, allo scopo di ottenere
garanzie per un'eventuale espansione dell'Italia nelle uniche regioni dell'Africa mediterranea ancora
libere dal dominio imperialista anglo-francese e rimaste fuori delle sfere di influenza definite con
gli accordi del 21 marzo 1899 dopo la crisi di Fashoda fra Francia ed Inghilterra.
Visconti-Venosta trovò un interlocutore ben disposto nell'ambasciatore francese a Roma, Camillo
Barrère. Gli obiettivi di Visconti-Venosta e di Barrère coincidevano su un punto fondamentale, cioè
sull'affermazione del carattere difensivo che doveva avere la Triplice Alleanza e la possibilità per
l'Italia di avere, all'interno di essa, una certa libertà nei rapporti con la altre potenze europee. A
differenza di quanto avevano cercato di ottenere i suoi predecessori, il diplomatico francese non
fece alcuna pressione per costringere l'Italia a lasciare la Triplice ma si adoperò affinché l'alleanza
perdesse qualsiasi carattere antifrancese, implicito o esplicito. Su questo orientamento Barrère trovò
favorevoli non solo Visconti-Venosta ma anche Zanardelli e Prinetti, successo al Visconti-Venosta,
rimasto in carica dal febbraio 1901 all'aprile 1903, quando fu costretto a dimettersi per motivi di
salute.
Giulio Prinetti, un ricco industriale lombardo che non proveniva dalla carriera diplomatica, non
aveva molta esperienza in politica estera pur essendo già stato ministro, ma dei lavori pubblici, al
tempo del secondo governo di Rudinì. La sua politica estera non si discostò dalla linea filofrancese
di Visconti-Venosta e mirò ad ottenere impegni espliciti e precisi, sia da parte degli alleati tedeschi
sia da parte della Francia e dell'Inghilterra, sul rispetto degli interessi italiani. La politica di Prinetti,
troppo ostentatamente favorevole alla Francia, insospettì e irritò gli alleati, in primo luogo del
cancelliere tedesco Bulow, il quale si lamentò del comportamento italiano che quot;ondeggiavaquot;,
secondo la sua espressione, quot;fra matrimonio legittimo e concubinatoquot;. Le preoccupazioni tedesche
non erano del tutto ingiustificate, anche se Prinetti si affrettò a dichiarare, per tranquillizzare gli
alleati, che l'Italia non avrebbe sacrificato all'amicizia francese la Triplice, ed era pronta e rinnovare
il trattato.

                                                                                                           16
Il nuovo orientamento filofrancese era condiviso ed approvato non solo dal Primo ministro
ZANARDELLI, ma dallo stesso re Vittorio Emanuele, il quale, continuando la tradizione dei suoi
predecessori, considerò la politica estera un campo di competenza della monarchia. Il re non aveva
simpatia per Guglielmo II e la sua antipatia era ricambiata. Fra i due alleati vi erano diverse ragioni
di contrasto e di dissenso come la questione romana, che la Germania sollevava ogni volta che
voleva far pressione sull'Italia, troppo disinvolta nei suoi giri di valzer, e la scarsa considerazione
che l'alleato tedesco mostrava verso le aspirazioni e gli interessi italiani.
Tutto ciò determinò, nei primi anni di regno di Vittorio Emanuele III, un mutamento evidente se
non negli accordi ufficiali (dato che la Triplice venne rinnovata il 28 giugno 1902, con una nota che
dichiarava il disinteresse austriaco per la Tripolitania), certamente nei risultati pratici della politica
estera italiana. L'Italia acquistò una maggiore indipendenza nei confronti degli alleati e cercò di
difendere i suoi interessi appoggiandosi di volta in volta, a seconda delle circostanze, ora ad una ora
all'altra potenza. Dopo il rinnovamento della Triplice, senza che venissero accolte le richieste di
Prinetti per l'aggiunta di una clausola sul carattere difensivo dell'alleanza, il governo italiano volle
consolidare i suoi legami con la Francia. Due giorni dopo il rinnovo della Triplice, con uno scambio
di note segrete, fu definito un accordo italo-francese che ribadiva i punti fondamentali dell'intesa
raggiunta da Visconti-Venosta. Nella sua lettera, Prinetti dichiarava che l'Italia sarebbe rimasta
neutrale in caso di aggressione contro la Francia da parte di altre potenze o nel caso che la Francia
fosse stata costretta a dichiarare guerra, dopo averne dato comunicazione all'Italia.




                                                                                                       17

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Crispi

  • 1. Bibliografia: 1) Vita (Nicolò) 2) Primo Governo (Nicolò) 3) Secondo Governo (Riccardo) 4) Politica Estera (Alice) 5) Politica Interna (Roberto) 1
  • 2. VITA: Nasce a Ribera in Sicilia nel 1818 e muore a Napoli nel 1901. A 21 anni fonda un giornale letterario l’ORETEO, laureato in legge alla fine del 1845 si trasferisce a Napoli dove esercitò l’avvocatura facendo da tramite fra gli ambienti liberali della capitale e quelli siciliani. Scoppiata la rivoluzione a Palermo (12 gennaio 1848) si affrettò a raggiungere l'isola e prese parte attiva alla guida dell'insurrezione. Qui fonda un suo giornale l’APOSTOLATO. Inoltre fece parte del Comitato di guerra e fu nella Camera dei Comuni uno dei capi dell’estrema sinistra democratica e autonomista. Dopo la restaurazione del governo borbonico, 15 maggio 1849, fu escluso dai benefici dell'amnistia e costretto a rifugiarsi in Piemonte, dove iniziò a collaborare con i giornali dell’opposizione (Concordia e Progresso). Qui cercò invano di ottenere un impiego come segretario comunale di Verolengo. Coinvolto nella cospirazione mazziniana di Milano del 6 febbraio 1853, fu espulso dal Piemonte e costretto a rifugiarsi a Malta, fonda anche qui un giornale “la Valigia” di tendenza unitario-democratica, e mantiene i contatti con alcuni esuli mazziniani. Proprio per questo fu espulso anche da Malta e nel 1855 lo troviamo a Londra, dove conosce da vicino Mazzini. Lo troviamo poi a Parigi e a Lisbona, a continuare la lotta contro la guerra regia sabauda. Entra due volte in Italia clandestinamente, e scende in Sicilia per preparare l’insurrezione. Lui la principale mente politica dell'impresa Garibaldina dei quot;Millequot;, diventando ad impresa conclusa il segretario di stato di Garibaldi, e fondando a Palermo un suo giornale quot;Il precursorequot;; dove sostiene il rinvio dell'annessione al Piemonte fin quando Garibaldi abbia unito all'Italia, Roma e le Venezie. Furono proprio questi i motivi che portarono i forti contrasti con Cavour e con la destra, accentuati quando entrò a Torino nel nuovo Parlamento nel 1861, distinguendosi come uno dei maggiori esponenti della sinistra. Crispi muore a Napoli il 12 agosto 1901. 2
  • 3. IL PRIMO GOVERNO DI CRISPI (1887-1891) Gradatamente si allontana dal mazzinianesimo, tradì Cattaneo dopo aver pensato a lungo a un'Italia federale, prese le distanze dal quot;pittorescoquot; Garibaldi, e si avvicina alla monarchia, quando sostenne nel 1864, che quot;la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbequot;, dichiarando così nel 1865 di aderire al regime sabaudo, pur rimanendo su posizioni di sinistra. Il suo momento giunse quando nel 1876, caduta la destra, formato la sinistra il suo primo governo, lui è presidente della Camera. Per il suo temperamento focoso con i suoi avversari e polemico con i suoi stessi amici, non lo credevano adatto a quel posto - ma lui fece atto di costrizione e promise di quot;mantenere la più stretta imparzialità nel presiedere e regolare le vostre discussioni; a destra, a sinistra, al centro e sui seggi ministeriali io non distinguo partiti, io non riconosco che uomini devoti al bene della patria comunequot;. Gli furono affidate alcune delicate missioni all'estero; soprattutto per saggiare la possibilità di un'alleanza italo-tedesco. L'anno dopo, 1877 riuscì ad entrare nel secondo ministero DEPRETIS come ministro degli Interni. L'uomo focoso tornò a farsi sentire, rivelandosi come un quot;uomo fortequot;, uomo di governo di primissimo piano; ma non piacque ai suoi antichi e nuovi nemici che aspettarono l'occasione buona per abbatterlo. E trovarono l'occasione, scatenando una violenta campagna di diffamazione per un suo matrimonio nel periodo esule a Malta nel lontano 1854 con una donna, contratto con un occasionale sacerdote; Crispi si era poi risposato civilmente a Napoli. Fu accusato di bigamia, si scatenò ad arte l'indignazione contro l'uomo di stato, fu aperto un procedimento penale, ed alcuni ministri minacciarono di dimettersi in massa se non sarebbe stato allontanato dal Governo. Crispi si dimise dal governo e da deputato. Il tribunale ritenne poi non valido quel matrimonio di Malta, chiuse il processo con un quot;non luogoquot;, e Crispi ritornò al suo posto di deputato, diventando l'infaticato assertore di una politica più energica, un deluso della politica estera del governo, seguitando ad accusarlo di mediocrità. Poi nell'82-83, attaccò il quot;trasformismoquot; di Depretis, staccandosi dalla sinistra governativa con un suo programma definito di quot;pura sinistraquot;, costituendo la quot;Pentarchiaquot;. Ma Crispi, quot;trasformandosiquot; anche lui, più tardi, il 4 aprile dell'87 pochi mesi prima della morte di Depretis accettò di far parte del suo ministero come ministro degli interni. Torniamo al 30 luglio 1887; il giorno dopo la morte di DEPRETIS. Privo del suo capo, il ministero si dimise; ma il Re respinse le dimissioni e chiamò alla presidenza del Consiglio FRANCESCO CRISPI, il quale tenne per sé il portafoglio dell'Interno e, prese anche l'interim degli Esteri, dando subito alla politica italiana, che con il Depretis era stata fiacca, indecisa e incolore, un indirizzo più preciso, più risoluto e più energico; che alcuni iniziarono a chiamare quot;dittatorialequot;; e, in effetti, Crispi, in crescendo, rimase sempre di più al di qua del limite fra stato liberale e stato democratico, finendo da ultimo su posizioni nettamente autoritarie. Non per nulla, dopo i fallimenti degli ultimi suoi anni, entrato nell'ombra, più tardi Crispi, l'ex uomo della sinistra estrema, acquisterà per le correnti nazionalistiche e per il fascismo un valore di simbolo e di precursore; compreso il suo filogermanesimo, il filocolonialismo, l'antifrancesismo, la megalomania e l'autoritarismo dell'quot;uomo fortequot;. In questo articolo della quot;Gazzetta dell'Emiliaquot; del 29 giugno 1893, Carducci difende Crispi dalle disgrazie e dall'accusa di megalomania: quot;Di Francesco Crispi io sento e penso che è il solo grande uomo di Stato cresciuto dalla democrazia italiana del 1860, il quale confermandone gli ideali abbia mostrato di saperli attuare: che venuto al potere nel 1876 o durato di poi avrebbe evitato molti errori alla parte del progresso e data forza alla patria dentro e fuori: che tardi venuto pure si dimostrò il solo, dopo Cavour, vero ministro italiano. Megalomania! E' in formula retorica e pedantesca uno sfogo tra invido e pauroso 3
  • 4. di animi brevi. Crispi è megalomane come Mazzini, come Vittorio Emanuele, come Garibaldi, che volevano l'Italia forte e rispettata. Altrimenti, a che averla fatta? La micromania e procomania vedemmo a che approdino. Per tutto ciò io, che non fui ministeriale mai e fin anzi di parecchi ministeri repressore talvolta forse oltre il giusto, sono devoto a Francesco Crispi, e auguro e fo voti che al governo della mia nazione non manchi all'uopo l'animoso e pensoso vegliardo che al genio di Garibaldi e ai fati d'Italia segnò e aprì termine di unità la Siciliaquot;. SECONDO GOVERNO (1893-1896) Dopo le dimissioni di Giolitti, Crispi riprese il potere nel successivo mese di dicembre (1893) e lo mantenne per circa 3 anni, sino al marzo 1896. Il suo primo pensiero fu il ristabilimento dell'ordine interno, che egli non perseguì, come Giolitti, cercando di rendersi conto delle reali condizioni del Paese e di avviare conseguentemente le riforme sociali di cui aveva urgente bisogno; all'opposto, egli fece ricorso a duri sistemi repressivi e ad atteggiamenti addirittura reazionari specie contro i socialisti, che di quelle riforme si erano fatti sostenitori ed interpreti. Considerando infatti le lotte operaie e contadine un attentato all'unità e alla sicurezza dello Stato, un delitto contro la giustizia oltre che una violazione del legittimo titolo di proprietà, di fronte all'estendersi di manifestazioni di protesta, Crispi scelse la maniera forte. l4 gennaio 1894 proclamò lo stato d'assedio in Sicilia: di conseguenza i Fasci di combattimento furono immediatamente sciolti d'autorità e i loro leaders furono tutti arrestati, mentre all'esercito e ai tribunali militari veniva affidato il compito di riportare l'ordine nell'isola stroncando definitivamente il movimento. Provvedimenti analoghi vennero presi in Lunigiana, dove l'agitazione dei cavatori di marmo, innescata dalle pesanti condizioni di vita e di lavoro di questi operai, si stava trasformando sotto l'influenza degli anarchici in un tentativo di insurrezione armata. Qualche mese più tardi Crispi estese a tutto il territorio nazionale l'attacco al movimento operaio, decretando lo scioglimento del PSI (Il Partito Socialista Italiano fu un partito politico fondato nel 1892 e operante fino al 1994.) e delle organizzazioni ad esso aderenti. Dopo aver così soffocato ogni fermento, neppure si preoccupò di dare una soluzione positiva alla crisi, accentuata -oltre che dall'arretratezza dell'agricoltura- da uno stentato decollo dell'industria e da uno scarso sviluppo dell'attività commerciale malgrado l'impegno creditizio posto in atto proprio in quegli anni soprattutto dalle Banche popolari, sorte un po' ovunque per iniziativa di uno statista ed economista di alto livello quale fu Luigi Luzzatti (Venezia, 1 marzo 1841 – Roma, 29 marzo 1927) è stato un giurista e economista italiano, che fu Presidente del Consiglio dei Ministri dal 31 marzo 1910 al 29 marzo 1911. È stato il fondatore della Banca Popolare di Milano e Presidente dello stesso istituto di credito dal 1865 al 1870, oltre ad esserne stato Presidente Onorario dal 1870 al 1927. Quando ormai tutto sembrava avviato per il meglio, nella colonia Eritrea la situazione iniziò a deteriorarsi. Il negus etiopico Menelik, una volta consolidatosi sul trono, aveva rotto gli accordi di Uccialli e, geloso dell'indipendenza del suo Paese e per di più segretamente sollecitato dalla Francia contraria all'espansione coloniale italiana, aveva dato inizio alle ostilità. . 4
  • 5. Rifornito di armi moderne dai Francesi, attraverso il porto di Gibuti egli aveva lanciato all'attacco, nel febbraio 1895, un esercito di quasi 100.000 uomini riuscendo a sopraffare sull'Amba Alagi un presidio italiano al comando del maggiore Pietro Toselli; poi sempre avanzando verso nord, aveva costretto alla resa, dopo un assedio di 40 giorni, il presidio di Macallé agli ordini del maggiore Giuseppe Galliano. Infine giunto ad Abba Garima nella pianura di Adua, si era scontrato il 1 marzo 1896 con il grosso delle nostre truppe -poco più di 15.000 uomini al comando del generale Oreste Baratieri- infliggendo loro una dura sconfitta. L'esito dello scontro fu determinato sia dalla superiorità numerica dell'esercito etiopico, sia da gravi carenze logistiche e di collegamento e da tragici equivoci ed errori compiuti dallo stesso Baratteri. In seguito a questo grave insuccesso, i numerosi avversari di Crispi, capeggiati da Felice Cavallotti (Fu il fondatore, insieme ad Agostino Bertani, del Partito Radicale storico, movimento attivo tra il 1877 e l'avvento del Fascismo. Cavallotti fu considerato il capo incontrastato dell'quot;Estrema Sinistraquot; nel parlamento dell'Italia liberale pregiolittiana) e dalla Sinistra estrema, attaccarono duramente il vecchio statista, il quale non osò neppure affrontare il Parlamento e si dimise il 9 marzo 1896, scomparendo così per sempre dalla vita politica italiana. Approfondimento sui fasci siciliani Sull'esempio dei fasci operai nati nell'Italia centro-settentrionale, il movimento fu un tentativo di riscatto delle classi meno abbienti, inizialmente formato dal proletariato urbano ed a cui si aggiunsero braccianti agricoli, quot;zolfataiquot; (minatori), lavoratori della marineria ed operai. Essi protestavano sia nei confronti della proprietà terriera siciliana, spesso collusa con ambienti mafiosi che dello stato, che appoggiava apertamente la classe benestante. La società siciliana era allora parecchio arretrata, il feudalesimo pur se abolito ufficialmente agli inizi del XIX secolo aveva condizionato la distribuzione delle terre e quindi delle ricchezze. L'unità d'Italia dall'altro lato, non aveva portato i benefici sociali sperati ed il malcontento covava fra i ceti più umili. Il movimento chiedeva fondamentalmente delle riforme, soprattutto fiscali ed una più radicale nell'ambito agrario, che permettesse una revisione dei patti agrari (abolizione delle gabelle) e la redistribuzione delle terre. I Fasci furono ufficialmente fondati il 1 maggio del 1891, a Catania e guidati da Giuseppe de Felice Giuffrida. Il movimento era però nato in maniera spontanea già alcuni anni prima a Messina. A questo fece seguito il Fascio di Palermo (29 giugno 1892) guidato da Rosario Garibaldi Bosco e la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani ( agosto 1892). A questi due fasci se ne aggiunsero altri e già a fine 1892 il movimento si era diffuso in tutto il resto dell'isola con sedi in tutti i capoluoghi tranne Caltanissetta. Il 20 gennaio 1893 a Caltavuturo (PA) 500 contadini di ritorno dall'occupazione simbolica di terre di demanio vengono dispersi da soldati e carabinieri con i fucili e tredici manifestanti cadono vittime. Al massacro di Caltavuturu seguono numerose manifestazioni di solidarietà da parte dei Fasci e sul piano nazionale e tendono ad aumentare l'esasperazione dello scontro sociale. 5
  • 6. 1) Il Congresso di Palermo Il 21 e 22 maggio 1893 si tiene il congresso di Palermo vi parteciparono 500 delegati di quasi 90 Fasci e circoli socialisti. Venne eletto il Comitato Centrale, composto da nove membri: Giacomo Montalto per la provincia di Trapani, Nicola Petrina per la provincia di Messina, Giuseppe De Felice Giuffrida per la provincia di Catania, Luigi Leone per la provincia di Siracusa, Antonio Licata per la provincia di Girgenti, Agostino Lo Piano Pomar per la provincia di Caltanissetta, Rosario Garibaldi Bosco, Nicola Barbato e Bernardino Verro per la provincia di Palermo L'apice del movimento fu raggiunto nell'autunno del 1893, quando il movimento organizzò scioperi in tutta l'isola e tentò un'effimera insurrezione. La società siciliana fu sconvolta, ovunque si ebbero violenti scontri sociali, ed il movimento dettò le proprie condizioni alla proprietà terriera per il rinnovo dei contratti. 2) La repressione In questo contesto il presidente del consiglio Francesco Crispi, nel tentativo di ristabilire l'ordine ascoltò le sole istanze dei possidenti, ed adottò la linea dura con un intervento militare. Il movimento fu sciolto e i capi vennero arrestati. Il 30 maggio il tribunale militare di Palermo condannò Giuseppe de Felice Giuffrida a 18 anni di carcere, Rosario Bosco, Nicola Barbato e Bernardino Verro a 12 anni di carcere quali capi e responsabili dei Fasci siciliani. L'on. de Felice fu difeso in sede giudiziaria dall' avvocato siciliano G.B. Impallomeni. Nel 1895 con un'atto di amnistia venne concessa la clemenza a tutti i condannati in seguito ai fatti dei Fasci siciliani. Si concludeva in modo violento il primo vero movimento organizzato di lotta alla mafia dei proprietari fondiari, e di emancipazione delle classi più umili. POLITICA ESTERA: Menelik II (Ankober, 17 agosto 1844 - Addis Abeba, 12 dicembre 1913), conosciuto anche come Sahle Maryam di Shewa, imperatore d'Abissinia (oggi Etiopia) dal 1889 al 1913. Nel 1889 successe all'imperatore Giovanni IV, unì il territorio dello Shewa a quelli del Tigrè e dell'Amhara, e firmò con l'Italia il trattato di Uccialli. La stella indica la città di uccialli Il trattato di Uccialli fu stipulato fra Italia e Etiopia il 2 maggio 1889 nell'accampamento del negus Menelik, re di Etiopia, ad Uccialli; in base a questo documento il sovrano etiope riconosceva l'Eritrea come colonia italiana. Vennero stipulate due versioni del trattato, nelle lingue dei due contraenti, italiano e amarico; le due versioni differivano nella stesura dell'articolo 17, nella versione italiana si 6
  • 7. stabiliva che il negus quot;consente di servirsiquot; del governo italiano per quot;tutte le trattative d'affari che avesse con altri governiquot;, mentre nella versione in amarico si affermava che il negus quot;può trattare tutti gli affari che desidera con i regni di Europa mediante l'aiuto del regno d'Italiaquot;. Ne nacque una controversia, poiché l'Italia si ritenne autorizzata a porre il proprio protettorato sull'Etiopia, in base alla versione italiana, mentre Menelik contestava l'interpretazione, che non gli era stata chiarita né certo letta dall'ambasciatore d'Italia conte Pietro Antonelli. Dopo l'incidente di Dogali, nel quale circa trecento Italiani mal condotti in uno sconfinamento dall'Eritrea vennero annientati dalle forze etiopiche, la situazione precipitò verso un tentativo di invasione diretta delle truppe del governo di Francesco Crispi. Oltre ventimila italiani ed eritrei, dopo aver ricevuto messaggi di sollecito del Crispi sotto presione a Roma, attaccarono presso il colle dichiadane meheret sopra Adua, all'alba del 1° marzo 1896. Di cinque generali piemontesi ben riconoscibili per le casacche bianche, tre furono fatti prigionieri, due morirono, l'esercito invasore messo in rotta nel volgere di una giornata. 1) QUESTIONE BULGARA Una delle questioni di politica estera che il DEPRETIS aveva lasciato insolute era quella bulgara. Il 7 luglio l'Assemblea bulgara aveva eletto proprio re il principe FERDINANDO di Sassonia Coburgo-Gotha, il quale era sostenuto dall'Austria e dall'Inghilterra ed osteggiato dalla Russia e dalla Francia. Crispi, la cui politica tendeva ad isolare la Francia in Occidente, a sottrarre i Balcani all'influenza Russa, cercò di rovesciare il segno decisamente difensivo della Triplice Alleanza in direzione offensiva, così da farne un utile sostegno all’espansione italiana nel Mediterraneo. Si schierò apertamente a favore del Coburgo e propose alla Gran Bretagna una convenzione militare per il caso di un intervento armato. Anche il tedesco BISMARCK voleva rafforzata la Triplice Alleanza e nella stessa estate del 1887 tempestivamente fece sapere a CRISPI per mezzo dell'ambasciatore italiano a Berlino che desiderava molto rivederlo, ma che non osava invitarlo, per non mancar di riguardo al Re. CRISPI -che aveva una grande e ostentata ammirazione per il cancelliere germanico- aderì subito al desiderio e, dopo avere conferito con il re il 28 settembre a Monza e il 29 a Milano, partì per la Germania. 2) VISITA DEL CRISPI A BISMARCK Il 1° ottobre CRISPI era a Friedrichsruh, ospite gradito della famiglia del BISMARCK e vi si trattenne tre giorni. Il 2 ottobre, il cancelliere, parlando della politica tedesca, disse che il suo paese desiderava la pace, ma che due sole potenze europee, la Francia e la Russia, dimostravano di non volerla. Quanto a quest'ultima potenza Bismarck dichiarò che a lui poco importava che andasse a Costantinopoli, che anzi ne era contento perché si sarebbe indebolita. Ma il Crispi non la pensava così. quot;Non possiamo permettere - rispose - che la Russia vada a Costantinopoli. La Russia a Costantinopoli sarebbe padrona del Mediterraneo .... Codesto grande impero, allargando il suo dominio in Europa, potrebbe farne una sua base, imperando facilmente sull'Oriente e sull'Europa. Ad impedire che questo avvenga l'Italia segue la sua politica tradizionale. Nel 1854 Cavour concorse alla guerra in Crimea unendosi alla Francia ed all'Inghilterra, proprio per questo scopo, e oggi l'Italia non potrebbe fare altrimentiquot;. 7
  • 8. E aggiungeva: quot;In aprile noi potremo mettere mezzo milione di soldati in prima linea, oltre la riserva e la territoriale. Il nostro paese è tranquillo; noi non temiamo partiti sovversivi. I nostri internazionalisti sono rari e non verrebbero mai all'azione. In caso di spedizione all'estero potremo fare i maggiori sforzi, perché all'interno non avremo da temere delle insurrezioniquot;. Dopo aver parlato della questione bulgara, e del proposito del Governo italiano di vendicare Dogali, CRISPI accennò alle sue preoccupazioni prodotte dal probabile contegno della Francia: quot;Io voglio sperare - disse - che la Francia starà tranquilla, ma dovrò osservare che i trattati del 1882 e del febbraio 1887 sono incompleti. Si previdero le ipotesi del concorso reciproco di una delle due potenze in caso di una guerra; ma non si pensò a fare una convenzione militare, e che io ritengo sia necessaria. Nessuno può sapere né quando né come scoppierà la guerra. Può essere un fatto improvviso; e non si deve attenderlo per metterci d'accordo nella parte che ciascuno di noi dovrà prendere alla difesa comune. Giova stabilire al più presto un piano di difesa e di offesa, prevedendo tutte le ipotesi, affinché scoppiata la guerra, ciascun di noi sappia quello che deve fare. Insomma una convenzione militare è completamento ai trattati di alleanzaquot;. Infine CRISPI parlò della situazione in cui si trovavano gl'Italiani ancora soggetti all'impero austro- ungarico. quot;Io non domando - disse - privilegi per la popolazione italiana. Domando solo che sia trattata come tutte le altre nazioni dell'Impero. Il governo austriaco ci guadagnerebbe, perché toglierebbe ogni motivo a lagnanze e se la renderebbe amica. V. A. non può comprendere quale danno derivi dai cattivi trattamenti ed in quale imbarazzo l'Austria metta il governo italiano. Tutte le volte che giungono in Italia notizie di violenze fatte agli Italiani dall'Austria, il sentimento nazionale si ridesta ed i partiti politici se ne valgono di pretesto per turbare la pace pubblicaquot;. La visita di Crispi a Bismarck sollevò le critiche di quanti sostenevano un riavvicinamento alla Francia e suscitò il più vivo malumore nella vicina repubblica, ma aumentò paradossalmente il prestigio al Primo Ministro italiano, il quale, non poteva e non doveva fare una politica amichevole verso la potenza che aveva inflitto all'Italia le recenti umiliazioni, e aveva cercato di chiudere alla stessa ogni via di espansione nel Mediterraneo. 3) APPORTI FRA L'ITALIA E LA FRANCIA - INCIDENTI ITALO-FRANCESI - Peggiori erano i rapporti tra la Francia e l'Italia. Nonostante le buone accoglienze al discorso di Torino, la Francia non poteva perdonare all'Italia la politica a lei ostile in Oriente e soprattutto la sua antifrancese alleanza con gl'imperi centrali e non tralasciava occasione per manifestare il suo malanimo, provocando incidenti che potevano portare ad un conflitto armato. Il primo di questi incidenti avvenne nel dicembre del 1887. Essendo morto a Firenze un suddito tunisino, il console francese aveva chiuso nel proprio archivio, tutti i titoli che riguardavano la successione. Il pretore del 1° mandamento di quella città, con mandato del tribunale, forzò la porta del Consolato e s'impossessò dei documenti che contenevano l'eredità del suddito tunisino. L'atto del magistrato provocò vivaci proteste della Francia, ma CRISPI si rifiutò di dare le soddisfazioni che chiedeva, mostrando che l'operato del console era stato illegale perché tra l'Italia e la Reggenza Tunisi vigeva sempre il trattato del 1868, che riconosceva la competenza dei tribunali italiani. Il secondo incidente, si verificò nella primavera del 1888. Il 30 maggio aveva il comandante delle truppe italiane a Massaua imposto a tutti i proprietari d'immobili e a tutti i commercianti italiani e 8
  • 9. stranieri una piccola tassa mensile, che due francesi, spalleggiati e forse aizzati dal MERCINIER, console francese, non vollero pagare. CRISPI intervenne e ordinò alle autorità militari d'Africa, di non considerare il Mercinier quale rappresentante della Francia, perché sfornito di regolare exequatur; poi portò la questione davanti alle cancellerie delle grandi potenze europee, dimostrando che la tesi del governo francese - il quale sosteneva che l'Italia non aveva diritto d'imporre tasse agli stranieri perché vigevano a Massaua le capitolazioni - era sbagliata, essendo effettiva la sovranità italiana su quella città e non essendo possibili le capitolazioni in un paese musulmano amministrato da una potenza cristiana. L'occupazione italiana di Zula, avvenuta il 4 agosto del 1888, suscitò proteste da parte della Francia, la quale diceva di vantare diritti su quelle terre; ma su questo punto il governo francese non ritenne d'insistere troppo e la cosa finì lì. Più grave fu invece l'incidente avvenuto nel settembre del 1888 a Tunisi. Il Bey (dal turco Beg, ossia quot;signorequot;) con la firma del rappresentante francese, aveva promulgato due leggi: con la prima sottoponeva le scuole italiane all'ispezione del rappresentante della Francia, rendeva obbligatorio l'insegnamento della lingua francese e imponeva condizioni arbitrarie a quegli insegnanti italiani che avessero voluto aprire scuole private; con la seconda, proibiva le associazioni non autorizzate. Contemporaneamente il Crispi informò i gabinetti di Londra, Berlino e Vienna, sostenendo che le leggi del Bey non potevano essere applicate agli Italiani essendo Tunisi un paese a capitolazione. Il 21 ottobre, avendo il ministro degli Esteri francese GALLET dichiarato che i reclami italiani costituivano delle provocazioni, CRISPI rispose: quot;In verità, il signor Gollet vuole ripetere la favola del lupo e dell'agnello, ed io non intendo prestarmi a fare la parte dell'agnello .... Il provocatore è colui che ci ha offesi e noi siamo i provocatiquot;. Fu così che il buon diritto dell'Italia fu riconosciuto. Ancora dal 15 dicembre del 1886, in seguito a voto parlamentare, era stato denunciato dal governo italiano per il 31 dicembre del 1887 il trattato di commercio italo-francese. Nel denunciarlo, il governo italiano dichiarava di esser disposto ad aprire i negoziati per un trattato migliore. Nei primi del settembre del 1887 fu mandato a Parigi l'on. BOSELLI (Enrico Boselli (Bologna, 7 gennaio 1957) è un politico italiano. È segretario e leader nazionale dei Socialisti Democratici Italiani (SDI) sin dall'atto di costituzione del partito, avvenuto il 10 maggio 1998.) per accordarsi con il presidente dei ministri ROUVIER e alla fine del mese giunsero alla capitale francese i negoziatori italiani onorevoli BRANCA, ELLENA e LUZZATTI, che però non conclusero nulla. Verso la fine di dicembre i negoziati furono ripresi a Roma, ma neppure qui si concluse qualcosa di positivo, e nei primi di febbraio i delegati francesi MARIO e TEISSERENC de BORT partirono. Significative furono le parole di quest'ultimo, nel congedarsi, con l'on. ELLENA: quot;Finché sarete nella triplice non sarà possibile un accordo commerciale tra l'Italia e la Franciaquot;. Il 27 febbraio 1888 furono rotte le relazioni commerciali tra i due Stati e due giorni dopo il governo italiano dovette applicare le tariffe generali e differenziali, a partire dal 1° marzo successivo. Per ritorsione il governo di Parigi inpose a sua volta dazi quasi proibitivi ai prodotti italiani. Quello stesso giorno CRISPI, dando comunicazione alla Camera delle trattative non riuscite con la Francia, dichiarò: quot;In ogni guerra, ci sono morti e feriti, e morti e feriti ci possono essere pure nelle battaglie economiche. Tuttavia un popolo forte non si scoraggia perciò noi dobbiamo guardare allo scopo, al fine che ci siamo posti dinanzi: ebbene, questo scopo, questo fine è tale che merita tutti i nostri sforzi, e sono sicuro che sapremo raggiungerlo. Dopo aver conquistato l'indipendenza nazionale; dopo esser diventati politicamente un grande Stato, certo dei suoi destini, bisogna che ci 9
  • 10. rafforziamo anche economicamente e finanziariamente per renderci indipendenti dalle altre nazioniquot;. Enorme fu il danno che la lotta economica con la Francia causò all'Italia e in modo speciale alle province del Mezzogiorno, e non meno grande fu il danno finanziario. Fu fatta una campagna accanita ed infame in Francia contro le azioni italiane, che nella borsa di Parigi erano sprezzantemente chiamate quot;macaroniquot;; furono ritirati i capitali francesi investiti nella Penisola; nei giornali francesi fu descritta l'Italia come il paese più miserabile. Fu talmente spietata la lotta contro i titoli italiani che CRISPI fu costretto a invocare tramite BISMARCK l'intervento dell'alta banca germanica, consigliato anche da MAGLIANI (Agostino Magliani, senatore del Regno e politico italiano. Fu Ministro delle Finanze del Regno d'Italia in parecchi Governi di Benedetto Cairòli, Agostino Depretis e Francesco Crispi.) che suggerì di quot;ricomprare sul mercato di Parigi quanto più sia possibile le azioni italianequot; e di quot;indurre le Banche tedesche a scontare gli effetti cambiari del commercio italiano, mostrando di avere in noi la fiducia che la Francia ci nega nel momento attualequot;. La batosta fu grossa per l'agricoltura; ma bisogna dire che una crisi agraria era già in atto su scala europea fin dal 1880; più accentuata in Italia dovute alle condizioni di arretratezza dell'economia italiana. Già l'anno prima, nell'87, in Italia era stata approvata la nuova tariffa generale che aumentava in modo rilevante i dazi protettivi applicati all'importazione di alcuni prodotti agricoli e della maggior parte di quei beni che potevano essere invece prodotti dall'industria nazionale. Ma fu un'applicazione anomala, perchè quasi esentava dal dazio le materie prime necessarie alle grandi industrie, mentre invece colpiva le importazioni di prodotti agricoli, come i cereali, lo zucchero, ecc. L'intenzione buona era quella di incentivare i due settori, per soddisfare la domanda interna senza far ricorso alle importazioni. Mentre invece solo un settore si avvantaggiò. Storicamente è ricordata come quot;scelta protezionisticaquot;, votata alla Camera il 24 giugno 1887 con 199 voti a favore e 37 contrari; al Senato il 10 luglio con 69 a favore e 12 contro. Su questa scelta, e sul ruolo svolto nello sviluppo economico italiano, alcuni economisti e storici si sono divisi. I più concordano nell'attribuirgli una funzione essenziale per l'affermazione e il consolidamento di alcune attività industriali (quasi interamente a favore dei grandi gruppi nati o operanti nel Nord Italia - tessile, siderurgico, chimico ecc.), altri ritengono che abbia avuto dei risvolti negativi, in quanto sacrificò l'agricoltura e soprattutto tutte le culture specializzate dell'Italia meridionale. In queste condizioni, aggiuntasi poi la quot;batostaquot; francese (chiudendo per rivalsa le sue importazioni dall'Italia) causò un danno ancora maggiore al settore agricolo, e in particolare al meridione le cui esportazioni verso la Francia erano piuttosto consistenti. Nè ebbe il meridione quelle attenzioni, che invece la Germania riservò alle industrie italiane del nord; e paradossalmente anche il meridione i suoi utili preferì investirli nel nord, consolidando quell'alleanza degli agrari del sud con la borghesia industriale del nord che si era già stabilita in seguito al processo di unificazione. In questo frangente delle ritorsioni francesi, a favore dell'Italia intervenne il sindacato formato dal banchiere BLEICHROEDER, dalla Deutsche Bank e dall Discontogeselleschaft, che arrestò la discesa delle azioni italiane alla borsa di Parigi. L'anno seguente, essendo ricominciata l'offensiva francese contro la valuta italiana, furono ancora le banche tedesche a sostenere il credito del consolidato italiano. Per meglio tutelare il credito nazionale, nell'estate del 1890, il governo Crispi, favorì la creazione dell'quot;Istituto Italiano di Credito Fondiarioquot; cui contribuì anche con capitali propri un sindacato tedesco; e nel 1894, sotto la spinta dello statista siciliano, sorse la quot;Banca Commerciale Italianaquot; con capitali germanici. Guidata da tre ebrei, questi si lanciarono sugli investimenti della grande industria italiana, soprattutto siderurgica. Ma dovettero con non poca fatica conciliare la redditività in Italia dei loro patrioti, con le pressioni delle forze politiche italiane tese a favorire solo alcuni grossi gruppi. Tuttavia riuscirono a far decollare quelle industrie 10
  • 11. siderurgiche impegnate negli armamenti. Paradossalmente le stesse industrie che poi, nella Grande Guerra, contribuirono a fornire le armi per combattere la stessa Germania. Francesco Crispi La politica estera tra cinismo e avventurismo (1887) Nota Questo discorso di fronte al Parlamento, tenuto dal presidente del Consiglio Francesco Crispi, mostra chiaramente il cinismo e l'immoralità su cui si basa la politica estera dello stato italiano. Il nazionalismo nei Balcani viene incoraggiato (può tornare utile) mentre ci si prepara a nuove aggressioni in Africa. Su tutto domina l'arroganza che porterà alle solite avventure criminali (espansionismo coloniale) seguite, come d'abitudine, da disfatte militari e politiche. Io vado, pel mio paese, altero di ricordarlo, poiché mai, in una unione completa e cordiale come quella dell'Italia e de' suoi alleati, è stata tanto rispettata la sua dignità, sono stati tanto garantiti i suoi interessi . Ma, oltreché con le alleanze, proseguiamo l'intento della pace col volere la giustizia. Ciò vi spiega, o signori, la nostra politica in Oriente. Ivi ciò che domandiamo è il rispetto dei diritti dei popoli, conciliato, in quanto è possibile, col rispetto dei trattati che formano il diritto pubblico europeo; ciò che speriamo è lo sviluppo progressivo delle autonomie locali. Si hanno, nella penisola dei Balcani, quattro nazionalità distinte, ciascuna avente la sua lingua, la sua sede secolare, le sue tradizioni antichissime, e - ciò che è più - la coscienza della propria individualità come nazione e l'aspirazione alla indipendenza. Ebbene, questi popoli che anelano, come ogni ente, a vita libera, aiutiamoli a riprendere possesso di loro stessi, senza lotte, senza spargimento di sangue, senza nuovi martiri. Non è questa la politica più degna d'Italia, più conforme alle sue origini ed a' nostri principi? E riflettete, o signori: questa non è soltanto politica di principi e di sentimenti, è altresì politica d'interessi ben intesi. I popoli balcanici, che colà rappresentano la giovinezza con le sue inesperienze, ma anche l'avvenire con le sue speranze e le sue forze, non dimenticheranno l'aiuto disinteressato che l'Italia avrà loro prestato [. . .]. Pace vogliamo adunque, ma con onore, poiché poniamo l'onore più in alto che non siano i benefizi della pace stessa. Ed è per ciò che, mentre abbiamo lavorato ad assicurarla in Europa, ove hanno sede i supremi nostri interessi, ed abbiamo provveduto a che non ne sia turbato a nostro danno l'equilibrio, né sulla terra, né sul mare, prepariamo armamenti in Africa, dove la ingiustificata aggressione di un popolo semibarbaro ha condotto a gloriosa morte cinquecento dei nostri soldati. L'offesa vuole degna riparazione, e l'avremo. Importa che su quella terra d'Africa 11
  • 12. dove, o bene o male - è vano ormai ricercarlo - ci siamo insediati, il prestigio del nome italiano sia mantenuto illeso, e, quando offeso, sia vendicato. La nazione non ha guardato a sacrifizi, ed ha fatto bene. Non vogliamo avventure, non guerre di conquista, che anzi condanniamo apertamente. Nostra ambizione è che l'Italia si rifaccia e s'espanda là dove spontaneamente vanno i suoi figli, non soltanto cacciati dalla transitoria miseria, ma consigliati dai più facili guadagni, attirati dalle ospitali simpatie, tormentati nobilmente da quella febbre dell'ignoto, che ha già fatto misurare dai navigatori italiani, allargare dagl'italiani mercanti i confini del mondo conosciuto. Ma vogliamo che là, in Africa, tra i due domini vicini, sia, secondo giustizia, stabilita una demarcazione che non si possa impunemente varcare a braccio armato. Il confine che vogliamo è quello che strategicamente è necessario alla sicurezza dei nostri possedimenti ed al benessere dei nostri presidi. Una volta ottenuto e questo confine e la riparazione dovutaci, saremo lieti di aprire la nostra frontiera alle merci, alle derrate, ai prodotti nostri e dell'Abissinia, onde avviare fra i due paesi quella doppia corrente di scambi che per l'avvenire ci può ripromettere non scarsi compensi. Ma l'offesa va anzitutto riparata, e poiché il valore dei quot;leoniquot; italiani non fa più dubbio, ormai per gli Abissini, bisogna che acquistino dell'Italia come nazione un concetto adeguato e che la luce della nostra potenza li abbagli. Vittorio Emanuele, che fu il patriottismo incoronato, lasciò morendo per testamento agl'Italiani, che l'Italia deve essere, non rispettata soltanto, ma temuta. E temuti ed amati intendiamo essere ad un tempo da tutti. (da Francesco Crispi, Scritti e discorsi politici, 1849-1890) POLITICA INTERNA: Convinto avversario del parlamentarismo e delle quot;astrattequot; ideologie liberali, egli svolse fra il 1887 e il 1896 una lunga pratica di governo, che può essere divisa in due fasi ben distinte. Iniziata nell'agosto del 1887 e conclusa nel 1891, la prima fase fu contraddistinta da un indirizzo in buona parte diverso rispetto a quello seguito da Depretis. Sotto la sua direzione la trasformazione dello stato, già avviata nell'epoca del trasformismo, giunse a una compiuta maturazione: lo stato fu concepito come uno strumento finalizzato alla politica di potenza e all'estensione del prestigio internazionale e, in quanto tale, legittimato ad esercitare una dura pressione sulla società civile. In questo intreccio di autoritarismo e imperialismo emergeva il segno delle crescenti difficoltà incontrate dalla nascente nazione italiana in una fase di pesante congiuntura economica e politica. L'aggravarsi della crisi agraria, l'espandere della crisi edilizia e i fallimenti della banche più esposte nel settore delle costruzioni, le difficoltà dell'industria, favorite anche dalla quot;finanza allegraquot; praticata negli anni precedenti dal ministro Agostino Magliani, avevano creato una situazione di acuta tensione sociale, caratterizzata da scioperi e tumulti nelle città e nelle campagne. Inoltre la difficile situazione internazionale e i fallimenti della spedizione militare nel Mar Rosso andarono accentuando il clima di malessere e di frustrazione rischiando di ridare fiato ai gruppi irredentisti. 12
  • 13. A ciò si aggiungeva la crisi istituzionale approfonditasi negli ultimi anni del governo Depretis con il rafforzamento di quel che la destra definì il quot;mostruoso connubioquot; tra accentramento e parlamentarismo, che comportava una sempre più estesa invadenza del personale politico (deputati e autorità di governo) nelle questioni amministrative e una pericolosa degenerazione clientelare. Influiva inoltre sul nuovo modello politico, il carattere quot;strutturalequot; che andava assumendo il blocco sociale protezionista industriale-agrario, interessato ad una politica di potenza e di riarmo. L'attività di governo di Crispi si orientò subito verso una profonda riforma dello stato, una connotazione in senso aggressivo delle alleanze internazionali e una decisa espansione coloniale in Africa. Nel periodo dei primi due ministeri da lui presieduti, fu approvato un elevato numero di provvedimenti legislativi di grande importanza al fine di completare l'opera di accentramento dello stato già avviata negli anni precedenti. L'ordinamento e la funzione dei prefetti dipesero dal governo centrale in misura superiore al passato, e si configurarono come strumento di controllo politico del potere centrale nella periferia. Con la legge del 12 febbraio 1888 sul riordinamento dell'amministrazione centrale dello stato furono rafforzati i poteri dell'esecutivo rispetto al parlamento e quelli del presidente del consiglio all'interno del governo. Con la riforma sanitaria del 22 dicembre 1888, al vecchio concetto della quot;carità legalequot; subentrò il moderno principio dell'interesse pubblico alla tutela della salute dei cittadini, anche se ciò fu realizzato nell'ambito di una concezione che vedeva l'attività di prevenzione e di intervento sanitario più come un'attività di polizia che non di assistenza. Appartiene a questo periodo la riforma del codice penale (1889), rimasta legata al nome del ministro della giustizia Giuseppe Zanardelli. Essa prevedeva tra l'altro: 1. il tacito riconoscimento dello sciopero, che, non risultando menzionato dal nuovo testo legislativo, non poteva essere più considerato illegale e come tale vietato; 2. l'abolizione della pena di morte e la sua sostituzione con l'ergastolo per i reati più gravi: il che poneva l'Italia al primo posto tra le nazioni civili nella pratica attuazione di quanto Cesare Beccaria aveva sostenuto nel '700. Non meno importante fu anche -quale prima concreta soddisfazione offerta alle aspirazioni e alle richieste dei partiti democratici- la nuova legge comunale e provinciale del 10 febbraio 1889. Essa estendeva l'accesso ai consigli comunali ai rappresentanti della minoranza fino ad allora esclusi in quanto tutti i posti in consiglio venivano riservati alla lista vincente, e istituiva la nomina del presidente delle Amministrazioni provinciali da parte non più del prefetto bensì dei consiglieri eletti; parimenti i sindaci dei comuni con più di 10.000 abitanti furono eletti dai Consigli Comunali e non più investiti da un Regio Decreto su designazione di un prefetto. Il Testo Unico del 28 marzo 1895 determinando un sensibile aumento del numero degli elettori e dei deputati da eleggere, contribuì ad avvicinare le classi popolari alla vita pubblica e a favorire la nascita di formazioni politiche decisamente più democratiche rispetto a quelle del recente passato. Inoltre al fine di dare una struttura più organica e accentrata allo stato, fu unificata la Corte di Cassazione; venne istituita una quarta sezione del Consiglio di Stato, con funzioni non semplicemente consultive come le prime tre, bensì giurisdizionali; fu organizzato il corpo delle guardie di Pubblica Sicurezza allo scopo evidente di consolidare l'esecutivo, la cui inefficienza ed incisività rispondeva pienamente a una concezione borghese dello stato, ampiamente diffusa tra i politici del tempo a qualunque gruppo appartenessero. 13
  • 14. Schematicamente: ● Legge del 12 febbraio 1888 sul riordinamento dell’amministrazione centrale dello stato furono rafforzati i poteri dell’esecutivo rispetto al parlamento e quelli del presidente del consiglio all’interno del governo. ● Legge del 19 novembre del 1887 sul voto delle donne. Due proposte furono respinte, quella di SALANDRA che voleva il suffragio universale amministrativo, e quella degli onorevoli PERUZZI e PANTANO che volevano fosse concesso il quot;voto amministrativo alle donnequot;. Opponendosi a quest'ultima proposta, CRISPI disse: quot;Per me la donna, regina dei cuori finché resterà estranea alle lotte della pubblica cosa, non sarà più il tesoro delle famiglie, non sarà la provvidenza e la previdenza del marito e dei figli se la caccerete nella politica. Sensibile ed impressionabile, com'è, non potrebbe avere sempre la mente serena e tranquilla, qualora si occupasse della cosa pubblica. Amante ed amica, essa è un conforto; è per noi, quando dalla lotta politica, dai contrasti dell'aula parlamentare, ritorniamo nelle nostre, famiglie, per avere pace e tranquillità, per assicurarci quella calma, che ci fu turbata in tutto il giorno, per trovare quel riposo al quale abbiamo diritto, sarebbe una grande sventura, o signori, che ricominciassero, entrando in casa, i contrasti e le lotte D'altra parte, quando voi distaccate la donna dalla famiglia e la gettate nella pubblica piazza voi fate, o signori, della donna non più l'angelo consolatore della famiglia ma il demone tentatore. Né voglio io ricordare l'influenza possibile dei confessionali; è un tema che abbiamo trattato abbastanza per doverci ritornare sopraquot;. ● Legge del dicembre del 1888, fu approvata inoltre, la legge che regolava l'emigrazione ● Legge del 22 dicembre 1888 venne approvata la legge destinata a tutelare la sanità pubblica e l'igiene. A proposito di quest'ultima legge, è importante il regolamento per la prostituzione, con il quale si tentò di giovare alla salute pubblica e di difendere il buon costume. ● Altre riforme, dovute queste allo ZANARDELLI, furono l'abolizione dei tribunali di commercio e l'unificazione a Roma della Cassazione penale. Anche la legislazione penale fu unificata e il 22 novembre del 1888 il ministro Zanardelli fu autorizzato dal Parlamento a pubblicare il nuovo codice penale che il re sanzionò il 30 giugno del 1889 ed entrò in vigore il 1° gennaio del 1890. Il nuovo codice penale prevedeva: 1) il tacito riconoscimento dello sciopero. 2) l’abolizione della pene di morte e la sua sostituzione con l’ergastolo per i reati più gravi. ● Legge del 10 febbraio 1889, essa estendeva l’accesso ai consigli comunali ai rappresentanti della minoranza fino ad allora esclusi in quanto tutti i posti in consiglio venivano riservati alla lista vincente, e istituiva la nomina del presidente delle amministrazioni provinciali da parte non più del prefetto bensì dei consiglieri eletti. I RAPPORTI FRA LA CHIESA E LO STATO Tra la Chiesa e lo Stato, fallito il vago tentativo di riconciliazione narrato nel precedente capitolo, i rapporti s'inasprirono ancora di più. L'Italia ufficialmente non partecipò alle feste del Giubileo, ma il Governo non fece nessuno atto poco riguardoso verso la Santa Sede, ma fece sì che l'ordine pubblico non fosse turbato e il Re, anzi, mandando al sindaco di Roma il quot;solitoquot; telegramma per il 20 settembre (Breccia di Porta Pia), aveva alluso alla quot;fausta ricorrenzaquot; giubilare. 14
  • 15. Ingannato da quest'espressione, il duca di Torlonia, sindaco di Roma, ritenne suo dovere, quale rappresentante di una città che era la capitale del Cattolicesimo, di rendere omaggio al Capo della Chiesa e si recò dal cardinale vicario pregandolo di porgere le proprie congratulazioni al Pontefice. Il cardinale restituì la visita. Appresa la notizia, Crispi propose al Consiglio dei Ministri, che accettò, di rimuovere dall'ufficio il Torlonia; e per questo suo provvedimento ebbe lodi da più parti. Questo fatto, naturalmente, contribuì a tendere di più i rapporti fra la Chiesa e lo Stato, che divennero ancor più aspri quando si discussero in Parlamento gli articoli del nuovo codice penale che contenevano disposizioni contro gli abusi del Clero. Proteste vivaci mossero i vescovi del Mezzogiorno, dell'Umbria, della Toscana e del Veneto che si lanciarono in vivaci proteste; il Pontefice protestò pure lui nel Concistoro del 1° giugno del 1888, dichiarando che quelle disposizioni offendevano la libertà e la dignità del clero e della stessa Chiesa; ma tutto fu inutile. Crispi si rianimò del suo anticlericalismo rendendo di nuovo particolarmente acuta la tensione fra Stato e Chiesa: fu abolito l’insegnamento religioso nelle scuole primarie ad opera del ministro della pubblica istruzione Paolo Borselli; le istituzioni di beneficenza (le cosiddette “opere pie”) furono sottratte alla sorveglianza delle autorità ecclesiastiche e vennero da allora in poi amministrate da autorità civili e controllate dai prefetti; fu istituita la punibilità per i ministri del culto che si fossero comportati in modo sleale ed oltraggioso nei confronti dello stato e ei suoi legittimi rappresentanti; infine nel 1889 nel campo dei fiori a Roma fu eretto un monumento a Giordano Bruno simbolo dell’inconciliabilità fra pensiero laico e pensiero religioso. Dopo che il movimento cattolico era stato colpito da Crispi, si assistette all’ingresso dei cattolici nella vita politica e sociale della nazione. In realtà, tenuto conto del divieto del Papa Pio IX (non expedit) ai fedeli di partecipare alla vita politica, l’azione cattolica si sviluppò prevalentemente al campo sociale. Il 15 maggio 1891 il Papa leone XIII emanò l’enciclica Rerum Novarum nella quale veniva riconosciuta l’esigenza di una più equa distribuzione della ricchezza e anche la legittimità per i lavoratori di riunirsi ed organizzarsi in sindacati; per questo il movimento cattolico ebbe un notevole aumento degli aderenti. CESSA LA MEGALOMANIA CRISPINA L'Italia non aveva una struttura produttiva e un'organizzazione militare adeguate a sostenere una politica estera aggressiva; in tali condizioni la politica di CRISPI risultò piuttosto avventurosa che aggressiva. La sconfitta di Adua spense sul nascere ogni velleità di grande potenza e fino alla Guerra di Libia la classe dirigente del Regno ritornò ad una politica estera più tradizionale. Gli obiettivi principali dei governi succeduti a Crispi furono la liquidazione del fallimentare tentativo coloniale e il riavvicinamento alla Francia, pur senza modificare i rapporti di alleanza che legavano l'Italia alla Germania e all'Austria-Ungheria. Una politica estera di pace e di amicizia, dopo l'infelice parentesi della quot;megalomaniaquot; crispina. Parlando alla Camera nel 1897, GIOLITTI sostenne che il disastro della politica estere crispina era da addebitare alla quot;sproporzione tra il fine che si vuole raggiungere, ed i mezzi che si vogliano adoperarequot;. 15
  • 16. Gli uomini politici più realistici erano pienamente consapevoli che l'Italia non era in grado di competere con le altre potenze europee nella conquista di imperi coloniali che richiedeva forze economiche e militari e non soltanto velleitarismo. All'Italia, ultima delle grandi potenze europee, superata anche da Giappone e Stati Uniti, non restava altra, realistica, possibilità che di affermare il suo modesto prestigio e di difendere i suoi interessi con una politica moderata. In questa direzione si mossero i ministri degli esteri che si succedettero dopo Crispi: Visconti-Venosta, Canevaro, Prinetti, Tittoni, Di San Giuliano, Guicciardini. Visconti-Venosta, che era stato ministro degli esteri dal 14 dicembre 1869 fino al 18 marzo 1876; cioè fino alla caduta delle Destra, tornò agli Esteri con di RUDINI' e vi restò fino al febbraio 1901, salvo una parentesi dal 1 giugno 1898 al 14 maggio 1899. Visconti-Venosta, a suo tempo, si era opposto all'alleanza con la Germania, era pertanto l'uomo giusto per operare un riavvicinamento e una riconciliazione con la Francia, dopo i rapporti di ostilità nel periodo crispino. Visconti-Venosta liquidò anche l'altra eredità crispina, la politica coloniale: quot;le imprese coloniali non si possono considerare indipendentemente dalle condizioni e dai mezzi che sono loro necessari per renderle possibili e proficue. Queste condizioni e questi mezzi sono l'iniziativa ed il concorso del capitale privato, una bilancia dello Stato che conceda le spese necessarie perché le occupazioni coloniali non rimangano sterili e senza valore, e soprattutto l'appoggio del paese, perché, se vi è una politica che per essere seriamente condotta e praticata richiede il favore dell'opinione pubblica, questa è la politica coloniale. Se queste condizioni mancano, allora, tra l'obbiettivo che si persegue e i mezzi con cui si persegue sorge un contrasto alle cui spine un paese si espone a lasciare qualche brano del suo prestigio e della sua dignitàquot;. Visconti-Venosta diede un quot;colpo di timonequot; alla politica estera: con gli accordi del 21 novembre 1896 portò a soluzione la questione tunisina e con il trattato commerciale del 21 novembre 1898 pose fine alla decennale guerra doganale fra i due paesi; avviò trattative per definire la questione della Tripolitania e delle Cirenaica, allo scopo di ottenere garanzie per un'eventuale espansione dell'Italia nelle uniche regioni dell'Africa mediterranea ancora libere dal dominio imperialista anglo-francese e rimaste fuori delle sfere di influenza definite con gli accordi del 21 marzo 1899 dopo la crisi di Fashoda fra Francia ed Inghilterra. Visconti-Venosta trovò un interlocutore ben disposto nell'ambasciatore francese a Roma, Camillo Barrère. Gli obiettivi di Visconti-Venosta e di Barrère coincidevano su un punto fondamentale, cioè sull'affermazione del carattere difensivo che doveva avere la Triplice Alleanza e la possibilità per l'Italia di avere, all'interno di essa, una certa libertà nei rapporti con la altre potenze europee. A differenza di quanto avevano cercato di ottenere i suoi predecessori, il diplomatico francese non fece alcuna pressione per costringere l'Italia a lasciare la Triplice ma si adoperò affinché l'alleanza perdesse qualsiasi carattere antifrancese, implicito o esplicito. Su questo orientamento Barrère trovò favorevoli non solo Visconti-Venosta ma anche Zanardelli e Prinetti, successo al Visconti-Venosta, rimasto in carica dal febbraio 1901 all'aprile 1903, quando fu costretto a dimettersi per motivi di salute. Giulio Prinetti, un ricco industriale lombardo che non proveniva dalla carriera diplomatica, non aveva molta esperienza in politica estera pur essendo già stato ministro, ma dei lavori pubblici, al tempo del secondo governo di Rudinì. La sua politica estera non si discostò dalla linea filofrancese di Visconti-Venosta e mirò ad ottenere impegni espliciti e precisi, sia da parte degli alleati tedeschi sia da parte della Francia e dell'Inghilterra, sul rispetto degli interessi italiani. La politica di Prinetti, troppo ostentatamente favorevole alla Francia, insospettì e irritò gli alleati, in primo luogo del cancelliere tedesco Bulow, il quale si lamentò del comportamento italiano che quot;ondeggiavaquot;, secondo la sua espressione, quot;fra matrimonio legittimo e concubinatoquot;. Le preoccupazioni tedesche non erano del tutto ingiustificate, anche se Prinetti si affrettò a dichiarare, per tranquillizzare gli alleati, che l'Italia non avrebbe sacrificato all'amicizia francese la Triplice, ed era pronta e rinnovare il trattato. 16
  • 17. Il nuovo orientamento filofrancese era condiviso ed approvato non solo dal Primo ministro ZANARDELLI, ma dallo stesso re Vittorio Emanuele, il quale, continuando la tradizione dei suoi predecessori, considerò la politica estera un campo di competenza della monarchia. Il re non aveva simpatia per Guglielmo II e la sua antipatia era ricambiata. Fra i due alleati vi erano diverse ragioni di contrasto e di dissenso come la questione romana, che la Germania sollevava ogni volta che voleva far pressione sull'Italia, troppo disinvolta nei suoi giri di valzer, e la scarsa considerazione che l'alleato tedesco mostrava verso le aspirazioni e gli interessi italiani. Tutto ciò determinò, nei primi anni di regno di Vittorio Emanuele III, un mutamento evidente se non negli accordi ufficiali (dato che la Triplice venne rinnovata il 28 giugno 1902, con una nota che dichiarava il disinteresse austriaco per la Tripolitania), certamente nei risultati pratici della politica estera italiana. L'Italia acquistò una maggiore indipendenza nei confronti degli alleati e cercò di difendere i suoi interessi appoggiandosi di volta in volta, a seconda delle circostanze, ora ad una ora all'altra potenza. Dopo il rinnovamento della Triplice, senza che venissero accolte le richieste di Prinetti per l'aggiunta di una clausola sul carattere difensivo dell'alleanza, il governo italiano volle consolidare i suoi legami con la Francia. Due giorni dopo il rinnovo della Triplice, con uno scambio di note segrete, fu definito un accordo italo-francese che ribadiva i punti fondamentali dell'intesa raggiunta da Visconti-Venosta. Nella sua lettera, Prinetti dichiarava che l'Italia sarebbe rimasta neutrale in caso di aggressione contro la Francia da parte di altre potenze o nel caso che la Francia fosse stata costretta a dichiarare guerra, dopo averne dato comunicazione all'Italia. 17