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Chiara Buongiovanni
Crimini contro l’umanità, diritto alla verità e
società civile.
Il caso argentino.
2
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI
“ROMA TRE”
Master di II livello in
Educazione alla Pace:
Cooperazione Internazionale, Diritti Umani e
Politiche dell’Unione Europea
Crimini contro l’umanità, diritto alla verità e società civile.
Il caso argentino.
Relatore Corsista
Gabriel Baudet Chiara Buongiovanni
ANNO ACCADEMICO 2007-2008
3
Ai miei genitori, che sempre mi sostengono nei sogni
Agli amici lontani, per i semi gettati nella mia vita
Agli amici vicini, per la pazienza nel coltivare i semi,
insieme a me
A chi sa immaginare fiori dalle rocce, per la speranza, il
coraggio, l’amore.
4
Introduzione 4
1. Il diritto alla verità nella prospettiva del diritto internazionale 5
1.1 Il crimine contro l’umanità
1.2 L’evoluzione: dalla responsabilità aggravata alla competenza
universale
1.3 L’emergere del diritto alla verità
1.4 Verità e giustizia: un dibattito aperto
2. Il diritto alla verità nella prospettiva della società civile 22
2.1 Quale società civile
2.2 Un diritto collettivo?
2.3 Liberare la memoria: le pratiche collettive
3. Il caso argentino 31
3.1 Il quadro storico
3.2 La politica della desaparicion e la società civile
3.3 La CONADEP
3.4 Il percorso della giustizia
3. 5 La forza della società civile
3.6 Gli strumenti della società civile
Conclusioni 53
Bibliografia 55
5
Introduzione
Per una strano effetto collaterale delle parole, il diritto alla verità.
appare a tal punto vicino alla sfera dell’assoluto, avendo l’essere umano per
soggetto e la verità per oggetto, da rischiare una difficile applicazione, se
non contestualizzato nell’ambito di riflessione in cui viene indagato. Il
diritto alla verità, ove non meglio specificato, sembra assumere un’ampiezza
prossima all’astrazione, toccando sfere concentriche e progressivamente
esterne all’ontologia umana.
La riflessione che segue, anticipando un’analisi della situazione
argentina, si colloca nell’orizzonte temporale, sociale e giuridico della
transizione da regimi dittatoriali alla democrazia, applicandosi nel
particolare alle gravi violazioni dei diritti umani da parte dello Stato, nel
periodo della dittatura1
.
La domanda che si pone è tripartita.
Come bisogna intendersi il diritto alla verità in questione, cosa il
diritto internazionale ha da dire sul diritto alla verità in questione e cosa,
conseguentemente, lo Stato democratico ha il dovere di fare per soddisfare il
diritto alla verità. Il passaggio dalla dimensione internazionale a quella
statale, e viceversa, non è immediato ma fondamentale, a mio modo di
vedere, per una duplice questione: la piena applicazione di tale diritto e
l’avanzamento del processo di costruzione della pace, attraverso gli
strumenti complementari e non interscambiabili della giustizia, della
memoria e dell’educazione.
1
Si fa in particolare riferimento alla dittatura militare capeggiata da Videla, al potere in
Argentina dal 1976 al 1983.
6
1. Il diritto alla verità nella prospettiva del diritto internazionale
1.1 Il crimine contro l’umanità
La fattispecie giuridica a cui si fa riferimento è il crimine contro
l’umanità, come progressivamente elaborato nel diritto internazionale, a
partire dal Trattato di Londra.
Riprendendo in sintesi l’analisi di Cassese2
sulla genesi della
nozione di “crimini contro l’umanità”, si considera che, sebbene la
definizione fosse già usata nel 1915 con riferimento alle uccisioni di massa
degli Armeni ad opera dell’Impero ottomano, una vera e propria codifica del
“crimine contro l’umanità” è attribuibile all’Accordo di Londra del 1945,
istitutivo dell’ITM - Tribunale di Norimberga.
Il limite della definizione3
nell’Accordo di Londra, per cui - ex art.
6(c) - i crimini contro l’umanità potevano essere fatti ricadere nella
giurisdizione dell’ITM se commessi “in esecuzione ovvero in connessione”
con crimini di guerra o crimini contro la pace, è stata progressivamente
superata nella giurisprudenza penale internazionale, spostando l’ambito di
applicazione della persecuzione dei crimini contro l’umanità dall’ambito
delle relazioni tra Stati sempre più verso la sfera del diritto internazionale
dei diritti umani4
.
2
Cassese, A. “ Lineamenti di diritto internazionale penale”, Vol. 1: Diritto sostanziale, Il
Mulino, Bologna, 2005
3
Lo Statuto dell’IMT, adottato con l’Accordo di Londra, all’art. 6 definisce i crimini contro
l’umanità come “omicidio volontario, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazione, ed
altri atti inumani commessi contro qualsiasi popolazione civile, prima o dopo la guerra,
ovvero persecuzione per motivi politici, razziali, o religiosi, in esecuzione ovvero in
connessione con qualsiasi crimine che rientri nella giurisdizione del Tribunale (crimini
contro la pace o crimini di guerra, ndr), in violazione o meno della legge nazionale del
Paese in cui sono stati commessi.
4
Schewlb, in un suo articolo del 1946 sul British Yearbook of International Law, notava
già come la connessione esplicita dei crimini contro l’umanità ai crimini di guerra e contro
la pace rendeva perseguibili e punibili solo quegli atti criminali che colpivano direttamente
gli interessi di altri Stati , o perché connessi con una guerra di aggressione ovvero con la
sua pianificazione, o perché collegati a crimini di guerra, vale a dire a crimini contro
combattenti, o civili, nemici. Evidentemente, conclude Cassese (op. citata), gli Alleati non
se la sentirono di “legiferare” in modo che gli atti inumani fossero vietati
indipendentemente dalle loro conseguenze o implicazioni nei rapporti tra Stati.
7
Aldilà di un più dettagliato resoconto dell’evoluzione del concetto di
crimini contro l’umanità è opportuno notare come di fatto, in larga misura,
molti dei concetti alla base di questa categoria di crimini derivano o si
sovrappongono a quelli delle norme internazionali sui diritti umani (diritto
alla vita, diritto a non essere torturati diritto alla libertà e alla sicurezza),
contenuti negli strumenti internazionali in materia, primi fra tutte: la
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Convenzione contro il
genocidio, il Patto internazionale delle Nazioni Unite sui diritti civili e
politici, la Convenzione contro ogni forma di discriminazione, la
Convenzione contro la tortura. A questi si aggiungono strumenti regionali,
quali la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Convenzione
Americana sui diritti umani.
Nella codifica del crimine contro l’umanità, si possono chiaramente
identificare un elemento oggettivo, un elemento soggettivo, i possibili autori
e le possibili vittime.
La condotta tipica dei crimini contro l’umanità, spiega Cassese5
è
descritta a grandi linee sia nell’Accordo di Londra, sia, in modo simile, nella
legge n. 10 del Consiglio di controllo, nello Statuto del tribunale
internazionale di Tokyo, e inoltre negli statuti del TPIJ, TPIR. A ciò si
aggiunga che la giurisprudenza ha contribuito in modo graduale a definire i
contorni dell’elemento oggettivo (actus rei) dei crimini contro l’umanità. Da
ultimo è poi intervenuto in materia l’art. 7 dello Statuto della CPI: a tale
norma si può alternativamente guardare come la cristallizzazione delle
nozioni emerse recentemente in materia di crimini contro l’umanità ovvero
come la codificazione della maggior parte del diritto consuetudinario già
esistente in materia (per quanto l’art. 7 aggiunge qualcosa e al tempo stesso
limita qualcosa di quanto affermato attraverso la consuetudine).
In sintesi i crimini contro l’umanità sono costituiti dalle seguenti tipologie
di reato: omicidio volontario, sterminio, riduzione in schiavitù,
deportazione o trasferimento forzato della popolazione, imprigionamento o
forme gravi di privazione di libertà personale in violazione di norme
5
Cassese, A, op cit. p 92 e ss
8
fondamentali di diritto internazionale, tortura, violenza sessuale,
persecuzione, sparizione forzata di persone, altri atti umani di carattere e
gravità analoghi.
In materia di elemento soggettivo, sono tre i punti essenziali: il
dolo, la consapevolezza del rischio, la cognizione del nesso esistente tra la
sua condotta e una politica o una prassi sistematica di atrocità. Se i crimini
contro l’umanità assumono la forma della persecuzione è richiesto anche
l’intento persecutorio o discriminatorio.
Per quanto concerne i possibili autori, si considera che normalmente
i crimini contro l’umanità sono commessi dall’organo di uno Stato, vale a
dire individui che agiscono in veste ufficiale. La giurisprudenza ha
affermato nel tempo che i crimini contro l’umanità possono essere
commessi anche da individui che agiscono a titolo personale, posto che
agiscano in armonia con un più generale disegno politico statale e che i loro
crimini, di conseguenza, trovino in un tale disegno il necessario sostegno.
La stessa giurisprudenza riconosce la possibilità di incriminare per crimini
contro l’umanità organi o rappresentanti dello Stato che agiscono a titolo
personale e senza la formale approvazione dei propri superiori, a patto che
ci sia una qualche forma di approvazione, implicita o esplicita, o di
appoggio da parte di Stato o autorità governative o che il crimine sia
chiaramente incoraggiato da un disegno politico di carattere generale o,
almeno, che si inserisca chiaramente al suo interno.
In ultimo per la definizione delle possibili vittime, si tenga conto
che il dettato dell’art. 6c dell’Accordo di Londra, da cui deriva in maggior
misura il diritto consuetudinario in materia, identifica due tipologie di
crimine contro umanità: omicidio volontario e persecuzione. Mentre per
l’omicidio volontario, sterminio, riduzione in schiavitù e deportazione
definisce come vittime possibili “qualsiasi popolazione civile”, per la
persecuzione si sofferma sul movente (“per motivi politici, razziali e
religiosi”). Nel secondo caso, è dunque evidente la possibile inclusione di
membri delle forze armate tra le vittime, nel primo caso è applicata dalla
giurisprudenza una interpretazione estensiva, che afferma che “la presenza
9
di persone attivamente coinvolte nel conflitto non deve impedire che una
popolazione sia connotata come civile: le persone attivamente coinvolte in
un movimento di resistenza possono assumere la qualità di vittime di
crimini contro l’umanità.”6
1.2 L’evoluzione: dalla responsabilità aggravata alla competenza
universale
L’Accordo di Londra del 1945 riconosceva l’autorizzazione a
perseguire e punire le persone riconosciute colpevoli di crimini contro
l’umanità (a patto che tali atti fossero perpetrati in esecuzione di uno dei
crimini rientranti nella competenza del Tribunale o in collegamento con
essi), a prescindere dalla circostanza che essi abbiano costituito o meno
una violazione del diritto interno del Paese in cui sono stati commessi.
La portata della norma impatta la posizione dell’individuo in due
direzioni, una esplicita e forte, ovvero la dimensione dell’obbligo e della
responsabilità, l’altra implicita ma altrettanto forte, ovvero la definizione di
crimini internazionali contro l’uomo, in quanto essere umano. Il concetto di
umanità non è infatti riferibile a un dato quantitativo quanto sostanziale.
L’incidenza della seconda direzione rafforza la prima e l’amplifica, così che
si arriva all’affermazione nel diritto internazionale di uno jus cogens e di
una corrispettiva responsabilità aggravata per lo Stato che lo viola. Sono due
passaggi importanti verso l’erosione della supremazia assoluta della
sovranità statale nella comunità internazionale, che inizia a far venire alla
ribalta l’interesse naturalmente legittimo dell’individuo, essere umano che di
quello o di un altro Stato si trova ad essere cittadino, residente o abitante. Il
regime di responsabilità aggravata è stato infatti previsto per la
commissione da parte di Stati di un illecito che violi norme internazionali di
natura solidale, ovvero le norme che, ponendo obblighi a tutela dei valori
fondamentali della comunità internazionale, vincolano tutti gli Stati,
6
Kupreskic et al. , TPIJ ; Camera di prima istanza, sentenza 14 gennaio 2000 ( caso n. IT-
95-16-T)§ 549, in Cassese, opera citata. L’estensione interpretativa che tende a rompere la
suddivisione tra civili e militari nella definizione di vittime di crimini contro l’umanità
risponde alla graduale scomparsa in diritto internazionale consuetudinario del nesso tra
crimini contro l’umanità e conflitto armato.
10
rendendoli al tempo stesso portatori di un diritto collettivo, la cui violazione
viola simultaneamente i diritti di tutti gli altri Stati.
In conclusione, i valori riconosciuti come fondamentali dalla
comunità internazionale, da un lato richiedono la tutela di un interesse che
può essere anche in contrasto con quello dello Stato che compie l’illecito e
che ricade in ultima analisi sugli individui, dall’altro finiscono per attivare
un regime di attribuzione della competenza giuridica di fatto super partes, o
almeno concettualmente tale.
In altri termini, la rilevanza crescente attribuita alla tutela dei diritti
umani in ambito internazionale, si traduce lentamente in una nuova
impostazione del diritto penale internazionale. Tale impostazione risulta
ispirata da una forma di illuminismo giuridico oltre che dagli immancabili
rapporti di forza, secondo la dicotomia di intenti che sospinge l’evoluzione
della giustizia penale internazionale, così come ben illustrato da Garapon7
.
In tema di persecuzione dei crimini contro l’umanità, che evidentemente
intaccano lo jus cogens, Garapon8
sottolinea come quella di una
giurisdizione penale internazionale, attraverso la CPI o i Tribunali speciali,
non sia l’unica strada percorribile. “Ne esiste almeno un’altra, che procede
nel senso inverso e che, invece di sostituire le inefficienti giurisdizioni
nazionali con una supergiurisdizione, ricorre ai tribunali degli altri Paesi del
mondo, non direttamente coinvolti dagli episodi sotto accusa: si tratta della
competenza universale. Questo principio conferisce a uno Stato la
possibilità e talvolta l’obbligo di perseguire chiunque sia sospettato di
crimini di particolare gravità, che colpiscono la coscienza dell’umanità,
anche in difetto degli ordinari criteri di attribuzione della competenza
territoriale. I tribunali nazionali possono giudicare i delitti commessi al di
fuori del loro territorio anche se né l’autore né la vittima sono cittadini dello
Stato”
7
Garapon , A, “Crimini che non si possono né punire né perdonare”, Il Mulino, Bologna,
2004
8
Lo stesso Garapon (op. citata) individua nella Convenzione di New York del 1984 e nelle
quattro convenzioni di Ginevra del 1949 i testi a cui si ricorre più frequentemente nel
settore. Per le citazioni che seguono nel paragrafo si fa riferimento a Garapon, op cit. p.22
e ss.
11
La competenza universale, in via di consolidamento nella prassi, che
ha nell’”affare Pinochet” il più celebre esempio di applicazione, ripropone
all’interno dello Stato la tensione tra diritto e potere, propria della giustizia
internazionale.
Infatti, la casistica, oltre che l’intuito, conferma che “lo Stato è
tenuto a collaborare all’arresto dei criminali e nel sottoporli a giudizio, ma è
quasi certo che non darà impulso alla “sua” giustizia se non a seguito di forti
pressioni dell’opinione pubblica nazionale”. “La competenza universale
sublima la distinzione tra il livello interno e quello internazionale operando
uno sdoppiamento delle giurisdizioni nazionali: oltre ai compiti abituali,
queste vengono poste dallo Stato a disposizione di un ordine sopranazionale.
La loro legittimazione non deriva più solo dalla sovranità nazionale ma
anche dal diritto internazionale. La competenza universale pare segnare il
compimento di una nuova utopia democratica che va al di là della
rivendicazione di una giurisdizione sopranazionale”.
La riflessione di Garapon, sottolinea un aspetto di contesto
fondamentale e cioè che “la competenza universale, oltre a testimoniare la
de-territorializzazione estrema dell’idea di giustizia penale internazionale,
rimarca la supremazia di alcuni diritti fondamentali sulla territorialità”.
1.3 L’emergere del diritto alla verità
E’ evidente che l’interesse crescente della comunità internazionale
alla persecuzione dei crimini contro l’umanità nasce da una penetrazione
progressiva del diritto internazionale dei diritti umani nel diritto
internazionale tout-court.
In questo contesto, da un lato evolve la concezione stessa di giustizia
penale internazionale: se ne codificano i principi e se ne configurano gli
strumenti. Dall’altro, si lavora sul versante delle vittime: siano esse le
vittime dirette, indirette o potenziali.
La domanda da porsi è la seguente: in cosa si sostanzia il più
generico “right to a remedy” nei casi di gravi e sistematiche violazioni dei
12
diritti umani fondamentali, di cui le vittime di crimini contro l’umanità
portano il peso, anche quando tali violazioni sono cessate?
Come si rimedia all’irrimediabile? Chi è responsabile del
soddisfacimento di un tale diritto?
E’ chiaro che in questo ambito il diritto internazionale non può tirarsi
indietro, pur essendo chiaro che il principio di riparazione e risarcimento
totale è qui inapplicabile.
Particolarmente rilevante appare la Risoluzione dell’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite 60/147 del 21 marzo 2006 “Principi di base e
Linee guida sul diritto al rimedio e alla riparazione per le vittime di
violazioni massive del diritto internazionale dei diritti umani e di gravi
violazioni del diritto internazionale umanitario” .
Innanzitutto, nel Principio 1, la Risoluzione chiarisce che “esiste un
obbligo per gli Stati a rispettare, assicurare il rispetto e implementare il
diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario,
derivante dai Trattati di cui uno Stato è parte, dalle norme consuetudinarie e
dalla legislazione interna a ciascuno Stato” (1,a b,c). Tra le altre cose,
esplicita l’obbligo per gli Stati di assicurare che la propria legislazione
interna sia coerente con i propri obblighi internazionali, “rendendo
disponibili rimedi adeguati, efficaci, tempestivi e appropriati, includendo in
questi le misure riparatorie, come più avanti nella stessa Risoluzione meglio
identificate” (2 c)
L’obbligo di investigazione da parte dello Stato viene sancito già nel
Principio 3, dove si esplicita che lo Stato ha l’obbligo di “investigare con
efficacia, tempestività e imparzialità e, dove appropriato, di agire contro
coloro che su base di prove risultano responsabili, secondo il diritto interno
e internazionale”. (3 b) Nello stesso Principio si imputa chiaramente, allo
Stato, l’obbligo di fornire accesso alla giustizia, a quelle persone che
sostengono di essere state vittime di violazioni dei diritti umani o del diritto
umanitario, a prescindere da chi sia il responsabile ultimo delle violazioni
(c) e a fornire rimedi efficaci alla vittima, ivi incluse misure riparatorie,
come descritte a seguire nella stessa Risoluzione. (d)
13
Già questo basterebbe per dedurre un’importante indicazione
proveniente dal diritto internazionale, da cui si ricava:
• L’obbligo tanto di investigare quanto di fornire
accesso tempestivo ed efficace alla giustizia da parte dello Stato,
intendendosi, i precedenti, come due obblighi complementari e non
alternativi
• L’obbligo di fornire rimedi e misure riparatorie
efficaci e soddisfacenti alle vittime
La Risoluzione va avanti dedicando esplicitamente una sezione ai
casi di “gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del
diritto umanitario che costituiscono crimini per il diritto internazionale”. In
questa sezione si riaffermano gli obblighi di investigazione e di
sottomissione alla giustizia dei responsabili, aggiungendo l’obbligo per gli
Stati di cooperare tra loro e con gli organi competenti della giurisdizione
internazionale, facendo rientrare, in maniera esplicita, in questa ultima serie
di obblighi, quello di facilitare l’estradizione o la resa dei criminali ad altri
Stati o agli organi competenti della giurisdizione internazionale. (4-5)
Questo approccio, ancora Stato-centrico, che sembra riconoscere un
diritto alla verità a contrario, a partire da un obbligo statale, viene ribaltato
nell’affermazione dei Principi che, nella sezione dedicata della stessa
Risoluzione, definiscono le vittime potenziali, ne assumono la prospettiva e
ne stabiliscono i diritti.
Innanzitutto le vittime vengono definite come “le persone che
individualmente o collettivamente hanno subito un danno che, sotto varie
forme, costituisce una grave violazione dei diritto internazionale dei diritti
umani o del diritto internazionale umanitario”, facendo rientrare anche i
familiari diretti o chi ne dipende e le persone che sono intervenute per
assistere le vittime dirette o prevenire la violazione. (8)
La caratterizzazione corale delle vittime, che nelle gravi violazioni di
diritti umani tende a coesistere con la dimensione individuale, viene ripresa
e rafforzata nel Principio 13 in cui, riaffermando l’obbligo dello Stato a
14
fornire accesso alla giustizia agli individui, si afferma l’estensione
dell’obbligo verso “gruppi di vittime”.
E’ in questo contesto che la Risoluzione compie, a mio giudizio, un
passo avanti importante, affermando esplicitamente tre “classi” di diritti che
sostanziano il più ampio “right to a remedy” della vittima, esplicitati nel
Principio 11, che recita come segue:
“Rimedi per gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti
umani e gravi violazioni del diritto umanitario internazionale includono il
diritto della vittime a quanto segue, secondo quanto previsto dal diritto
internazionale:
a) Accesso alla giustizia equo ed efficace
b) Riparazione adeguata, efficace e tempestiva per il
danno subito
c) Accesso alle informazioni rilevanti in relazione alle
violazioni e ai meccanismi di riparazione
Per ciascuno di questi diritti, si esplicitano contenuti e obblighi per
lo Stato nei Principi seguenti, fissati nella stessa Risoluzione. In particolare,
il Principio 24 in materia di “Accesso alle informazioni rilevanti in
relazione alle violazioni e ai meccanismi di riparazione”, esplicita il diritto
alla verità, in termini di “right to learn the truth” , come segue:
“In aggiunta, le vittime e i loro rappresentanti devono a pieno titolo
poter cercare e ottenere informazioni sulle cause che hanno condotto alla
loro vittimizzazione e sulle cause e le condizioni riguardanti le gravi
violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto
internazionale umanitario e ad apprendere la verità riguardo a tali
violazioni”.
Nel contesto di questa riflessione, sono due i punti importanti che
escono esplicitati dalla Risoluzione in questione:
• l’obbligo dello Stato di investigare e di fornire
accesso alla verità e l’obbligo dello Stato di fornire accesso a una
giustizia tempestiva, equa e efficace, costituiscono il “cappello” di
15
tutte le misure riparatorie a cui le vittime9
hanno diritto, a seguito di
gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani. In altri
termini, il soddisfacimento del diritto ad apprendere la verità e del
diritto ad accedere a una giustizia equa, tempestiva ed efficace, si
affianca, senza poter esserne sostituito sulla base di nessuna
valutazione politica, al soddisfacimento del diritto a misure di
restituzione, compensazione, riabilitazione, soddisfazione e garanzia
di non ripetizione10
.
• “Le vittime e i loro rappresentanti” sono portatori
attivi di un diritto ad accedere all’informazione rilevante in merito
alle cause delle violazioni e ad apprendere la verità in merito a tali
violazioni. Nello stesso Principio (24) si afferma che lo “Stato dovrà
sviluppare mezzi per informare il pubblico generale e le vittime in
particolare sui diritti e sui rimedi affrontati dai Principi di base e
Linee guida adottati nella Risoluzione, oltre che su tutti i servizi
(legali, sociali, medici, amministrativi, psicologici) a cui le vittime
potrebbero avere diritto ad accedere”.
In merito a questo ultimo punto, resta da argomentare la relazione tra
“pubblico generale” e diritto alla verità, in quanto sostanzialmente, seppur
indirettamente, il “pubblico generale” sembra escluso (ex Principio 24) dal
diritto “ad apprendere la verità” sulle cause delle violazioni e sulle
violazioni stesse.
Sul primo punto possiamo, invece, già giungere a una conclusione
importante che chiarisce il rapporto vitale tra verità e giustizia nei casi di
gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto
internazionale umanitario, in cui i crimini contro l’umanità rientrano a pieno
titolo.
9
Per la definizione di vittime si faccia riferimento a quanto sintetizzato in precedenza in
questa trattazione, sulla base dei Principi 8-9 della Risoluzione 60/147 dell’Assemblea
Generale
10
Si riprende la categorizzazione delle misure di riparazione, resa esplicita nei Principi 18-
22 della Risoluzione 60/147 dell’Assemblea Generale.
16
La separazione degli obblighi dello Stato in caso di crimini contro
l’umanità e la speculare articolazione distinta dei diritti è fondamentale, da
un lato per l’emersione netta di un diritto alla verità al soddisfacimento del
quale lo Stato deve impegnarsi; dall’altra per la non derogabilità
dell’obbligo di lasciare aperto l’accesso alla giustizia, neanche in nome di
un processo di riconciliazione che passi da più o meno articolate
Commissioni per la verità.
Sembra confermarsi appieno la tesi di Mendez che, parlando nel
1997 di un diritto alla verità come di un principio emergente, affermava11
:
“Sebbene ogni violazione di un obbligo internazionale faccia sorgere, in
capo allo Stato responsabile, un obbligo di riparare il danno causato, quando
si tratta di crimini contro l’umanità tale obbligo è più ampio. Non si può
tradurre in un indennizzo monetario, perché significherebbe permettere agli
Stati di mantenere l’impunità in cambio di denaro.
Il concetto di “riparazione integrale” richiederebbe innanzitutto uno
sforzo per tornare allo status quo ante, rimedio che, nella maggior parte dei
casi, non sarà possibile. Ma non si può considerare integrale la riparazione
se non include la investigazione, la rivelazione dei fatti e uno sforzo per
processare e castigare penalmente e disciplinarmente coloro che ne risultano
responsabili.
Il diritto alla verità è parte, dunque, di un più ampio diritto alla
giustizia detenuto dalle vittime di questo tipo di crimine. Per essere più
precisi, il sistema di obblighi che nasce in capo allo Stato da questo tipo di
crimini è quadruplice: obbligo a investigare e a far conoscere i fatti che si
possono stabilire con certezza (verità); obbligo di processare e punire i
responsabili (giustizia); obbligo di riparare integralmente i danni morali e
materiali provocati (riparazione); obbligo di estirpare dai corpi militari e di
sicurezza coloro che si sappia abbiano commesso, ordinato o tollerato tali
abusi (creazione di forze armate e di sicurezza degne di uno Stato
11
J.E. Méndez, "Derecho a la verdad frente a las graves violaciones a los derechos
humanos", in M. Abregú, Ch. Courtis (a cura di), « La aplicación de los tratados sobre
derechos humanos por los tribunales locales », Buenos Aires, Editores del Puerto, 1997, pp.
5-6
17
democratico)”. Quest’ultimo può essere fatto rientrare nel più ampio
obbligo, stabilito nella Ris. 60/147, di “intraprendere misure appropriate, in
campo legislativo, amministrativo e di altra natura per prevenire le
violazioni”12
.
Continua Mendez13
: “Questi obblighi non sono alternativi gli uni
agli altri, né sono opzionali: lo Stato responsabile deve assolvere ciascuno di
essi nella misura delle proprie possibilità e della buona fede. (..) Sebbene
questi quattro obblighi siano interdipendenti bisogna considerare che
ciascuno di essi ammette un assolvimento separato e in sé compiuto. Non è
possibile che uno Stato scelga quale di questi obblighi dovrà assolvere.
Però, se uno di essi risulta impossibile da compiersi, gli altri tre continuano
ad incombere quali obblighi inderogabili”.
Potrebbe, ad esempio, farsi il caso dell’impossibilità di processare i
responsabili a causa della vigenza di leggi di pseudo-amnistia, per cui lo
Stato sarebbe comunque obbligato a perseguire la ricostruzione della verità
e la sua diffusione tra le vittime e i loro rappresentanti, ad attuare le misure
riparatorie e ad adottare misure legislative e amministrative di prevenzione.
Nell’orizzonte di un vero processo di riconciliazione, il
soddisfacimento del diritto alla verità, come delineato, è un aspetto
rilevantissimo, seppur ancora in via di consolidamento nella prassi.
Riconoscere una strumentalità solo incidentale del diritto alla verità
rispetto al diritto alla giustizia, e rilevare così la sua finalità “altra” permette
di rendere efficace e rispondente ai suoi compiti l’azione giudiziaria.
Il soddisfacimento del diritto alla verità, così impostato, può
finalmente prendere su di sé aspirazioni altrettanto legittime, più composite
e per questo non proprie dell’azione giudiziaria.
Evitando sovrapposizioni forzate e generando confusione di
aspettative nelle vittime in senso lato, il soddisfacimento del diritto alla
verità come parte di una più ampia aspirazione di giustizia (e non in essa
12
A/RES/60/147, Principio n. 3 (a)
13
Mendez, op. cit. p 5 e ss
18
compiuto), rafforza la funzione garantista del diritto e dell’azione
giudiziaria che da tale funzione è ispirata.
E’ importante, infatti, tenere a mente che se il fine è la
ricomposizione di uno Stato democratico credibile, tale credibilità non può
non passare attraverso l’impegno dello Stato verso tutti i suoi componenti a
porsi quale istituzione garante del diritto e dei diritti di ciascuno. L’azione
giudiziaria penale ha per sua natura una funzione garantista verso gli
imputati e pienamente tale rimane nel caso della persecuzione dei crimini
contro l’umanità14
.
“Il problema ha dimensioni legali, etiche e politiche, ed è un
imperativo riconoscere e affrontare ciascuna e affrontarle nel loro insieme.
Sarebbe un errore per il movimento dei diritti umani permettere che venga
rilegato in un angolo del dibattito in quanto portatore di una posizione
univocamente “moralista” o “giustizialista” . Il rischio è di essere etichettati
come “intransigenti” e come “vendicativi e “oppositori della riconciliazione.
(…) Dobbiamo, dunque, essere pronti ad assumere una posizione più sobria
e realistica nel considerare i limiti politici nel proporre misure e parametri di
credibilità e affidabilità. Una tale posizione, d’altro canto, non ha come
risultato necessario il soccombere della “questione di principio” alla
realpolitik. Infatti, si può affermare che un programma di verità e giustizia
non è soltanto la cosa giusta da fare, ma è politicamente desiderabile perché
ci fa avanzare notevolmente nella realizzazione dell’idea di democrazia che
guida il post-dittatura”.15
1.4 Verità e giustizia: un dibattito aperto
Chiarito il punto di partenza della riflessione sul rapporto tra verità e
giustizia, ovvero che l’accesso alla verità e l’accesso alla giustizia non sono
strade alternative ma diritti ugualmente non derogabili in caso di avvenuti
14
Eiroa, P. “Dalla Comision nacional sobre la Desaparicion de Personas alla stagione
processuale. Sul fine della giustizia penale”, intervento al Convegno Internazionale
“Memoria e giustizia”, ottobre 2008, Firenze
15
Mendez, J. E., Acountability for past abuses, in Human Rights Quarterly, Baltimore,
Febbraio 1997 p. 5
19
crimini contro l’umanità, è il caso di chiarire il punto di arrivo, ovvero il
fine a cui si guarda nell’articolare questa riflessione.
Le diverse concezioni del dove si collochi e del come si sostanzi il
diritto alle verità e l’obbligo che ne consegue per lo Stato hanno dato (e
continuano a dare), origine a diverse soluzioni e strumenti adottati in quella
che più tradizionalmente viene chiamata giustizia di transizione.
Che il dibattito sia aperto è testimoniato proprio dall’evoluzione dei
diversi strumenti adottati nelle esperienze post dittatoriali in tutto il mondo:
dai processi ai Tribunali speciali per il Rwuanda e l’ex Yugoslavia, alle
Commissioni per la verità, queste ultime tutte diverse nelle finalità e nelle
attribuzioni, partendo dalle esperienze latinoamericane alla specialissima
esperienza della Sierra Leone.16
Il punto è comprendere la prospettiva in cui si incornicia il dibattito
e, di conseguenza, i livelli e gli strumenti di azione che si identificano e
implementano.
E’ chiaro che il diritto alla verità assumerà connotazione e rilevanza
differente se collocato concettualmente in un processo di pura “transizione”
da un regime dittatoriale a uno Stato democratico, piuttosto che in un più
strutturale e lungimirante processo di riconciliazione all’interno uno Stato
democratico.
A seconda dell’orizzonte di riferimento sarà anche diversa la valenza
e la rilevanza attribuita al rapporto tra verità e giustizia.
Il primo punto da sottolineare è che quando si parla di diritto alla
verità si corre un grande rischio, che è quello di fermarsi alle parole. In altri
termini, che il diritto alla verità si traduca in una semplice attività cd “di
truthseeking” nell’ambito della giustizia di transizione, attività senza dubbio
fondamentale, ma non esaustiva della portata del diritto alla verità.
16
La Commissione per la Verità in Sierra Leone, inaugurata nel 2002, si affianca
all’istituzione di un Tribunale speciale indipendente: un tribunale locale a carattere
internazionale, non posto sotto l’egida delle Nazioni Unite ma nato da un accordo tra Sierra
Leone e Nazioni Unite. Seppur con i limiti che nel corso del tempo si sono resi
maggiormente evidenti, la soluzione adottata in Sierra Leone presenta un carattere di forte
innovatività, accostando negli intenti e negli strumenti il percorso della giustizia a quello
della riconciliazione.
20
Méndez nota, giustamente, come la transizione prima o poi si
concluda, mentre non si chiudono le questioni con il passato, così che lo
Stato democratico si ritroverà a dover decidere di cosa fare con le violazioni
gravissime dei diritti umani intercorsi prima del suo rinascere e
stabilizzarsi17
.
A mio giudizio, questo è un punto fondamentale per inserire il diritto
alla verità nell’orizzonte più ampio che gli compete, che trascende quello
prettamente giuridico per inserirsi nell’orizzonte della riconciliazione.
In altri termini, seguendo il ragionamento portato avanti da Mendez
sul tema della capacità dello Stato di assumersi le sue responsabilità18
, se si
tiene ben a mente che il diritto alla verità non può prescindere dalla giustizia
ma non è ad essa finalizzato, si arriva a comprendere meglio il dovere ( e
l’interesse) dello Stato ad attuare il diritto alla verità anche e
imprescindibilmente attraverso i meccanismi della giustizia.
Del resto, che la giustizia sia essenziale ma non sufficiente ad
affrontare la portata dei crimini contro l’umanità è un’osservazione sollevata
da più punti nel dibattito internazionale.
Riprendendo le riflessioni di Hannah Arendt19
, Garapon rileva i
limiti del modello del processo penale, “colto alla sprovvista dalle
dimensioni - tanto quantitative che qualitative - del crimine contro
l’umanità”. Invitando a riflettere su come la giustizia penale internazionale
celi una insidiosa dominazione culturale, a meno di non ritenere che ciò che
è universale non sia tanto una forma, quella del processo equo, ma una
funzione, l’autore suggerisce appunto di orientare la riflessione sulla
“funzione” da attribuire alla giustizia penale internazionale, ovvero
17
Mendez, J. Derecho a la verdad frente a los graves violaciones a los derechos humanos,
op. cit.
18
Mendez, Jaun E, Accountability for past abuses, op. cit.
19
Hannah Arendt, manifestava all’indomani del processo di Norimberga, la sua perplessità,
scrivendo: “Mi pare che questi crimini non possano essere analizzati da un punto di vista
strettamente giuridico, e ciò è dovuto alla loro mostruosità. Non esistono pene adatte a essi:
punire Goring è certamente necessario ma del tutto inadeguato” (da Carteggio. Filosofia e
politica, Milano, Feltrinelli, 1989) e ancora “Tutto quello che sappiamo è di non poter né
punire né perdonare tali crimini, che quindi trascendono il dominio delle cose umane e le
potenzialità del potere umano, distruggendoli entrambi radicalmente ovunque si compiano”
(da Vita Activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 2005)
21
permettere la riconciliazione, da non confondere né con la pace, né con la
sanzione. 20
.
In questo orizzonte di riflessione, in cui il fine della “transizione”
non è solo un passaggio ma una ricostruzione, appare molto appropriato
l’approccio di Ruti Teitel 21
alla giustizia cd “di transizione”, definita
dall’autrice come un forma di giustizia retroattiva che impatta su tre livelli:
giuridico, politico, morale. Proprio nel riconoscere la triplice composizione
della giustizia di transizione, Teitel si distacca tanto da un approccio
puramente realista, che guarda ai limiti imposti politicamente e
istituzionalmente in un periodo di transizione, tanto da una prospettiva più
marcatamente idealista, che sembra attribuire a una legge la capacità di
attivare una serie di cambiamenti non solo giuridici ma anche politici, che
portino ad una situazione universalmente riconosciuta come ideale.
Teitel introduce un approccio “costruttivista” alla giustizia di
transizione, riconoscendone da un lato l’orientamento al passato, dall’altro
l’orientamento al futuro e ponendo questo potenziale trasformatore della
giustizia in stretta relazione con la ricettività sociale dell’innovazione.
Superando i limiti della riflessione di Nino22
, che sembrava centrare
l’analisi della transizione sulle decisioni politiche e sulle intuizioni di uno o
pochi individui, in una sorta di “storia delle decisioni”, Teitel adotta un
nuovo approccio che modifica il concetto stesso di “facoltà agente nella
storia”. Nel suo approccio i limiti dell’azione e del potere trasformatore
della legge sono modellati a partire da un determinato contesto sociale che
elabora tali limiti, fino a dare o meno luogo alla trasformazione23
. In altri
termini, “non si tratta solo di elaborare una riposta a un passato conflittuale
ma in periodi di transizione le società si trovano a cercare di trasformare i
sistemi politici legali e finanche economici che hanno ereditato dai governi
20
Garapon, op cit. pg. 227 e ss
21
Teitel, R. “Transitional justice”, Oxford University Press, Oxford, p 37
22
Nino,C “Juicio al mal absoluto. Los Fundamentos y la istoria del juicio a las Juntas del
Proceso”, Emecé, Buenos Aires, 1997
23
Per confronto sulle posizioni di Nino e Teitel si veda Schorr, M.”La transicion a la
democrazia en la Argentina” in “Pensar la democrazia, imaginar la transicion”, Macon, C
(a cura di) p. 30 e ss.
22
autoritari precedenti e che giustamente hanno reso possibile l’esistenza di
tali regimi”24
. .
L’approccio di Teitel riporta alla ribalta la società civile in quanto
agente nella storia e nella transizione da regimi dittatoriali allo Stato
democratico. Nota Schorr: “l’analisi di Teitel genera lo spazio necessario
per investigare la partecipazione sociale, pur nella conflittualità e nella
eterogeneità che ne deriva, nei processi decisionali” 25
, concludendo che
“una storia della transizione, non è da considerarsi strettamente legata alle
decisioni prese da attori individuali, come nella tesi di Nino, ma dovrà
prendere in considerazione un contesto sociale più ampio in cui molto del
possibile e del pensabile è creato e sostenuto socialmente”26
.
In sintesi, si introduce la società civile in una riflessione sulla
giustizia e la verità che adotti la più complessa ottica della riconciliazione.
24
Schorr, op. cit. p. 37
25
Idem
26
Ibidem, p. 38
23
2 La prospettiva della società civile
I crimini contro l’umanità hanno un impatto molto forte sulla società
civile. Innanzitutto in senso diretto, perché gruppi o componenti della
società civile ne sono le vittime, in secondo luogo perché la loro portata e
“mostruosità” hanno una incidenza estendibile all’intero corpo sociale.
2.1 Quale società civile
Garapon riflette sull’impatto che i crimini contro l’umanità possono
apportare nell’opinione pubblica, registrando come le stesse società
democratiche, o aspiranti tali, abbiano un potere notevole nello spingere
all’attivazione i meccanismi della giustizia di fronte alle gravi violazioni di
diritti umani.
“ Il pessimismo degli oppositori della giustizia penale internazionale
li rende ciechi quanto alla dinamica profonda di questa idea, forse perché la
ricercano nell’ambito delle relazioni internazionali, mentre paradossalmente
va cercata anche all’interno delle società democratiche. (...) La giustizia
penale internazionale trova il proprio dinamismo in questo
ridimensionamento tra la dimensione locale e la dimensione mondiale. (…)
Il processo di istituzionalizzazione deve attingere da qualche parte la propria
forza. Ma da dove? Perché gli Stati hanno sentito il bisogno di legarsi le
mani, di complicare così i propri compiti, di dar vita a un processo che, nel
tempo, affievolisce il loro potere? Perché sono spinti da una forza nuova,
tipica delle democrazie: l’opinione pubblica. Dimenticarlo è l’aspetto debole
della tesi realista, che limita la potenza al solo potenziale militare o
economico, senza cogliere che le democrazie devono fare i conti con questa
nuova forza, non organizzata ma comunque temibile. (…) La giustizia
penale internazionale non può imporsi con la sola forza delle idee: ma può
farlo in quanto rappresenta l’eco di aspirazioni profonde ed è sostenuta da
militanti e da giuristi, nonché dall’opinione pubblica”. 27
27
Garapon, op. cit. p. 67 - 68
24
Questo passaggio è fondamentale perché ci permette di collocare la
società civile nel ruolo che gli spetta nella riflessione sul diritto alla verità di
fronte ad avvenuti crimini contro l’umanità.
In altri termini, la tesi è che la società civile, rappresentata non
soltanto dalle ONG, non ha soltanto il ruolo di supporto alle investigazioni
e alle giustizia, una volta che una forma di potere istituzionalizzato – sia
esso nazionale o internazionale – abbia dato il via a un percorso di verità e
giustizia.
Primo punto di questo approccio: la società civile è un’entità più
ampia degli organismi sociali sotto varia forma organizzati, di cui spesso si
fanno portavoce organizzazioni quali le ONG.
Secondo punto: la società civile è portatrice di una esigenza espressa
e diffusa che si traduce in una istanza di verità e giustizia, motore di
attivazione dei percorsi sopra citati.
Bisogna dunque chiarire, innanzitutto, cosa si intende per società
civile, per poi indagare l’arricchimento che il suo coinvolgimento diretto e
pro-attivo apporta al dibattito sul diritto alla verità e alla giustizia e alle
soluzioni applicate.
Nel definire gli attori della società civile, usiamo, rielaborandola e
ampliandola, la definizione presente nel Manuale per la Società Civile28
dell’OHCHR, per cui consideriamo attori della società civile gli individui
che, in maniera volontaria, si impegnano in forme di partecipazione
pubblica e di azione attorno a valori, interessi e obiettivi condivisi, oltre a un
pubblico più generale che di tali azioni è referente o destinatario più o meno
diretto. In questo senso, rientrano nell’ ampia definizione di società civile:
• Attivisti di diritti umani
• Organizzazioni per i diritti umani (ONG, associazioni, gruppi
di vittime)
• Organizzazioni che lavorano per uno scopo pertinente o
collegato ai diritti umani
28
Working with the United Nations Human Rights Programme – A Handbook for Civil
Society, Introduction, p. vii
25
• Coalizioni e network (diritti delle donne, diritti dei bambini,
diritti ambientali)
• Persone con disabilità e le organizzazioni che le
rappresentano
• Raggruppamenti di comunità (indigeni, minoranze)
• Gruppi religiosi
• Associazioni di categoria (associazioni industriali, ordini di
professionisti, giornalisti, magistrati, studenti)
• Movimenti sociali (movimenti pacifisti, movimenti
studenteschi, movimenti democratici)
• Professionisti direttamente coinvolti nell’ambito dei diritti
umani (avvocati, operatori umanitari, medici e operatori
sanitari)
• Parenti delle vittime
• Istituzioni pubbliche impegnate nell’implementazione di
attività per la promozione dei diritti umani (scuole,
università, centri di ricerca)
• Pubblico generale
Dunque, contestualizzando il dibattito sul diritto alla verità su queste
coordinate e assumendo la società civile (sopra esplorata nelle sue
componenti) come uno stakeholder assolutamente rilevante nel dibattito in
questione, appare più che appropriata la posizione di Teitel, per cui la
questione del diritto alla verità e alla giustizia è una questione politica .
Nel caso dei crimini contro l’umanità, la società civile è chiamata in
causa in primissimo piano, in quanto abitante della sfera pubblica, luogo
simbolico ove i crimini concretissimi si consumano.
26
2.2 Un diritto collettivo?
Il crimine contro l’umanità straripa dagli argini del diritto penale, per
la sua natura “politica”. Lo Stato garante dei sui cittadini ne diventa il
carnefice. Questo sottintende che si rompa il patto politico, classicamente
inteso come il patto alla base di ogni comunità civile che riconosce una
forma di sovranità allo Stato in cambio della sicurezza e della garanzia di un
interesse comune, tutelato in ultima istanza dal potere giudiziario. In altri
termini, i crimini contro l’umanità ci pongono davanti al collasso di una
comunità giuridica, per mano di chi istituzionalmente dovrebbe essere
custode dei fondamenti di tale comunità29
.
E’ qui che, a mio modo di vedere, si attiva una sorta di sussidiarietà
orizzontale, tragica in un certo senso, ma fondamentale, per cui tale
funzione di custodia passa de facto alla società civile.
E’ chiaro che i mezzi saranno diversi e diversi saranno gli esiti.
Però la consapevolezza di un dovere di verità, nato da un’esigenza
diffusa e dai diritti dei molteplici singoli violati, fa sì che la società civile,
nel suo insieme, arrivi a detenere di fatto un diritto alla verità e alla
giustizia. Tale diritto non è che l’altra faccia del dovere “politico” di
ricomposizione della comunità giuridica, in capo allo Stato democratico. E’
un diritto della società civile attuale e al tempo stesso un dovere verso le
generazioni future. In questo si spiega la necessità sempre avvertita di “fare
memoria”, in uno spazio collettivo e sociale che tocca, per sua natura, il
diritto, la politica e la morale.
Dunque, accanto a un diritto inalienabile in capo ai singoli (le
vittime e i loro rappresentanti) ad “apprendere la verità sulle violazioni e
sulle cause che hanno portato a tali violazioni”30
, come ad avere accesso
alla giustizia e a tutte le forme di riparazione previste, esiste un diritto del
“pubblico generale” non solo all’informazione in termini dei diritti e rimedi
riconosciuti31
, ma anche alla verità e alla giustizia, in quanto passaggi
fondamentali di un percorso di ricomposizione del patto democratico.
29
Garapon, op. cit.
30
A/RES/60/147, Principio n. 24
31
Idem
27
Mendez32
, nella sua analisi del diritto alla verità, rileva come esista
una duplice esigenza che pone obblighi di diversa natura allo Stato
democratico. Da un lato esiste l’obbligo per lo Stato di investigare,
ricostruendo nel dettaglio il piano criminale, i mandatari e gli esecutori dei
crimini; dall’altro esiste la necessità di rispondere del diritto alla verità di
ciascuna vittima e dei suoi rappresentanti. L’obbligo per lo Stato di
soddisfare tale diritto alla verità “individualizzata”, verso ogni vittima e
verso ogni famiglia di un desaparecido, persiste fino a quando sussiste
qualsiasi tipo di incertezza sulla sorte e sulla apparizione della vittima
dell’abuso statale33
.
L’ampiamente citata Risoluzione dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite n. 60/147 aggiunge agli obblighi dello Stato quello di
“adottare misure legislative e amministrative e altre misure appropriate per
prevenire violazioni”34
. Questo amplia di fatto il diritto alla “prevenzione” a
tutte le potenziali vittime o artefici di future violazioni, ovvero la società
civile nel suo complesso. Sembra ragionevole far rientrare tra le “misure
appropriate” di prevenzione la conoscenza dei fatti e di conseguenza il
soddisfacimento di un diritto alla verità in cui tale conoscenza trova
fattispecie giuridica.
E’ interessante notare come in questo ambito la società civile è
duplice destinatario, nell’estendersi delle generazioni, di un tale obbligo,
essendo “ricettore” della verità giuridica e non solo, e al tempo stesso
produttore di memoria (o più precisamente di memorie).
Questo ragionamento testimonia che l’esigenza della società civile
alla verità ha bisogno di sostanziarsi in un diritto alla verità che passa anche
attraverso la giustizia, ma in essa non si esaurisce.
Il diritto alla verità della società civile è bi-fronte, se così possiamo
dire. Da un lato, è diritto a conoscere verità, attraverso i meccanismi
dell’investigazione e della giustizia, dall’altro a tramandare verità attraverso
32
Mendez, Derecho a la verdad frente a graves violaciones de los derechos humanos, op.
cit.
33
Corte Interamericana dei diritti umani , caso “Velasquez Rodriguez” sentenza 29.07.1988
34
A/RES/60/147, Principio n. 3,(a)
28
la produzione di memoria, nel pieno esercizio del diritto di espressione di
ciascun uomo e di ciascun gruppo.
E’ fondamentale sottolineare come il primo è soddisfatto da una
verità univoca, giudiziaria, sulla base della quale prendono corpo le
iniziative “istituzionali” della memoria, il secondo è soddisfatto
dall’apertura al pluralismo delle espressioni e dei contenuti delle memorie.
Per questo la prospettiva del diritto non è sufficiente a soddisfare il
diritto alla verità della società civile, ma è fondamentale per liberare la
seconda multiforme componente, che è quella delle memorie, dalla pretesa
di assolutismo.
La ricostruzione dello Stato democratico, dunque, non può
prescindere da un serio percorso di verità e giustizia, ma nei casi di crimini
contro l’umanità, tale percorso non può prescindere dalla dimensione
collettiva.
Seguendo la tesi di De Greiff “nel caso di abusi gravi e sistematici,
l’interesse dell’azione giudiziaria supera lo sforzo di ripagare il danno
particolare subito dalla singola vittima, il cui caso si discute davanti a un
Tribunale. Qualunque sia il criterio di giustizia che si caldeggia, questo
dovrà consistere in un approccio capace di salvaguardare anche le pre-
condizioni per ricostruire la supremazia della legalità (rule of law), un
obiettivo che ha di necessità una dimensione pubblica e collettiva”35
.
2.3 Liberare la memoria: le pratiche collettive
La memoria è una “funzione” fondamentale degli individui come
delle collettività, tanto che Locke arrivava a connetterla strettamente con
l’identità, sostenendo che ciò che ci definisce sono i nostri ricordi. Accanto
a una memoria individuale esiste la memoria collettiva. Halbwachs è stato il
primo a proporre un approccio sociologico allo studio della memoria che
trasformasse quest’ultima da categoria astratta a costrutto sociale, ove il
modo in cui si cristallizza non solo determina e influenza i ricordi stessi, ma
35
De Greiff, “Repairing the past: compensation for victims of human rights violations”, in
“The Handbook of reparations”, International Centre for Transitional Justice, 2006, p. 14
29
svolge anche funzioni positive, in particolare quella di rafforzamento della
coesione sociale attraverso l’adesione al gruppo36
.
La memoria, dunque, ha molto a che vedere con il passato e con il
presente, o meglio con un passato che si attiva o si ricostruisce, avendo
pertanto effetti attuali. Al tempo stesso determina una relazione con il
futuro, che sembra aprirsi ad alcune possibilità piuttosto che ad altre, sulla
base di valutazioni che portano il peso della storia37
.
La questione della memoria nelle società post-dittatoriali - in
particolare nei casi feroci di avvenuti crimini contro l’umanità - postula
l’effettività del diritto alla verità e del diritto alla giustizia. Vediamo
brevemente perché.
Come spiegano Dussel, Finocchio e Gojman non è possibile una
riflessione sulla memoria che non approcci la questione anche a contrario,
ovvero considerando che la memoria collettiva è funzionalmente collegata
all’oblio.
Ogni corpo sociale, complessivamente o in alcune sue parti,
conserva una data relazione con il passato, selezionando alcune cose che
crede valga la pena ricordare e altre che lascia cadere nell’oblio. La
memoria collettiva si sostanzia di forme e luoghi, di riconoscimenti
raggiunti nella sfera dei diritti umani, nella memoria dei sopravvissuti e dei
loro rappresentanti, prendendo forma variegata nelle espressioni dell’intera
società.38
Gli studi sulla memoria hanno messo in luce come i processi sociali
di ricostruzione del passato abbiano una natura dinamica e a volte
conflittuale, andando in questo senso a integrare la teoria di Halbawchs.
“Proprio per la sua origine sociale la memoria, infatti, non è una sola, ma
spesso accanto alla memoria che ricorda un passato istituzionalizzato e
visibile, ve ne è una nascosta, negata, censurata, rimossa. La memoria può
36
Le teorie di Halbwachs sulla Memoria collettiva e sui Quadri sociali della memoria sono
punto di riferimento fondamentale per qualsiasi riflessione sulla memoria. In questo
contesto vengono citati, in quanto parte della riflessione di Marzia Rosti, in La forza della
memoria nel caso dei desaparecidos argentini, in www.24marzo.it
37
Dussel I, Finocchio S, Gojman S. Haciendo memoria en el pais de nunca mas, p 135 e ss,
Eudeba, Buenos Aires, 2007
38
Idem
30
anche essere contesa, quando nel ricordare un passato scomodo si generano
conflitti e negoziazioni, oppure può essere ostinata, quando il non detto, il
non ricordato, il mai rappresentato rimangono latenti, mantenendo vivo il
passato e riaffiorano al momento opportuno per un loro riconoscimento”.39
La memoria, per sua natura, nutre di contenuti il soddisfacimento del
diritto alla verità, lo sospinge di fatto fino all’imbocco del percorso della
giustizia, ma resta da chiarire che la funzione sociale della memoria e le sue
dinamiche sono antitetiche alla funzione della giustizia nei casi di crimini
contro l’umanità.
“L’azione della giustizia non è esterna al crimine: lo puntualizza.
Come il punto finale suggella il senso di una frase, il processo pone fine a
un’azione rivelandone la vera natura criminosa. (…) Il ruolo del giudizio è
di porre fine a un’azione, di chiuderla ripetendola. La giustizia chiude una
parentesi. Il suo significato è di smorzarne la violenza, di sopprimere le
ragioni della reazione, in sintesi di uscire dalla vendetta e dal mimetismo.
Occorre esorcizzare la violenza contenuta nei fatti non giudicati”40
.
In questo contesto è chiaro come la giustizia si situi tra la storia e la
memoria. Se alla storia è richiesta la ricerca nel tempo di una verità
composita e alla memoria il trasferimento di identità e senso verso il futuro,
“al giudice spetta il compito di stabilire la corrispondenza tra i fatti e il
modello di qualificazione giuridica” 41
. Nel far questo il giudizio ha un
duplice effetto: da un lato, come abbiamo già riflettuto, riafferma la ritrovata
sovranità giuridica, dimostrando la superiorità della forza dei cittadini riuniti
da un ideale politico comune contro i misfatti di alcuni e gettando le basi per
la ricostituzione del patto democratico attraverso la fine dell’impunità,
(ovvero della confusione tra l’autore della legge e la legge stessa); dall’altro
“libera” la memoria, inaugurando una nuovo esercizio del diritto alla verità.
39
Marzia Rosti, La forza della memoria nel caso dei desaparecidos argentini, op. cit. p. 156
40
Garapon, op. cit. p. 210
41
Idem, p. 163
31
In conclusione, la giustizia si situa tra la memoria, che ha per oggetto
la fedeltà, e la storia che tende alla verità, ma non è completamento né
dell’una né dell’altra. Il momento del processo segna un punto di
oscillazione: è sia il completamento di un lavoro di recupero della memoria
che il punto di partenza di un processo di superamento. Il processo chiude la
storia per inaugurare il tempo della memoria.
E’ per questo che la memoria liberata parte dalla giustizia.
Occorre liberare la memoria nel duplice senso di conquistarla e di
poterla narrare liberamente.
“La memoria malata - conclude Garapon – è incapace di ricordare.
Il risentimento è una memoria congelata, rancorosa, sterile, che si oppone in
tutto alla memoria alleviata, quella che segue l’opera di giustizia. Ecco
perché la giustizia deve liquidare questo debito che pesa su coloro che
debbono ricostruire lo Stato di diritto, per lasciare campo libero alla
memoria”. 42
Concluderei affermando, in linea con la tesi di Garapon, che la
memoria ha sostanzialmente una funzione teleologica, riferibile al “dover
essere”, rispetto a cui la società civile è al tempo stesso produttore
protagonista – insieme, ma non sempre in accordo con le istituzioni
democratiche - e destinatario, nei diversi gruppi e nelle diverse generazioni.
Aggiungerei, però, che la memoria ha anche una funzione strumentale
fondamentale, che pur acquisisce nutrimento dalla stessa macrofunzione
teleologica. La memoria è capace di conservare l’istanza di verità e giustizia
nel tempo, a volte lunghissimo, dell’impunità.
In questo caso la memoria è strumento di verità e giustizia e il suo
produttore - protagonista indiscusso è la società civile, in antagonismo
simbolico e non solo con le istituzioni democratiche.
O meglio, la società civile può rivestire un tale ruolo fondamentale, a
patto che sia “preparata” a farlo.
E’ questo l’interessantissimo caso dell’Argentina.
42
Idem, p. 214
32
3 . Il caso argentino
Lo scorso 24 marzo, nell’anniversario dei 33 anni dell’avvenuto
golpe militare in Argentina, la piazza simbolo di Buenos Aires – Plaza de
Mayo - si è riempita di cortei di organizzazioni della società civile,
rappresentanze di partiti e cittadini al grido unanime di “giustizia”.
Gli organismi di diritti umani, in prima linea, si sono fatti portavoce
della denuncia comune, così riportata dal quotidiano Pagina12 il giorno
seguente: “A 6 anni dall’annullamento delle Leggi di Punto Finale e
Obbedienza Dovuta sussistono solo 44 condanne. Ci sono 536 “genocidas”
in attesa dell’udienza ma, per la lentezza dei processi, 192 repressori sono
già morti, mentre altri 47 sono ancora latitanti. Pur riconoscendo che molti
processi sono stati riaperti, a partire dalla dichiarazione di incostituzionalità
delle leggi di Punto finale e Obbedienza dovuta nel 2001 e grazie al loro
annullamento con una legge del Congresso nazionale nel 2003, ratificata
finalmente nel 2005 dalla Corte Suprema, le Madres de Plaza de Mayo si
domandano: “ Ma quanti decenni saranno necessari per condannare tutti i
“genocidas” per tutti i compagni morti? Sono già molti anni che chiediamo
giustizia. Tutti i poteri dello Stato hanno la responsabilità di accelerare i
processi sollevati contro gli autori dei crimini contro l’umanità e porre fine
agli effetti degli indulti”43
.
Già da questa finestra recentemente aperta sulla piazza simbolo della
opposizione argentina alla dittatura e della lotta per “Verdad, Justicia y
Castigo”, si intuisce il ruolo di primissimo piano della società civile
argentina nella rivendicazione della verità attraverso la giustizia.
Lo Stato continua a detenere una serie di obblighi non soddisfatti
verso le vittime, i loro rappresentati e l’intera società civile, a prescindere
dal fatto che gruppi di essa abbiano o meno prestato attivamente
opposizione al regime.
L’obbligo dello Stato si estende finanche alle generazioni future.
43
Vales, L. “Una plaza que demandò justicia”, in Pagina12 del 25.03.2009
33
Ma il punto è: come lo Stato argentino ha ritenuto di “riparare” in
questi 33 anni? Quale è stato il percorso? Dove si è interrotta la giustizia?
Quali sono state le conseguenze?
La società civile argentina ha testimoniato una presenza importante
nel percorso difficile e lungo della transizione argentina alla democrazia, a
testimonianza del fatto che non è la sola transizione istituzionale che risana
una società vittima (ove non anche parzialmente complice) di un regime
criminale.
3.1 Il quadro storico
La storia della dittatura argentina va ufficialmente dal marzo del
1976 al giugno 1982, data a cui seguirà un ulteriore anno di transizione fino
alle elezioni democratiche che porteranno, nel dicembre 1983, Raul
Alfonsin a divenire Presidente .
Come per ogni dittatura, la genesi e gli effetti della tragica
esperienza argentina si estendono decisamente aldilà di queste date. Nel
caso argentino, oltre alle cause interne, bisogna rilevare anche l’incidenza
notevole del contesto internazionale e interamericano.
Sul versante internazionale la dittatura argentina, insieme alle altre
dittature latinoamericane, raccoglie il consenso degli Stati Uniti attraverso
le direttive e gli strumenti del Plano Condor, finalizzato a “estirpare” ogni
rigurgito di rivoluzione marxista nell’America Latina. Sono infatti gli anni
della Guerra Fredda.
In breve, il Plano Condor44
fu il nome dato a una massiccia
operazione di politica estera di collaborazione tra le dittature
latinoamericane, con l’appoggio anche materiale degli Stati Uniti, che ebbe
luogo negli anni ’70 e che fu esplicitamente volta a destabilizzare tutti gli
44
Il Plano Condor si innesta sulla dottrina Nixon degli anni ’60 sulla Sicurezza nazionale,
in cui si affermava che” nei Paesi filoamericani del continente, e più in generale del Terzo
mondo, gli eserciti dovessero impegnarsi non tanto sulle frontiere per difendersi da un
nemico esterno, quanto sul territorio della nazione per combattere il nemico interno cioè il
comunismo”. (in Moretti, I. “L’Argentina non vuole più piangere Da Perón a Kirchner: gli
anni della dittatura, la crisi economica, i segni del cambiamento di un paese inquieto”,
Sperling & Kupfer editori, Milano, 2006 p. 50). La breve descrizione del Plano Condor che
segue nel testo si fa riferimento ai materiali del Progetto Memoria, ONG Terranova.
34
Stati centro o sudamericani in cui si instaurarono, o furono sul punto di
instaurarsi, governi di sinistra.
Il Plano Condor nasce ufficialmente nel 1974, ma già nel settembre
1973 nel corso della X Conferenza degli Stati americani il generale
brasiliano Borges Fortes, sotto il patrocinio degli Stati Uniti, propose di
estendere le partnership e le collaborazioni tra i vari servizi segreti al fine di
combattere il comunismo e ogni proposito sovversivo.
Le procedure per mettere in atto questi piani furono di volta in volta
differenti, tutte però ebbero in comune il ricorso sistematico alla tortura e
all’omicidio degli oppositori politici. L’Argentina fu coinvolta nel Plano
Condor attraverso il SIDE – Servizi segreti argentini e l’Allianza
Anticomunista Argentina, un’organizzazione paramilitare.
Sebbene tra i più grandi promotori del Plano Condor vi furono il
Segretario di Stato Kissinger e il Presidente Nixon, riguardo alla posizione
degli Stati Uniti verso la dittatura argentina, va sottolineata una differenza
sostanziale quantomeno tra l’atteggiamento di denuncia del Presidente
democratico Carter, al potere nel 1977, e del suo capo Dipartimento per i
diritti umani, Patricia Deiran, e quello del presidente repubblicano
Reagan,45
eletto alla Casa Bianca nel 1981 e maggiormente rappresentativo
dei forti interessi economici degli Stati Uniti in Argentina.
E’ interessante notare come, d’altro canto, l’allora Unione Sovietica,
mantenne buoni rapporti commerciali con l’Argentina della dittatura, in
particolare a partire dal 1980, quando a seguito dell’invasione
dell’Afghanistan, gli Stati Uniti decretarono l’embargo per la vendita di
cereali all’URSS, misura a cui l’Argentina si sottrasse. L’URSS divenne il
maggior compratore di grano dell’Argentina.
Quello che la giunta militare al potere in Argentina chiamò ”El
Proceso de Reorganizacion Nacional, altrimenti conosciuto come la Guerra
Sucia, fu contemporaneo al Plano Condor, portando, tra il 1976 e il 1983 a
45
Italo Moretti riporta come Reagan in un suo programma radiofonico del tampo affermò
che “Patricia Deiran prima di criticare i generali argentini dovrebbe camminare un miglio
calzando i loro mocassini.”, in op. cit. p. 46
35
più di 30.000 desaparecidos, ovvero persone sequestrate, torturate,
assassinate e fatte sparire dal regime.
El Proceso è sicuramente da inserire nel contesto del Plano Condor,
ma non è “spiegato” solo da esso . La dittatura di Videla arriva, infatti, dopo
decenni di instabilità politica interna violenta e sanguinaria, che vede
contrapposto l’esercito alla guerriglia di estrema sinistra. L’intensa
instabilità argentina comincia nel 1930 con la presa del potere da parte di
Uriburu, passando attraverso la speranza peronista, negli anni in cui Peron
fu Ministro del Lavoro (1943 - 45) e poi presidente (nel 1946 e nuovamente
nel 1951). La Rivolucion Libertadora, del 1955 depose Peron e aprì la
dittatura di Aramburu, assassinato dai Montoneros nel 1970 e seguito da
Lanusse. Il 1973 segna il ritorno di Peron, che morì nel 1974. A questo
punto la moglie Isabelita, figura politicamente molto debole, assunse le
funzioni presidenziali.
Come spiega Rouquiè46
, gli interventi militari in Argentina sono
inseparabili dall’instabilità politica cronica che ha caratterizzato il Paese per
decenni. Essi non ne sono la causa. Si producono, al contrario, quali
manifestazione e conseguenza di una prolungata crisi politica.
3.2 La politica della desaparicion e la società civile
La notte del 24 marzo 1976 si consuma il colpo di Stato, così che
all’alba Jorge Rafael Videla capo dell’Esercito, Emilio Eduoardo Massera,
capo della Marina e Orlando Ramòn Agosti per l’Aeronautica firmano il
primo comunicato della dittatura che, trasmesso a reti unificate da radio e
televisioni, informa che l’Argentina si trova sotto il controllo della Giunta
dei comandanti delle forze armate. Il giorno seguente, Videla, Massera e
Agosti fissano gli obiettivi di quello che passerà alla storia come “El
Proceso”, dichiarando che davanti a un tremendo vuoto di potere,
all’incapacità del governo di affrontare la sovversione e alla corruzione, il
Vertice militare si impegnava a ricostruire il contenuto e l’immagine della
Nazione, a sradicare la sovversione, a promuovere uno sviluppo economico
46
Rouquiè, A. Poder militar y sociedad en la Argentina, Emecé Editores, Buenos Aires,
1982
36
basato su equilibrio e partecipazione, al fine di instaurare una democrazia
repubblicana, rappresentativa e federale. Il 26 marzo, Videla veniva
nominato presidente della Nazione, mantenendo il comando dell’esercito.
Iniziava così la rapidissima e pervasiva presa del potere politico ed
economico da parte delle forze armate47
.
La dittatura argentina ha assunto da subito una strategia di
dissimulazione del proprio operato e dei propri metodi, pur lanciando chiari
e ripetuti segnali del reale obiettivo che mal si celava dietro l’eufemismo di
“El Proceso”.
Lo stesso Videla48
sostanzialmente conferma che “la dittatura
nascondeva il sequestro e l’uccisione per bloccare l’opinione pubblica, per
assicurarsi per un certo periodo il silenzio dei parenti, per alimentare la
speranza che il loro caro era vivo, generando così un’ambiguità che portava
all’isolamento delle famiglie, timorose di irritare il governo, con la paura
che la propria condotta potesse provocare la morte del figlio, padre, fratello.
(…) La sostanza di questa politica delle scomparse consisteva nell’impedire
a ogni costo che si esprimesse la solidarietà della popolazione, realizzata
con proteste e reclami. Perché tutto ciò avrebbe potuto generare nel Paese e
all’estero la chiara coscienza che il presunto tentativo di combattere una
minoranza terrorista serviva, in realtà a celare un vero genocidio”49
.
Del resto la strategia di persecuzione dei terroristi era estremamente estesa,
come sintetizzato dal Generale Saint Jean, governatore di Buenos Aires:
“Prima uccideremo tutti i sovversivi, poi i loro collaboratori, quindi gli
indifferenti e da ultimo i timorosi”. Lo stesso Videla, aveva chiarito cosa si
intendesse per “terrorista”: “E’ terrorista non solo chi sia munito di una
bomba o di una pistola, ma anche chi diffonda idee contrarie alla
civilizzazione cristiana e occidentale”. Dunque la sovversione, secondo il
pensiero di Videla, era rappresentata da qualsiasi tipo di scontro sociale50
.
47
Moretti, I. op.cit.
48
Si veda, Seoane M, Muleiro V, El dictador: la historia secreta y publica de Jorge Rafael
Videla , Editorial Sudamericana , Buenos Aires, 2001
49
Estratti dal Nunca Mas, riportati in Moretti, I. op. cit. p. 53
50
Sull’elaborazione dei concetti di terrorista e sovversione nella visione della dittatura
argentina si veda Moretti, op.cit.
37
E’ su queste basi che si è diffusa la definizione dell’azione
sistematica di sterminio come di un vero e proprio genocidio,51
(per quanto
la persecuzione per motivi politici non rientri nella fattispecie del genocidio)
tanto più rafforzata dal fatto che la dittatura si preoccupò di mutare l’identità
dei figli dei sovversivi attraverso il sequestro dei bambini nati in prigionia e
l’affidamento a famiglie di militari o vicine al regime.
Da queste prime considerazioni sulle vicende, i metodi e il substrato
ideologico della dittatura argentina, si evince la plurivalenza del ruolo
assegnato alla società argentina e nel tempo da essa elaborato. Possiamo
infatti individuare diverse sfaccettature, tutte fondamentali per definirne il
ruolo nella transizione e per estrarre le indicazioni utili per l’intero sistema
internazionale dei diritti umani.
Sicuramente l’intera società argentina, pur con intensità e fattispecie
diverse, è stata vittima della dittatura. Una parte importante ne è stata
succube, proprio a causa della strategia del terrore e del segreto adottata
dalla Giunta militare, una parte coraggiosa ne è stata avversaria aperta anche
durante la dittatura stessa, ma non possiamo tralasciare che, proprio per la
stessa strategia della dissimulazione e del segreto, una parte rilevante ne è
stata, forse ingenuamente, sostenitrice.
E’ emblematico quanto rilevato da Italo Moretti52
, corrispondente
Rai in Argentina in quegli anni. Moretti riporta i titoli della stampa
moderata argentina e di quella internazionale: si tratta di espressioni
sostanzialmente ben auguranti verso la dittatura appena instauratasi. E’
altrettanto emblematico quanto affermato dallo scrittore Ernesto Sabato a
margine di un incontro di Videla con esponenti della cultura argentina, a
pochi giorni dall’insediamento al potere: “Il generale Videla mi ha fatto
un’ottima impressione. E’ un uomo colto, modesto, intelligente”. Spiegando
successivamente: “L’immensa maggioranza degli argentini pregava perché
le forze armate prendessero il potere facendola finita con un vergognoso
51
Come rilevato da Cassese in “Il processo penale internazionale”, op. cit. “la fattispecie di
genocidio non può applicarsi a persecuzioni per motivi politici”, ma questo termine è stato
applicato per la prima volta al caso argentino nel 1998, dall’Audiencia Nacional di Madrid
52
Moretti, I, op cit
38
governo di mafiosi, con il disordine, il crimine, il disastro economico. Ai
delitti dell’estrema sinistra, l’estrema destra rispondeva con attentati feroci.
Gli estremisti di sinistra compivano i sequestri più infami e i crimini più
mostruosi e ripugnanti”. Lo stesso Sabato sarà nominato da Alfonsin a
presiedere la Commissione nazionale sulla scomparsa di persone –
CONADEP, al grido del Nunca Mas.
Ancora oggi, a transizione democratica effettuata, le ferite e le
rivendicazioni della società civile sono fortissime, venendo fuori da 26 anni
di promesse di giustizia, tentativi di riconciliazione, aberranti impunità.
In questi 26 anni il percorso dei governi democratici argentini ha
oscillato verso scelte procedurali più o meno aperte a percorsi di verità,
memoria e giustizia, in particolare chiudendo per più di 20 anni la strada ai
processi penali per i responsabili.
Questo non ha fermato un processo di presa di coscienza estensivo e
intergenerazionale della società civile argentina, spinto dalla parte più attiva
di essa, che ha mantenuto accesa l’istanza di verità e giustizia,
dall’istituzione della CONADEP fino ad oggi, passando attraverso gli anni
bui dell’impunità.
3.3 La CONADEP
Il 15 dicembre 1983, a pochi giorni dall’elezione di Raul Alfonsin
alla presidenza della Repubblica Argentina, fu istituita la CONADEP –
Comisiòn Nacional sobre la Desaparicion de Personas.
Sul tema della Giustizia e Desaparicion, Pablo Eiroa spiega così la
scelta di Alfonsin. “ Per il governo democratico di Alfonsin, eletto alla fine
del Governo de facto, svelare la verità di quanto successo era il modo
migliore per provocare il rifiuto sociale delle pratiche aberranti, così come
una via idonea alla restituzione della dignità alle vittime. Ma questo non
sarebbe stato sufficiente per superare il passato e ricostruire la società
democratica, Alfonsìn ritenne anche necessaria la punizione esemplare dei
membri delle Giunte militari di governo, in quanto questo avrebbe
39
dimostrato che nessuno, per quanto potente, sarebbe stato al di sopra della
legge53
.
Dunque, l’istituzione della CONADEP risponde a due finalità:
ricostruire la verità storica da rivelare alla società argentina e fornire una
documentazione di base per i processi, che sarebbero venuti, contro i
responsabili dei crimini.
La CONADEP è la risposta immediata della democrazia argentina
al diritto alla verità, non solo delle vittime e dei loro familiari, ma dell’intera
società civile. La pubblicazione del Rapporto Nunca Mas, che in breve
tempo è divenuto dei maggiori successi editoriali della storia argentina, ha
“fissato” una verità che rimarrà per le generazioni future.
Il fatto che la CONADEP fosse stata concepita non come alternativa
a un percorso di giustizia, ma come un passaggio previo e diverso nelle
finalità, ne ha determinato alcune caratteristiche che contraddistinguono il
suo lavoro e il suo elaborato finale.
“La CONADEP risponde essenzialmente all’obbligo dello Stato di
stabilire la verità sulla struttura repressiva che condusse a commettere
crimini contro l’umanità, incluse le linee di comando, gli ordini impartiti, gli
stabilimenti utilizzati e i meccanismi utilizzati deliberatamente per
assicurare l’impunità e il segreto di queste operazioni. Il rapporto finale non
si prefiggeva di stabilire la sorte di ciascun desaparecido, tra i circa 9000 di
cui comprovò l’identità, proprio perché la continuazione naturale
dell’attività della Commissione sarebbero stati i processi penali, che si
sarebbero istituiti per ogni singolo caso, con migliori possibilità di stabilire i
fatti in maniera dettagliata”54
. Questo spiega anche perché si decise di non
rendere pubblici i nomi degli accusati, pur con una forte opposizione a tale
scelta da parte delle Madres.
La CONADEP rappresenta, dunque, una risposta importante da parte
dell’Argentina all’obbligo dello Stato a stabilire la verità, ma non soddisfa
pienamente il diritto alla verità della controparte. Continua Mendez:
53
Eiroa, op. cit.
54
Mendez, J., Derecho a la verdad frente a las graves violaciones de derechos humanos, op.
cit., p. 7
40
“Questa verità individuale è un obbligo che rimane in capo allo Stato verso
ciascuna vittima e verso ciascuna famiglia di desaparecido”55
. E’ un obbligo
dello Stato verso un target più ristretto (vittime e famiglie di desaparecido)
che secondo il pronunciamento della Corte Interamericana nel caso
Velasquez, persiste fino a quando sussiste una qualsiasi incertezza sulla
sorte e sulla ricomparsa della vittima dell’abuso statale56
.
Esiste un terzo aspetto che Mendez riconduce all’obbligo statale di
soddisfacimento del diritto alla verità, oltre alla verità collettiva e alla verità
individuale, ovvero l’ascolto delle vittime.
In riferimento a questo, la CONADEP appare assolutamente
rispondente al suo mandato, acclarando che il processo di ascolto da parte di
un ente statale e rappresentativo della società è parte dell’obbligo statale
stesso. Nonostante il clima, riconosciuto dallo stesso presidente Sabato,
ancora non scevro da minacce e intimidazioni, furono numerose e
dettagliate le testimonianze, che portarono all’individuazione iniziale di
9000 desaparecidos57
, cifra che lievitò successivamente a 30.000.
Il fatto che già dalla sua prima edizione nel 1984 il rapporto Nunca
Mas sia stato uno dei successi editoriali più rilevanti in Argentina,
testimonia come la società civile abbia un interesse a conoscere la verità
della sua storia che non può essere trascurato dalla Stato.
A supportare maggiormente questa titolarità del diritto alla verità da
parte della società argentina, arrivano le dichiarazioni della Segreteria dei
Diritti Umani, organo del Governo argentino, che nella prefazione alla
nuova edizione del Nunca Mas, del 2006, in occasione del trentennio del
Golpe, così spiega: “E’ responsabilità delle istituzioni costituzionali della
Repubblica il ricordo permanente di questa tappa crudele della storia
argentina come esercizio collettivo della memoria, al fine di insegnare alle
attuali e future generazioni le conseguenze irreparabili che comporta la
sostituzione dello Stato di diritto con la violenza della violenza illegale da
55
Ibidem
56
Corte Interamericana dei diritti umani , caso “Velasquez Rodriguez” sentenza 29.07.1988
57
Lo stesso Sabato nella prefazione del rapporto Nunca Mas precisò che c’erano ottime
ragioni perché la Commissione potesse dirsi certa che il numero dei desaparecidos fosse
notevolmente maggiore.
41
parte di quanti esercitano il potere dello Stato, per evitare che l’oblio diventi
terreno fertile per la sua ripetizione”. 58
La stessa Segreteria, ammette che, sebbene la Commissione abbia
perseguito il suo scopo orientato a esplicare l’obbligo alla verità da parte
dello Stato, obbligo che continua in termini di costruzione di memoria,
tuttavia rimane non compiuto, per lo Stato argentino, l’obbligo della
giustizia, da cui non si può trascendere. “L’insegnamento della storia non
trova sostegno nell’odio e nella divisione in fazioni contrapposte del popolo
argentino, ma al contrario mira a unire la società attraverso le bandiere della
giustizia, della verità e della memoria, in difesa dei diritti umani, della
democrazia e dell’ordine repubblicano. Attualmente abbiamo davanti il
grandissimo compito di invertire una situazione di impunità e ingiustizia
sociale, vincendo le resistenze di alcuni settori consistenti che, con la loro
complicità passata e attuale con il terrorismo di stato e con le politiche
neoliberali, lo resero possibile”59
.
La CONADEP argentina, attraverso il suo operato e il suo risultato,
riafferma quattro punti fondamentali:
• il soddisfacimento del diritto alla verità da parte dello
Stato permette il pieno riconoscimento delle vittime da parte delle
istituzioni e della società
• il soddisfacimento del diritto alla verità è alla base di
un percorso di giustizia a cui non si può sostituire
• il soddisfacimento del diritto alla verità è avvertito
come esigenza diffusa dalla società.
• è obbligo e interesse dello Stato gettare - attraverso la
verità - le fondamenta per una vera transizione, che non sia, cioè,
solo istituzionale.
58
Nunca Mas, p.8
59
Ibidem
42
3.4 Il percorso della giustizia
Sebbene il lavoro della CONADEP abbia portato, a circa un anno
dalla sua chiusura, alla storica condanna dei membri delle tre Giunte militari
da parte della giustizia civile argentina, esso non è stato utilizzato per il
pieno soddisfacimento del diritto alla verità, tanto che rimase silente la
verità individualizzata di ciascun singolo desaparecido.
Tracciamo, in breve, il percorso di affermazione e rottura
dell’impunità per i criminali argentini che ha attraversato gli ultimi 20 anni.
Inizialmente Alfonsin ottenne che il Congresso abrogasse la legge di
autoamnistia60
, garantendo la possibilità di processare i militari, con una
distinzione di responsabilità-punibilità in 3 livelli, individuando gli artefici
della macchina repressiva, coloro che avevano commesso atti atroci o
aberranti eccedendo gli ordini superiori e coloro che avevano obbedito agli
ordini superiori61
. Questo rese possibile il processo alle giunte militari e la
condanna all’ergastolo per Videla e Massera che ne seguì.
I processi ai membri delle Giunte, sebbene seguiti da un ventennio di
impunità, “rappresentano un evento storico importante e unico nel XX
secolo se si considera che si trattò dell’unico caso in cui tribunali nazionali –
senza interventi stranieri – furono chiamati a giudicare contro gravi crimini
contro l’umanità commessi all’interno delle frontiere del proprio Stato.
Nella riposta immediata alla domanda di giustizia della società, le immagini
dei capi militari colpevoli davanti alla Camera federale di Buenos Aires
segnarono l’apertura di un nuovo patto sociale, basato su un nuovo Stato di
diritto”62
.
Ai processi alle Giunte seguì l’apertura di più di 1000 processi per
violazione dei diritti umani a membri delle forze armate, coinvolti nella
gestione dei campi clandestini di detenzione e sterminio.
Il percorso della giustizia fu però presto bloccato dalle Leggi di
Punto finale63
e di Obbedienza dovuta64
, approvate rispettivamente nel 1986
60
Ley de automanistia n.22.94 del 23.03.1983
61
Rosti, M. la forza della memoria nel caso dei desaparecidos argentini op. cit
62
Idem, p 154 -155
63
Ley de Punto final (n. 23.492 del 24 dicembre 1986)
43
e nel 1987. Mentre con la prima si fissò il limite di 60 giorni per la
presentazione di denunce contro i responsabili di crimini di terrorismo di
Stato, con la seconda furono scagionati da ogni responsabilità gli ufficiali di
grado minore, con la motivazione di aver semplicemente prestato
obbedienza agli ordini superiori.
Come Rosti sottolinea, “quest’ultima fu più una sentenza che una
legge”65
, scagionando di fatto i componenti delle forze armate argentine.
Tra il 1989 e il 1990 il presidente Menem, ritenne che “la
riconciliazione degli argentini richiedesse di lasciarsi il passato alle spalle,
per cui sancì diversi indulti che estinsero pene e processi in corso, salvo
quelli contro i responsabili dei crimini che non rientravano nelle leggi di
punto finale e di obbedienza dovuta”66
. Sostenendo che a beneficiare
dell’indulto fossero tanto le forse armate quanto i guerriglieri, Menem di
fatto concesse la grazia presidenziale agli ex dittatori che erano ancora in
carcere.
Da questo periodo di impunità, che durò fino al 2005, si esclusero i
responsabili per i reati di sottrazione di neonato e appropriazione indebita
dei beni dei desaparecidos.
Nel 2005 la Corte Suprema ha dichiarato l’incostituzionalità delle
leggi di punto finale e obbedienza dovuta67
, mentre nel 2007 ha dichiarato
l’incostituzionalità del decreto d’indulto 1002/8968
. Interessanti sono le
motivazioni delle dichiarazioni di incostituzionalità da parte della Corte che,
di fatto, hanno portato a un abbassamento delle garanzie del diritto penale,
quali la garanzia della prescrizione, dell’irretroattività della legge penale e il
principio del “ne bis in idem”.
64
Ley de Obediencia debida (n. 23.521 del 4 giugno 1987)
65
Rosti, op. cit. p. 156
66
P. Eiroa, cit. p.2
67
CSJN, S. 1767. XXXVIII., "Recurso de hecho deducido por la defensa de Julio Héctor
Simón en la causa Simón, Julio Héctor y otros s/privación ilegítima de la libertad, etc. -
causa N° 17.768-", sentenza del 14 giugno 2005.
68
CSJN, M. 2333. XLII. y otros, "Mazzeo, Julio Lilo y otros s/recurso de casación e
inconstitucionalidad", sentenza del 13 luglio 2007.
44
Eiroa69
sintetizza come segue l’opinione della Corte, sottolineando
che gli strumenti internazionali prevedono il dovere dello Stato di
individuare e processare i responsabili di crimini contro l’umanità. Tre sono
le considerazioni intervenute nella decisione della Corte:
• i trattati internazionali che prevedono
l’imprescrittibilità e il divieto di amnistie per crimini contro
l’umanità dal 1994 fanno parte della Costituzione argentina
• secondo lo stato attuale del diritto internazionale,
come ribadito più volte dalla Corte interamericana di diritti umani, i
crimini contro l’umanità sono imprescrittibili
• ogni amnistia è orientata all’oblio di gravi violazioni
dei diritti umani e quindi si oppone alle disposizioni della
Convenzione Americana di diritti umani e al Patto sui diritti civili e
politici che fanno parte della Costituzione argentina.
La giustizia ha quindi riaperto i battenti, sollecitata dalla società
civile e, in particolare, dalle organizzazioni dei diritti umani ad agire in
urgenza, vista la pregressa e prolungata impunità e l’età avanzata di
molti dei criminali.
Negli anni dell’impunità argentina, diversi sono stati i processi
celebrati in Europa. In particolare in Italia sono stati celebrati il
processo Suarez Mason e ESMA ex art. 8 del codice penale, che hanno
visto gli imputati condannati in contumacia, con sentenze della II Corte
d’Assise di Roma del 2000 e del 2007, poi confermate in appello. In
particolare nel primo sono stati condannati all’ergastolo i generali
Suarez Mason e Riversos, a 24 anni cinque militari; il secondo ha visto
condannati all’ergastolo 5 ex ufficiali della Marina: Acosta, Astiz,
Vildoza e Vaneck., mentre si è recentemente riaperto il processo per
Massera, a fronte di una perizia medica che ne ha certificato l’abilità a
presentarsi in giudizio. Importanti processi si sono celebrati in Francia,
69
Eiroa, op. cit.
45
dove Astiz è stato condannato in contumacia e in Spagna, dove il
giudice Garzon ha fatto ricorso alla competenza universale.
I processi stranieri hanno avuto un importantissimo valore
simbolico, pur nell’impossibilità di fatto di far valere le condanne
sentenziate.
Verbistky afferma che “ l’unico sano principio che va bene per
costruire un futuro diverso è l’impegno da parte dei cittadini, nella
società civile e in quella militare, di garantire la fedeltà alla legge, di
rispettarne le procedure e di accettarne i verdetti, rinunciando a ogni
specie di raggiro e di scorciatoia”. 70
Questo non può che avvenir per
mezzo della giustizia. Il proclama ostinato delle Madres de Plaza de
Mayo dell’“apparicion con vida” è l’altro risvolto di questa domanda di
una verità individualizzata, ovvero di una giustizia che a mezzo del
processo dica la verità precisa su ciascun desaparecido.
Il processo penale appare il mezzo maggiormente formalizzato
per l’affermazione della verità individualizzata, componente essenziale
del diritto alla verità.
Eppure lo stesso Eiroa, nelle sue conclusioni, afferma che la
giustizia penale non può che trovare legittimazione nella protezione dei
diritti fondamentali degli accusati. In altri termini, per l’Argentina non si
tratta di evitare l’attribuzione di responsabilità né di chiudere un
dibattito storico. Si tratta semplicemente di non abbandonare la
coscienza giuridica conquistata71
.
Avendo dunque definito il diritto alla verità come un diritto
collettivo e individuale, nell’oggetto (verità individuale e verità
collettiva ) come nel soggetto (individuo/familiari e società civile)
appare chiaro come esso sia tangente al diritto alla giustizia, come i due
diritti si servano parzialmente l’un l’altro. Ma appare altrettanto chiaro
70
Verbitsky, H, “Argentina 26 anni dopo” in Binella, D. (a cura di) Il diritto non cade in
prescrizione. I desaparecidos italoargentini, i diritti umani tra negazione e
internazionalizzazione”, Ediesse, Roma, 2002 p. 88
71
Eiroa, op. cit
46
che il diritto alla verità trascende il diritto alla giustizia, chiamando in
causa, in modi creativi, la società civile al di fuori della giustizia penale.
In questo la società civile argentina, a lungo privata del
godimento del diritto alla giustizia per le vittime e i familiari, è in un
senso esemplare. Vediamone caratteristiche e iniziative principali.
3. 5 La forza della società civile
Katrin Sikkink72
propone una riflessione su come l’esperienza
argentina della transizione, lunga, sofferta e contraddistinta da una più che
ventennale impunità, abbia apportato delle innovazioni importanti nel
panorama del diritto internazionale dei diritti umani.
Ciò che appare estremamente interessante nell’analisi di Sikkink non
è soltanto la constatazione dei contributi che l’Argentina ha apportato nel
campo delle dichiarazioni e dei lavori del sistema internazionale di
protezione dei diritti umani, riconoscendone in questo senso l’apporto alla
costituzione del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni
forzate nel 1980, alla previsione di un diritto all’identità nella Convenzione
dei diritti del Fanciullo (art. 7 - 8) nel 1989 e alla stesura della Convenzione
contro le sparizioni forzate di persone del 2005. Ciò che appare in questa
trattazione molto interessante l’influenza che il caso argentino ha avuto
nell’avanzamento del sistema internazionale dei diritti a fronte di una
situazione “istituzionale” interna di impunità e stallo. Il centro della
riflessione è sull’attivismo della società civile.
Prima di tracciare l’identikit dei raggruppamenti sociali che hanno
fatto (e continuano a fare) la storia delle rivendicazioni argentine in tema di
verità e giustizia, è importante seguire l’autrice nel tracciato delle
caratteristiche della società civile argentina, che hanno preparato il terreno a
una coscienza critica e attiva, nutrita di un attivismo fertile, capace e
ostinato.
Il protagonismo argentino sulla scena internazionale dei diritti umani
viene descritto in termini di “soft power”, ovvero capacità di incidere non
72
Sikkink, K, From Pariah State to Global Protagonist: Argentina and the Struggle for
International Human Rights, in Latin American Politics and Society sul web , 2008
47
sempre riconducibile alle politiche governative (come appunto il caso
argentino emblematicamente testimonia). “La letteratura sul tema delle
azioni di advocacy internazionale suggerisce che, nell’attuale mondo
globalizzato, i gruppi del Sud danno avvio ad azioni boomerang o spirali,
per cui guadagnano alleati internazionali al fine di porre pressione sui propri
governi”73
. I gruppi della società civile argentina sono stati in questo
maestri.
Sikkink collega questo enorme potenziale della società civile ad
alcuni fattori e a ben precise caratteristiche, quali:
• la politica di riparazione ingente adottata dal governo74
, che,
pur rifiutata da alcuni organismi, ha di fatto fornito delle risorse
finanziarie che si è deciso spesso di reinvestire nelle campagne per la
verità e la giustizia
• l’alto grado di quella che viene definita, in inglese,
“judicialization”, per cui nel 1987 l’UNESCO rilevava che l’Argentina
deteneva il 4° posto mondiale per numero di avvocati in relazione alla
popolazione
• la pre-esistenza di reti sociali di avvocati, che ha contribuito
all’affermazione della causa dei diritti umani e alla battaglia per
l’accountability.
• l’Argentina con più di 10 psichiatri per 100.000 persone (dati
OMS 2001) ha dato il via al cd Latin American Psychological approach,
a sostegno di attivisti e vittime nella lotta all’impunità
• la tradizione politica estremamente combattiva e
intransigente ha nutrito l’attivismo e la posizione di non arrendevolezza
di fronte all’istanza di verità e giustizia.
Quest’ultimo punto in particolare è sintetizzato nell’affermazione
costante delle Madres de Plaza de Mayo del “Non un paso atras”.
73
Idem, p. 6
74
De Greiff, op. cit.
48
In realtà proprio le Madres sono un simbolo delle caratteristiche
nuove e particolarissime della lotta civile contro l’impunità in
Argentina.
Il sostrato sociale, culturale e politico dell’Argentina ha infatti
generato una innovazione fondamentale nella stessa genesi e
organizzazione dei gruppi di attivisti per i diritti umani, che mantengono
ancora ora un posto di primissimo piano nella lotta e nel panorama
politico dell’Argentina dei Kirschner.
La società Argentina ha generato un particolare attivismo,
costituito da Madri, Nonne e in più, nel tempo, da Figli e Fratelli di
desaparecidos.
Si attribuisce all’esperienza argentina l’affermarsi di un modello
materno di attivismo per i diritti umani che ha facilitato l’identificazione
di larghi gruppi della società civile, anche meno attivi, in particolare
attraverso i gruppi delle Madri e delle Nonne.
L’azione complementare delle Madres, delle Abuelas e degli
Hijos ha ricostituito idealmente la famiglia sociale attorno alla figura dei
30.000 desaparecidos che hanno lasciato un vuoto generazionale che
estende le conseguenze dell’assenza nei rapporti parentali orizzontali e
verticali.
Le rivendicazioni delle Madres, delle Abuelas e degli Hijos sono
differenziate e su alcune posizioni questi organismi, simbolo della lotta
della società civile argentina contro l’impunità, hanno nel tempo assunto
punti divergenti.Ma il contributo attivissimo di questi attori sociali,
supportato da importanti gruppi politici, culturali e artistici della società
argentina, ha portato a quella che Sikkink riconosce come una genesi
propriamente argentina: il diritto alla verità.
“Il concetto e la pratica di un diritto alla verità è considerato da
alcuni il più importante contributo al mondo del movimento argentino
per i diritti umani, riferendosi non solo ai processi in sé, ma all’effetto
combinato della Commissione per la verità, i Processi per la verità e la
funzione pedagogica dei processi penali per i diritti umani. (…)
49
Leonardo Despouy, su Pagina12, nel 2006 afferma che il diritto alla
verità è stato il più grande successo delle organizzazioni argentine per i
diritti umani che l’Argentina ha esportato nel mondo”75
.
3.6 Gli strumenti della società civile
Gli organismi argentini di diritti umani hanno di fatto connotato il
diritto alla verità in maniera estensiva, estendendolo alla società civile, nelle
diverse componenti politiche e generazionali. Diversi sono stati i mezzi
adottati, di diverso impatto e di diversa finalità specifica, ma tutti
riconducibili all’affermazione di un diritto alla verità base della giustizia e
capace, al tempo stesso, di vivere di vita propria.
Lo strumento assolutamente innovativo dell’esperienza argentina
sono i Processi per la verità, celebrati sull’intero territorio nazionale in
pieno tempo di amnistia e impunità.
Verbitsky, nel cogliere il nesso imprescindibile tra verità e giustizia,
rileva come “a seguito della riforma costituzionale del 1994, attraverso cui il
divieto di adottare leggi di prescrizione e/o amnistie diventava legge
suprema, l’aspirazione e la richiesta di verità e giustizia si fece più
pressante” 76
.
Nel 1995 gruppi di parenti di desaparecidos insieme al CELS
presentarono la prima petizione argomentando che, sebbene fossero bloccati
i procedimenti penali, rimaneva in capo ai familiari un diritto alla verità, da
attuarsi attraverso indagini giudiziarie. “La Camera Federale di Buenos
Aires riconobbe quei diritti e dichiarò che lo Stato aveva il dovere di
ricostruire il passato e di rivelare la verità su tutto quello che era successo ai
desaparecidos. A questo si sommava il pronunciamento della Corte
interamericana per i diritti umani che dichiarò che le leggi sull’impunità non
escludevano le indagini sulla sorte di ogni desaparecido e sul luogo dei suoi
75
Sikkins, K. op. cit. p. 7
76
Verbistky, op. cit. p.85
50
resti. Queste indagini erano e sono un dovere al quale lo Stato deve
adempiere”77
.
Si mettono così all’opera in tutto il Paese i Processi per la verità. I
tribunali Argentini sollecitano e analizzano l’informazione e le
testimonianze provenienti da sopravvissuti, da familiari e dagli esponenti
delle forze armate, sebbene questi ultima si dimostrassero intuitivamente
poco collaborativi. Attraverso i Processi per la verità, in cui non possono
essere condannati gli esecutori, i sopravvissuti e il loro parenti raccontano
in un tribunale le loro storie - una verità taciuta per decenni - e chiedono allo
Stato risposte per un obbligo che, al pari del diritto che lo sostanzia, non
cade in prescrizione.
I Processi per la verità sono uno strumento legale assolutamente
innovativo. Sikkink rileva come essi rappresentino una innovazione
particolarmente interessante, perché porta insieme elementi delle
Commissioni di verità e della giustizia penale78
.
I Processi per la verità rappresentano un passaggio fondamentale
nella presa di coscienza civile della società argentina, cambiando
definitivamente il clima culturale nei confronti dei “signori della guerra”. La
pubblicazione, nel 1995 delle confessioni di Scilingo sui voli della morte, ad
opera dello stesso Verbistky, lavora nella stessa direzione. Lo stesso autore
riporta che “nell’anniversario dei 20 anni dalla presa di potere della
dittatura, il 24 marzo 1996, una grande imponente manifestazione, a cui
presero parte più di 50 000 persone, segnò una nuova pietra miliare per la
coscienza sociale. La manifestazione collegò il tema della responsabilità dei
crimini dei militari con i problemi contemporanei di una giovane e
imperfetta democrazia argentina, in primis la generale e diffusa situazione di
impunità”.79
L’acquisizione della verità da parte di larghe fasce della società ha
esteso e rafforzato la richiesta di giustizia.
77
Idem
78
Sikkins op cit, p. 7
79
Verbistky, H. op. cit.
51
Crimini contro l’umanità, diritto alla verità e società civile. Il caso argentino.
Crimini contro l’umanità, diritto alla verità e società civile. Il caso argentino.
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Crimini contro l’umanità, diritto alla verità e società civile. Il caso argentino.

  • 1. Chiara Buongiovanni Crimini contro l’umanità, diritto alla verità e società civile. Il caso argentino.
  • 2. 2
  • 3. UNIVERSITÀ DEGLI STUDI “ROMA TRE” Master di II livello in Educazione alla Pace: Cooperazione Internazionale, Diritti Umani e Politiche dell’Unione Europea Crimini contro l’umanità, diritto alla verità e società civile. Il caso argentino. Relatore Corsista Gabriel Baudet Chiara Buongiovanni ANNO ACCADEMICO 2007-2008 3
  • 4. Ai miei genitori, che sempre mi sostengono nei sogni Agli amici lontani, per i semi gettati nella mia vita Agli amici vicini, per la pazienza nel coltivare i semi, insieme a me A chi sa immaginare fiori dalle rocce, per la speranza, il coraggio, l’amore. 4
  • 5. Introduzione 4 1. Il diritto alla verità nella prospettiva del diritto internazionale 5 1.1 Il crimine contro l’umanità 1.2 L’evoluzione: dalla responsabilità aggravata alla competenza universale 1.3 L’emergere del diritto alla verità 1.4 Verità e giustizia: un dibattito aperto 2. Il diritto alla verità nella prospettiva della società civile 22 2.1 Quale società civile 2.2 Un diritto collettivo? 2.3 Liberare la memoria: le pratiche collettive 3. Il caso argentino 31 3.1 Il quadro storico 3.2 La politica della desaparicion e la società civile 3.3 La CONADEP 3.4 Il percorso della giustizia 3. 5 La forza della società civile 3.6 Gli strumenti della società civile Conclusioni 53 Bibliografia 55 5
  • 6. Introduzione Per una strano effetto collaterale delle parole, il diritto alla verità. appare a tal punto vicino alla sfera dell’assoluto, avendo l’essere umano per soggetto e la verità per oggetto, da rischiare una difficile applicazione, se non contestualizzato nell’ambito di riflessione in cui viene indagato. Il diritto alla verità, ove non meglio specificato, sembra assumere un’ampiezza prossima all’astrazione, toccando sfere concentriche e progressivamente esterne all’ontologia umana. La riflessione che segue, anticipando un’analisi della situazione argentina, si colloca nell’orizzonte temporale, sociale e giuridico della transizione da regimi dittatoriali alla democrazia, applicandosi nel particolare alle gravi violazioni dei diritti umani da parte dello Stato, nel periodo della dittatura1 . La domanda che si pone è tripartita. Come bisogna intendersi il diritto alla verità in questione, cosa il diritto internazionale ha da dire sul diritto alla verità in questione e cosa, conseguentemente, lo Stato democratico ha il dovere di fare per soddisfare il diritto alla verità. Il passaggio dalla dimensione internazionale a quella statale, e viceversa, non è immediato ma fondamentale, a mio modo di vedere, per una duplice questione: la piena applicazione di tale diritto e l’avanzamento del processo di costruzione della pace, attraverso gli strumenti complementari e non interscambiabili della giustizia, della memoria e dell’educazione. 1 Si fa in particolare riferimento alla dittatura militare capeggiata da Videla, al potere in Argentina dal 1976 al 1983. 6
  • 7. 1. Il diritto alla verità nella prospettiva del diritto internazionale 1.1 Il crimine contro l’umanità La fattispecie giuridica a cui si fa riferimento è il crimine contro l’umanità, come progressivamente elaborato nel diritto internazionale, a partire dal Trattato di Londra. Riprendendo in sintesi l’analisi di Cassese2 sulla genesi della nozione di “crimini contro l’umanità”, si considera che, sebbene la definizione fosse già usata nel 1915 con riferimento alle uccisioni di massa degli Armeni ad opera dell’Impero ottomano, una vera e propria codifica del “crimine contro l’umanità” è attribuibile all’Accordo di Londra del 1945, istitutivo dell’ITM - Tribunale di Norimberga. Il limite della definizione3 nell’Accordo di Londra, per cui - ex art. 6(c) - i crimini contro l’umanità potevano essere fatti ricadere nella giurisdizione dell’ITM se commessi “in esecuzione ovvero in connessione” con crimini di guerra o crimini contro la pace, è stata progressivamente superata nella giurisprudenza penale internazionale, spostando l’ambito di applicazione della persecuzione dei crimini contro l’umanità dall’ambito delle relazioni tra Stati sempre più verso la sfera del diritto internazionale dei diritti umani4 . 2 Cassese, A. “ Lineamenti di diritto internazionale penale”, Vol. 1: Diritto sostanziale, Il Mulino, Bologna, 2005 3 Lo Statuto dell’IMT, adottato con l’Accordo di Londra, all’art. 6 definisce i crimini contro l’umanità come “omicidio volontario, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazione, ed altri atti inumani commessi contro qualsiasi popolazione civile, prima o dopo la guerra, ovvero persecuzione per motivi politici, razziali, o religiosi, in esecuzione ovvero in connessione con qualsiasi crimine che rientri nella giurisdizione del Tribunale (crimini contro la pace o crimini di guerra, ndr), in violazione o meno della legge nazionale del Paese in cui sono stati commessi. 4 Schewlb, in un suo articolo del 1946 sul British Yearbook of International Law, notava già come la connessione esplicita dei crimini contro l’umanità ai crimini di guerra e contro la pace rendeva perseguibili e punibili solo quegli atti criminali che colpivano direttamente gli interessi di altri Stati , o perché connessi con una guerra di aggressione ovvero con la sua pianificazione, o perché collegati a crimini di guerra, vale a dire a crimini contro combattenti, o civili, nemici. Evidentemente, conclude Cassese (op. citata), gli Alleati non se la sentirono di “legiferare” in modo che gli atti inumani fossero vietati indipendentemente dalle loro conseguenze o implicazioni nei rapporti tra Stati. 7
  • 8. Aldilà di un più dettagliato resoconto dell’evoluzione del concetto di crimini contro l’umanità è opportuno notare come di fatto, in larga misura, molti dei concetti alla base di questa categoria di crimini derivano o si sovrappongono a quelli delle norme internazionali sui diritti umani (diritto alla vita, diritto a non essere torturati diritto alla libertà e alla sicurezza), contenuti negli strumenti internazionali in materia, primi fra tutte: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Convenzione contro il genocidio, il Patto internazionale delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici, la Convenzione contro ogni forma di discriminazione, la Convenzione contro la tortura. A questi si aggiungono strumenti regionali, quali la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Convenzione Americana sui diritti umani. Nella codifica del crimine contro l’umanità, si possono chiaramente identificare un elemento oggettivo, un elemento soggettivo, i possibili autori e le possibili vittime. La condotta tipica dei crimini contro l’umanità, spiega Cassese5 è descritta a grandi linee sia nell’Accordo di Londra, sia, in modo simile, nella legge n. 10 del Consiglio di controllo, nello Statuto del tribunale internazionale di Tokyo, e inoltre negli statuti del TPIJ, TPIR. A ciò si aggiunga che la giurisprudenza ha contribuito in modo graduale a definire i contorni dell’elemento oggettivo (actus rei) dei crimini contro l’umanità. Da ultimo è poi intervenuto in materia l’art. 7 dello Statuto della CPI: a tale norma si può alternativamente guardare come la cristallizzazione delle nozioni emerse recentemente in materia di crimini contro l’umanità ovvero come la codificazione della maggior parte del diritto consuetudinario già esistente in materia (per quanto l’art. 7 aggiunge qualcosa e al tempo stesso limita qualcosa di quanto affermato attraverso la consuetudine). In sintesi i crimini contro l’umanità sono costituiti dalle seguenti tipologie di reato: omicidio volontario, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazione o trasferimento forzato della popolazione, imprigionamento o forme gravi di privazione di libertà personale in violazione di norme 5 Cassese, A, op cit. p 92 e ss 8
  • 9. fondamentali di diritto internazionale, tortura, violenza sessuale, persecuzione, sparizione forzata di persone, altri atti umani di carattere e gravità analoghi. In materia di elemento soggettivo, sono tre i punti essenziali: il dolo, la consapevolezza del rischio, la cognizione del nesso esistente tra la sua condotta e una politica o una prassi sistematica di atrocità. Se i crimini contro l’umanità assumono la forma della persecuzione è richiesto anche l’intento persecutorio o discriminatorio. Per quanto concerne i possibili autori, si considera che normalmente i crimini contro l’umanità sono commessi dall’organo di uno Stato, vale a dire individui che agiscono in veste ufficiale. La giurisprudenza ha affermato nel tempo che i crimini contro l’umanità possono essere commessi anche da individui che agiscono a titolo personale, posto che agiscano in armonia con un più generale disegno politico statale e che i loro crimini, di conseguenza, trovino in un tale disegno il necessario sostegno. La stessa giurisprudenza riconosce la possibilità di incriminare per crimini contro l’umanità organi o rappresentanti dello Stato che agiscono a titolo personale e senza la formale approvazione dei propri superiori, a patto che ci sia una qualche forma di approvazione, implicita o esplicita, o di appoggio da parte di Stato o autorità governative o che il crimine sia chiaramente incoraggiato da un disegno politico di carattere generale o, almeno, che si inserisca chiaramente al suo interno. In ultimo per la definizione delle possibili vittime, si tenga conto che il dettato dell’art. 6c dell’Accordo di Londra, da cui deriva in maggior misura il diritto consuetudinario in materia, identifica due tipologie di crimine contro umanità: omicidio volontario e persecuzione. Mentre per l’omicidio volontario, sterminio, riduzione in schiavitù e deportazione definisce come vittime possibili “qualsiasi popolazione civile”, per la persecuzione si sofferma sul movente (“per motivi politici, razziali e religiosi”). Nel secondo caso, è dunque evidente la possibile inclusione di membri delle forze armate tra le vittime, nel primo caso è applicata dalla giurisprudenza una interpretazione estensiva, che afferma che “la presenza 9
  • 10. di persone attivamente coinvolte nel conflitto non deve impedire che una popolazione sia connotata come civile: le persone attivamente coinvolte in un movimento di resistenza possono assumere la qualità di vittime di crimini contro l’umanità.”6 1.2 L’evoluzione: dalla responsabilità aggravata alla competenza universale L’Accordo di Londra del 1945 riconosceva l’autorizzazione a perseguire e punire le persone riconosciute colpevoli di crimini contro l’umanità (a patto che tali atti fossero perpetrati in esecuzione di uno dei crimini rientranti nella competenza del Tribunale o in collegamento con essi), a prescindere dalla circostanza che essi abbiano costituito o meno una violazione del diritto interno del Paese in cui sono stati commessi. La portata della norma impatta la posizione dell’individuo in due direzioni, una esplicita e forte, ovvero la dimensione dell’obbligo e della responsabilità, l’altra implicita ma altrettanto forte, ovvero la definizione di crimini internazionali contro l’uomo, in quanto essere umano. Il concetto di umanità non è infatti riferibile a un dato quantitativo quanto sostanziale. L’incidenza della seconda direzione rafforza la prima e l’amplifica, così che si arriva all’affermazione nel diritto internazionale di uno jus cogens e di una corrispettiva responsabilità aggravata per lo Stato che lo viola. Sono due passaggi importanti verso l’erosione della supremazia assoluta della sovranità statale nella comunità internazionale, che inizia a far venire alla ribalta l’interesse naturalmente legittimo dell’individuo, essere umano che di quello o di un altro Stato si trova ad essere cittadino, residente o abitante. Il regime di responsabilità aggravata è stato infatti previsto per la commissione da parte di Stati di un illecito che violi norme internazionali di natura solidale, ovvero le norme che, ponendo obblighi a tutela dei valori fondamentali della comunità internazionale, vincolano tutti gli Stati, 6 Kupreskic et al. , TPIJ ; Camera di prima istanza, sentenza 14 gennaio 2000 ( caso n. IT- 95-16-T)§ 549, in Cassese, opera citata. L’estensione interpretativa che tende a rompere la suddivisione tra civili e militari nella definizione di vittime di crimini contro l’umanità risponde alla graduale scomparsa in diritto internazionale consuetudinario del nesso tra crimini contro l’umanità e conflitto armato. 10
  • 11. rendendoli al tempo stesso portatori di un diritto collettivo, la cui violazione viola simultaneamente i diritti di tutti gli altri Stati. In conclusione, i valori riconosciuti come fondamentali dalla comunità internazionale, da un lato richiedono la tutela di un interesse che può essere anche in contrasto con quello dello Stato che compie l’illecito e che ricade in ultima analisi sugli individui, dall’altro finiscono per attivare un regime di attribuzione della competenza giuridica di fatto super partes, o almeno concettualmente tale. In altri termini, la rilevanza crescente attribuita alla tutela dei diritti umani in ambito internazionale, si traduce lentamente in una nuova impostazione del diritto penale internazionale. Tale impostazione risulta ispirata da una forma di illuminismo giuridico oltre che dagli immancabili rapporti di forza, secondo la dicotomia di intenti che sospinge l’evoluzione della giustizia penale internazionale, così come ben illustrato da Garapon7 . In tema di persecuzione dei crimini contro l’umanità, che evidentemente intaccano lo jus cogens, Garapon8 sottolinea come quella di una giurisdizione penale internazionale, attraverso la CPI o i Tribunali speciali, non sia l’unica strada percorribile. “Ne esiste almeno un’altra, che procede nel senso inverso e che, invece di sostituire le inefficienti giurisdizioni nazionali con una supergiurisdizione, ricorre ai tribunali degli altri Paesi del mondo, non direttamente coinvolti dagli episodi sotto accusa: si tratta della competenza universale. Questo principio conferisce a uno Stato la possibilità e talvolta l’obbligo di perseguire chiunque sia sospettato di crimini di particolare gravità, che colpiscono la coscienza dell’umanità, anche in difetto degli ordinari criteri di attribuzione della competenza territoriale. I tribunali nazionali possono giudicare i delitti commessi al di fuori del loro territorio anche se né l’autore né la vittima sono cittadini dello Stato” 7 Garapon , A, “Crimini che non si possono né punire né perdonare”, Il Mulino, Bologna, 2004 8 Lo stesso Garapon (op. citata) individua nella Convenzione di New York del 1984 e nelle quattro convenzioni di Ginevra del 1949 i testi a cui si ricorre più frequentemente nel settore. Per le citazioni che seguono nel paragrafo si fa riferimento a Garapon, op cit. p.22 e ss. 11
  • 12. La competenza universale, in via di consolidamento nella prassi, che ha nell’”affare Pinochet” il più celebre esempio di applicazione, ripropone all’interno dello Stato la tensione tra diritto e potere, propria della giustizia internazionale. Infatti, la casistica, oltre che l’intuito, conferma che “lo Stato è tenuto a collaborare all’arresto dei criminali e nel sottoporli a giudizio, ma è quasi certo che non darà impulso alla “sua” giustizia se non a seguito di forti pressioni dell’opinione pubblica nazionale”. “La competenza universale sublima la distinzione tra il livello interno e quello internazionale operando uno sdoppiamento delle giurisdizioni nazionali: oltre ai compiti abituali, queste vengono poste dallo Stato a disposizione di un ordine sopranazionale. La loro legittimazione non deriva più solo dalla sovranità nazionale ma anche dal diritto internazionale. La competenza universale pare segnare il compimento di una nuova utopia democratica che va al di là della rivendicazione di una giurisdizione sopranazionale”. La riflessione di Garapon, sottolinea un aspetto di contesto fondamentale e cioè che “la competenza universale, oltre a testimoniare la de-territorializzazione estrema dell’idea di giustizia penale internazionale, rimarca la supremazia di alcuni diritti fondamentali sulla territorialità”. 1.3 L’emergere del diritto alla verità E’ evidente che l’interesse crescente della comunità internazionale alla persecuzione dei crimini contro l’umanità nasce da una penetrazione progressiva del diritto internazionale dei diritti umani nel diritto internazionale tout-court. In questo contesto, da un lato evolve la concezione stessa di giustizia penale internazionale: se ne codificano i principi e se ne configurano gli strumenti. Dall’altro, si lavora sul versante delle vittime: siano esse le vittime dirette, indirette o potenziali. La domanda da porsi è la seguente: in cosa si sostanzia il più generico “right to a remedy” nei casi di gravi e sistematiche violazioni dei 12
  • 13. diritti umani fondamentali, di cui le vittime di crimini contro l’umanità portano il peso, anche quando tali violazioni sono cessate? Come si rimedia all’irrimediabile? Chi è responsabile del soddisfacimento di un tale diritto? E’ chiaro che in questo ambito il diritto internazionale non può tirarsi indietro, pur essendo chiaro che il principio di riparazione e risarcimento totale è qui inapplicabile. Particolarmente rilevante appare la Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 60/147 del 21 marzo 2006 “Principi di base e Linee guida sul diritto al rimedio e alla riparazione per le vittime di violazioni massive del diritto internazionale dei diritti umani e di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario” . Innanzitutto, nel Principio 1, la Risoluzione chiarisce che “esiste un obbligo per gli Stati a rispettare, assicurare il rispetto e implementare il diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, derivante dai Trattati di cui uno Stato è parte, dalle norme consuetudinarie e dalla legislazione interna a ciascuno Stato” (1,a b,c). Tra le altre cose, esplicita l’obbligo per gli Stati di assicurare che la propria legislazione interna sia coerente con i propri obblighi internazionali, “rendendo disponibili rimedi adeguati, efficaci, tempestivi e appropriati, includendo in questi le misure riparatorie, come più avanti nella stessa Risoluzione meglio identificate” (2 c) L’obbligo di investigazione da parte dello Stato viene sancito già nel Principio 3, dove si esplicita che lo Stato ha l’obbligo di “investigare con efficacia, tempestività e imparzialità e, dove appropriato, di agire contro coloro che su base di prove risultano responsabili, secondo il diritto interno e internazionale”. (3 b) Nello stesso Principio si imputa chiaramente, allo Stato, l’obbligo di fornire accesso alla giustizia, a quelle persone che sostengono di essere state vittime di violazioni dei diritti umani o del diritto umanitario, a prescindere da chi sia il responsabile ultimo delle violazioni (c) e a fornire rimedi efficaci alla vittima, ivi incluse misure riparatorie, come descritte a seguire nella stessa Risoluzione. (d) 13
  • 14. Già questo basterebbe per dedurre un’importante indicazione proveniente dal diritto internazionale, da cui si ricava: • L’obbligo tanto di investigare quanto di fornire accesso tempestivo ed efficace alla giustizia da parte dello Stato, intendendosi, i precedenti, come due obblighi complementari e non alternativi • L’obbligo di fornire rimedi e misure riparatorie efficaci e soddisfacenti alle vittime La Risoluzione va avanti dedicando esplicitamente una sezione ai casi di “gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto umanitario che costituiscono crimini per il diritto internazionale”. In questa sezione si riaffermano gli obblighi di investigazione e di sottomissione alla giustizia dei responsabili, aggiungendo l’obbligo per gli Stati di cooperare tra loro e con gli organi competenti della giurisdizione internazionale, facendo rientrare, in maniera esplicita, in questa ultima serie di obblighi, quello di facilitare l’estradizione o la resa dei criminali ad altri Stati o agli organi competenti della giurisdizione internazionale. (4-5) Questo approccio, ancora Stato-centrico, che sembra riconoscere un diritto alla verità a contrario, a partire da un obbligo statale, viene ribaltato nell’affermazione dei Principi che, nella sezione dedicata della stessa Risoluzione, definiscono le vittime potenziali, ne assumono la prospettiva e ne stabiliscono i diritti. Innanzitutto le vittime vengono definite come “le persone che individualmente o collettivamente hanno subito un danno che, sotto varie forme, costituisce una grave violazione dei diritto internazionale dei diritti umani o del diritto internazionale umanitario”, facendo rientrare anche i familiari diretti o chi ne dipende e le persone che sono intervenute per assistere le vittime dirette o prevenire la violazione. (8) La caratterizzazione corale delle vittime, che nelle gravi violazioni di diritti umani tende a coesistere con la dimensione individuale, viene ripresa e rafforzata nel Principio 13 in cui, riaffermando l’obbligo dello Stato a 14
  • 15. fornire accesso alla giustizia agli individui, si afferma l’estensione dell’obbligo verso “gruppi di vittime”. E’ in questo contesto che la Risoluzione compie, a mio giudizio, un passo avanti importante, affermando esplicitamente tre “classi” di diritti che sostanziano il più ampio “right to a remedy” della vittima, esplicitati nel Principio 11, che recita come segue: “Rimedi per gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e gravi violazioni del diritto umanitario internazionale includono il diritto della vittime a quanto segue, secondo quanto previsto dal diritto internazionale: a) Accesso alla giustizia equo ed efficace b) Riparazione adeguata, efficace e tempestiva per il danno subito c) Accesso alle informazioni rilevanti in relazione alle violazioni e ai meccanismi di riparazione Per ciascuno di questi diritti, si esplicitano contenuti e obblighi per lo Stato nei Principi seguenti, fissati nella stessa Risoluzione. In particolare, il Principio 24 in materia di “Accesso alle informazioni rilevanti in relazione alle violazioni e ai meccanismi di riparazione”, esplicita il diritto alla verità, in termini di “right to learn the truth” , come segue: “In aggiunta, le vittime e i loro rappresentanti devono a pieno titolo poter cercare e ottenere informazioni sulle cause che hanno condotto alla loro vittimizzazione e sulle cause e le condizioni riguardanti le gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario e ad apprendere la verità riguardo a tali violazioni”. Nel contesto di questa riflessione, sono due i punti importanti che escono esplicitati dalla Risoluzione in questione: • l’obbligo dello Stato di investigare e di fornire accesso alla verità e l’obbligo dello Stato di fornire accesso a una giustizia tempestiva, equa e efficace, costituiscono il “cappello” di 15
  • 16. tutte le misure riparatorie a cui le vittime9 hanno diritto, a seguito di gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani. In altri termini, il soddisfacimento del diritto ad apprendere la verità e del diritto ad accedere a una giustizia equa, tempestiva ed efficace, si affianca, senza poter esserne sostituito sulla base di nessuna valutazione politica, al soddisfacimento del diritto a misure di restituzione, compensazione, riabilitazione, soddisfazione e garanzia di non ripetizione10 . • “Le vittime e i loro rappresentanti” sono portatori attivi di un diritto ad accedere all’informazione rilevante in merito alle cause delle violazioni e ad apprendere la verità in merito a tali violazioni. Nello stesso Principio (24) si afferma che lo “Stato dovrà sviluppare mezzi per informare il pubblico generale e le vittime in particolare sui diritti e sui rimedi affrontati dai Principi di base e Linee guida adottati nella Risoluzione, oltre che su tutti i servizi (legali, sociali, medici, amministrativi, psicologici) a cui le vittime potrebbero avere diritto ad accedere”. In merito a questo ultimo punto, resta da argomentare la relazione tra “pubblico generale” e diritto alla verità, in quanto sostanzialmente, seppur indirettamente, il “pubblico generale” sembra escluso (ex Principio 24) dal diritto “ad apprendere la verità” sulle cause delle violazioni e sulle violazioni stesse. Sul primo punto possiamo, invece, già giungere a una conclusione importante che chiarisce il rapporto vitale tra verità e giustizia nei casi di gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, in cui i crimini contro l’umanità rientrano a pieno titolo. 9 Per la definizione di vittime si faccia riferimento a quanto sintetizzato in precedenza in questa trattazione, sulla base dei Principi 8-9 della Risoluzione 60/147 dell’Assemblea Generale 10 Si riprende la categorizzazione delle misure di riparazione, resa esplicita nei Principi 18- 22 della Risoluzione 60/147 dell’Assemblea Generale. 16
  • 17. La separazione degli obblighi dello Stato in caso di crimini contro l’umanità e la speculare articolazione distinta dei diritti è fondamentale, da un lato per l’emersione netta di un diritto alla verità al soddisfacimento del quale lo Stato deve impegnarsi; dall’altra per la non derogabilità dell’obbligo di lasciare aperto l’accesso alla giustizia, neanche in nome di un processo di riconciliazione che passi da più o meno articolate Commissioni per la verità. Sembra confermarsi appieno la tesi di Mendez che, parlando nel 1997 di un diritto alla verità come di un principio emergente, affermava11 : “Sebbene ogni violazione di un obbligo internazionale faccia sorgere, in capo allo Stato responsabile, un obbligo di riparare il danno causato, quando si tratta di crimini contro l’umanità tale obbligo è più ampio. Non si può tradurre in un indennizzo monetario, perché significherebbe permettere agli Stati di mantenere l’impunità in cambio di denaro. Il concetto di “riparazione integrale” richiederebbe innanzitutto uno sforzo per tornare allo status quo ante, rimedio che, nella maggior parte dei casi, non sarà possibile. Ma non si può considerare integrale la riparazione se non include la investigazione, la rivelazione dei fatti e uno sforzo per processare e castigare penalmente e disciplinarmente coloro che ne risultano responsabili. Il diritto alla verità è parte, dunque, di un più ampio diritto alla giustizia detenuto dalle vittime di questo tipo di crimine. Per essere più precisi, il sistema di obblighi che nasce in capo allo Stato da questo tipo di crimini è quadruplice: obbligo a investigare e a far conoscere i fatti che si possono stabilire con certezza (verità); obbligo di processare e punire i responsabili (giustizia); obbligo di riparare integralmente i danni morali e materiali provocati (riparazione); obbligo di estirpare dai corpi militari e di sicurezza coloro che si sappia abbiano commesso, ordinato o tollerato tali abusi (creazione di forze armate e di sicurezza degne di uno Stato 11 J.E. Méndez, "Derecho a la verdad frente a las graves violaciones a los derechos humanos", in M. Abregú, Ch. Courtis (a cura di), « La aplicación de los tratados sobre derechos humanos por los tribunales locales », Buenos Aires, Editores del Puerto, 1997, pp. 5-6 17
  • 18. democratico)”. Quest’ultimo può essere fatto rientrare nel più ampio obbligo, stabilito nella Ris. 60/147, di “intraprendere misure appropriate, in campo legislativo, amministrativo e di altra natura per prevenire le violazioni”12 . Continua Mendez13 : “Questi obblighi non sono alternativi gli uni agli altri, né sono opzionali: lo Stato responsabile deve assolvere ciascuno di essi nella misura delle proprie possibilità e della buona fede. (..) Sebbene questi quattro obblighi siano interdipendenti bisogna considerare che ciascuno di essi ammette un assolvimento separato e in sé compiuto. Non è possibile che uno Stato scelga quale di questi obblighi dovrà assolvere. Però, se uno di essi risulta impossibile da compiersi, gli altri tre continuano ad incombere quali obblighi inderogabili”. Potrebbe, ad esempio, farsi il caso dell’impossibilità di processare i responsabili a causa della vigenza di leggi di pseudo-amnistia, per cui lo Stato sarebbe comunque obbligato a perseguire la ricostruzione della verità e la sua diffusione tra le vittime e i loro rappresentanti, ad attuare le misure riparatorie e ad adottare misure legislative e amministrative di prevenzione. Nell’orizzonte di un vero processo di riconciliazione, il soddisfacimento del diritto alla verità, come delineato, è un aspetto rilevantissimo, seppur ancora in via di consolidamento nella prassi. Riconoscere una strumentalità solo incidentale del diritto alla verità rispetto al diritto alla giustizia, e rilevare così la sua finalità “altra” permette di rendere efficace e rispondente ai suoi compiti l’azione giudiziaria. Il soddisfacimento del diritto alla verità, così impostato, può finalmente prendere su di sé aspirazioni altrettanto legittime, più composite e per questo non proprie dell’azione giudiziaria. Evitando sovrapposizioni forzate e generando confusione di aspettative nelle vittime in senso lato, il soddisfacimento del diritto alla verità come parte di una più ampia aspirazione di giustizia (e non in essa 12 A/RES/60/147, Principio n. 3 (a) 13 Mendez, op. cit. p 5 e ss 18
  • 19. compiuto), rafforza la funzione garantista del diritto e dell’azione giudiziaria che da tale funzione è ispirata. E’ importante, infatti, tenere a mente che se il fine è la ricomposizione di uno Stato democratico credibile, tale credibilità non può non passare attraverso l’impegno dello Stato verso tutti i suoi componenti a porsi quale istituzione garante del diritto e dei diritti di ciascuno. L’azione giudiziaria penale ha per sua natura una funzione garantista verso gli imputati e pienamente tale rimane nel caso della persecuzione dei crimini contro l’umanità14 . “Il problema ha dimensioni legali, etiche e politiche, ed è un imperativo riconoscere e affrontare ciascuna e affrontarle nel loro insieme. Sarebbe un errore per il movimento dei diritti umani permettere che venga rilegato in un angolo del dibattito in quanto portatore di una posizione univocamente “moralista” o “giustizialista” . Il rischio è di essere etichettati come “intransigenti” e come “vendicativi e “oppositori della riconciliazione. (…) Dobbiamo, dunque, essere pronti ad assumere una posizione più sobria e realistica nel considerare i limiti politici nel proporre misure e parametri di credibilità e affidabilità. Una tale posizione, d’altro canto, non ha come risultato necessario il soccombere della “questione di principio” alla realpolitik. Infatti, si può affermare che un programma di verità e giustizia non è soltanto la cosa giusta da fare, ma è politicamente desiderabile perché ci fa avanzare notevolmente nella realizzazione dell’idea di democrazia che guida il post-dittatura”.15 1.4 Verità e giustizia: un dibattito aperto Chiarito il punto di partenza della riflessione sul rapporto tra verità e giustizia, ovvero che l’accesso alla verità e l’accesso alla giustizia non sono strade alternative ma diritti ugualmente non derogabili in caso di avvenuti 14 Eiroa, P. “Dalla Comision nacional sobre la Desaparicion de Personas alla stagione processuale. Sul fine della giustizia penale”, intervento al Convegno Internazionale “Memoria e giustizia”, ottobre 2008, Firenze 15 Mendez, J. E., Acountability for past abuses, in Human Rights Quarterly, Baltimore, Febbraio 1997 p. 5 19
  • 20. crimini contro l’umanità, è il caso di chiarire il punto di arrivo, ovvero il fine a cui si guarda nell’articolare questa riflessione. Le diverse concezioni del dove si collochi e del come si sostanzi il diritto alle verità e l’obbligo che ne consegue per lo Stato hanno dato (e continuano a dare), origine a diverse soluzioni e strumenti adottati in quella che più tradizionalmente viene chiamata giustizia di transizione. Che il dibattito sia aperto è testimoniato proprio dall’evoluzione dei diversi strumenti adottati nelle esperienze post dittatoriali in tutto il mondo: dai processi ai Tribunali speciali per il Rwuanda e l’ex Yugoslavia, alle Commissioni per la verità, queste ultime tutte diverse nelle finalità e nelle attribuzioni, partendo dalle esperienze latinoamericane alla specialissima esperienza della Sierra Leone.16 Il punto è comprendere la prospettiva in cui si incornicia il dibattito e, di conseguenza, i livelli e gli strumenti di azione che si identificano e implementano. E’ chiaro che il diritto alla verità assumerà connotazione e rilevanza differente se collocato concettualmente in un processo di pura “transizione” da un regime dittatoriale a uno Stato democratico, piuttosto che in un più strutturale e lungimirante processo di riconciliazione all’interno uno Stato democratico. A seconda dell’orizzonte di riferimento sarà anche diversa la valenza e la rilevanza attribuita al rapporto tra verità e giustizia. Il primo punto da sottolineare è che quando si parla di diritto alla verità si corre un grande rischio, che è quello di fermarsi alle parole. In altri termini, che il diritto alla verità si traduca in una semplice attività cd “di truthseeking” nell’ambito della giustizia di transizione, attività senza dubbio fondamentale, ma non esaustiva della portata del diritto alla verità. 16 La Commissione per la Verità in Sierra Leone, inaugurata nel 2002, si affianca all’istituzione di un Tribunale speciale indipendente: un tribunale locale a carattere internazionale, non posto sotto l’egida delle Nazioni Unite ma nato da un accordo tra Sierra Leone e Nazioni Unite. Seppur con i limiti che nel corso del tempo si sono resi maggiormente evidenti, la soluzione adottata in Sierra Leone presenta un carattere di forte innovatività, accostando negli intenti e negli strumenti il percorso della giustizia a quello della riconciliazione. 20
  • 21. Méndez nota, giustamente, come la transizione prima o poi si concluda, mentre non si chiudono le questioni con il passato, così che lo Stato democratico si ritroverà a dover decidere di cosa fare con le violazioni gravissime dei diritti umani intercorsi prima del suo rinascere e stabilizzarsi17 . A mio giudizio, questo è un punto fondamentale per inserire il diritto alla verità nell’orizzonte più ampio che gli compete, che trascende quello prettamente giuridico per inserirsi nell’orizzonte della riconciliazione. In altri termini, seguendo il ragionamento portato avanti da Mendez sul tema della capacità dello Stato di assumersi le sue responsabilità18 , se si tiene ben a mente che il diritto alla verità non può prescindere dalla giustizia ma non è ad essa finalizzato, si arriva a comprendere meglio il dovere ( e l’interesse) dello Stato ad attuare il diritto alla verità anche e imprescindibilmente attraverso i meccanismi della giustizia. Del resto, che la giustizia sia essenziale ma non sufficiente ad affrontare la portata dei crimini contro l’umanità è un’osservazione sollevata da più punti nel dibattito internazionale. Riprendendo le riflessioni di Hannah Arendt19 , Garapon rileva i limiti del modello del processo penale, “colto alla sprovvista dalle dimensioni - tanto quantitative che qualitative - del crimine contro l’umanità”. Invitando a riflettere su come la giustizia penale internazionale celi una insidiosa dominazione culturale, a meno di non ritenere che ciò che è universale non sia tanto una forma, quella del processo equo, ma una funzione, l’autore suggerisce appunto di orientare la riflessione sulla “funzione” da attribuire alla giustizia penale internazionale, ovvero 17 Mendez, J. Derecho a la verdad frente a los graves violaciones a los derechos humanos, op. cit. 18 Mendez, Jaun E, Accountability for past abuses, op. cit. 19 Hannah Arendt, manifestava all’indomani del processo di Norimberga, la sua perplessità, scrivendo: “Mi pare che questi crimini non possano essere analizzati da un punto di vista strettamente giuridico, e ciò è dovuto alla loro mostruosità. Non esistono pene adatte a essi: punire Goring è certamente necessario ma del tutto inadeguato” (da Carteggio. Filosofia e politica, Milano, Feltrinelli, 1989) e ancora “Tutto quello che sappiamo è di non poter né punire né perdonare tali crimini, che quindi trascendono il dominio delle cose umane e le potenzialità del potere umano, distruggendoli entrambi radicalmente ovunque si compiano” (da Vita Activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 2005) 21
  • 22. permettere la riconciliazione, da non confondere né con la pace, né con la sanzione. 20 . In questo orizzonte di riflessione, in cui il fine della “transizione” non è solo un passaggio ma una ricostruzione, appare molto appropriato l’approccio di Ruti Teitel 21 alla giustizia cd “di transizione”, definita dall’autrice come un forma di giustizia retroattiva che impatta su tre livelli: giuridico, politico, morale. Proprio nel riconoscere la triplice composizione della giustizia di transizione, Teitel si distacca tanto da un approccio puramente realista, che guarda ai limiti imposti politicamente e istituzionalmente in un periodo di transizione, tanto da una prospettiva più marcatamente idealista, che sembra attribuire a una legge la capacità di attivare una serie di cambiamenti non solo giuridici ma anche politici, che portino ad una situazione universalmente riconosciuta come ideale. Teitel introduce un approccio “costruttivista” alla giustizia di transizione, riconoscendone da un lato l’orientamento al passato, dall’altro l’orientamento al futuro e ponendo questo potenziale trasformatore della giustizia in stretta relazione con la ricettività sociale dell’innovazione. Superando i limiti della riflessione di Nino22 , che sembrava centrare l’analisi della transizione sulle decisioni politiche e sulle intuizioni di uno o pochi individui, in una sorta di “storia delle decisioni”, Teitel adotta un nuovo approccio che modifica il concetto stesso di “facoltà agente nella storia”. Nel suo approccio i limiti dell’azione e del potere trasformatore della legge sono modellati a partire da un determinato contesto sociale che elabora tali limiti, fino a dare o meno luogo alla trasformazione23 . In altri termini, “non si tratta solo di elaborare una riposta a un passato conflittuale ma in periodi di transizione le società si trovano a cercare di trasformare i sistemi politici legali e finanche economici che hanno ereditato dai governi 20 Garapon, op cit. pg. 227 e ss 21 Teitel, R. “Transitional justice”, Oxford University Press, Oxford, p 37 22 Nino,C “Juicio al mal absoluto. Los Fundamentos y la istoria del juicio a las Juntas del Proceso”, Emecé, Buenos Aires, 1997 23 Per confronto sulle posizioni di Nino e Teitel si veda Schorr, M.”La transicion a la democrazia en la Argentina” in “Pensar la democrazia, imaginar la transicion”, Macon, C (a cura di) p. 30 e ss. 22
  • 23. autoritari precedenti e che giustamente hanno reso possibile l’esistenza di tali regimi”24 . . L’approccio di Teitel riporta alla ribalta la società civile in quanto agente nella storia e nella transizione da regimi dittatoriali allo Stato democratico. Nota Schorr: “l’analisi di Teitel genera lo spazio necessario per investigare la partecipazione sociale, pur nella conflittualità e nella eterogeneità che ne deriva, nei processi decisionali” 25 , concludendo che “una storia della transizione, non è da considerarsi strettamente legata alle decisioni prese da attori individuali, come nella tesi di Nino, ma dovrà prendere in considerazione un contesto sociale più ampio in cui molto del possibile e del pensabile è creato e sostenuto socialmente”26 . In sintesi, si introduce la società civile in una riflessione sulla giustizia e la verità che adotti la più complessa ottica della riconciliazione. 24 Schorr, op. cit. p. 37 25 Idem 26 Ibidem, p. 38 23
  • 24. 2 La prospettiva della società civile I crimini contro l’umanità hanno un impatto molto forte sulla società civile. Innanzitutto in senso diretto, perché gruppi o componenti della società civile ne sono le vittime, in secondo luogo perché la loro portata e “mostruosità” hanno una incidenza estendibile all’intero corpo sociale. 2.1 Quale società civile Garapon riflette sull’impatto che i crimini contro l’umanità possono apportare nell’opinione pubblica, registrando come le stesse società democratiche, o aspiranti tali, abbiano un potere notevole nello spingere all’attivazione i meccanismi della giustizia di fronte alle gravi violazioni di diritti umani. “ Il pessimismo degli oppositori della giustizia penale internazionale li rende ciechi quanto alla dinamica profonda di questa idea, forse perché la ricercano nell’ambito delle relazioni internazionali, mentre paradossalmente va cercata anche all’interno delle società democratiche. (...) La giustizia penale internazionale trova il proprio dinamismo in questo ridimensionamento tra la dimensione locale e la dimensione mondiale. (…) Il processo di istituzionalizzazione deve attingere da qualche parte la propria forza. Ma da dove? Perché gli Stati hanno sentito il bisogno di legarsi le mani, di complicare così i propri compiti, di dar vita a un processo che, nel tempo, affievolisce il loro potere? Perché sono spinti da una forza nuova, tipica delle democrazie: l’opinione pubblica. Dimenticarlo è l’aspetto debole della tesi realista, che limita la potenza al solo potenziale militare o economico, senza cogliere che le democrazie devono fare i conti con questa nuova forza, non organizzata ma comunque temibile. (…) La giustizia penale internazionale non può imporsi con la sola forza delle idee: ma può farlo in quanto rappresenta l’eco di aspirazioni profonde ed è sostenuta da militanti e da giuristi, nonché dall’opinione pubblica”. 27 27 Garapon, op. cit. p. 67 - 68 24
  • 25. Questo passaggio è fondamentale perché ci permette di collocare la società civile nel ruolo che gli spetta nella riflessione sul diritto alla verità di fronte ad avvenuti crimini contro l’umanità. In altri termini, la tesi è che la società civile, rappresentata non soltanto dalle ONG, non ha soltanto il ruolo di supporto alle investigazioni e alle giustizia, una volta che una forma di potere istituzionalizzato – sia esso nazionale o internazionale – abbia dato il via a un percorso di verità e giustizia. Primo punto di questo approccio: la società civile è un’entità più ampia degli organismi sociali sotto varia forma organizzati, di cui spesso si fanno portavoce organizzazioni quali le ONG. Secondo punto: la società civile è portatrice di una esigenza espressa e diffusa che si traduce in una istanza di verità e giustizia, motore di attivazione dei percorsi sopra citati. Bisogna dunque chiarire, innanzitutto, cosa si intende per società civile, per poi indagare l’arricchimento che il suo coinvolgimento diretto e pro-attivo apporta al dibattito sul diritto alla verità e alla giustizia e alle soluzioni applicate. Nel definire gli attori della società civile, usiamo, rielaborandola e ampliandola, la definizione presente nel Manuale per la Società Civile28 dell’OHCHR, per cui consideriamo attori della società civile gli individui che, in maniera volontaria, si impegnano in forme di partecipazione pubblica e di azione attorno a valori, interessi e obiettivi condivisi, oltre a un pubblico più generale che di tali azioni è referente o destinatario più o meno diretto. In questo senso, rientrano nell’ ampia definizione di società civile: • Attivisti di diritti umani • Organizzazioni per i diritti umani (ONG, associazioni, gruppi di vittime) • Organizzazioni che lavorano per uno scopo pertinente o collegato ai diritti umani 28 Working with the United Nations Human Rights Programme – A Handbook for Civil Society, Introduction, p. vii 25
  • 26. • Coalizioni e network (diritti delle donne, diritti dei bambini, diritti ambientali) • Persone con disabilità e le organizzazioni che le rappresentano • Raggruppamenti di comunità (indigeni, minoranze) • Gruppi religiosi • Associazioni di categoria (associazioni industriali, ordini di professionisti, giornalisti, magistrati, studenti) • Movimenti sociali (movimenti pacifisti, movimenti studenteschi, movimenti democratici) • Professionisti direttamente coinvolti nell’ambito dei diritti umani (avvocati, operatori umanitari, medici e operatori sanitari) • Parenti delle vittime • Istituzioni pubbliche impegnate nell’implementazione di attività per la promozione dei diritti umani (scuole, università, centri di ricerca) • Pubblico generale Dunque, contestualizzando il dibattito sul diritto alla verità su queste coordinate e assumendo la società civile (sopra esplorata nelle sue componenti) come uno stakeholder assolutamente rilevante nel dibattito in questione, appare più che appropriata la posizione di Teitel, per cui la questione del diritto alla verità e alla giustizia è una questione politica . Nel caso dei crimini contro l’umanità, la società civile è chiamata in causa in primissimo piano, in quanto abitante della sfera pubblica, luogo simbolico ove i crimini concretissimi si consumano. 26
  • 27. 2.2 Un diritto collettivo? Il crimine contro l’umanità straripa dagli argini del diritto penale, per la sua natura “politica”. Lo Stato garante dei sui cittadini ne diventa il carnefice. Questo sottintende che si rompa il patto politico, classicamente inteso come il patto alla base di ogni comunità civile che riconosce una forma di sovranità allo Stato in cambio della sicurezza e della garanzia di un interesse comune, tutelato in ultima istanza dal potere giudiziario. In altri termini, i crimini contro l’umanità ci pongono davanti al collasso di una comunità giuridica, per mano di chi istituzionalmente dovrebbe essere custode dei fondamenti di tale comunità29 . E’ qui che, a mio modo di vedere, si attiva una sorta di sussidiarietà orizzontale, tragica in un certo senso, ma fondamentale, per cui tale funzione di custodia passa de facto alla società civile. E’ chiaro che i mezzi saranno diversi e diversi saranno gli esiti. Però la consapevolezza di un dovere di verità, nato da un’esigenza diffusa e dai diritti dei molteplici singoli violati, fa sì che la società civile, nel suo insieme, arrivi a detenere di fatto un diritto alla verità e alla giustizia. Tale diritto non è che l’altra faccia del dovere “politico” di ricomposizione della comunità giuridica, in capo allo Stato democratico. E’ un diritto della società civile attuale e al tempo stesso un dovere verso le generazioni future. In questo si spiega la necessità sempre avvertita di “fare memoria”, in uno spazio collettivo e sociale che tocca, per sua natura, il diritto, la politica e la morale. Dunque, accanto a un diritto inalienabile in capo ai singoli (le vittime e i loro rappresentanti) ad “apprendere la verità sulle violazioni e sulle cause che hanno portato a tali violazioni”30 , come ad avere accesso alla giustizia e a tutte le forme di riparazione previste, esiste un diritto del “pubblico generale” non solo all’informazione in termini dei diritti e rimedi riconosciuti31 , ma anche alla verità e alla giustizia, in quanto passaggi fondamentali di un percorso di ricomposizione del patto democratico. 29 Garapon, op. cit. 30 A/RES/60/147, Principio n. 24 31 Idem 27
  • 28. Mendez32 , nella sua analisi del diritto alla verità, rileva come esista una duplice esigenza che pone obblighi di diversa natura allo Stato democratico. Da un lato esiste l’obbligo per lo Stato di investigare, ricostruendo nel dettaglio il piano criminale, i mandatari e gli esecutori dei crimini; dall’altro esiste la necessità di rispondere del diritto alla verità di ciascuna vittima e dei suoi rappresentanti. L’obbligo per lo Stato di soddisfare tale diritto alla verità “individualizzata”, verso ogni vittima e verso ogni famiglia di un desaparecido, persiste fino a quando sussiste qualsiasi tipo di incertezza sulla sorte e sulla apparizione della vittima dell’abuso statale33 . L’ampiamente citata Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite n. 60/147 aggiunge agli obblighi dello Stato quello di “adottare misure legislative e amministrative e altre misure appropriate per prevenire violazioni”34 . Questo amplia di fatto il diritto alla “prevenzione” a tutte le potenziali vittime o artefici di future violazioni, ovvero la società civile nel suo complesso. Sembra ragionevole far rientrare tra le “misure appropriate” di prevenzione la conoscenza dei fatti e di conseguenza il soddisfacimento di un diritto alla verità in cui tale conoscenza trova fattispecie giuridica. E’ interessante notare come in questo ambito la società civile è duplice destinatario, nell’estendersi delle generazioni, di un tale obbligo, essendo “ricettore” della verità giuridica e non solo, e al tempo stesso produttore di memoria (o più precisamente di memorie). Questo ragionamento testimonia che l’esigenza della società civile alla verità ha bisogno di sostanziarsi in un diritto alla verità che passa anche attraverso la giustizia, ma in essa non si esaurisce. Il diritto alla verità della società civile è bi-fronte, se così possiamo dire. Da un lato, è diritto a conoscere verità, attraverso i meccanismi dell’investigazione e della giustizia, dall’altro a tramandare verità attraverso 32 Mendez, Derecho a la verdad frente a graves violaciones de los derechos humanos, op. cit. 33 Corte Interamericana dei diritti umani , caso “Velasquez Rodriguez” sentenza 29.07.1988 34 A/RES/60/147, Principio n. 3,(a) 28
  • 29. la produzione di memoria, nel pieno esercizio del diritto di espressione di ciascun uomo e di ciascun gruppo. E’ fondamentale sottolineare come il primo è soddisfatto da una verità univoca, giudiziaria, sulla base della quale prendono corpo le iniziative “istituzionali” della memoria, il secondo è soddisfatto dall’apertura al pluralismo delle espressioni e dei contenuti delle memorie. Per questo la prospettiva del diritto non è sufficiente a soddisfare il diritto alla verità della società civile, ma è fondamentale per liberare la seconda multiforme componente, che è quella delle memorie, dalla pretesa di assolutismo. La ricostruzione dello Stato democratico, dunque, non può prescindere da un serio percorso di verità e giustizia, ma nei casi di crimini contro l’umanità, tale percorso non può prescindere dalla dimensione collettiva. Seguendo la tesi di De Greiff “nel caso di abusi gravi e sistematici, l’interesse dell’azione giudiziaria supera lo sforzo di ripagare il danno particolare subito dalla singola vittima, il cui caso si discute davanti a un Tribunale. Qualunque sia il criterio di giustizia che si caldeggia, questo dovrà consistere in un approccio capace di salvaguardare anche le pre- condizioni per ricostruire la supremazia della legalità (rule of law), un obiettivo che ha di necessità una dimensione pubblica e collettiva”35 . 2.3 Liberare la memoria: le pratiche collettive La memoria è una “funzione” fondamentale degli individui come delle collettività, tanto che Locke arrivava a connetterla strettamente con l’identità, sostenendo che ciò che ci definisce sono i nostri ricordi. Accanto a una memoria individuale esiste la memoria collettiva. Halbwachs è stato il primo a proporre un approccio sociologico allo studio della memoria che trasformasse quest’ultima da categoria astratta a costrutto sociale, ove il modo in cui si cristallizza non solo determina e influenza i ricordi stessi, ma 35 De Greiff, “Repairing the past: compensation for victims of human rights violations”, in “The Handbook of reparations”, International Centre for Transitional Justice, 2006, p. 14 29
  • 30. svolge anche funzioni positive, in particolare quella di rafforzamento della coesione sociale attraverso l’adesione al gruppo36 . La memoria, dunque, ha molto a che vedere con il passato e con il presente, o meglio con un passato che si attiva o si ricostruisce, avendo pertanto effetti attuali. Al tempo stesso determina una relazione con il futuro, che sembra aprirsi ad alcune possibilità piuttosto che ad altre, sulla base di valutazioni che portano il peso della storia37 . La questione della memoria nelle società post-dittatoriali - in particolare nei casi feroci di avvenuti crimini contro l’umanità - postula l’effettività del diritto alla verità e del diritto alla giustizia. Vediamo brevemente perché. Come spiegano Dussel, Finocchio e Gojman non è possibile una riflessione sulla memoria che non approcci la questione anche a contrario, ovvero considerando che la memoria collettiva è funzionalmente collegata all’oblio. Ogni corpo sociale, complessivamente o in alcune sue parti, conserva una data relazione con il passato, selezionando alcune cose che crede valga la pena ricordare e altre che lascia cadere nell’oblio. La memoria collettiva si sostanzia di forme e luoghi, di riconoscimenti raggiunti nella sfera dei diritti umani, nella memoria dei sopravvissuti e dei loro rappresentanti, prendendo forma variegata nelle espressioni dell’intera società.38 Gli studi sulla memoria hanno messo in luce come i processi sociali di ricostruzione del passato abbiano una natura dinamica e a volte conflittuale, andando in questo senso a integrare la teoria di Halbawchs. “Proprio per la sua origine sociale la memoria, infatti, non è una sola, ma spesso accanto alla memoria che ricorda un passato istituzionalizzato e visibile, ve ne è una nascosta, negata, censurata, rimossa. La memoria può 36 Le teorie di Halbwachs sulla Memoria collettiva e sui Quadri sociali della memoria sono punto di riferimento fondamentale per qualsiasi riflessione sulla memoria. In questo contesto vengono citati, in quanto parte della riflessione di Marzia Rosti, in La forza della memoria nel caso dei desaparecidos argentini, in www.24marzo.it 37 Dussel I, Finocchio S, Gojman S. Haciendo memoria en el pais de nunca mas, p 135 e ss, Eudeba, Buenos Aires, 2007 38 Idem 30
  • 31. anche essere contesa, quando nel ricordare un passato scomodo si generano conflitti e negoziazioni, oppure può essere ostinata, quando il non detto, il non ricordato, il mai rappresentato rimangono latenti, mantenendo vivo il passato e riaffiorano al momento opportuno per un loro riconoscimento”.39 La memoria, per sua natura, nutre di contenuti il soddisfacimento del diritto alla verità, lo sospinge di fatto fino all’imbocco del percorso della giustizia, ma resta da chiarire che la funzione sociale della memoria e le sue dinamiche sono antitetiche alla funzione della giustizia nei casi di crimini contro l’umanità. “L’azione della giustizia non è esterna al crimine: lo puntualizza. Come il punto finale suggella il senso di una frase, il processo pone fine a un’azione rivelandone la vera natura criminosa. (…) Il ruolo del giudizio è di porre fine a un’azione, di chiuderla ripetendola. La giustizia chiude una parentesi. Il suo significato è di smorzarne la violenza, di sopprimere le ragioni della reazione, in sintesi di uscire dalla vendetta e dal mimetismo. Occorre esorcizzare la violenza contenuta nei fatti non giudicati”40 . In questo contesto è chiaro come la giustizia si situi tra la storia e la memoria. Se alla storia è richiesta la ricerca nel tempo di una verità composita e alla memoria il trasferimento di identità e senso verso il futuro, “al giudice spetta il compito di stabilire la corrispondenza tra i fatti e il modello di qualificazione giuridica” 41 . Nel far questo il giudizio ha un duplice effetto: da un lato, come abbiamo già riflettuto, riafferma la ritrovata sovranità giuridica, dimostrando la superiorità della forza dei cittadini riuniti da un ideale politico comune contro i misfatti di alcuni e gettando le basi per la ricostituzione del patto democratico attraverso la fine dell’impunità, (ovvero della confusione tra l’autore della legge e la legge stessa); dall’altro “libera” la memoria, inaugurando una nuovo esercizio del diritto alla verità. 39 Marzia Rosti, La forza della memoria nel caso dei desaparecidos argentini, op. cit. p. 156 40 Garapon, op. cit. p. 210 41 Idem, p. 163 31
  • 32. In conclusione, la giustizia si situa tra la memoria, che ha per oggetto la fedeltà, e la storia che tende alla verità, ma non è completamento né dell’una né dell’altra. Il momento del processo segna un punto di oscillazione: è sia il completamento di un lavoro di recupero della memoria che il punto di partenza di un processo di superamento. Il processo chiude la storia per inaugurare il tempo della memoria. E’ per questo che la memoria liberata parte dalla giustizia. Occorre liberare la memoria nel duplice senso di conquistarla e di poterla narrare liberamente. “La memoria malata - conclude Garapon – è incapace di ricordare. Il risentimento è una memoria congelata, rancorosa, sterile, che si oppone in tutto alla memoria alleviata, quella che segue l’opera di giustizia. Ecco perché la giustizia deve liquidare questo debito che pesa su coloro che debbono ricostruire lo Stato di diritto, per lasciare campo libero alla memoria”. 42 Concluderei affermando, in linea con la tesi di Garapon, che la memoria ha sostanzialmente una funzione teleologica, riferibile al “dover essere”, rispetto a cui la società civile è al tempo stesso produttore protagonista – insieme, ma non sempre in accordo con le istituzioni democratiche - e destinatario, nei diversi gruppi e nelle diverse generazioni. Aggiungerei, però, che la memoria ha anche una funzione strumentale fondamentale, che pur acquisisce nutrimento dalla stessa macrofunzione teleologica. La memoria è capace di conservare l’istanza di verità e giustizia nel tempo, a volte lunghissimo, dell’impunità. In questo caso la memoria è strumento di verità e giustizia e il suo produttore - protagonista indiscusso è la società civile, in antagonismo simbolico e non solo con le istituzioni democratiche. O meglio, la società civile può rivestire un tale ruolo fondamentale, a patto che sia “preparata” a farlo. E’ questo l’interessantissimo caso dell’Argentina. 42 Idem, p. 214 32
  • 33. 3 . Il caso argentino Lo scorso 24 marzo, nell’anniversario dei 33 anni dell’avvenuto golpe militare in Argentina, la piazza simbolo di Buenos Aires – Plaza de Mayo - si è riempita di cortei di organizzazioni della società civile, rappresentanze di partiti e cittadini al grido unanime di “giustizia”. Gli organismi di diritti umani, in prima linea, si sono fatti portavoce della denuncia comune, così riportata dal quotidiano Pagina12 il giorno seguente: “A 6 anni dall’annullamento delle Leggi di Punto Finale e Obbedienza Dovuta sussistono solo 44 condanne. Ci sono 536 “genocidas” in attesa dell’udienza ma, per la lentezza dei processi, 192 repressori sono già morti, mentre altri 47 sono ancora latitanti. Pur riconoscendo che molti processi sono stati riaperti, a partire dalla dichiarazione di incostituzionalità delle leggi di Punto finale e Obbedienza dovuta nel 2001 e grazie al loro annullamento con una legge del Congresso nazionale nel 2003, ratificata finalmente nel 2005 dalla Corte Suprema, le Madres de Plaza de Mayo si domandano: “ Ma quanti decenni saranno necessari per condannare tutti i “genocidas” per tutti i compagni morti? Sono già molti anni che chiediamo giustizia. Tutti i poteri dello Stato hanno la responsabilità di accelerare i processi sollevati contro gli autori dei crimini contro l’umanità e porre fine agli effetti degli indulti”43 . Già da questa finestra recentemente aperta sulla piazza simbolo della opposizione argentina alla dittatura e della lotta per “Verdad, Justicia y Castigo”, si intuisce il ruolo di primissimo piano della società civile argentina nella rivendicazione della verità attraverso la giustizia. Lo Stato continua a detenere una serie di obblighi non soddisfatti verso le vittime, i loro rappresentati e l’intera società civile, a prescindere dal fatto che gruppi di essa abbiano o meno prestato attivamente opposizione al regime. L’obbligo dello Stato si estende finanche alle generazioni future. 43 Vales, L. “Una plaza que demandò justicia”, in Pagina12 del 25.03.2009 33
  • 34. Ma il punto è: come lo Stato argentino ha ritenuto di “riparare” in questi 33 anni? Quale è stato il percorso? Dove si è interrotta la giustizia? Quali sono state le conseguenze? La società civile argentina ha testimoniato una presenza importante nel percorso difficile e lungo della transizione argentina alla democrazia, a testimonianza del fatto che non è la sola transizione istituzionale che risana una società vittima (ove non anche parzialmente complice) di un regime criminale. 3.1 Il quadro storico La storia della dittatura argentina va ufficialmente dal marzo del 1976 al giugno 1982, data a cui seguirà un ulteriore anno di transizione fino alle elezioni democratiche che porteranno, nel dicembre 1983, Raul Alfonsin a divenire Presidente . Come per ogni dittatura, la genesi e gli effetti della tragica esperienza argentina si estendono decisamente aldilà di queste date. Nel caso argentino, oltre alle cause interne, bisogna rilevare anche l’incidenza notevole del contesto internazionale e interamericano. Sul versante internazionale la dittatura argentina, insieme alle altre dittature latinoamericane, raccoglie il consenso degli Stati Uniti attraverso le direttive e gli strumenti del Plano Condor, finalizzato a “estirpare” ogni rigurgito di rivoluzione marxista nell’America Latina. Sono infatti gli anni della Guerra Fredda. In breve, il Plano Condor44 fu il nome dato a una massiccia operazione di politica estera di collaborazione tra le dittature latinoamericane, con l’appoggio anche materiale degli Stati Uniti, che ebbe luogo negli anni ’70 e che fu esplicitamente volta a destabilizzare tutti gli 44 Il Plano Condor si innesta sulla dottrina Nixon degli anni ’60 sulla Sicurezza nazionale, in cui si affermava che” nei Paesi filoamericani del continente, e più in generale del Terzo mondo, gli eserciti dovessero impegnarsi non tanto sulle frontiere per difendersi da un nemico esterno, quanto sul territorio della nazione per combattere il nemico interno cioè il comunismo”. (in Moretti, I. “L’Argentina non vuole più piangere Da Perón a Kirchner: gli anni della dittatura, la crisi economica, i segni del cambiamento di un paese inquieto”, Sperling & Kupfer editori, Milano, 2006 p. 50). La breve descrizione del Plano Condor che segue nel testo si fa riferimento ai materiali del Progetto Memoria, ONG Terranova. 34
  • 35. Stati centro o sudamericani in cui si instaurarono, o furono sul punto di instaurarsi, governi di sinistra. Il Plano Condor nasce ufficialmente nel 1974, ma già nel settembre 1973 nel corso della X Conferenza degli Stati americani il generale brasiliano Borges Fortes, sotto il patrocinio degli Stati Uniti, propose di estendere le partnership e le collaborazioni tra i vari servizi segreti al fine di combattere il comunismo e ogni proposito sovversivo. Le procedure per mettere in atto questi piani furono di volta in volta differenti, tutte però ebbero in comune il ricorso sistematico alla tortura e all’omicidio degli oppositori politici. L’Argentina fu coinvolta nel Plano Condor attraverso il SIDE – Servizi segreti argentini e l’Allianza Anticomunista Argentina, un’organizzazione paramilitare. Sebbene tra i più grandi promotori del Plano Condor vi furono il Segretario di Stato Kissinger e il Presidente Nixon, riguardo alla posizione degli Stati Uniti verso la dittatura argentina, va sottolineata una differenza sostanziale quantomeno tra l’atteggiamento di denuncia del Presidente democratico Carter, al potere nel 1977, e del suo capo Dipartimento per i diritti umani, Patricia Deiran, e quello del presidente repubblicano Reagan,45 eletto alla Casa Bianca nel 1981 e maggiormente rappresentativo dei forti interessi economici degli Stati Uniti in Argentina. E’ interessante notare come, d’altro canto, l’allora Unione Sovietica, mantenne buoni rapporti commerciali con l’Argentina della dittatura, in particolare a partire dal 1980, quando a seguito dell’invasione dell’Afghanistan, gli Stati Uniti decretarono l’embargo per la vendita di cereali all’URSS, misura a cui l’Argentina si sottrasse. L’URSS divenne il maggior compratore di grano dell’Argentina. Quello che la giunta militare al potere in Argentina chiamò ”El Proceso de Reorganizacion Nacional, altrimenti conosciuto come la Guerra Sucia, fu contemporaneo al Plano Condor, portando, tra il 1976 e il 1983 a 45 Italo Moretti riporta come Reagan in un suo programma radiofonico del tampo affermò che “Patricia Deiran prima di criticare i generali argentini dovrebbe camminare un miglio calzando i loro mocassini.”, in op. cit. p. 46 35
  • 36. più di 30.000 desaparecidos, ovvero persone sequestrate, torturate, assassinate e fatte sparire dal regime. El Proceso è sicuramente da inserire nel contesto del Plano Condor, ma non è “spiegato” solo da esso . La dittatura di Videla arriva, infatti, dopo decenni di instabilità politica interna violenta e sanguinaria, che vede contrapposto l’esercito alla guerriglia di estrema sinistra. L’intensa instabilità argentina comincia nel 1930 con la presa del potere da parte di Uriburu, passando attraverso la speranza peronista, negli anni in cui Peron fu Ministro del Lavoro (1943 - 45) e poi presidente (nel 1946 e nuovamente nel 1951). La Rivolucion Libertadora, del 1955 depose Peron e aprì la dittatura di Aramburu, assassinato dai Montoneros nel 1970 e seguito da Lanusse. Il 1973 segna il ritorno di Peron, che morì nel 1974. A questo punto la moglie Isabelita, figura politicamente molto debole, assunse le funzioni presidenziali. Come spiega Rouquiè46 , gli interventi militari in Argentina sono inseparabili dall’instabilità politica cronica che ha caratterizzato il Paese per decenni. Essi non ne sono la causa. Si producono, al contrario, quali manifestazione e conseguenza di una prolungata crisi politica. 3.2 La politica della desaparicion e la società civile La notte del 24 marzo 1976 si consuma il colpo di Stato, così che all’alba Jorge Rafael Videla capo dell’Esercito, Emilio Eduoardo Massera, capo della Marina e Orlando Ramòn Agosti per l’Aeronautica firmano il primo comunicato della dittatura che, trasmesso a reti unificate da radio e televisioni, informa che l’Argentina si trova sotto il controllo della Giunta dei comandanti delle forze armate. Il giorno seguente, Videla, Massera e Agosti fissano gli obiettivi di quello che passerà alla storia come “El Proceso”, dichiarando che davanti a un tremendo vuoto di potere, all’incapacità del governo di affrontare la sovversione e alla corruzione, il Vertice militare si impegnava a ricostruire il contenuto e l’immagine della Nazione, a sradicare la sovversione, a promuovere uno sviluppo economico 46 Rouquiè, A. Poder militar y sociedad en la Argentina, Emecé Editores, Buenos Aires, 1982 36
  • 37. basato su equilibrio e partecipazione, al fine di instaurare una democrazia repubblicana, rappresentativa e federale. Il 26 marzo, Videla veniva nominato presidente della Nazione, mantenendo il comando dell’esercito. Iniziava così la rapidissima e pervasiva presa del potere politico ed economico da parte delle forze armate47 . La dittatura argentina ha assunto da subito una strategia di dissimulazione del proprio operato e dei propri metodi, pur lanciando chiari e ripetuti segnali del reale obiettivo che mal si celava dietro l’eufemismo di “El Proceso”. Lo stesso Videla48 sostanzialmente conferma che “la dittatura nascondeva il sequestro e l’uccisione per bloccare l’opinione pubblica, per assicurarsi per un certo periodo il silenzio dei parenti, per alimentare la speranza che il loro caro era vivo, generando così un’ambiguità che portava all’isolamento delle famiglie, timorose di irritare il governo, con la paura che la propria condotta potesse provocare la morte del figlio, padre, fratello. (…) La sostanza di questa politica delle scomparse consisteva nell’impedire a ogni costo che si esprimesse la solidarietà della popolazione, realizzata con proteste e reclami. Perché tutto ciò avrebbe potuto generare nel Paese e all’estero la chiara coscienza che il presunto tentativo di combattere una minoranza terrorista serviva, in realtà a celare un vero genocidio”49 . Del resto la strategia di persecuzione dei terroristi era estremamente estesa, come sintetizzato dal Generale Saint Jean, governatore di Buenos Aires: “Prima uccideremo tutti i sovversivi, poi i loro collaboratori, quindi gli indifferenti e da ultimo i timorosi”. Lo stesso Videla, aveva chiarito cosa si intendesse per “terrorista”: “E’ terrorista non solo chi sia munito di una bomba o di una pistola, ma anche chi diffonda idee contrarie alla civilizzazione cristiana e occidentale”. Dunque la sovversione, secondo il pensiero di Videla, era rappresentata da qualsiasi tipo di scontro sociale50 . 47 Moretti, I. op.cit. 48 Si veda, Seoane M, Muleiro V, El dictador: la historia secreta y publica de Jorge Rafael Videla , Editorial Sudamericana , Buenos Aires, 2001 49 Estratti dal Nunca Mas, riportati in Moretti, I. op. cit. p. 53 50 Sull’elaborazione dei concetti di terrorista e sovversione nella visione della dittatura argentina si veda Moretti, op.cit. 37
  • 38. E’ su queste basi che si è diffusa la definizione dell’azione sistematica di sterminio come di un vero e proprio genocidio,51 (per quanto la persecuzione per motivi politici non rientri nella fattispecie del genocidio) tanto più rafforzata dal fatto che la dittatura si preoccupò di mutare l’identità dei figli dei sovversivi attraverso il sequestro dei bambini nati in prigionia e l’affidamento a famiglie di militari o vicine al regime. Da queste prime considerazioni sulle vicende, i metodi e il substrato ideologico della dittatura argentina, si evince la plurivalenza del ruolo assegnato alla società argentina e nel tempo da essa elaborato. Possiamo infatti individuare diverse sfaccettature, tutte fondamentali per definirne il ruolo nella transizione e per estrarre le indicazioni utili per l’intero sistema internazionale dei diritti umani. Sicuramente l’intera società argentina, pur con intensità e fattispecie diverse, è stata vittima della dittatura. Una parte importante ne è stata succube, proprio a causa della strategia del terrore e del segreto adottata dalla Giunta militare, una parte coraggiosa ne è stata avversaria aperta anche durante la dittatura stessa, ma non possiamo tralasciare che, proprio per la stessa strategia della dissimulazione e del segreto, una parte rilevante ne è stata, forse ingenuamente, sostenitrice. E’ emblematico quanto rilevato da Italo Moretti52 , corrispondente Rai in Argentina in quegli anni. Moretti riporta i titoli della stampa moderata argentina e di quella internazionale: si tratta di espressioni sostanzialmente ben auguranti verso la dittatura appena instauratasi. E’ altrettanto emblematico quanto affermato dallo scrittore Ernesto Sabato a margine di un incontro di Videla con esponenti della cultura argentina, a pochi giorni dall’insediamento al potere: “Il generale Videla mi ha fatto un’ottima impressione. E’ un uomo colto, modesto, intelligente”. Spiegando successivamente: “L’immensa maggioranza degli argentini pregava perché le forze armate prendessero il potere facendola finita con un vergognoso 51 Come rilevato da Cassese in “Il processo penale internazionale”, op. cit. “la fattispecie di genocidio non può applicarsi a persecuzioni per motivi politici”, ma questo termine è stato applicato per la prima volta al caso argentino nel 1998, dall’Audiencia Nacional di Madrid 52 Moretti, I, op cit 38
  • 39. governo di mafiosi, con il disordine, il crimine, il disastro economico. Ai delitti dell’estrema sinistra, l’estrema destra rispondeva con attentati feroci. Gli estremisti di sinistra compivano i sequestri più infami e i crimini più mostruosi e ripugnanti”. Lo stesso Sabato sarà nominato da Alfonsin a presiedere la Commissione nazionale sulla scomparsa di persone – CONADEP, al grido del Nunca Mas. Ancora oggi, a transizione democratica effettuata, le ferite e le rivendicazioni della società civile sono fortissime, venendo fuori da 26 anni di promesse di giustizia, tentativi di riconciliazione, aberranti impunità. In questi 26 anni il percorso dei governi democratici argentini ha oscillato verso scelte procedurali più o meno aperte a percorsi di verità, memoria e giustizia, in particolare chiudendo per più di 20 anni la strada ai processi penali per i responsabili. Questo non ha fermato un processo di presa di coscienza estensivo e intergenerazionale della società civile argentina, spinto dalla parte più attiva di essa, che ha mantenuto accesa l’istanza di verità e giustizia, dall’istituzione della CONADEP fino ad oggi, passando attraverso gli anni bui dell’impunità. 3.3 La CONADEP Il 15 dicembre 1983, a pochi giorni dall’elezione di Raul Alfonsin alla presidenza della Repubblica Argentina, fu istituita la CONADEP – Comisiòn Nacional sobre la Desaparicion de Personas. Sul tema della Giustizia e Desaparicion, Pablo Eiroa spiega così la scelta di Alfonsin. “ Per il governo democratico di Alfonsin, eletto alla fine del Governo de facto, svelare la verità di quanto successo era il modo migliore per provocare il rifiuto sociale delle pratiche aberranti, così come una via idonea alla restituzione della dignità alle vittime. Ma questo non sarebbe stato sufficiente per superare il passato e ricostruire la società democratica, Alfonsìn ritenne anche necessaria la punizione esemplare dei membri delle Giunte militari di governo, in quanto questo avrebbe 39
  • 40. dimostrato che nessuno, per quanto potente, sarebbe stato al di sopra della legge53 . Dunque, l’istituzione della CONADEP risponde a due finalità: ricostruire la verità storica da rivelare alla società argentina e fornire una documentazione di base per i processi, che sarebbero venuti, contro i responsabili dei crimini. La CONADEP è la risposta immediata della democrazia argentina al diritto alla verità, non solo delle vittime e dei loro familiari, ma dell’intera società civile. La pubblicazione del Rapporto Nunca Mas, che in breve tempo è divenuto dei maggiori successi editoriali della storia argentina, ha “fissato” una verità che rimarrà per le generazioni future. Il fatto che la CONADEP fosse stata concepita non come alternativa a un percorso di giustizia, ma come un passaggio previo e diverso nelle finalità, ne ha determinato alcune caratteristiche che contraddistinguono il suo lavoro e il suo elaborato finale. “La CONADEP risponde essenzialmente all’obbligo dello Stato di stabilire la verità sulla struttura repressiva che condusse a commettere crimini contro l’umanità, incluse le linee di comando, gli ordini impartiti, gli stabilimenti utilizzati e i meccanismi utilizzati deliberatamente per assicurare l’impunità e il segreto di queste operazioni. Il rapporto finale non si prefiggeva di stabilire la sorte di ciascun desaparecido, tra i circa 9000 di cui comprovò l’identità, proprio perché la continuazione naturale dell’attività della Commissione sarebbero stati i processi penali, che si sarebbero istituiti per ogni singolo caso, con migliori possibilità di stabilire i fatti in maniera dettagliata”54 . Questo spiega anche perché si decise di non rendere pubblici i nomi degli accusati, pur con una forte opposizione a tale scelta da parte delle Madres. La CONADEP rappresenta, dunque, una risposta importante da parte dell’Argentina all’obbligo dello Stato a stabilire la verità, ma non soddisfa pienamente il diritto alla verità della controparte. Continua Mendez: 53 Eiroa, op. cit. 54 Mendez, J., Derecho a la verdad frente a las graves violaciones de derechos humanos, op. cit., p. 7 40
  • 41. “Questa verità individuale è un obbligo che rimane in capo allo Stato verso ciascuna vittima e verso ciascuna famiglia di desaparecido”55 . E’ un obbligo dello Stato verso un target più ristretto (vittime e famiglie di desaparecido) che secondo il pronunciamento della Corte Interamericana nel caso Velasquez, persiste fino a quando sussiste una qualsiasi incertezza sulla sorte e sulla ricomparsa della vittima dell’abuso statale56 . Esiste un terzo aspetto che Mendez riconduce all’obbligo statale di soddisfacimento del diritto alla verità, oltre alla verità collettiva e alla verità individuale, ovvero l’ascolto delle vittime. In riferimento a questo, la CONADEP appare assolutamente rispondente al suo mandato, acclarando che il processo di ascolto da parte di un ente statale e rappresentativo della società è parte dell’obbligo statale stesso. Nonostante il clima, riconosciuto dallo stesso presidente Sabato, ancora non scevro da minacce e intimidazioni, furono numerose e dettagliate le testimonianze, che portarono all’individuazione iniziale di 9000 desaparecidos57 , cifra che lievitò successivamente a 30.000. Il fatto che già dalla sua prima edizione nel 1984 il rapporto Nunca Mas sia stato uno dei successi editoriali più rilevanti in Argentina, testimonia come la società civile abbia un interesse a conoscere la verità della sua storia che non può essere trascurato dalla Stato. A supportare maggiormente questa titolarità del diritto alla verità da parte della società argentina, arrivano le dichiarazioni della Segreteria dei Diritti Umani, organo del Governo argentino, che nella prefazione alla nuova edizione del Nunca Mas, del 2006, in occasione del trentennio del Golpe, così spiega: “E’ responsabilità delle istituzioni costituzionali della Repubblica il ricordo permanente di questa tappa crudele della storia argentina come esercizio collettivo della memoria, al fine di insegnare alle attuali e future generazioni le conseguenze irreparabili che comporta la sostituzione dello Stato di diritto con la violenza della violenza illegale da 55 Ibidem 56 Corte Interamericana dei diritti umani , caso “Velasquez Rodriguez” sentenza 29.07.1988 57 Lo stesso Sabato nella prefazione del rapporto Nunca Mas precisò che c’erano ottime ragioni perché la Commissione potesse dirsi certa che il numero dei desaparecidos fosse notevolmente maggiore. 41
  • 42. parte di quanti esercitano il potere dello Stato, per evitare che l’oblio diventi terreno fertile per la sua ripetizione”. 58 La stessa Segreteria, ammette che, sebbene la Commissione abbia perseguito il suo scopo orientato a esplicare l’obbligo alla verità da parte dello Stato, obbligo che continua in termini di costruzione di memoria, tuttavia rimane non compiuto, per lo Stato argentino, l’obbligo della giustizia, da cui non si può trascendere. “L’insegnamento della storia non trova sostegno nell’odio e nella divisione in fazioni contrapposte del popolo argentino, ma al contrario mira a unire la società attraverso le bandiere della giustizia, della verità e della memoria, in difesa dei diritti umani, della democrazia e dell’ordine repubblicano. Attualmente abbiamo davanti il grandissimo compito di invertire una situazione di impunità e ingiustizia sociale, vincendo le resistenze di alcuni settori consistenti che, con la loro complicità passata e attuale con il terrorismo di stato e con le politiche neoliberali, lo resero possibile”59 . La CONADEP argentina, attraverso il suo operato e il suo risultato, riafferma quattro punti fondamentali: • il soddisfacimento del diritto alla verità da parte dello Stato permette il pieno riconoscimento delle vittime da parte delle istituzioni e della società • il soddisfacimento del diritto alla verità è alla base di un percorso di giustizia a cui non si può sostituire • il soddisfacimento del diritto alla verità è avvertito come esigenza diffusa dalla società. • è obbligo e interesse dello Stato gettare - attraverso la verità - le fondamenta per una vera transizione, che non sia, cioè, solo istituzionale. 58 Nunca Mas, p.8 59 Ibidem 42
  • 43. 3.4 Il percorso della giustizia Sebbene il lavoro della CONADEP abbia portato, a circa un anno dalla sua chiusura, alla storica condanna dei membri delle tre Giunte militari da parte della giustizia civile argentina, esso non è stato utilizzato per il pieno soddisfacimento del diritto alla verità, tanto che rimase silente la verità individualizzata di ciascun singolo desaparecido. Tracciamo, in breve, il percorso di affermazione e rottura dell’impunità per i criminali argentini che ha attraversato gli ultimi 20 anni. Inizialmente Alfonsin ottenne che il Congresso abrogasse la legge di autoamnistia60 , garantendo la possibilità di processare i militari, con una distinzione di responsabilità-punibilità in 3 livelli, individuando gli artefici della macchina repressiva, coloro che avevano commesso atti atroci o aberranti eccedendo gli ordini superiori e coloro che avevano obbedito agli ordini superiori61 . Questo rese possibile il processo alle giunte militari e la condanna all’ergastolo per Videla e Massera che ne seguì. I processi ai membri delle Giunte, sebbene seguiti da un ventennio di impunità, “rappresentano un evento storico importante e unico nel XX secolo se si considera che si trattò dell’unico caso in cui tribunali nazionali – senza interventi stranieri – furono chiamati a giudicare contro gravi crimini contro l’umanità commessi all’interno delle frontiere del proprio Stato. Nella riposta immediata alla domanda di giustizia della società, le immagini dei capi militari colpevoli davanti alla Camera federale di Buenos Aires segnarono l’apertura di un nuovo patto sociale, basato su un nuovo Stato di diritto”62 . Ai processi alle Giunte seguì l’apertura di più di 1000 processi per violazione dei diritti umani a membri delle forze armate, coinvolti nella gestione dei campi clandestini di detenzione e sterminio. Il percorso della giustizia fu però presto bloccato dalle Leggi di Punto finale63 e di Obbedienza dovuta64 , approvate rispettivamente nel 1986 60 Ley de automanistia n.22.94 del 23.03.1983 61 Rosti, M. la forza della memoria nel caso dei desaparecidos argentini op. cit 62 Idem, p 154 -155 63 Ley de Punto final (n. 23.492 del 24 dicembre 1986) 43
  • 44. e nel 1987. Mentre con la prima si fissò il limite di 60 giorni per la presentazione di denunce contro i responsabili di crimini di terrorismo di Stato, con la seconda furono scagionati da ogni responsabilità gli ufficiali di grado minore, con la motivazione di aver semplicemente prestato obbedienza agli ordini superiori. Come Rosti sottolinea, “quest’ultima fu più una sentenza che una legge”65 , scagionando di fatto i componenti delle forze armate argentine. Tra il 1989 e il 1990 il presidente Menem, ritenne che “la riconciliazione degli argentini richiedesse di lasciarsi il passato alle spalle, per cui sancì diversi indulti che estinsero pene e processi in corso, salvo quelli contro i responsabili dei crimini che non rientravano nelle leggi di punto finale e di obbedienza dovuta”66 . Sostenendo che a beneficiare dell’indulto fossero tanto le forse armate quanto i guerriglieri, Menem di fatto concesse la grazia presidenziale agli ex dittatori che erano ancora in carcere. Da questo periodo di impunità, che durò fino al 2005, si esclusero i responsabili per i reati di sottrazione di neonato e appropriazione indebita dei beni dei desaparecidos. Nel 2005 la Corte Suprema ha dichiarato l’incostituzionalità delle leggi di punto finale e obbedienza dovuta67 , mentre nel 2007 ha dichiarato l’incostituzionalità del decreto d’indulto 1002/8968 . Interessanti sono le motivazioni delle dichiarazioni di incostituzionalità da parte della Corte che, di fatto, hanno portato a un abbassamento delle garanzie del diritto penale, quali la garanzia della prescrizione, dell’irretroattività della legge penale e il principio del “ne bis in idem”. 64 Ley de Obediencia debida (n. 23.521 del 4 giugno 1987) 65 Rosti, op. cit. p. 156 66 P. Eiroa, cit. p.2 67 CSJN, S. 1767. XXXVIII., "Recurso de hecho deducido por la defensa de Julio Héctor Simón en la causa Simón, Julio Héctor y otros s/privación ilegítima de la libertad, etc. - causa N° 17.768-", sentenza del 14 giugno 2005. 68 CSJN, M. 2333. XLII. y otros, "Mazzeo, Julio Lilo y otros s/recurso de casación e inconstitucionalidad", sentenza del 13 luglio 2007. 44
  • 45. Eiroa69 sintetizza come segue l’opinione della Corte, sottolineando che gli strumenti internazionali prevedono il dovere dello Stato di individuare e processare i responsabili di crimini contro l’umanità. Tre sono le considerazioni intervenute nella decisione della Corte: • i trattati internazionali che prevedono l’imprescrittibilità e il divieto di amnistie per crimini contro l’umanità dal 1994 fanno parte della Costituzione argentina • secondo lo stato attuale del diritto internazionale, come ribadito più volte dalla Corte interamericana di diritti umani, i crimini contro l’umanità sono imprescrittibili • ogni amnistia è orientata all’oblio di gravi violazioni dei diritti umani e quindi si oppone alle disposizioni della Convenzione Americana di diritti umani e al Patto sui diritti civili e politici che fanno parte della Costituzione argentina. La giustizia ha quindi riaperto i battenti, sollecitata dalla società civile e, in particolare, dalle organizzazioni dei diritti umani ad agire in urgenza, vista la pregressa e prolungata impunità e l’età avanzata di molti dei criminali. Negli anni dell’impunità argentina, diversi sono stati i processi celebrati in Europa. In particolare in Italia sono stati celebrati il processo Suarez Mason e ESMA ex art. 8 del codice penale, che hanno visto gli imputati condannati in contumacia, con sentenze della II Corte d’Assise di Roma del 2000 e del 2007, poi confermate in appello. In particolare nel primo sono stati condannati all’ergastolo i generali Suarez Mason e Riversos, a 24 anni cinque militari; il secondo ha visto condannati all’ergastolo 5 ex ufficiali della Marina: Acosta, Astiz, Vildoza e Vaneck., mentre si è recentemente riaperto il processo per Massera, a fronte di una perizia medica che ne ha certificato l’abilità a presentarsi in giudizio. Importanti processi si sono celebrati in Francia, 69 Eiroa, op. cit. 45
  • 46. dove Astiz è stato condannato in contumacia e in Spagna, dove il giudice Garzon ha fatto ricorso alla competenza universale. I processi stranieri hanno avuto un importantissimo valore simbolico, pur nell’impossibilità di fatto di far valere le condanne sentenziate. Verbistky afferma che “ l’unico sano principio che va bene per costruire un futuro diverso è l’impegno da parte dei cittadini, nella società civile e in quella militare, di garantire la fedeltà alla legge, di rispettarne le procedure e di accettarne i verdetti, rinunciando a ogni specie di raggiro e di scorciatoia”. 70 Questo non può che avvenir per mezzo della giustizia. Il proclama ostinato delle Madres de Plaza de Mayo dell’“apparicion con vida” è l’altro risvolto di questa domanda di una verità individualizzata, ovvero di una giustizia che a mezzo del processo dica la verità precisa su ciascun desaparecido. Il processo penale appare il mezzo maggiormente formalizzato per l’affermazione della verità individualizzata, componente essenziale del diritto alla verità. Eppure lo stesso Eiroa, nelle sue conclusioni, afferma che la giustizia penale non può che trovare legittimazione nella protezione dei diritti fondamentali degli accusati. In altri termini, per l’Argentina non si tratta di evitare l’attribuzione di responsabilità né di chiudere un dibattito storico. Si tratta semplicemente di non abbandonare la coscienza giuridica conquistata71 . Avendo dunque definito il diritto alla verità come un diritto collettivo e individuale, nell’oggetto (verità individuale e verità collettiva ) come nel soggetto (individuo/familiari e società civile) appare chiaro come esso sia tangente al diritto alla giustizia, come i due diritti si servano parzialmente l’un l’altro. Ma appare altrettanto chiaro 70 Verbitsky, H, “Argentina 26 anni dopo” in Binella, D. (a cura di) Il diritto non cade in prescrizione. I desaparecidos italoargentini, i diritti umani tra negazione e internazionalizzazione”, Ediesse, Roma, 2002 p. 88 71 Eiroa, op. cit 46
  • 47. che il diritto alla verità trascende il diritto alla giustizia, chiamando in causa, in modi creativi, la società civile al di fuori della giustizia penale. In questo la società civile argentina, a lungo privata del godimento del diritto alla giustizia per le vittime e i familiari, è in un senso esemplare. Vediamone caratteristiche e iniziative principali. 3. 5 La forza della società civile Katrin Sikkink72 propone una riflessione su come l’esperienza argentina della transizione, lunga, sofferta e contraddistinta da una più che ventennale impunità, abbia apportato delle innovazioni importanti nel panorama del diritto internazionale dei diritti umani. Ciò che appare estremamente interessante nell’analisi di Sikkink non è soltanto la constatazione dei contributi che l’Argentina ha apportato nel campo delle dichiarazioni e dei lavori del sistema internazionale di protezione dei diritti umani, riconoscendone in questo senso l’apporto alla costituzione del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate nel 1980, alla previsione di un diritto all’identità nella Convenzione dei diritti del Fanciullo (art. 7 - 8) nel 1989 e alla stesura della Convenzione contro le sparizioni forzate di persone del 2005. Ciò che appare in questa trattazione molto interessante l’influenza che il caso argentino ha avuto nell’avanzamento del sistema internazionale dei diritti a fronte di una situazione “istituzionale” interna di impunità e stallo. Il centro della riflessione è sull’attivismo della società civile. Prima di tracciare l’identikit dei raggruppamenti sociali che hanno fatto (e continuano a fare) la storia delle rivendicazioni argentine in tema di verità e giustizia, è importante seguire l’autrice nel tracciato delle caratteristiche della società civile argentina, che hanno preparato il terreno a una coscienza critica e attiva, nutrita di un attivismo fertile, capace e ostinato. Il protagonismo argentino sulla scena internazionale dei diritti umani viene descritto in termini di “soft power”, ovvero capacità di incidere non 72 Sikkink, K, From Pariah State to Global Protagonist: Argentina and the Struggle for International Human Rights, in Latin American Politics and Society sul web , 2008 47
  • 48. sempre riconducibile alle politiche governative (come appunto il caso argentino emblematicamente testimonia). “La letteratura sul tema delle azioni di advocacy internazionale suggerisce che, nell’attuale mondo globalizzato, i gruppi del Sud danno avvio ad azioni boomerang o spirali, per cui guadagnano alleati internazionali al fine di porre pressione sui propri governi”73 . I gruppi della società civile argentina sono stati in questo maestri. Sikkink collega questo enorme potenziale della società civile ad alcuni fattori e a ben precise caratteristiche, quali: • la politica di riparazione ingente adottata dal governo74 , che, pur rifiutata da alcuni organismi, ha di fatto fornito delle risorse finanziarie che si è deciso spesso di reinvestire nelle campagne per la verità e la giustizia • l’alto grado di quella che viene definita, in inglese, “judicialization”, per cui nel 1987 l’UNESCO rilevava che l’Argentina deteneva il 4° posto mondiale per numero di avvocati in relazione alla popolazione • la pre-esistenza di reti sociali di avvocati, che ha contribuito all’affermazione della causa dei diritti umani e alla battaglia per l’accountability. • l’Argentina con più di 10 psichiatri per 100.000 persone (dati OMS 2001) ha dato il via al cd Latin American Psychological approach, a sostegno di attivisti e vittime nella lotta all’impunità • la tradizione politica estremamente combattiva e intransigente ha nutrito l’attivismo e la posizione di non arrendevolezza di fronte all’istanza di verità e giustizia. Quest’ultimo punto in particolare è sintetizzato nell’affermazione costante delle Madres de Plaza de Mayo del “Non un paso atras”. 73 Idem, p. 6 74 De Greiff, op. cit. 48
  • 49. In realtà proprio le Madres sono un simbolo delle caratteristiche nuove e particolarissime della lotta civile contro l’impunità in Argentina. Il sostrato sociale, culturale e politico dell’Argentina ha infatti generato una innovazione fondamentale nella stessa genesi e organizzazione dei gruppi di attivisti per i diritti umani, che mantengono ancora ora un posto di primissimo piano nella lotta e nel panorama politico dell’Argentina dei Kirschner. La società Argentina ha generato un particolare attivismo, costituito da Madri, Nonne e in più, nel tempo, da Figli e Fratelli di desaparecidos. Si attribuisce all’esperienza argentina l’affermarsi di un modello materno di attivismo per i diritti umani che ha facilitato l’identificazione di larghi gruppi della società civile, anche meno attivi, in particolare attraverso i gruppi delle Madri e delle Nonne. L’azione complementare delle Madres, delle Abuelas e degli Hijos ha ricostituito idealmente la famiglia sociale attorno alla figura dei 30.000 desaparecidos che hanno lasciato un vuoto generazionale che estende le conseguenze dell’assenza nei rapporti parentali orizzontali e verticali. Le rivendicazioni delle Madres, delle Abuelas e degli Hijos sono differenziate e su alcune posizioni questi organismi, simbolo della lotta della società civile argentina contro l’impunità, hanno nel tempo assunto punti divergenti.Ma il contributo attivissimo di questi attori sociali, supportato da importanti gruppi politici, culturali e artistici della società argentina, ha portato a quella che Sikkink riconosce come una genesi propriamente argentina: il diritto alla verità. “Il concetto e la pratica di un diritto alla verità è considerato da alcuni il più importante contributo al mondo del movimento argentino per i diritti umani, riferendosi non solo ai processi in sé, ma all’effetto combinato della Commissione per la verità, i Processi per la verità e la funzione pedagogica dei processi penali per i diritti umani. (…) 49
  • 50. Leonardo Despouy, su Pagina12, nel 2006 afferma che il diritto alla verità è stato il più grande successo delle organizzazioni argentine per i diritti umani che l’Argentina ha esportato nel mondo”75 . 3.6 Gli strumenti della società civile Gli organismi argentini di diritti umani hanno di fatto connotato il diritto alla verità in maniera estensiva, estendendolo alla società civile, nelle diverse componenti politiche e generazionali. Diversi sono stati i mezzi adottati, di diverso impatto e di diversa finalità specifica, ma tutti riconducibili all’affermazione di un diritto alla verità base della giustizia e capace, al tempo stesso, di vivere di vita propria. Lo strumento assolutamente innovativo dell’esperienza argentina sono i Processi per la verità, celebrati sull’intero territorio nazionale in pieno tempo di amnistia e impunità. Verbitsky, nel cogliere il nesso imprescindibile tra verità e giustizia, rileva come “a seguito della riforma costituzionale del 1994, attraverso cui il divieto di adottare leggi di prescrizione e/o amnistie diventava legge suprema, l’aspirazione e la richiesta di verità e giustizia si fece più pressante” 76 . Nel 1995 gruppi di parenti di desaparecidos insieme al CELS presentarono la prima petizione argomentando che, sebbene fossero bloccati i procedimenti penali, rimaneva in capo ai familiari un diritto alla verità, da attuarsi attraverso indagini giudiziarie. “La Camera Federale di Buenos Aires riconobbe quei diritti e dichiarò che lo Stato aveva il dovere di ricostruire il passato e di rivelare la verità su tutto quello che era successo ai desaparecidos. A questo si sommava il pronunciamento della Corte interamericana per i diritti umani che dichiarò che le leggi sull’impunità non escludevano le indagini sulla sorte di ogni desaparecido e sul luogo dei suoi 75 Sikkins, K. op. cit. p. 7 76 Verbistky, op. cit. p.85 50
  • 51. resti. Queste indagini erano e sono un dovere al quale lo Stato deve adempiere”77 . Si mettono così all’opera in tutto il Paese i Processi per la verità. I tribunali Argentini sollecitano e analizzano l’informazione e le testimonianze provenienti da sopravvissuti, da familiari e dagli esponenti delle forze armate, sebbene questi ultima si dimostrassero intuitivamente poco collaborativi. Attraverso i Processi per la verità, in cui non possono essere condannati gli esecutori, i sopravvissuti e il loro parenti raccontano in un tribunale le loro storie - una verità taciuta per decenni - e chiedono allo Stato risposte per un obbligo che, al pari del diritto che lo sostanzia, non cade in prescrizione. I Processi per la verità sono uno strumento legale assolutamente innovativo. Sikkink rileva come essi rappresentino una innovazione particolarmente interessante, perché porta insieme elementi delle Commissioni di verità e della giustizia penale78 . I Processi per la verità rappresentano un passaggio fondamentale nella presa di coscienza civile della società argentina, cambiando definitivamente il clima culturale nei confronti dei “signori della guerra”. La pubblicazione, nel 1995 delle confessioni di Scilingo sui voli della morte, ad opera dello stesso Verbistky, lavora nella stessa direzione. Lo stesso autore riporta che “nell’anniversario dei 20 anni dalla presa di potere della dittatura, il 24 marzo 1996, una grande imponente manifestazione, a cui presero parte più di 50 000 persone, segnò una nuova pietra miliare per la coscienza sociale. La manifestazione collegò il tema della responsabilità dei crimini dei militari con i problemi contemporanei di una giovane e imperfetta democrazia argentina, in primis la generale e diffusa situazione di impunità”.79 L’acquisizione della verità da parte di larghe fasce della società ha esteso e rafforzato la richiesta di giustizia. 77 Idem 78 Sikkins op cit, p. 7 79 Verbistky, H. op. cit. 51