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ARTICOLO PER FIORDIRISORSE

     L’APPROCCIO LEAN NEL CENTRO ITALIA: “MA IO VOGLIO DIVENTARE
                              SNELLO?”

PRIMA PUNTATA

Lean = Snello. Questo potrebbe essere il semplice inizio di una conversazione sull’argomento lean
production, lean manufacturing, lean enterprise, lean thinking.

Lean manufacturing, lean thinking, lean Six Sigma, kaizen, continuous improvement, operational
excellence, TPM, 5S, SMED, OEE, JIT, kanban, andon, gemba, 4M, 7W, PDCA, Ishikawa,
Pareto… potrebbe essere un inizio alternativo, un po’ più da tecnici, da addetti ai lavori.

Torniamo all’incipit più semplice: Lean = Snello; ci occuperemo di tutte le altre definizioni e sigle
in futuro, con calma, a piccole dosi: anche l’elefante va mangiato a piccoli bocconi!

Chi ha cominciato a parlare di produzione snella e di aziende snelle? Chi sono i maestri? Quali
sono i vantaggi e gli svantaggi? Perché un’azienda dell’Italia centrale dovrebbe interessarsi ai
concetti ed alle metodologie lean?

Partiamo con un po’ di storia, senza farla lunga.
L’avvio in grande stile dell’industria del XX secolo si fa risalire al binomio Ford – Taylor (il
magnate dell’industria dell’auto ed il più noto studioso di metodi di lavoro di tutti i tempi) che,
oltre un secolo fa, sperimentava (ed attuava, soprattutto!) nell’industria automobilistica i concetti ed
i metodi della produzione di massa, rivolta ad un mercato di massa in continua espansione.
Lunghissime catene di montaggio, estrema parcellizzazione delle operazioni da eseguire, ripetitività
delle stesse (chi non ricorda lo strepitoso Charlie Chaplin di “Tempi moderni”?), tempificazione
di tutte le micro operazioni, attraverso attente analisi, cronometro alla mano. Che dire: tutta roba
preistorica, da buttar via? Direi di no: tutta la grande industria occidentale è cresciuta basandosi
su questi concetti, studi, sperimentazioni ed attuazioni; ed oggi viviamo in case normalmente
confortevoli, con elettrodomestici, svaghi, ci muoviamo su auto e moto che quasi amiamo, abbiamo
a disposizione giochi per grandi e piccini, dischi, dvd, arredamenti industriali, cibi preconfezionati,
farmaci anche nei paesini più sperduti… il progresso, insomma.

Ma allora, perché qualcuno si è preso il disturbo di studiare metodologie alternative per le
produzioni industriali? Beh per diversi motivi: gli spazi disponibili, l’accorciamento dei tempi di
sviluppo e di attraversamento dei processi, la riduzione degli scarti, la riduzione delle scorte, la
riduzione dei costi in generale, il cambiamento nei rapporti tra “padroni”, managers e lavoratori, le
diverse esigenze di consapevolezza e motivazione di operai, impiegati, middle e senior managers.

SECONDA PUNTATA

Seconda parte della storia: Toyota.
Toyota è l’azienda campione della lean production; i tecnici e gli esperti giapponesi parlano di
kaizen (kai = cambiamento; zen = miglioramento); a me piace parlare di miglioramento continuo.
Dopo la seconda guerra mondiale, il Giappone, provato da un vero e proprio disastro economico
susseguente alla sanguinosissima sconfitta, dalle atomiche di Hiroshima e Nagasaki, stretto nella
morsa tra i grandi vincitori (gli USA) e gli ingombrantissimi vicini (Cina ed URSS), doveva
ripartire da capo, per tornare un paese industrializzato degno di questo nome.
Come fare? Prima di tutto copiando; chi di noi ha superato gli “anta” ricorda benissimo che prima
della Toyota Celica vincente nei rallies, dei lettori CD e della Playstation, tutte le produzioni
giapponesi erano considerate brutte copie di qualcosa di occidentale: le auto, le macchine
fotografiche, le moto (!?), gli orologi, l’abbigliamento, perfino i cartoni animati! Inoltre, i
giapponesi ebbero l’accortezza di ascoltare i buoni consiglieri: gli americani mandarono molti
consulenti ed esperti, magari ingombranti in patria; tra questi Deming, campione assoluto di
metodi statistici applicati all’industria, padre del TQM, più osannato nel paese del sol levante che
in quello delle stelle e delle strisce. Si sforzarono anche di comprendere veramente gli errori
propri e dell’industria occidentale e poggiando su queste basi nacquero le esperienze kaizen della
Toyota e di altre grandi e piccole imprese.
Da queste esperienze si sono sviluppati tantissimi temi e strumenti. Prima fra tutti la partecipazione
attiva degli operai e di tutto il personale ai processi di cambiamento e miglioramento: chi meglio di
colui che compie tutti i giorni la stessa sequenza di operazioni può dare suggerimenti per renderle
più efficaci, riducendo il rischio di scarti ed i tempi di lavorazione? Più in alto si sale nella catena
gerarchica più devono essere garantiti l’impegno per il cambiamento e la disponibilità ad
eliminare gli ostacoli; ma le soluzioni operative arrivano dal basso. Poi il Just In Time (JIT):
perché riempire di scorte gli stabilimenti, ingrandire i magazzini, i piazzali, spendere valanghe di
soldi in immobilizzi ed interessi passivi? Molto meglio riorganizzare il sistema di forniture e
consegne, anche all’interno di uno stesso stabilimento, facendo in modo che i materiali arrivino
dove servono, quando servono ed in quantità ridottissime (un’ora di lavoro, un turno, un giorno:
non di più; non l’equivalente di mesi di scorte). Il kanban (letteralmente cartellino): un semplice
sistema di identificazione può far sì che, pur con scorte minime, non manchi mai ciò che serve
alla postazione di lavoro; in questo sistema si possono coinvolgere i fornitori, i corrieri ed i propri
magazzinieri e carrellisti. Lo SMED, metodologia per ridurre a pochissimi minuti i tempi dei cambi
delle attrezzature, necessari a produzioni di serie variegate, incrementando drasticamente il tempo
disponibile delle macchine e guadagnando in capacità ad INVESTIMENTI ZERO. E potremmo
continuare.

Quali sono i grandi benefici dei sistemi lean e di miglioramento continuo?
La riduzione delle scorte di cui abbiamo parlato sopra dà indubbi benefici finanziari (qualsiasi
attività facciamo, ricordiamo che il CASH FLOW deve essere sempre al primo posto: senza
liquidità ci si ferma e si muore!) ma dà anche benefici qualitativi (si pensi ai minori costi di una
selezione su pochi pezzi, piuttosto che tra una montagna degli stessi), rende disponibili spazi (che
hanno un valore ed un costo) e migliora anche l’ordine e l’aspetto dell’ambiente (particolare non
irrilevante per chi riceve spesso visite di clienti o altri ospiti).
Tutte le attività lean sono volte a ridurre gli sprechi: non fare operazioni che non danno valore
aggiunto, ridurre gli spazi, ridurre i controlli e gli scarti (sembra una contraddizione ma i risultati
di migliaia di esperienze sono lì, a dimostrare la fattibilità), ridurre il ricorso a risorse esterne o
temporanee, poco specializzate, ridurre i consumi di tutti i materiali indiretti (dai fluidi di
funzionamento delle macchine agli utensili, ai guanti, ai grembiuli ed agli altri dispositivi di
protezione), ridurre i consumi energetici, ridurre i tempi morti, migliorando i tempi di
attraversamento dei processi ed avendo un ulteriore beneficio sul capitale circolante.
L’applicazione dei principi lean porta a prevenire, piuttosto che “curare” quando i danni sono
fatti, riducendo i costi di manutenzione.
Le attività lean portano consapevolezza ed aumentano l’orgoglio di svolgere il proprio lavoro;
acquisiscono consapevolezza gli imprenditori ed i top managers, che capiscono quanto sia grande
la “fabbrica nera” (quella che non produce ma consuma e spreca) e quanto siano grandi gli spazi
di miglioramento, per un migliore posizionamento del business; diventano più consapevoli i quadri
ed i livelli intermedi (generalmente i più difficili da convincere: “Ma se abbiamo sempre fatto
così, perché dobbiamo cambiare? Perché lo dice un consulente che non ha mai tornito un pieno di
alluminio con lo 0,25% di stronzio?”) che possono capire quanto le loro idee, combinate con quelle
degli operativi possano far progredire l’azienda e rilanciarne la competitività; diventano più
consapevoli ed orgogliosi i diretti, che apprezzano i cambiamenti fatti anche sulla base dei loro
suggerimenti e delle loro esperienze e che, dopo la diffidenza iniziale (“Ma se diminuisce il tempo
ciclo, diminuisce il fabbisogno di manodopera e qualcuno di noi sarà licenziato…”) capiscono di
lavorare in un sistema rinforzato e che resisterà meglio agli attacchi della concorrenza globale.
Qualche volta migliorano anche le relazioni sindacali (dopo resistenze, diffidenze e lotte dirette o
subdole iniziali) e magari si arriva anche a sistemi innovativi di contrattazione di secondo livello.

TERZA PUNTATA

Ma quanto costa?
L’implementazione di un sistema di lean manufacturing ha ovviamente un costo iniziale; spesso
bisogna rivolgersi a dei consulenti esterni, che portino le competenze necessarie, raramente
presenti in azienda (specialmente nelle PMI); poi ci sono i costi di formazione del personale:
anche poche ore in aula e pochi giorni di workshop (cioè di attività sul campo, con l’obiettivo di
fare e far vedere cambiamenti significativi in una o due settimane) possono incidere sensibilmente
sulle finanze di un’azienda. E poi ci sono dei costi dovuti ad un inevitabile transitorio: la
riduzione dei tempi ciclo passa comunque attraverso un po’ di addestramento anche del personale
esperto, una riluttanza difensivistica delle maestranze, il fuoco di sbarramento dei sindacati.
Ovviamente ci sono anche i costi dei workshop: spostare tre postazioni di una linea o una
rettificatrice da 15 tonnellate non viene gratis! Un po’ di vernice per abbellire macchine di 25 anni,
viti, dadi, saldature, molature, ritagli di lexan e lamiere inox per rendere più funzionali i posti di
lavoro costano (poco, ma costano).
Ma i BENEFICI superano di gran lunga i costi iniziali: generalmente il pay-back di queste
attività va da due a sei mesi; cioè, semplici interventi sui processi, con investimenti molto bassi
(rispetto ad interventi di automazione media o pesante o all’incremento di capacità con il raddoppio
degli impianti etc.) permettono di avere nel primo anno benefici da due a sei volte superiori ai
costi. E l’appetito vien mangiando (la battuta di Totò su chi digiuna è esilarante ma romperebbe il
filo del ragionamento): altri progetti, altri workshop, altri benefici, altra crescita del morale
aziendale a tutti i livelli.
A proposito dei costi iniziali è interessante notare che alcune consultancy firms stanno
introducendo tra le proprie leve negoziali delle forme di result fee; più o meno funziona così: i
consulenti chiedono dei pagamenti iniziali e ad avanzamento delle attività che coprono le spese vive
e poco più e poi cominciano ad incassare percentualmente ai risultati ottenuti, magari sui dodici
mesi successivi all’intervento; in questo modo i consulenti tirano la cinghia (inizialmente) ma, a
fronte di un buon lavoro, saranno compensati ben oltre un onorario standard a giornate; gli
imprenditori ed i manager accettano meglio l’esborso iniziale, che può essere anche il 15 o il
20%, rispetto ad un accordo tradizionale (ancora effetto benefico sul CASH FLOW) e poi son più
contenti di pagare un 5 o 10% sui benefici totali di un anno, sapendo che i consulenti saranno
motivatissimi a ridurre drasticamente gli sprechi.

Ma a me, che vivo tra il mare, la natura e le colline del centro Italia, chi me lo fa fare?
L’applicazione dei metodi lean e del kaizen non ha confini geografici. L’approccio del tipo “Qui
non c’è la mentalità giusta, non siamo giapponesi o tedeschi; gli svizzeri, loro sì sono ordinati e
metodici” (infatti le migliori auto del mondo sono costruite a Sant’Agata Bolognese e Maranello o
a Berna e San Gallo?) è molto frequente, specialmente tra i livelli intermedi di cui sopra; ma è
sbagliato ed è un paravento dietro cui nascondere la paura di fallire e la difesa del quieto (si fa
per dire) vivere. La mentalità giusta può essere ottenuta ad Atene, Tunisi, Enna e Grosseto, così
come ad Oslo, Città del Messico o Kyoto: la mentalità giusta deriva dal reale, pieno
“commitment” di chi paga (l’imprenditore) e dei top managers; se questi stakeholders credono
nel progetto, ne capiscono i benefici competitivi ed i vantaggi economici e finanziari, il progetto
andrà in porto. Certo, bisognerà combattere molte resistenze ed in alcuni casi “picchiare duro” per
andare avanti; ma alla fine, più dell’80% degli attori sarà soddisfatto (meglio il 60% oggi che il
100% mai!).
Ed i metodi lean non hanno neanche una dimensione ideale ed esclusiva: possono essere applicati
da un colosso industriale come la Toyota, da un’impresa artigianale di 8 persone, da un’impresa
di servizi alle persone che lavora solo in due quartieri di Ancona o di Piacenza.
Proprio oggi, mentre ne scriviamo, sono decine i progetti in corso in aziende del centro Italia,
siano esse le emanazioni di multinazionali o aziende localissime, il cui imprenditore ha superato
da tempo l’età pensionabile (e qui si potrebbe aprire un interessante discettazione sul passaggio
generazionale); e la cosa ancora più interessante è che molte sono le società di consulenza del
centro Italia (emiliane soprattutto, ma non solo) che aiutano le aziende che formano il tessuto
produttivo dei nostri territori ad affrontare questo percorso di crescita, con competenza e
professionalità.

Insomma, le logiche del lean thinking o kaizen o miglioramento continuo possono permeare
proficuamente il tessuto industriale, produttivo, imprenditoriale dei nostri territori e possono essere
un utilissimo plus per uscire da questa fortissima crisi globale con qualcosa in più, con la voglia
di correre per competere, non limitandosi a “guardare quello che succede” o a camminare con
il passo flemmatico di un passato che non c’è più, rischiando di essere semplicemente spazzati via.

Giorgio Pellegrini
27 maggio 2009

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  • 1. ARTICOLO PER FIORDIRISORSE L’APPROCCIO LEAN NEL CENTRO ITALIA: “MA IO VOGLIO DIVENTARE SNELLO?” PRIMA PUNTATA Lean = Snello. Questo potrebbe essere il semplice inizio di una conversazione sull’argomento lean production, lean manufacturing, lean enterprise, lean thinking. Lean manufacturing, lean thinking, lean Six Sigma, kaizen, continuous improvement, operational excellence, TPM, 5S, SMED, OEE, JIT, kanban, andon, gemba, 4M, 7W, PDCA, Ishikawa, Pareto… potrebbe essere un inizio alternativo, un po’ più da tecnici, da addetti ai lavori. Torniamo all’incipit più semplice: Lean = Snello; ci occuperemo di tutte le altre definizioni e sigle in futuro, con calma, a piccole dosi: anche l’elefante va mangiato a piccoli bocconi! Chi ha cominciato a parlare di produzione snella e di aziende snelle? Chi sono i maestri? Quali sono i vantaggi e gli svantaggi? Perché un’azienda dell’Italia centrale dovrebbe interessarsi ai concetti ed alle metodologie lean? Partiamo con un po’ di storia, senza farla lunga. L’avvio in grande stile dell’industria del XX secolo si fa risalire al binomio Ford – Taylor (il magnate dell’industria dell’auto ed il più noto studioso di metodi di lavoro di tutti i tempi) che, oltre un secolo fa, sperimentava (ed attuava, soprattutto!) nell’industria automobilistica i concetti ed i metodi della produzione di massa, rivolta ad un mercato di massa in continua espansione. Lunghissime catene di montaggio, estrema parcellizzazione delle operazioni da eseguire, ripetitività delle stesse (chi non ricorda lo strepitoso Charlie Chaplin di “Tempi moderni”?), tempificazione di tutte le micro operazioni, attraverso attente analisi, cronometro alla mano. Che dire: tutta roba preistorica, da buttar via? Direi di no: tutta la grande industria occidentale è cresciuta basandosi su questi concetti, studi, sperimentazioni ed attuazioni; ed oggi viviamo in case normalmente confortevoli, con elettrodomestici, svaghi, ci muoviamo su auto e moto che quasi amiamo, abbiamo a disposizione giochi per grandi e piccini, dischi, dvd, arredamenti industriali, cibi preconfezionati, farmaci anche nei paesini più sperduti… il progresso, insomma. Ma allora, perché qualcuno si è preso il disturbo di studiare metodologie alternative per le produzioni industriali? Beh per diversi motivi: gli spazi disponibili, l’accorciamento dei tempi di sviluppo e di attraversamento dei processi, la riduzione degli scarti, la riduzione delle scorte, la riduzione dei costi in generale, il cambiamento nei rapporti tra “padroni”, managers e lavoratori, le diverse esigenze di consapevolezza e motivazione di operai, impiegati, middle e senior managers. SECONDA PUNTATA Seconda parte della storia: Toyota. Toyota è l’azienda campione della lean production; i tecnici e gli esperti giapponesi parlano di kaizen (kai = cambiamento; zen = miglioramento); a me piace parlare di miglioramento continuo. Dopo la seconda guerra mondiale, il Giappone, provato da un vero e proprio disastro economico susseguente alla sanguinosissima sconfitta, dalle atomiche di Hiroshima e Nagasaki, stretto nella morsa tra i grandi vincitori (gli USA) e gli ingombrantissimi vicini (Cina ed URSS), doveva ripartire da capo, per tornare un paese industrializzato degno di questo nome.
  • 2. Come fare? Prima di tutto copiando; chi di noi ha superato gli “anta” ricorda benissimo che prima della Toyota Celica vincente nei rallies, dei lettori CD e della Playstation, tutte le produzioni giapponesi erano considerate brutte copie di qualcosa di occidentale: le auto, le macchine fotografiche, le moto (!?), gli orologi, l’abbigliamento, perfino i cartoni animati! Inoltre, i giapponesi ebbero l’accortezza di ascoltare i buoni consiglieri: gli americani mandarono molti consulenti ed esperti, magari ingombranti in patria; tra questi Deming, campione assoluto di metodi statistici applicati all’industria, padre del TQM, più osannato nel paese del sol levante che in quello delle stelle e delle strisce. Si sforzarono anche di comprendere veramente gli errori propri e dell’industria occidentale e poggiando su queste basi nacquero le esperienze kaizen della Toyota e di altre grandi e piccole imprese. Da queste esperienze si sono sviluppati tantissimi temi e strumenti. Prima fra tutti la partecipazione attiva degli operai e di tutto il personale ai processi di cambiamento e miglioramento: chi meglio di colui che compie tutti i giorni la stessa sequenza di operazioni può dare suggerimenti per renderle più efficaci, riducendo il rischio di scarti ed i tempi di lavorazione? Più in alto si sale nella catena gerarchica più devono essere garantiti l’impegno per il cambiamento e la disponibilità ad eliminare gli ostacoli; ma le soluzioni operative arrivano dal basso. Poi il Just In Time (JIT): perché riempire di scorte gli stabilimenti, ingrandire i magazzini, i piazzali, spendere valanghe di soldi in immobilizzi ed interessi passivi? Molto meglio riorganizzare il sistema di forniture e consegne, anche all’interno di uno stesso stabilimento, facendo in modo che i materiali arrivino dove servono, quando servono ed in quantità ridottissime (un’ora di lavoro, un turno, un giorno: non di più; non l’equivalente di mesi di scorte). Il kanban (letteralmente cartellino): un semplice sistema di identificazione può far sì che, pur con scorte minime, non manchi mai ciò che serve alla postazione di lavoro; in questo sistema si possono coinvolgere i fornitori, i corrieri ed i propri magazzinieri e carrellisti. Lo SMED, metodologia per ridurre a pochissimi minuti i tempi dei cambi delle attrezzature, necessari a produzioni di serie variegate, incrementando drasticamente il tempo disponibile delle macchine e guadagnando in capacità ad INVESTIMENTI ZERO. E potremmo continuare. Quali sono i grandi benefici dei sistemi lean e di miglioramento continuo? La riduzione delle scorte di cui abbiamo parlato sopra dà indubbi benefici finanziari (qualsiasi attività facciamo, ricordiamo che il CASH FLOW deve essere sempre al primo posto: senza liquidità ci si ferma e si muore!) ma dà anche benefici qualitativi (si pensi ai minori costi di una selezione su pochi pezzi, piuttosto che tra una montagna degli stessi), rende disponibili spazi (che hanno un valore ed un costo) e migliora anche l’ordine e l’aspetto dell’ambiente (particolare non irrilevante per chi riceve spesso visite di clienti o altri ospiti). Tutte le attività lean sono volte a ridurre gli sprechi: non fare operazioni che non danno valore aggiunto, ridurre gli spazi, ridurre i controlli e gli scarti (sembra una contraddizione ma i risultati di migliaia di esperienze sono lì, a dimostrare la fattibilità), ridurre il ricorso a risorse esterne o temporanee, poco specializzate, ridurre i consumi di tutti i materiali indiretti (dai fluidi di funzionamento delle macchine agli utensili, ai guanti, ai grembiuli ed agli altri dispositivi di protezione), ridurre i consumi energetici, ridurre i tempi morti, migliorando i tempi di attraversamento dei processi ed avendo un ulteriore beneficio sul capitale circolante. L’applicazione dei principi lean porta a prevenire, piuttosto che “curare” quando i danni sono fatti, riducendo i costi di manutenzione. Le attività lean portano consapevolezza ed aumentano l’orgoglio di svolgere il proprio lavoro; acquisiscono consapevolezza gli imprenditori ed i top managers, che capiscono quanto sia grande la “fabbrica nera” (quella che non produce ma consuma e spreca) e quanto siano grandi gli spazi di miglioramento, per un migliore posizionamento del business; diventano più consapevoli i quadri ed i livelli intermedi (generalmente i più difficili da convincere: “Ma se abbiamo sempre fatto così, perché dobbiamo cambiare? Perché lo dice un consulente che non ha mai tornito un pieno di alluminio con lo 0,25% di stronzio?”) che possono capire quanto le loro idee, combinate con quelle
  • 3. degli operativi possano far progredire l’azienda e rilanciarne la competitività; diventano più consapevoli ed orgogliosi i diretti, che apprezzano i cambiamenti fatti anche sulla base dei loro suggerimenti e delle loro esperienze e che, dopo la diffidenza iniziale (“Ma se diminuisce il tempo ciclo, diminuisce il fabbisogno di manodopera e qualcuno di noi sarà licenziato…”) capiscono di lavorare in un sistema rinforzato e che resisterà meglio agli attacchi della concorrenza globale. Qualche volta migliorano anche le relazioni sindacali (dopo resistenze, diffidenze e lotte dirette o subdole iniziali) e magari si arriva anche a sistemi innovativi di contrattazione di secondo livello. TERZA PUNTATA Ma quanto costa? L’implementazione di un sistema di lean manufacturing ha ovviamente un costo iniziale; spesso bisogna rivolgersi a dei consulenti esterni, che portino le competenze necessarie, raramente presenti in azienda (specialmente nelle PMI); poi ci sono i costi di formazione del personale: anche poche ore in aula e pochi giorni di workshop (cioè di attività sul campo, con l’obiettivo di fare e far vedere cambiamenti significativi in una o due settimane) possono incidere sensibilmente sulle finanze di un’azienda. E poi ci sono dei costi dovuti ad un inevitabile transitorio: la riduzione dei tempi ciclo passa comunque attraverso un po’ di addestramento anche del personale esperto, una riluttanza difensivistica delle maestranze, il fuoco di sbarramento dei sindacati. Ovviamente ci sono anche i costi dei workshop: spostare tre postazioni di una linea o una rettificatrice da 15 tonnellate non viene gratis! Un po’ di vernice per abbellire macchine di 25 anni, viti, dadi, saldature, molature, ritagli di lexan e lamiere inox per rendere più funzionali i posti di lavoro costano (poco, ma costano). Ma i BENEFICI superano di gran lunga i costi iniziali: generalmente il pay-back di queste attività va da due a sei mesi; cioè, semplici interventi sui processi, con investimenti molto bassi (rispetto ad interventi di automazione media o pesante o all’incremento di capacità con il raddoppio degli impianti etc.) permettono di avere nel primo anno benefici da due a sei volte superiori ai costi. E l’appetito vien mangiando (la battuta di Totò su chi digiuna è esilarante ma romperebbe il filo del ragionamento): altri progetti, altri workshop, altri benefici, altra crescita del morale aziendale a tutti i livelli. A proposito dei costi iniziali è interessante notare che alcune consultancy firms stanno introducendo tra le proprie leve negoziali delle forme di result fee; più o meno funziona così: i consulenti chiedono dei pagamenti iniziali e ad avanzamento delle attività che coprono le spese vive e poco più e poi cominciano ad incassare percentualmente ai risultati ottenuti, magari sui dodici mesi successivi all’intervento; in questo modo i consulenti tirano la cinghia (inizialmente) ma, a fronte di un buon lavoro, saranno compensati ben oltre un onorario standard a giornate; gli imprenditori ed i manager accettano meglio l’esborso iniziale, che può essere anche il 15 o il 20%, rispetto ad un accordo tradizionale (ancora effetto benefico sul CASH FLOW) e poi son più contenti di pagare un 5 o 10% sui benefici totali di un anno, sapendo che i consulenti saranno motivatissimi a ridurre drasticamente gli sprechi. Ma a me, che vivo tra il mare, la natura e le colline del centro Italia, chi me lo fa fare? L’applicazione dei metodi lean e del kaizen non ha confini geografici. L’approccio del tipo “Qui non c’è la mentalità giusta, non siamo giapponesi o tedeschi; gli svizzeri, loro sì sono ordinati e metodici” (infatti le migliori auto del mondo sono costruite a Sant’Agata Bolognese e Maranello o a Berna e San Gallo?) è molto frequente, specialmente tra i livelli intermedi di cui sopra; ma è sbagliato ed è un paravento dietro cui nascondere la paura di fallire e la difesa del quieto (si fa per dire) vivere. La mentalità giusta può essere ottenuta ad Atene, Tunisi, Enna e Grosseto, così come ad Oslo, Città del Messico o Kyoto: la mentalità giusta deriva dal reale, pieno “commitment” di chi paga (l’imprenditore) e dei top managers; se questi stakeholders credono nel progetto, ne capiscono i benefici competitivi ed i vantaggi economici e finanziari, il progetto
  • 4. andrà in porto. Certo, bisognerà combattere molte resistenze ed in alcuni casi “picchiare duro” per andare avanti; ma alla fine, più dell’80% degli attori sarà soddisfatto (meglio il 60% oggi che il 100% mai!). Ed i metodi lean non hanno neanche una dimensione ideale ed esclusiva: possono essere applicati da un colosso industriale come la Toyota, da un’impresa artigianale di 8 persone, da un’impresa di servizi alle persone che lavora solo in due quartieri di Ancona o di Piacenza. Proprio oggi, mentre ne scriviamo, sono decine i progetti in corso in aziende del centro Italia, siano esse le emanazioni di multinazionali o aziende localissime, il cui imprenditore ha superato da tempo l’età pensionabile (e qui si potrebbe aprire un interessante discettazione sul passaggio generazionale); e la cosa ancora più interessante è che molte sono le società di consulenza del centro Italia (emiliane soprattutto, ma non solo) che aiutano le aziende che formano il tessuto produttivo dei nostri territori ad affrontare questo percorso di crescita, con competenza e professionalità. Insomma, le logiche del lean thinking o kaizen o miglioramento continuo possono permeare proficuamente il tessuto industriale, produttivo, imprenditoriale dei nostri territori e possono essere un utilissimo plus per uscire da questa fortissima crisi globale con qualcosa in più, con la voglia di correre per competere, non limitandosi a “guardare quello che succede” o a camminare con il passo flemmatico di un passato che non c’è più, rischiando di essere semplicemente spazzati via. Giorgio Pellegrini 27 maggio 2009