1. Michele Di Francesco
Professore ordinario di Logica e Filosofia della Scienza
Rettore dell’Istituto Universitario di Studi Superiori IUSS di Pavia
Il cervello ai tempi dello smartphone:
rivoluzione delle neuroscienze e nuove tecnologie
cambiano la nostra idea di “umano”
La rivoluzione delle neuroscienze è ritenuta uno degli sviluppi scientifici più importanti a
cavallo tra la fine del secolo scorso e l'inizio di quello attuale: quali sono stati i passaggi
fondamentali di questa svolta? È legata solo all’evoluzione della tecnologia o anche ad altri
fattori?
Negli ultimi anni la tecnologia ci ha messo a disposizione apparati straordinariamente potenti per la
visualizzazione dei processi cerebrali, ma la rivoluzione delle neuroscienze cognitive è in realtà
iniziata prima, verso la metà del ’900, quando si è iniziato a pensare che la mente potesse essere
studiata con strumenti empirici, come un pezzo di natura. Per secoli si è guardato con sospetto
all’idea di studiare su basi scientifiche i fenomeni mentali: a livello filosofico, prevaleva un modello
dualistico, ovvero l’idea che mente e corpo fossero due cose separate e distinte. In Psicologia
negli scorsi decenni si era affermato l’approccio di tipo comportamentistico, in base al quale si
descrivevano i comportamenti osservabili senza preoccuparsi di capire cosa avvenisse all’interno
della scatola nera, del cervello.
Nel momento in cui le tecniche di neuroimaging ci hanno permesso di guardare dentro il cervello, è
prevalsa definitivamente l’idea che i processi mentali sono comunque processi naturali che
possono essere sottoposti a indagine empirica per comprenderne non solo la fisiologia ma anche
la patologia, e decidere come intervenire quando il cervello, come altri organi, si ammala. In questo
modo si è potuto riconoscere, e cominciare a studiare, la stretta correlazione che c’è tra la mente,
dimensione della soggettività, della razionalità, dell’esperienza e dei desideri, e il cervello,
quest’organo biologico meraviglioso e straordinariamente complesso fatto di neuroni, scambi
elettrochimici e sinapsi.
Per secoli filosofi, medici, studiosi della psiche si sono interrogati sulla natura della mente,
proponendo ipotesi, teorie, sistemi. Poi a un certo punto, appena pochi anni fa, si è potuto
guardare direttamente all’interno del cervello e studiare con metodi scientifici aspetti del
suo funzionamento che prima sfuggivano alla nostra osservazione. In che misura tutto
questo ha cambiato non solo la conoscenza del cervello e della mente ma la stessa nozione
di essere umano?
Certamente alcune visioni della mente e quindi dell’essere umano sono diventate molto meno
probabili, molto meno difendibili. Sono stati superati alcuni pregiudizi, soprattutto filosofici, come il
fatto che ragione ed emozione siano in contrasto tra loro. In realtà si è visto che i processi del
ragionamento presuppongono la collaborazione tra aree razionali e aree emotive, che interagiscono
in modo armonioso per produrre un comportamento adattivo in grado di assicurare la sopravvivenza
dell’individuo e della specie. Le conoscenze attuali dei processi di ragionamento hanno
ridimensionato molte teorie, ma questo non significa che oggi si possa discutere dei fenomeni
mentali studiando soltanto il cervello ed eliminando completamente le scienze umane: quando
parliamo dei fenomeni mentali ci riferiamo a come è fatta la persona, e la persona non è soltanto il
suo cervello, entrano in gioco anche la dimensione psicologica, relazionale, sociale.
E certi interrogativi anche di natura filosofica sono ancora attuali: ad esempio, fino a che punto
si può dire che una sensazione di felicità o di tristezza non sia altro che uno stato cerebrale
ovvero un determinato stato elettrochimico di una materia? Oppure, se vogliamo comprendere
la relazione affettiva tra un bambino e i genitori nei primi mesi di vita, non possiamo utilizzare
solo concetti di tipo neurobiologico, ma dobbiamo fare ricorso anche a categorie di tipo
psicologico, sociologico, culturale.
2. Una disciplina di grande interesse è quella delle neuroscienze sociali, ovvero la conoscenza
delle basi neurologiche delle emozioni: che implicazioni può avere questa nuova disciplina
sulla conoscenza dell’essere umano e sulla convivenza tra le persone?
Le neuroscienze sociali studiano il modo in cui il cervello contribuisce alle attività degli esseri
umani in quanto animali sociali. La scoperta fondamentale è che il nostro cervello è progettato per
essere sociale. Ci sono funzioni cerebrali progettate per farci parlare, per consentirci di essere
animali linguistici che comunicano con gli altri. Le tecniche di neuroimaging hanno confermato
l’ipotesi che la capacità degli esseri umani di produrre enunciati grammaticali è innata, biologica, e
che le regole fondamentali del linguaggio sono comuni a tutti i linguaggi. Il nostro cervello ha già
una sua grammatica ed è in grado di riconoscere gli errori. Poi ci sono funzioni cerebrali emotive
che ci aiutano nella relazione con gli altri, permettendoci di entrare in sintonia e quindi di capirli
anche empaticamente. Da questo punto di vista, una delle scoperte più notevoli, frutto della ricerca
italiana, è quella dei neuroni specchio, ovvero le strutture cerebrali alla base della comprensione
delle intenzioni altrui. I neuroni specchio si attivano sia quando un individuo prepara una
determinata azione, per esempio l’afferrare un oggetto, sia se lo stesso individuo vede qualcun
altro compiere la stessa azione. In entrambi i casi si attivano le stesse aree pre-motorie, che sono
quindi una sorta di ponte tra individuo e individuo e potrebbero essere la base biologica della
comprensione dell’azione umana e dell’empatia tra le persone.
Altra area di ricerca nell’ambito delle neuroscienze è la neuroeconomia, ovvero lo studio dei
processi decisionali in ambito economico, che ha messo in discussione l’idea che i soggetti vadano
idealizzati come decisori razionali, idea portante dell’economia classica. Il funzionamento delle
strutture cerebrali legate alla razionalità e alle emozioni ci dimostra che non è così, che le scelte
non sono frutto di percorsi esclusivamente razionali, ma esistono sistematici errori cognitivi che
guidano le nostre scelte.
A proposito di etica, la possibilità di guardare dentro il cervello e magari di controllarlo,
apre la strada a incubi da fantascienza, a scenari da ‘Grande Fratello’?
Ogni nuovo strumento di conoscenza può rivelarsi uno strumento di liberazione o di oppressione.
Esiste effettivamente la possibilità di utilizzare i risultati neuroscientifici per cercare di scoprire i
contenuti dei pensieri altrui. E hanno fatto discutere alcune sentenze di tribunali che hanno
concesso delle attenuanti a persone accusati di crimini sulla base di un’accertata predisposizione
neurogenetica a determinati comportamenti. Altro tema da affrontare è quello del doping cognitivo,
ovvero la possibilità di influenzare le nostre prestazioni mentali utilizzando dei neurostimolatori.
Oppure il rischio di trattare ogni forma di disadattamento, al di là dei comportamenti chiaramente
patologici, come problema medico, come un “cervello che non funziona”, cercando magari di
mettere a punto una pillola della felicità invece di intervenire sui determinanti sociali del disagio.
Alla luce dell’evoluzione della società e della cultura il nostro cervello è lo stesso di 2.500
anni fa? E come sarà il cervello del futuro?
Negli ultimi millenni il cervello non è mutato nella sua struttura biologica, ma le sue prestazioni si
sono arricchite grazie all’interazione culturale. Il cervello è un organo molto plastico, si adatta
moltissimo in funzione di come viene stimolato. La cultura non può cambiare i geni e non possiamo
certo procurarci delle capacità che il nostro cervello non ha, ma vi è un processo di continuo
cambiamento per adeguarsi all’ambiente. Il cervello degli aborigeni australiani e quello degli abitanti
di New York hanno gli stessi principi biologici, ma la gamma di rapporti con l’ambiente, le abitudini
cognitive e di pensiero sono profondamente diverse. E anche il cervello dei ragazzi di oggi
certamente si adatta all’esposizione a smartphone, computer e tablet che avviene fin dai primi anni
di vita. La base biologica è uguale, ma è l’organizzazione che cambia.
E questo è solo il principio: con le nuove tecnologie, i nuovi modi di interagire mente-macchina, si
delineano una serie di processi che possono modificare profondamente il modo di funzionare del
nostro cervello e lasciano intravedere anche un cambiamento più radicale. È il grande tema del postumanesimo, della possibilità di andare oltre i limiti della nostra specie: la tecnologia e la nostra
cultura scientifica potrebbero modificare la nostra biologia, lo stesso modo di funzionare del cervello.
Quali saranno le conseguenze? E le nostre responsabilità etiche? Ancora una volta, come si vede, la
neurobiologia non annulla lo spazio della filosofia e i problemi filosofici ritornano in forme nuove.
Disclaimer
I contenuti di questa intervista sono stati elaborati sulla base di dichiarazioni rilasciate direttamente dal Professor
Michele Di Francesco e vengono diffusi previa sua approvazione e sotto sua responsabilità.