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L’origine della farmacia risale alla notte dei tempi e si confonde con il mito.
Nella preistoria l’uomo del primo periodo dell’età della pietra nel Paleolitico,
contemporaneo del mammut, in lotta aspra e continua con la natura,
esposto alla fame, alle intemperie, ai parassiti, alle malattie,
imparò ben presto guidato dall’istinto ad osser-
vare il mondo vegetale e minerale che lo circondava
ed a conoscerne, come documentato ampiamente nelle
palafitte, le proprietà utili e nocive, a costo di esperienze
dolorose e disastrose, ricavando i primi rimedi contro le
malattie.
Tuttavia, è molto difficile fare una
adeguata ricostruzione scientifica dei
primi atti curativi in età preistorica,
poiché i reperti di medicina vera e propria
a nostra disposizione non sono sufficien-
ti (si tratta solamente di reperti di paleopatologia di crani trapanati, affezioni dentarie,
problemi reumatici, rachitismo e ossa con fratture consolidate risalenti a non prima
di 100.000 anni fa). Va posto in evidenza, comunque, il rinvenimento di crani trapa-
nati che presentano processi di rigenerazione ossea consentendoci di poter affermare
che trattasi di interventi effettuati su individui vivi.
Nella Bibbia con la parola farmakia si definivano tutte le arti con cui Babilonia sedusse il
mondo (dall’Apocalisse). È agevole immaginare che si alludesse ai filtri amorosi e agli
afrodisiaci. Verificandosi, però, nel tempo anche effetti deleteri con queste terapie, al concetto
iniziale subentrò quello di tossico o veleno 1
.
Spesso nel mondo antico molte osservazioni di fenomeni naturali e loro integrazioni in un
sistema dotato di una sua peculiare razionalità sono disperse e nascoste sotto il velo del
mito, della struttura magico-religiosa o dell’opera teatrale o letteraria.
Nelle età più remote la figura del farmacista era tutt’uno con quella del medico, del
sacerdote, dello stregone.
Fin dalle profondità della preistoria, prima che venisse inventata la scrittura, l’umanità “si
è raccontata” la propria esperienza oralmente a memoria, con il canto o con la poesia,
affidando al ritmo o alla scansione cadenzata le idee, le informazioni e le emozioni.
I grandi sistemi scientifici e medici appartenenti alla tradizione scritta dotta alle origini
derivano dai sistemi conoscitivi e tecnici trasmessi oralmente: trasmissione scritta e
trasmissione orale, nell’ambito delle varie tradizioni, hanno sempre convissuto.
Che la professione del farmacista sia una delle più antiche del mondo
è attestato da documenti giuntici dalle grandi civiltà di Sumeri, Assiro-
Babilonesi, Egizi, Cretesi, Micenei, Cinesi.
Risale al 2700 a.C. il più antico testo di farmacologia conosciuto: una
tavoletta in caratteri cuneiformi dell’antica Ur in Mesopotamia, rin-
venuta nei primi decenni del XX secolo e decifrata nel 1953.
La tavoletta contiene una dozzina di ricette del medico-farmacista
Lulu, con preziose indicazioni circa i componenti e le procedure uti-
lizzate per la preparazione di pomate, decotti e lozioni.
Sorprendentemente si desume dalle ricette che a quel tempo per la
Preparazione dei farmaci ci si serviva, sostanzialmente come in parte
ancor oggi, di sostanze vegetali, animali e minerali.
Ma ancor più sbalordisce il fatto che in questo testo la materia farmacologica è trattata con
metodo “scientifico”, ovvero senza cedimento alcuno ai diffusissimi riti di magia e
stregoneria che, del resto, prima, durante e dopo, fino ai tempi attuali, hanno sostituito o,
nel migliore dei casi, affiancato le pratiche mediche e farmaceutiche.
Dalla meticolosità scientifica di queste tavolette si può desumere lo sforzo che, anche
molto indietro nel tempo, civiltà più avanzate e livelli sociali più elevati hanno prodotto
per curare le malattie dell’uomo e, d’altro canto, che la scienza farmacologica, almeno in
Mesopotamia, risale a tempi incredibilmente remoti e con dati e conoscenze di assoluto
rispetto per l’epoca. Il farmacista di Ur, comunque, pur essendo emblematico di un modo
di fare scienza, resta una eccezione nello scenario allargato dell’epoca giacché i principali
tentativi terapeutici non andati a buon fine nell’ambito della magia e dei rimedi terapeutici
e farmacologici approdavano sovente alla fase chirurgica, ultimo disperato rimedio.
Essendo stato ritenuto, infatti, per lunghissimo tempo che molte malattie fossero generate
da spiriti maligni che invadevano la testa del malato, non rimaneva altro da fare, dunque,
che aprire il cranio per estrarre la materia ritenuta infettata.
L’intervento si effettuava per mezzo di narcosi usando
potenti veleni che, talvolta, conducevano a morte
nel corso dell’operazione stessa.
Nonostante l’evidente approssimazione dell’
intervento chirurgico, c’era anche chi sopravvi-
veva, come ben testimoniano crani con tali segni e
successivo callo osseo riformato.
In Egitto all’interno della scienza medica si potevano distinguere
due diversi filoni: quello magico-religioso, che comprendeva
elementi molto primitivi, e quello empirico-razionale, basato
sull’esperienza e l’osservazione, privo di componenti mistiche.
Presso questa civiltà si effettuava la pratica della “incubazione”,
ovvero l’induzione di sogni divinatori a scopo diagnostico. Tale
pratica era frequente e sostenuta soprattutto all’epoca di Amen-
Hotep II e Thutmosis IV (tra il 1439 e il 1398 a.C.); nel V secolo
a.C. la pratica dell’incubazione fu associata al culto greco di
Imothep. Durante la terza dinastia il medico iniziò a distinguersi
come figura, sia pure primitiva, di scienziato, diversa dallo stregone
e dal sacerdote.
Il primo medico egizio e soprintendente alla sanità il cui nome è
giunto fino a noi è proprio Imhotep (vissuto intorno al 2725 a.C.),
famoso anche come costruttore di piramidi (quella a gradoni di
Saqqara intitolata al Faraone Zoser) e come astrologo, che sembra
abbia ottenuto grandi successi sia come medico operante che come
ricercatore scientifico: fu probabilmente il primo a scoprire e a
studiare i batteri e, quindi, a sperimentare soluzioni antibatteriche
che diedero i loro più noti risultati per quanto riguarda le malattie
degli occhi. Imhotep indica, dunque, un “individuo eminente” e
depositario dell’intera conoscenza scientifica e tecnologica
dell’epoca, tra cui la medicina e l’architettura.
Nella medicina dell’antico Egitto, inoltre, per ogni patologia vi erano veri e propri
specialisti. Così c’era il medico generico (termine egiziano sunu), l’oculista (sunu-irty), lo
specialista per l’addome (sunu khef), lo specialista per le malattie di origine sconosciuta
e
altri ancora. Il termine “sunu” dovrebbe significare “colui che appartiene
al
malato” o “ colui che appartiene a chi è ammalato”. Il numero degli
spe-
cialisti era più alto nell’Antico Regno che nelle epoche successive
che
videro le varie specializzazioni accentrarsi sempre più in
un’unica
persona.
I futuri medici imparavano l’arte di curare le malattie
nelle
“Case della Vita” situate vicino ai templi (le più
celebrate
erano quelle di Sais e di Eliopoli). Queste Case della
Vita
erano delle specie di biblioteche dove i giovani
facevano
esperienza con gli anziani, leggevano e ricopiavano
gli
antichi testi gelosamente custoditi dai medici-
le Scuole mediche più antiche.
Le conoscenze scientifiche fondamentali, quindi anche quelle chimiche e
farmaceutiche,
erano “depositate” nei “clan” sacerdotali e della corte faraonica. I sacerdoti di vari culti
erano, come Imhotep, soprintendenti alle varie arti; con “arte” ovviamente si intende la
pratica tecnologica e le modalità di realizzazione di un determinato processo produttivo.
Erodoto riferisce che la medicina egizia era fortemente specializzata. Lo studio delle varie
malattie, delle cause che le hanno provocate e delle tecniche di guarigione sono uno degli
aspetti più sbalorditivi dell’Antico Egitto.
Fin
dall’Antico Regno venivano utilizzati
strumenti
chirurgici del tutto simili a quelli in uso
nei
nostri ospedali per operare i malati. La
tecnica
della conservazione dei cadaveri mise a
disposi-
zione una enorme quantità di dati chimici
e
farmacologici sulle sostanze impiegate, sulle
spe-
cie vegetali che producevano le materie rare
La nostra documentazione conta:
* il primo riferimento ad un papiro medico inciso su 4 blocchi all’ingresso della tomba di
Uashptah (architetto capo, gran giudice e visir di Neferirkara);
* un Papiro Smith (così chiamato dal nome dei suo primo possessore) che purtroppo ci è
pervenuto non integro, la copia di un testo dell’Antico Regno, fatta in Epoca Lyksos,
completa di glosse per spiegare i termini non più comprensibili;
* il cosiddetto Papiro Ebers (anch’esso di Epoca Lyksos, acquistato da Ebers presso un
ricco egiziano che disse di averlo trovato tra le gambe di una mummia non meglio
identificata, lungo ben 20 metri e largo 20 cm, datato alla XVIII dinastia e composto da
108 pagine numerate da 1 a 1102 poichè i numeri 28 e 29 sono stati omessi; attualmente
custodito dall’Università di Lipsia), una raccolta sistematica di casi di medicina tolti da
trattati diversi giunta a noi completa e con glosse che descrive i rimedi per moltissime
malattie, dalla tosse ai problemi cardiaci.
•otto testi frammentari, alcuni coevi, altri posteriori, che sono semplicemente appunti
scritti da praticanti o frettolose copie di originali andati perduti. Sotto il profilo della
materia, risulta da tali documenti che la scienza
trattava separatamente la chirurgia, la medicina
generale e parecchie specializzazioni fra cui
oftalmologia, ginecologia, pediatria, geronto-
logia e malattie dell’ano. La sistematica
della prassi appare ineccepibile: come i loro
colleghi moderni, i medici egizi esaminavano
il malato, identificavano la malattia in base
ai sintomi (diagnosi) e ne prevedevano il decorso e l’esito (prognosi), e prescrivevano una
terapia.
Gli Egizi avevano idee già abbastanza precise sul funzionamento del cuore e dei vasi
sanguigni: “Il cuore parla ai vasi di ogni membro”, è detto nel papiro di Ebers,
significando che il cuore pompa sangue a tutto il corpo. Un’intuizione eccezionale se si
pensa che ci troviamo a quasi 3000 anni prima di Harvey, che scoprì la circolazione del
sangue. Dal Papiro Ebers si deduce, ancora, che i medici egizi ritenessero il cuore centro
della vita e sembra che già ricollegassero il suo battito a quello del polso. I testi letterari
descrivono, inoltre, il cuore come luogo della volontà e delle emozioni, oltre che sede del
peccato: centro, quindi, dell’organismo umano fisico, psichico e spirituale. Di contro,
l’importanza dell’encefalo (di cui compare per la prima
volta nella lingua dell’uomo la parola “cervello” e che è
accuratamente descritto nella forma, nelle circonvoluzioni
e nelle meningi) non era avvertita. Nel Papiro Ebers si accen
na anche al numero e alla posizione dei vasi che si originano
dal cuore.
Le loro conoscenze anatomiche, comunemente per l’osser-
zione degli animali durante il macello, e ad alto livello per
imbalsamazione del defunto (pratica riservata ai sacerdoti
devoti ad Anubi) devono aver reso gli egizi abbastanza esper
ti di anatomia umana, una condizione che si dimostrerà prezio
sa nella pratica chirurgica. Il benessere del corpo si doveva, a
loro avviso, allo scorrimento dei suoi liquidi nei metu, i vasi
che lo attraversavano: se uno di questi vasi si ostruiva si manifestava la malattia. Le
malattie venivano considerate risultato di misteriose influenze esterne che sarebbero
penetrate nel corpo attraverso gli orifizi naturali corrompendo gli “umori”. Compito del
medico era, dunque, quello di evacuare questi umori “corrotti”, facendoli uscire attraverso
le normali vie di escrezione. Alcune malattie note erano l’asma bronchiale, l’epatite
tropicale, la gonorrea, lo scorbuto, l’epilessia; la polmonite e la tubercolosi erano tra le
malattie più diffuse a causa dell’inalazione di sabbia o di fumo dei focolari domestici. Le
malattie parassitarie erano altrettanto comuni a causa della mancanza di igiene. Le comuni
malattie erano solitamente curate dai medici con il metodo empirico-razionale, grazie
soprattutto al fatto che questi organi sono direttamente accessibili; i
disturbi di altre parti del corpo venivano, invece, curati da stregoni con
magie e incantesimi.
Le cure mediche in senso proprio consistono nel riposo, in una dieta
adatta, e nella somministrazione di rimedi fra i quali i più frequenti sono
i purganti.
I medici preparavano essi stessi le loro ricette ma si procuravano la materia
prima da una organizzazione farmaceutica con precisa gerarchia costituita da un “capo
farmacista” che dirigeva e controllava i “conservatori dei farmaci”
coadiuvati da tecnici; tuttavia la funzione di farmacista era svolta anche
dai sacerdoti e dai medici stessi.
La farmacopea del tempo includeva sostanze medicinali minerali, usate
di rado, (allume, rame, ossido di ferro, calcare, carbonato e bicarbonato
di sodio, zolfo, composti arsenicali, carbone, ferro, piombo, antimonio)
e sostanze medicinali vegetali (è sfruttata quasi tutta la flora egizia): era comune l’uso di
lassativi come fichi, datteri e olio di ricino; l’acido tannico, derivato principalmente dalla
noce di galla, era considerato utile nel trattamento delle ustioni. Vi era, poi, un certo
numero di ingredienti che fungevano da veicoli e che erano a base di grassi animali,
acqua, latte, midollo o argilla, vino o birra, ai quali si aggiungeva, per renderli più graditi,
un po’ di miele. Nel Papiro di Ebers sono citate circa 900 “ricette” di medicamenti, molte
delle quali figurano ancora nelle moderne farmacopee, come la trementina, la senna, l’olio
di ricino, il timo, la celidonia. Una pianta certamente nota in Egitto era la mandragora per i
suoi effetti ipnotici e analgesici legati all’atropina e la scopolamina. Come anestetico,
naturalmente in dosi molto basse essendo la pianta molto velenosa, si usava il giusquiamo
che contiene scopolamina, potente sedativo del sistema nervoso
centrale. In chirurgia gli Egizi conoscevano vari mezzi per pra-
ticare una sorta di anestesia con una speciale “pietra” che si
trovava vicino a Menfi la quale, ridotta in polvere e applicata
alla parte, faceva scomparire ogni dolore. Forse si trattava
semplicemente di pezzetti di bitume che, a contatto con la fiam-
ma, sprigionavano vapori che assopivano il paziente.
Venivano anche sfruttati, a scopo anestetico, gli effetti sedativi
del coriandolo, della polvere di carruba, e verosimilmente an-
che dell’oppio. Ma il rimedio più importante per gli Egizi fu la
birra. Non solo come veicolante di numerosi medicamenti ma
anche come medicina per i disturbi intestinali e contro le infiam
mazioni e le ulcere delle gambe.
L’effetto disinfettante era verosimilmente dovuto al lievito e al
complesso B contenuti nella birra che producevano un’azione
antibiotica; anche il “pane ammuffito”, prescritto in altre formule,
risultava efficace per la sua azione antibiotica. Tra i purganti
più in uso figurano l’olio di ricino e la senna. Ma gli Egizi
praticavano anche il clistere. Sembra che questa pratica sia
stata loro ispirata dall’ibis che introduce il lungo becco
aguzzo nel proprio retto, irrigandolo a scopo di
pulizia.
L’enteroclisma veniva effettuato con l’aiuto
di
un corno, impiegando come lavanda bile di
bue,
oli o sostanze medicamentose. E’ certo che
i
medici egizi si servirono delle sanguisughe
per
decongestionare parti del corpo, ma è
dubbio
se conoscessero la tecnica del salasso.
Anche la contraccezione veniva
pra
praticata con metodi magici, ma anche
a
Altro metodo era rappresentato dall’applicazione, sempre nel fondo della vagina, di un
tampone imbevuto di succo d’acacia.
Oggi si sa che la gomma acacia, fermentando con il calore, produce acido lattico,
anch’esso dotato di un intenso potere spermicida.
Molti rimedi venivano somministrati in forma di bevanda, pappa, pillole e cataplasma.
Tutti gli ingredienti appaiono quasi sempre adatti allo scopo terapeutico prefisso, e
comunque scelti secondo un criterio di scienza naturale, mai in obbedienza a presupposti
religiosi o filosofici. Del resto le formule magiche rivolte a una divinità guaritrice
venivano inserite nella cura solo per prudenza, per dare maggiore fiducia al paziente e per
le malattie attribuite a cause extra-fisiche. Molti rimedi comportavano almeno un
ingrediente raro e costoso, spesso importato dall’estero.
Al momento di consegnare le medicine, poi, i medici erano sempre prodighi di consigli
sull’igiene, che consisteva innanzitutto nel praticare abitudini sane.
La cura del corpo era molto importante per gli antichi egizi che largamente ricorrevano
alla cosmesi. Essi utilizzavano creme, unguenti e profumi per ammorbidire e profumare la
pelle. Le donne si schiarivano la pelle con un composto
cremoso ricavato dalla biacca, disponibile in colori
diversi, dalla più pallida alla più ambrata generalmen-
te destinata alle labbra. Evidenziavano il contorno degli
occhi con il kohl nero o verde, rispettivamente estratti
dalla golena e da malachite. Le unghie venivano tinte
così come le palme delle mani e dei piedi e a volte an-
che i capelli con una pasta a base di hennè.
Utilizzavano specchi, pinzette per la depilazione e attrezzi per la manicure. I profumi
(utilizzati da uomini e donne come le creme), venivano estratti da fiori, fatti macerare e
pigiati.
Tutte le essenze odorose avevano nel dio Shesmu il loro protettore. Venivano prodotti in
laboratori associati ai templi e conservati in vasetti di pasta vetrosa, la faience. Imhotep
riuscì ad unire l’utilità delle cure antibatteriche ad un gradevole aspetto estetico: infatti i
vari trucchi utilizzati non erano altro che polveri per curare le varie infezioni degli occhi
che, opportunamente colorate, davano un risultato estetico molto piacevole.
Moltissimi prodotti cosmetici erano, ovviamente, appannaggio del farmacista.
Numerosi medici-farmacisti diventavano gli estetisti presso le corti
dei faraoni o dei nobili ricavandone considerevoli privilegi e
godendo di un prestigio assoluto, erano ricercati, venerati e
temuti per il loro potere: magico e misterioso, sicuramente
“divino”. Tra le divinità egizie, sono di interesse “sanitario”:
Harpokrate: in egizio Heru-pa-Khered, rappresenta Horus
bambino. Viene raffigurato sia in braccio alla madre Isis che
lo allatta, sia come fanciullo con un dito sulla bocca che, in
questo caso, non significa silenzio ma è una derivazione del
geroglifico “bambino”. In alcune steli esposte nei Templi
cavalca un coccodrillo e tiene in mano dei serpenti. L’acqua
versata sopra le steli acquisiva poteri protettivi e taumaturgici.
Sekhmet: raffigurata, come Tefnut, con i connotati
sanguinari della leonessa (legati ad una delle sue funzioni
principali, che è quella di sconfiggere i nemici di Ra, nel suo viaggio nell’oltretomba), è nota
dai fin tempi più antichi come Sekhmet-Hethert. È la “femmina potente”, la “signora rossa”
che rappresenta la forza inarrestabile della vendetta divina contro i nemici ed il potere della
distruzione nei casi in cui la violenza si rende necessaria. Come distruttrice veniva anche
invocata contro i dèmoni portatori di malattie e di pestilenze e proteggeva medici e chirurghi.
Patrocinava la loggia dei medici che erano sempre pronti ad attivarsi affinché le loro cure
fossero efficaci, nutrendo sempre il forte convincimento che, una volta riusciti ad ammahsire
Sekhmet, sarebbero riusciti a restituire la salute all’infermo. I sacerdoti della dea erano tutti
medici e la consideravano una divinità essenzialmente risanatrice di tutti i mali e incaricata di
equilibrare le forze del cosmo, poiché il suo aspetto sanguinario si scatena soltanto quando gli
uomini cospirano contro gli dei.
Sobek: Dio coccodrillo adorato a Kom Ombo, dove sono stati trovati moltissimi coccodrilli
mummificati. Il suo nome significa “che veglia su di te”. Quindi, protettore contro le
avversità ed i torti ed anche con capacità di guaritore. Il Tempio di Kom
Ombo, infatti, era diviso in due sezioni: una dedicata al culto e
l’altra alla cura dei malati. I Greci lo chiamarono Suchos.
Tauret: originaria del Basso Egitto, è una divinità di origini
pre-dinastiche. Rappresentata in forma di ippopotamo con
abbondanti mammelle pendenti e con una pelle di coccodrillo
sulla schiena, appoggia la mano sul “Sa”, simbolo del salvagen
te di giunco usato sul Nilo. È la protettrice delle gestanti,
dell’allattamento e dell’infanzia.
Intorno all’800 a.C. c’erano i medici itineranti Etruschi dei
quali nulla si sa tranne rari riferimenti. Benché la medicina etrusca
sia stata sicuramente brillante e complessa, essa si è perduta con il
declino e la dispersione della cultura di questo popolo che fu, in varie
fasi e fin dall’inizio, integrato e fuso con quello romano. Eppure,
per molti secoli dopo il tramonto della repubblica, i medici di
Educazione etrusca percorsero le vie dell’Impero ma, trasmettendo
le loro conoscenze per via orale e, forse, per via rigorosamente
iniziatica, fecero perdere le loro tracce non consegnandosi alla storia.
Dall’epoca omerica ci pervengono numerose testimonianze sulla
disponibilità di piante medicinali esistenti ed usate come, ad esempio, il famoso
nepenthes, indubbiamente un vino drogato con erbe fra cui il loto, lo giusquiamo, l’oppio,
la mandra-
gora ed altre, aventi proprietà sedative, calmanti e narcotiche. Anco
ra si ricorda l’azione di Patroclo che cura la ferita di Euripilo con il
succo di una radice pestata: quella che Chirone, saggio centauro,
ha fatto conoscere ad Achille suo allievo e cioè, come dirà
successi-
vamente Plinio, l’Achillea, che prenderà, poi, l’attributo
di
millefolium per la sua caratteristica botanica: pianta
comunissima
che in seguito si scoprirà avere virtù emostatiche e cicatrizzanti,
per
comunicanti) precedenti. Esso fu anche il continuatore-competitore di un’altra cultura “di
giunzione” e con grandi capacità tecnologiche, quella fenicia. La scienza, la tecnologia e,
quindi, la medicina, con tutte le procedure diagnostiche e terapeutiche tipiche del mondo
greco, enfatizzate a livello massimo in epoca ellenistica (massimo fulgore tra il III e II
secolo a.C.), trasmesse a noi da alcuni geni della romanità imperiale, derivano con
ragionevole certezza dalle grandi culture precedenti, tipiche delle aree geopolitiche vicine,
in particolare dalle culture mesopotamiche e da quella egizia. La cultura babilonese
influenzò in misura maggiore le scienze più esatte, come l’astronomia, la matematica e, in
subordine, le tecniche diagnostiche fisiognomiche; la cultura egizia influenzò in misura
maggiore il complesso dottrinario terapeutico e l’utilizzo di altre tecniche
diagnostiche (le quali, in ogni caso, rientrano nella nozione
più generale di Fisiognomica).
Con la Scuola di Coo c’è il passaggio all’osservazione
diretta del malato eseguita con grande larghezza
di vedute ed ottime intuizioni che distinguono
indiscutibilmente questa scuola da tutte le altre:
nasce qui il vero concetto di clinica e della
conseguente diagnosi. Il medico è uomo e la sua
opera non ha sfumature soprannaturali, mistiche,
astratte o filosofiche.
La medicina deve essere una ricerca continua, serena
e disinteressata alla quale bisogna dedicarsi solo per
amore di essa e della natura umana.
Nel V secolo a.C. visse Ippocrate, padre della medicina, appartenuto a una famiglia di
medici che, secondo la tradizione, discendeva direttamente da Esculapio (divinità minore che
eccelleva nell’arte medica); dopo aver trascorso la giovinezza viaggiando allo scopo di
approfondire le conoscenze e perfezionare la sua istruzione soprattutto in campo medico,
tornò in patria per dedicarsi all’insegnamento e per mettere a frutto tutto ciò che aveva
appreso.
L’insieme dei libri che sono attribuiti ad Ippocrate va sotto il nome di Corpus
Hippocraticum o Collectio Hippocratica: si tratta di 53 opere per un totale di 72 libri che
furono raccolti dai bibliotecari alessandrini nel III sec. a.C..
Notevole, senza dubbio, lo stile molto incisivo e diretto, senza troppi fronzoli, divagazioni
filosofiche o circonlocuzioni contorte, anche se talvolta l’eccessi-
va laconicità del pensiero può rendere difficile la giusta interpre-
tazione.
E’ proprio questo, comunque, che distingue le vere opere del
caposcuola di Coo da quelle scritte probabilmente in seguito da
qualche suo parente, allievo o successore. Le opere del Corpus
possono essere divise, a seconda del loro contenuto, in diversi
gruppi: libri a contenuto etico, libri di clinica e patologia, libri
di chirurgia, libri di ostetricia, ginecologia e pediatria, libri di
anatomia e fisiologia, libri di terapeutica e dietetica.
Secondo il sistema ippocratico la malattia era determinata, per
cause macromicrocosmiche, dalla discrasia dei quattro umori
(sangue, muco o flemma, bile gialla, bile nera) normalmente
presenti nell’organismo umano in equilibrata miscela (eucrasia) nello stato di salute. Lo stato
di salute si aveva quando questi umori erano perfettamente bilanciati tra loro; se, invece, la
crasi era alterata per l’eccesso, la corruzione o la putrefazione anche di un solo componente,
allora insorgeva la malattia. Era la natura stessa con la sua capacità curativa ad intervenire nel
tentativo di ristabilire l’equilibrio tramite l’espulsione degli umori in eccesso per mezzo di
urina, sudore, pus, espettorato e diarrea. Se invece la malattia risultava più forte del processo
autoriparativo dell’organismo il paziente moriva. Per poter essere eliminati gli umori,
dovevano prima essere modificati con un processo che Ippocrate definiva di “cottura”. Il
periodo intercorrente tra questo processo e la guarigione prendeva il nome di “crisi”.
Il predominio di uno dei quattro umori conferiva anche particolari caratteristiche all’individuo
(principio della costituzione e dei temperamenti): si avevano così i temperamenti sanguigno,
biliare, flemmatico e atrabiliare.
Per il mantenimento o il ricupero dello stato di salute era
necessario attenersi o ricorrere a determinate regole di vita da
osservare giornalmente (dietetica) secondo uno stile di
vita (victus ratio, vitto) in cui gli alimenti (cibus et potus)
assumevano un ruolo fondamentale, esercitando essi non
solo funzioni genericamente nutritive, ma pure specifica-
tamente terapeutiche, in rapporto alle loro qualità, esse
pure classificabili secondo il succitato sistema quaternario.
In particolare, nello stato di malattia risultava necessaria
l’eliminazione degli umori alterati (corrotti, materia peccans),
ottenibile mediante opportune tecniche, comprendenti
l’impiego dei farmaci (diaforetici, purganti, carminativi, diuretici, vescicanti, revulsivi, ecc.),
tra i quali spiccavano le piante medicinali.
Altra novità fondamentale introdotta dalla dottrina di Ippocrate fu il fatto di considerare le
patologie come fenomeni generali per l’organismo e non relativi ad un singolo organo.
La figura del medico era per Ippocrate, infine, l’unione del perfetto uomo con il perfetto
studioso: calma nell’azione, serenità nel giudizio, moralità, onestà, amore per la propria arte e
per il malato sono i cardini della personalità del medico così come era concepito da Ippocrate.
Ogni interesse personale passa in secondo piano.
Non è certo un essere superiore ed infallibile come i sacerdoti degli antichi templi ma deve
sopperire alla sua fallibilità con il massimo dell’impegno e della diligenza in modo da
commettere solo errori di lieve entità. Deve, inoltre, essere filosofo ma non al punto da farsi
distogliere dalla vera scienza che è quella che si appoggia su solide basi pratiche. Il suo abito,
infine, deve essere decoroso ed il suo aspetto denotare salute.
Il dogmatismo post-ippocratico da una parte riconosce la validità delle teorie e del pensiero
di Ippocrate e dall’altra è, invece, il ritorno a una concezione di sacralità nella medicina anche
se l’elemento divino è sostituito da quello umano. La scuola dogmatica, che vide come
maggiori esponenti Diocle di Caristo (grande studioso di anatomia) e Prassagora di Coo
(famoso per i suoi studi di semeiotica), ebbe tuttavia il
merito di riconoscere il valore di un nuovo sintomo
fino ad allora tenuto in scarsa considerazione: l’esa-
me del polso. Tra i dogmatici va ricordato anche il
filosofo Platone che in due delle sue opere, Timeo
e Simposio, traccia una visione d’insieme sul
livello della medicina a quei tempi.
Nel VI secolo a.C. visse Diagora che fu il primo a praticare ed insegnare l’estrazione
dell’oppio mediante incisione del papavero.
Alla fine del V secolo a.C. risale il De antiqua Medicina del Corpus Hippocraticum,
considerato il più antico testo di storia della medicina.
È del IV secolo a.C. l’opera di Menone sulla Storia della Medicina inserita dal suo
maestro Aristotele nel grandioso progetto di un’Enciclopedia di tutto lo scibile umano;
brandelli di tale opera ci sono arrivati in un papiro, pubblicati nel III volume del
Supplementum aristotelicum col titolo Anonymi Londiniensis iatrica.
I contatti tra la cultura greca ionica e quella egizia risalgono alla XXVI dinastia
fondata dal Faraone Psammetico I (tra il VII ed il VI secolo a.C.) con capitale a Sais: in
quel periodo gli Egizi si trovarono in continuo stretto contatto con mercanti ed armatori
greci. Come in Egitto anche in Grecia vi era la “incubazione” praticata nel
V secolo a.C. nei templi di Asclepio, Dio spesso associato all’egizio
Imothep.
Lo stesso stile del Corpus Ippocraticum è caratteristicamente egizio:
concetti dello scorrimento di umori in determinati canali verso organi o viceversa
verso l’esterno, di “pletora” (“pienezza”), di congestione e putrefazio-
ne/trasformazione patologica, sono comuni sia nella teoria generale medica
egizia sia in quella greca e successive; le basi della stessa Dottrina Umorale si
fondano su questi concetti.
Dopo l’era della clinica rappresentata dalla scuola di Ippocrate, si apre quella
caratterizzata dall’esperimento biologico: iniziano studi sistematici su sezioni
anatomiche e comincia la pratica della vivisezione su animali.
Il filosofo Aristotele, definito da molti come il fondatore dell’anatomia comparata, fu tra i
primi ad intraprendere questo genere di studi fondendo scienza e filosofia in ragionamenti
basati sui suoi famosi sillogismi: studiò a fondo l’anatomia con particolare attenzione per il
sistema nervoso e per il cuore.
Alessandria, fondata nel 332 a.C., fu indubbiamente
il
più importante centro culturale del IV sec. a. C., e
la
medicina, come tutte le altre scienze e discipline,
raggiunse un elevato grado di specializzazione:
partendo dalla dottrina di Ippocrate si approfondirono
gli studi sull’anatomia e sulla fisiologia anche
attraver-
so vivisezioni per conoscere meglio la struttura e la
funzione degli organi dando così il primo impulso
all’anatomia patologica.
Erasistrato fu uno dei più famosi esponenti di questa
scuola: mise per primo in dubbio la teoria umorale e ipotizzò che la causa delle malattie fosse
da ricercarsi in un’alterazione dei vasi o dei tessuti; dette particolare valore all’esame del
polso e fu inoltre assai rinomato per l’accuratezza delle diagnosi; scoprì per primo i vasa
vasorum, studiò le valvole atriali e vasali, la vena e l’arteria polmonare, il fegato (notò la
correlazione esistente tra cirrosi epatica ed ascite).
Altro caposcuola fu Erofilo, famoso come ginecologo e ostetrico, che si distinse per le
precise descrizioni del cervello, dell’occhio e del nervo ottico.
Nella sua De Historia Plantarum, stampata in epoca rinascimentale, fa un lungo elenco
di vegetali utili per la terapia e considerando l’organo del gusto il più importante per il
loro riconoscimento, si occupa diffusamente dell’azione medicamentosa dei vegetali.
L’opera è un dettagliato elenco di 500 piante con particolare riguardo a quelle medicinali,
riconoscendo ad ognuna di esse un proprio carattere mediante osservazione, confronto
analogico, ricerca anatomica e impiego del linguaggio. Ma l’identificazione delle specie
citate, mancando una vera e propria descrizione perché è presupposta la loro conoscenza,
riesce spesso impossibile.
Intorno al 310 a.C. si può collocare la fine della scuola dogmatica, ovvero quando la
filosofia stoica vi si infiltrò alterandone i principi e mutandone
la fisionomia: la dialettica e la speculazione astratta sostituirono,
infatti, l’osservazione dei reali fenomeni patologici.
Nel 284 a.C. fu messa in piedi da Tolomeo Soter, poco prima
della sua morte, l’impressionante biblioteca di Alessandria
d’Egitto, la più celebre dell’antichità che doveva contenere tutti
i libri del mondo e dove si conservarono gli scritti ippocratici e
di varie scuole mediche greche.
Tra il 270 e il 220 a.C., grazie all’iniziativa di Filino di Coo e
Serapione di Alessandria all’interno della stessa scuola ales-
sandrina si sviluppò la Scuola empirica come risposta sia allo
sterile dogmatismo in cui erano caduti molti dei successori di
Erasistrato ed Erofilo, sia all’eccessivo indirizzo sperimentale
che aveva fatto almeno in parte trascurare l’attuazione pratica
della medicina: gli empirici ponevano, infatti, le cognizioni frutto della loro diretta
esperienza in contrapposizionea quelle acquisite da altri. L’esperienza si basava
essenzialmente su tre punti: l’autopsia (cioè la diretta osservazione), l’historicon (la
storia delle osservazioni proprie e altrui), l’analogia (il confronto). Gli esponenti di questa
scuola si distinsero nella chirurgia (soprattutto cura di lussazioni e fratture, cataratta e
calcoli), nel trattamento delle ferite e nella tecnica delle fasciature, anche se tralasciarono
completamente lo studio dell’anatomia e della fisiologia poichè le ritenevano di
secondaria
importanza rispetto al problema del malato. Persero quindi di vista il concetto di malattia
come espressione di un generale malessere dell’organismo, considerando solo la
particolarità e la localizzazione della singola patologia.
In Grecia il venditore di medicamenti era il pharmakopolos mentre il preparatore di
medicamenti era il pharmakopoeos; il preparatore di unguenti era il myropoeos o il
myrepsos, il venditore di spezie era l’aromatopolo, il venditore di misture era il
migmatopolos, il venditore di di mirra era il muropolos.
La maggior parte dei medici apparteneva al gruppo sociale basso ed un
numero esiguo si avvicinava alle sfere sociali elevate godendo del
rispetto dell’élite sociale ed intellettuale greca. Ippocrate apparte-
neva a quest’ultima minoranza.
La società greca considerava il lavoro manuale di gran lunga
inferiore a quello intellettuale.
A Roma i preparatori e venditori di medicamenti, droghe e cosmetici erano i pharmacopoli e i
pharmacopoei, i venditori itineranti di medicamenti erano i pharmacopoli circumforanei mentre i
venditori stabili in luogo fisso erano i sellularii, i preparatori di medicamenti erano i
medicamentarii, i preparatori di unguenti erano gli unguentarii, i venditori di spezie erano gli
aromatarii, i trituratori di droghe erano i pharmacotribae o pharmacotriatae, i preparatori di
cosmetici erano i pigmentari, i venditori di erbe erano gli herbarii.
In componenti etrusche sembra affondino le radici della natura professionale ed associativa degli
Speziali dell’Antica Roma.
Nel mondo romano arcaico la medicina non era praticata se non dal “pater familias” che
applicava semplici rimedi tradizionali; energiche invettive provennero dai repubblicani
tradizionalisti, appartenenti prevalentemente all’aristocrazia senatoria, contro i “medici greci”,
capaci solo di truffare i “sani” e onesti cittadini romani.
Nei primi seicento anni di vita della città di Roma, si sviluppa il periodo della medicina
autoctona, di antica origine italica, in cui più che di medici veri e propri si può parlare di
persone (curatores) in grado di prestare occasionalmente una sorta di servizio sanitario in
condizioni di straordinaria emergenza come ad esempio guerre o pestilenze. Due sono le
espressioni della medicina in questa fase: quella empirica e quella sacerdotale. La prima si basa
su nozioni desunte dall’esperienza (erbe medicamentose, infusi, decotti, ecc.) unite a elementi di
magia ed ha come massimo esponente Catone il censore (234 a.C.-149 a.C.) che, pur non
essendo medico, era famoso per la conoscenza di parecchi medicinali e per la pratica con
apparecchi per ridurre lussazioni e fratture. La seconda è testimoniata dalla presenza di una serie
di divinità, ognuna delle quali proteggeva una parte del corpo o era preposta a singoli aspetti
(patologici e non) della vita fisiologica.
Vi è, poi, la fase medica di transizione, caratterizzata dalla coesistenza dell’elemento autoctono
e di quello greco che andava infiltrando il mondo romano con l’arrivo a Roma di parecchi
medici greci, molti dei quali erano per la verità di scarsa abilità tecnica e di dubbia moralità: si
occupavano, infatti, principalmente di esecuzione di aborti, della produzione e della vendita di
filtri amorosi. Erano quasi tutti schiavi o liberti, per cui inizialmente non godevano di grande
prestigio. Con Arcagato, arrivato dal Peloponneso intorno al 219 a.C., inizia invece la pubblica
professione medica esercitata in luoghi a metà strada tra ambulatori, farmacie e scuole detti
tabernae medicinae che ricordavano molto da vicino gli jatreia greci descritti da Ippocrate.
Tra la fine del II ed il I secolo a.C. si sviluppa la conquista romana dell’Oriente Ellenistico,
evento profondamente traumatico che fu causa di perdite di sapere enormi e, talvolta, irreparabili.
Dall’antidoto usato da re del Ponto, in Asia Minore, Mitridate VI detto il “Grande” (120-63
a.C.), sconfitto da Pompeo presso l’Eufrate, deriva la formula del rimedio universale per
eccellenza: la teriaca.
Nel 91 a.C. Silla emana la Lex Comelia de sicariis et veneficiis diretta a reprimere lo
straordinario traffico di tutta una serie di “venena stuporem facientia” che richiamano
etimologicamente il vocabolo stupefacente.
Risale al I secolo a.C. l’opera di Crateva dedicata al re del Ponto Mitridate VI Eupatore (120-63
a.C.) denominata Rhizotomaticon (andata perduta) caratterizzata da belle raffigurazioni a colori
di piante in splendido realismo d’arte ellenistica e considerata il primo erbario figurato di cui
siamo a conoscenza grazie alla nota di Ippocrate Epistola ad Cratevam in cui l’autore loda
molto quest’ultimo definendolo un eccellente botanico.
L’erbario figurato, grande invenzione dell’antichità, è un testo di farmacologia botanica in cui
sono descritte le erbe medicamentose, osservate dal vero nella ricchezza delle loro forme e dei
loro colori, e le loro proprietà terapeutiche.
In epoca romana molte indicazioni di erbe salutari ci derivano anche dalla mitologia e dallo
intervento benefico degli Dei: Apollo, è il conoscitore per eccellenza di tutte le erbe ed i
rimedi, come ci attesta Ovidio (Metamorfosi, L.I., v. 32): Inventum Medicina meum est,
opiferque per orbem Dicor, et herbarum subiecta potentia nobis. (La Medicina è mia
invenzione e sono stimato porgitore d’aiuto per tutta la terra e sottoposta a noi è la virtù delle
erbe...).
Minerva, che ha fatto conoscere l’uso della camomilla (Matricaria chamomilla L.), dal greco
Kamai (piccola, umile) e dal latino matrix (matrice), a significare alcune proprietà elettive
sull’utero.
Mercurio che introduce l’uso della mercorella (Mercurialis annua L.), comunissima erba
nelle nostre zone detta anche “merda del diavolo” per la sua diffusione infestante, spesso
usata per arrestare la secrezione lattea.
Cerere che corre per i campi alla ricerca
della diletta figliuola Proserpina e si cinge
il capo con fiori che le conciliano il sonno.
I bei fiori sono quelli del papavero
(Papaver album L.) dalle cui capsule im-
mature, per tagli trasversali, si estrae il
lattice che imbrunendo all’aria, darà luo-
go ai noti “pani d’oppio”, da cui la me-
dicina ha tratto tanti vantaggi.
A Venere, infine, è legata l’origine dei
profumi: con una goccia del suo sangue
e con un bacio del figlio diede alla rosa,
fiore per eccellenza, la sua bellezza varia
e splendente e soprattutto il suo profumo.
I Romani furono maestri nel preparare i profumi traendo esempio ed ammaestramenti da terre
lontane dalle quali riportavano numerose droghe. E’ famosa, ad esempio, la classica scena nella
Casa dei Vetti a Pompei degli amorini profumieri distillatori.
Si ha notizia, ad opera di Plutarco, che nel mondo romano esistevano “collegia opificum”, cioè
organismi corporativi interessanti manodopera specializzata in vari settori, già ai tempi della
monarchia. Il fenomeno corporativo, al pari di ogni altro, subì in Roma alterne vicende, al variare
delle componenti storiche, dato lo stretto rapporto del fenomeno stesso con la libertà di iniziativa,
la struttura sociale e lo sviluppo dei commerci.
Le Corporazioni, inoltre, erano dotate anche di significativi elementi di sacralità essendo
governate e protette da insigni Dei (Minerva, Ercole, Mercu-
rio, per esempio) mentre ogni mestiere ed ogni applicazione
tecnica erano caratterizzati da forti elementi iniziatici. La
struttura della Corporazione degli Speziali Romani si svi-
luppò e si diffuse nel periodo della Repubblica sotto il vigi-
le occhio dello Stato. Verso la fine dello stesso periodo sto-
rico, l’ampliarsi dell’impero territoriale di Roma portò a
squilibri interni che sfociarono in antagonismi e sanguinose
agitazioni; le Corporazioni, inserite ormai con impegno nel-
la lotta tra le opposte fazioni politiche, furono sciolte per la
quasi totalità ad opera di Cicerone con un Senatoconsulto
nel 64 a.C.
Le Corporazioni furono ricostituite nel 58 a.C. dal Tribuno
Clodio con la “Lex de collegiis restituendis novisque
instituendis” e furono, poi, sottoposte prima da Cesare e successivamente da Ottaviano a severe
opere di revisione e di riforma istituzionale nonché di attento controllo statale.
I romani, sin dai tempi della Repubblica, erano guidati da leggi precise d’igiene; sotto Nerone fu
organizzata la classe dei sanitari, con l’istituzione dei medici primari e dei medici secondari. I
medici primari od archiatri si distinguevano in archiatri palatini o medici di palazzo, ed in
archiatri populares o medici comunali (urbani); i secondi, eletti dalla cittadinanza in numero
proporzionato alla popolazione, venivano esaminati dal collegio degli archiatri ed erano tenuti a
visitare i poveri infermi della città dalla quale erano pagati con adeguato stipendio.
Durante l’impero di Antonino Pio gli archiatri populares erano dieci nelle città di primo rango,
sette in quelle di secondo e cinque in quelle di terzo.
Tutti i medici erano anche contemporaneamente farmacisti in quanto preparavano essi stessi i
medicamenti da impiegare. Solo tardivamente, quando i preparati di-
vennero più complessi, furono aperte in Roma delle speciali tabernae
adibite appunto alla produzione ed al confezionamento dei medica-
menti. Alcune erano più propriamente delle erboristerie (herbaria),
addirittura con venditori specialisti di radici (rhizomatoi).
Le tabernae erano veri e propri laboratori per la preparazione di far-
maci composti (ma anche di profumi) ed i farmacisti operanti usava-
no vasi, mortai, bicchieri, ampolle e fiale di vetro, bilance ed unità
di misura.
Il farmacista, a questo punto, era una figura professionale ben distinta
e definita genericamente pharmacopola, la farmacia era denominata
pharmacopolio ed i farmaci erano aggettivati col nome di pharma-
ceutici.
Plauto nelle sue commedie chiama il farmacista anche myrapola e myrapolium la farmacia.
Plinio, invece, usa il termine di seplasia e di seplasarii per i farmacisti. Seplasium ha il
significato di rimedio (a Capua c’è una piazza Seplasia riferita al luogo dove si svolgeva un
tempo il mercato delle droghe).
I farmacisti specializzati in unguenti erano detti unguentarii, i mercanti di profumi aromatarii, i
commercianti di colori e profumi pigmentarii e, infine, i commercianti di incenso erano i thurarii
e di droghe i myrobecharii.
La scatola o il cofanetto dei medicamenti che il medico
portava con sé nelle visite domiciliari era il loculus od
il narthecium.
Anche i Romani attingevano i medicamenti dai regni
minerale, vegetale ed animale. Fra i minerali, ad
esempio, si prescrivevano: verderame (aerugo), come
lassativo e caustico-cicatrizzante; allume, come emo-
statico ed astringente; solfato di rame (atramentum
sutorium), come emostatico, astringente e contro le ul-
cere torpide; bitume, per maturare gli ascessi e come
depurativo; ossido di zinco (cadmia), come corrosivo;
carbonato basico di piombo (cerussa), come empiastro
per curare i morsi e le piaghe, come lenitivo; argilla
(creta figularis), come emostatico; salnitro e/o nitrato di
potassio (nitrum), come corrosivo ed emolliente; pietra
pomice (plumex), come purgante, assorbente, espulsivo;
cloruro di sodio (sal), come corrosivo e risolvente, e
molti altri minerali ancora utili, altri meno (o addirittura inutili e pericolosi).
Tra i medicamenti di provenienza animale, si possono citare: il grasso (adeps o sebum), la
ragnatela (aranea), la vipera (si usava nella teriaca), la cantaride, il castoreo, la cera d’api, le
lumache (coclea), il corallo, la colla di pesce (ichtyocolla), il midollo, il miele, il grasso di lana,
le uova, lo sterco (!), le spugne. Largo uso era fatto di piante medicinali, tanto da poter
considerare prevalente questo riferimento terapeutico.
Galeno, ma anche altri grandi medici di Roma antica, come Celso, Catone, Scribonio Largo,
Plinio e Dioscoride (quest’ultimo era greco ma lavorò anche a Roma) complessivamente citano
almeno 600 diverse droghe vegetali medicinali. Le forme farmaceutiche più in uso erano: infusi,
macerazioni, decotti, succhi, polveri, pillole (catapotia), pasticche (pastilla), unguenti, empiastri,
cataplasmi, colliri, tamponi vaginali e tutta una serie di medicamenti composti (mixturae), tra cui
famosi l’Antidoto di Mitridate (54 sostanze) e la Teriaca (oltre 500 ingredienti). Galeno
sosteneva che i medici di allora dovevano ben conoscere le piante medicinali ed apprezzarne
meglio il loro valore per usarle con la massima perizia.
Nell’antica Roma, il medico dell’Imperatore Nerone, Andromaco il Vecchio, apportò un
raffinato perfezionamento alla Teriaca aggiungendovi la carne di vipera.
Questo potente contravveleno e specialità più famosa dell’antichità era ottenuta cuocendo la
carne di vipera femmina depurata dalle scorie fino a renderla sfatta e miscelandola, poi, nel
mortaio con oppio, scilla (cardiotonico) e molti altri ingredienti e polvere di pan secco
raggiungendo una consistenza adatta a farne pasta per compresse, ovvero i famosi trosici di
vipera. Negli anni a venire la Teriaca si arricchisce di portentose quanto fantasiose virtù e di
inusuali mescolanze; tuttavia, mentre qualche semplice poteva essere sostituito per necessità,
l’oppio doveva essere necessariamente quello di Tebe, di gran lunga più puro di quello turco, e la
vipera doveva essere catturata in modo e tempi rigorosi.
Il periodo delle scuole, che consiste nel definitivo trapianto della medicina greca nel mondo
romano, è il momento di maggiore splendore della medicina a Roma
coincidente
con l’età imperiale. Sotto l’influenza delle varie scuole, che
tuttavia degeneravano spesso in vere e proprie sette in
aperta contraddizione tra loro, comincia a
prendere
forma un pensiero medico vero e proprio.
Questo periodo abbraccia tre fasi ben distinte che
hanno
come punto di riferimento la figura di Galeno: la
fase
pre-galenica, quella galenica e quella post-ga-
lenica.
La scuola metodica prese questo nome perchè
si proponeva di razionalizzare e semplificare
la propria dottrina per renderla accessibile an-
che alle menti meno brillanti.
L’effetto che ottenne fu, invece, quello di togliere
scientificità alla medicina e di avvilirne il signi-
ficato.
Ebbe come ispiratore Asclepiade di Bitinia
(50 a.C. circa) il cui pensiero si basava sul
fatto che la materia fosse composta da
invece, dall’eccessiva larghezza o strettezza degli stessi (status laxus che provocava pallore,
flaccidità e astenia e status strictus che era caratterizzato da rossori, calori e sete ardente).
Negava, inoltre, il principio ippocratico della natura guaritrice che non poteva in alcun modo
restringere o allargare i pori causa di malattia. Abbandonando, poi, la teoria umorale ridusse
anche l’uso dei medicinali incentrando il suo modello di terapia su massaggi, idroterapia,
passeggiate e musica. A questa scuola non mancarono, comunque, validi esponenti come Sorano
d’Efeso e Celio Aureliano che andarono oltre la concezione degli atomi e dei pori occupandosi
di patologia, di clinica, di terapia e di igiene.
Nel 48 a.C. un incendio casuale propagatosi dall’arsenale durante l’occupazione di Giulio
Cesare colpì la biblioteca di Alessandria d’Egitto.
La scuola pneumatica rappresentò una reazione a quella metodica e il ritorno ad alcuni principi
cari ad Ippocrate. Deve il suo nome al fatto che individuava il pneuma, cioè il
respiro
come base dell’economia vitale dell’organismo anche se riteneva molto impor-
tante l’equilibrio degli umori sia per la costituzione fisica che per
il
temperamento. Fu fon- data intorno al 50 d.C. da Ateneo di
At-
taleia, famoso per i suoi studi di semeiotica e sul polso, che
con
siderava indice dello stato del pneuma nelle arterie.
La scuola eclettica (dal 90 d.C.) tolse al sistema
me
todico la sua parte più ipotetica e assoluta
l’accuratezza di alcune descrizioni anatomiche e di vari quadri patologici.
L’enciclopedismo consisteva nella trattazione di argomenti o tematiche di qualsiasi genere. La
medicina, essendo un settore ancora relativamente inesplorato, attirò molti tra i più famosi
scrittori romani tra cui Cicerone, Vitruvio, Marco Terenzio Varrone, Lucrezio, Plinio il
Vecchio, Gellio e Seneca che, pur non essendo medici, se ne occuparono comunque in maniera
abbastanza approfondita.
Durante il periodo di Diocleziano, inoltre, si ha traccia di determinazioni di tariffari dei
medicamenti.
Nel I secolo d.C., poi, fu Dioscoride Pedacio Anarzabeo, considerato il più grande
farmacognosta dell’antichità (medico militare nelle legioni guidate dal proconsole Lucilio Basso
durante la seconda guerra giudaica, intorno al 60 d.C., alla fine del
potere dell’imperatore Nerone (50-68 d.C.) ed esperto di sostanze
grazie alla possibilità di entrare in contatto con le vie carovaniere che
giungevano al Mediterraneo dagli empori orientali) con il suo De
Materia Medica a dare un sistema alle più arcaiche e mitiche forme
del sapere: mentre in Teofrasto l’identificazione della specie è spesso
impossibile per l’assenza della descrizione, con Dioscoride (e le
edizioni critiche successive) si può stendere un elenco di oltre 500
vegetali. Esso reca ad ogni foglio, quasi sempre al verso, una grande
immagine di pianta medicinale rappresentata con un realismo che,
sostanzialmente ormai estraneo al gusto dell’arte bizantina, chiaramente
deriva da quello di un precedente modello condotto ad evidenza sulla
base della diretta osservazione del reale. Al recto del foglio si ha invece
la descrizione della pianta e delle sue virtù terapeutiche.
Dello stesso secolo è anche Scribonio la cui opera “Compositiones Medicamentorum” registra
ben 242 medicamenti vegetali, 36 minerali e 27 animali ma pur sempre non può essere
considerata una farmacopea.
Successivamente, nel II secolo d.C., Galeno, nato a Pergamo e appartenente alla maggiore
Scuola greca, l’Ippocratica-Umorale, dai forti legami con la ormai degradata scienza ellenistica,
fu il riformatore e teorizzatore della medicina creando un sistema destinato a durare per 15 secoli
senza significative contestazioni.
Si battè con decisione contro l’imperversare delle scuole che, in ultima analisi, stavano portando
la medicina verso un periodo di decadenza ergendosi ad arbitro di tutto lo scibile medico: tentò di
separare il vero dal falso, indipendentemente dalla fonte di provenienza, riunificando i vari
sistemi di studio con la raccolta di tutto il materiale a sua disposizione, esaminandolo e
vagliandolo a fondo e cercando di perfezionare il metodo sperimentale che stava alla base del suo
pensiero. Dal momento che dette anche particolare valore alla clinica ed alla patologia, si può
certamente dire che fu l’artefice della più completa forma di medicina
mai concepita fino a quel momento.
In anatomia non si limitò a sterili descrizioni morfologiche: cercò di capi-
re la funzione e la finalità di ogni singola parte dell’organismo, anche se
sezionò più che altro corpi di animali (principalmente maiali, cani e scim-
mie). La parti più minuziosamente trattate sono osteologia e neurologia.
In fisiologia quasi ogni studio fu suffragato dalla parte sperimentale:
scoprì la differenza tra nervi motori e sensitivi, distinse le lesioni degli
emisferi cerebrali da quelle del cervelletto, valutò la funzione escretrice
dei reni, la circolazione fetale e si occupò particolarmente degli organi di
senso. Si soffermò, inoltre, a lungo sulla funzione circolatoria che,
nonostante grossolani errori, avrebbe formato un caposaldo della fisiologia medioevale fino al
rinascimento. I suoi punti fermi erano i seguenti: il fegato è il centro del sangue venoso e il cuore
di quello arterioso; il cuore destro e quello sinistro comunicano tra loro; il sangue si esaurisce
negli organi; le vene polmonari portano sangue sporco ai polmoni e lo riportano purificato al
cuore. In clinica fu assai minuzioso: grazie alla diretta osservazione del malato, alla profonda
conoscenza dell’anatomia ed all’esperienza accumulata durante i suoi studi di fisiologia era in
grado di spiegare fatti e fenomeni che sfuggivano ai medici della sua epoca. Degna di essere
ricordata è la diagnosi differenziale tra emottisi, ematemesi e sputo sanguigno da epistassi;
descrisse inoltre vari tipi di febbre, i sintomi dell’infiammazione e sottolineò l’importanza
dell’esame delle urine e della valutazione del polso di cui distinse non meno di 40 varietà.
Galeno fu poi il primo vero esperto di medicina legale: si occupò di morti vere ed apparenti,
iniziò la pratica della docimasia idrostatica polmonare per constatare, in caso di sospetto
infanticidio, se il feto avesse o no respirato, e delle simulazioni delle malattie.
In terapia partì dal concetto ippocratico della forza medicatrice della natura basandosi sulla
regola del contraria contrariis.
Ogni medicamento doveva poi essere di provata efficacia e pre-
scritto per una ragione plausibile; conosceva quasi 500 sostanze
semplici di origine vegetale e una vasta gamma di origine ani-
male e minerale.
Praticamente Galeno fu la fonte massima dell’arte medica e far-
maceutica oltre che il fondatore stesso dell’arte farmaceutica
dell’antico Occidente civile e, in un certo senso, egli rappresen-
tò la sintesi di vari punti di vista mentre è molto probabile che
nel suo sistema si integrassero anche dati e informazioni clini-
che e farmaceutiche di origine etrusca e persino egizia e mesopotamica.
Egli abbandonò gli elementi mitici e ricorse ai principi sperimentali quali basi delle sue ricerche,
precorrendo il metodo della scienza moderna, in particolare nel campo della fisiologia. La sua
opera, originariamente scritta in greco, venne tradotta in arabo e in latino giungendo in buona
copia alla stamperia veneziana dei Giunta nel 1541. E’ suddivisa in sette tomi (anatomia,
fisiologia, patologia e clinica, chirurgia e terapia). Il “De simplicium medicamentorum
temperamentis et facultatibus”, manuale per le preparazioni di rimedi facili (una sorta di
manuale “tascabile” da portare in viaggio, una specie di “breviario” del medico pratico
itinerante)
contiene 475 specie vegetali, frutto del suo peregrinare alla ricerca delle fonti dei medicamenti,
come la terra lemnia nell’isola omonima e il bitume giudaico in Palestina.
La sua teoria parte dagli assiomi ippocratici e dalla filosofia aristotelica:
i quattro elementi costitutivi dei corpi non sono primari ma generati
dalle quattro qualità principali tra loro variamente combinate (Dottrina
delle Qualità: tutto è classificato in Caldo, Freddo, Secco, Umido).
Fredda e secca è la Terra, fredda e umida è l’Acqua, calda e umida è
l’Aria, caldo e secco è il Fuoco. Con tali criteri sono anche classificate
tutte le altre sostanze e gli stati chimici: l’Aceto, ad esempio, è una delle
sostanze considerate più Fredde; l’acidità è connessa con il Freddo al
grado maggiore; tuttavia, essendo l’acido acetico volatile, si considerava
l’Aceto Freddo (e Secco), ma “Leggero”. Le “cose di Terra” (cioè quelle
propriamente Freddo-Secche) sono anche “Pesanti”, dense e poco volatili:
in definitiva,l’Aceto rappresenta un singolare paradosso della scienza
antica. Dalla mescolanza degli elementi hanno origine nel corpo umano
dalla terra più il fuoco la bile gialla, dall’acqua più l’aria la pituita, dall’acqua più il fuoco il
sangue.
Il prevalere di un umore sugli altri fa parte della caratteristica di ogni uomo ma, quando per cause
sconosciute si altera il primitivo equilibrio, subentra lo stato morboso. I Quattro Temperamenti
sono: i Biliosi (Caldi e Secchi), i Malinconici (Freddi e Secchi), i Sanguigni ed i Flemmatici (che
sono protetti dall’Umidità).
Sempre secondo l’ippocratismo tradizionale, poi, si applicava la Tecnica di Compensazione per il
ripristino dell’equilibrio organico.
Altra opera di Galeno è la Perì aireseontois eisagomenois (Sulle scuole di medicina), in cui si
considera l’influenza delle tre principali Scuole Mediche: la Dogmatica, l’Empirica e la
Metodica.
Galeno, inoltre, insegnò a comporre la teriaca, il potente contravveleno inventato da
Andromaco. Con la morte di Galeno si ha la chiusura del periodo aureo della me-
dicina romana. Nel periodo della medicina post-galenica, ad ogni mo-
do, iniziò la tendenza allo sconfinamento del conoscibile nel campo
dell’inconoscibile, caratteristica peculiare della medicina nel medioevo.
Da ricordare Leonida di Alessandria (studiò la filaria e fu esperto
negli interventi su ernia e gozzo), il famoso chirurgo Filagrio e negli
suo fratello Poseidonio (si occupò delle malattie del cervello descri-
vendo molto accuratamente i deliri acuti, gli stati comatosi, quelli
catalettici, l’epilessia e la rabbia).
In tale periodo è già presente la figura del medico itinerante. Tali me-
dici erano differenziati in “ranghi” di competenza ed onestà; i massimi
luminari itineranti viaggiavano sia tra le varie corti dei potenti sia tra
i vari centri accademici, esercitando a clinica o l’insegnamento o ambedue, a seconda delle
richieste; esisteva, poi, la massa dei medici meno noti, meno abili o semplicemente meno
intraprendenti, fino ai ciarlatani e ai truffatori.
È opportuno evidenziare che i medici itineranti appartenenti alle Scuole di origine greca,
differentemente dai medici itineranti etruschi, scrivendo e tenendo pubbliche lezioni, non fecero
perdere le loro tracce e passarono, dunque, alla storia.
Plinio, Dioscoride, Galeno e numerosi altri autori antichi confidarono molto anche nella Dottrina
della Signatura, credenza che la natura indicasse con segni esteriori i mezzi di salute che poneva
a disposizione: colore, forma del vegetale o del minerale, somiglianza morfologica degli organi
animali. Nel corso dei secoli successivi la Dottrina della Signatura non solo resistette all’usura
del tempo ma si evolse più che per i puramente casuali risultati positivi soprattutto per talune
scarse conoscenze mediche particolarmente in ambito farmacologico.
Il colore fu il segno indicativo di più facile selezione: già i cinesi che
traevano indicazioni d’uso dall’aspetto esterno o dalla somiglianza con
le parti del corpo, non tardarono ad indicare il giallo rabarbaro nella cura
dell’itterizia e su tale esempio si aggiunsero nel tempo lo zafferano, la
chelidonia, la curcuma, ecc.
Foglie e steli macchiati di rosso o di bruno indicavano che il vegetale era
utile nelle emorragie od utile nelle malattie del sangue. Così le rosse ra-
dici di tormentilla, i petali delle rose rosse, il sandalo rosso, il sangue di
drago.
La macchia della corolla dell’Eufrasia la indicò per le malattie oculari,
mentre la corteccia tutta macchiettata della Betulla suggeriva l’uso per le
lentiggini. Il Quercetano afferma utile l’Echio vulgare con le macchie
che ricordano la pelle dei serpenti contro le loro morsicature, convinzione confermata anche dal
Cardano ma su un altro segno: l’aspetto del seme che rassomiglia alla testa dei rettili.
Dioscoride scopre la stessa virtù nella Serpentaria maggiore e minore dal gambo macchiato; la
Pulmonaria è una delle tante specie botaniche il cui aspetto suggerì l’uso ed il nome.
Pure la forma della droga contribuiva molto ad indicare le proprietà terapeutiche: l’Anacardio
orientale cuoriforme era ritenuto cordiale, il Politrico che sembra un ciuffo di capelli era utile
per l’alopecia. La Noce era interpretata quale indicazione per le malattie del capo: il guscio
infatti ricorda il cranio, il seme interno il cervello, ricoperto da pellicole come il cervello dalle
meningi. L’Alchechengi, il cui frutto ha l’aspetto di una vescica con all’interno la bacca rotonda
giovava nelle calcolosi.
Anche i metalli, le pietre preziose e comuni, furono soggetti alla Signatura: poiché la divinità ha
segnato indelebilmente i farmaci al fine di poterli conoscere ed usare. La pietra galattite è bianca,
dunque galattofora, il cristallo simile all’acqua, tenuto in bocca negli accessi febbrili, spegnerà la
sete.
Per quanto si riferisce al farmaco tratto dal regno animale, la
segnatura rappresenta gli albori dell’organo-terapia, sia se rivolta
agli animali in toto che a loro parti (il cervello di maiale nella
perdita di memoria, i lombrichi seccati e polverizzati per espellere
i vermi intestinali), sia a parti dell’uomo (la raschiatura di ossa di
cranio per l’epilessia, la polvere di cuore essiccato nelle malattie
cardiache, il distillato di capelli per l’alopecia).
Nel III secolo d.C. fu utilizzato per la prima volta da Diogene Di
Laerte il termine di farmacopea nel suo significato più ampio di
“arte di preparare le medicine”.
Fino al IIl secolo d.C. nel benessere economico e nella stabilità istituzionale e amministrativa
che si erano creati nell’Impero successivamente a Cesare, i cui tentativi di ristabilizzazione erano
stati inficiati da una eccessiva tendenza all’assolutismo monarchico, le Corporazioni mantennero,
nonostante i controlli, la configurazione di persone giuridiche private. È un periodo di particolare
favore che si conclude proprio nel III secolo d.C. sotto la spinta dei fattori denuncianti la
progressiva decadenza dell’Impero: l’accentuarsi del dispotico potere dell’Imperatore sul Senato
e sul popolo, l’inasprimento fiscale, il regresso della classe media, la crisi agraria, la depressione
demografica. Tali fattori non potevano non influire sulle Corporazioni che, a causa della carenza
di mano d’opera in diverse attività, furono trasformate da associazioni volontarie in associazioni
obbligatorie, nel senso che l’appartenenza ad esse diventava coattiva, e lo era anche per i
discendenti, in dipendenza dell’esercizio di un determinato mestiere.
In tal modo lo Stato garantiva funzioni e servizi che di per sé non era più in grado di assicurare.
Tale situazione alle soglie delle invasioni barbariche che sconvolsero ogni assetto economico,
istituzionale e sociale, preparava il passaggio dall’era romana a quella medioevale, caratterizzata
dalla travagliata fusione dell’elemento romano con quello germanico.
Al 301 d.C. risalgono gli editti di Diocleziano, il primo intervento
noto dell’Autorità nella determinazione del prezzo del medica-
mento.
Nel 391 d.C. per ordine del vescovo Teofilo fu appiccato un in-
cendio alla biblioteca di Alessandria d’Egitto ritenuta “luogo
pagano”.
Giungendo al 470 d.C. rinveniamo Cassiodoro (ministro degli
Ostrogoti con il re Teodorico e fondatore nel 540 di uno xeno-
dochio in Calabria) che nella sua opera “Istituzioni Divine”
raccomandava insistentemente d’istruirsi nell’arte della preparazione dei medicinali:
“Apprendete a distinguere ogni pianta e a mescolare con cura ogni specie di droga. Se la lingua
non vi è familiare, studiate il libro di Dioscoride in cui si tratta estesamente delle piante
medicinali descritte, peraltro, con meravigliosa esattezza”.
Nel 512 d.C. è realizzata a Costantinopoli, per la principessa bizantina Iuliana Anicia, una
edizione del famoso Dioscoride (oggi conservata a Vienna) da cui ci è stata trasmessa
un’adeguata immagine dell’originaria illustrazione di quest’opera famosa.
Tuttavia, nell’opera vi è un certo collegamento con il mondo degli dei della tradizione omerica
pur non mancando la sperimentazione venuta successivamente.
Lo stesso ordine tenuto nella stesura dei cinque libri e la precedenza data a talune piante non
rientrano nella nostra logica. Nel primo si parla delle specie aromatiche e delle essenze da loro
derivate, come l’iris (dello stesso nome della messaggera degli dei) e l’alloro (simbolo di Apollo,
dio del sole) che infonde calore nei diaforetici e va assunto per via interna. Nel secondo libro
sono gli animali ed i loro derivati a costituire la serie dei rimedi con l’aggiunta di cose “acute e
forti” come senape, cipolla ed aglio. Nel terzo si tratta di molte radici e semi domestici di uso
alimentare, nel quarto di ciò che resta delle erbe e delle radici. Nel quinto libro la vite, il vino e i
metalli introducono un discorso sui veleni, più ampiamente svolto nel sesto libro insieme alle
sostanze in grado di opporvisi (ma dai filologi è ritenuto opera postuma). Si tratta della più
grande opera di farmacologia botanica dell’antichità che fortunatamente è stata tramandata,
attraverso i secoli, in tutta la sua interezza affermandosi ampiamente non solo nel mondo greco
ma anche in quello romano e poi medievale.
Ma la più grande fortuna dell’opera inizia dopo la prima edizione veneziana in lingua greca del
1499; dal 1544, poi, inizia la lunghissima serie dei commentari del Mattioli che illustrerà
graficamente in modo sempre più accurato ogni specie. Tuttavia, il De Materia Medica, pur
contenendo anche indicazioni sull’impiego terapeutico delle droghe allo stato di semplici ed
anche di composti, non può essere considerato una farmacopea.
Dell’opera originaria non è rimasta traccia: ci è stata trasmessa
un’immagine adeguata dell’originaria illustrazione con il famo-
so Dioscoride realizzato nel 512 a Costantinopoli per la prin-
cipessa bizantina Iuliana Anicia e oggi conservato a Vienna.
Dal 529 in poi, con la fondazione del Monastero di Montecassino ad opera di San Benedetto
(480-544), la scienza della medicina e della farmacia greco-romana si rinchiude nell’ambito di
pochi monasteri, (in Calabria a San Giovanni in Fiore, oltralpe a San Gallo ed in altri luoghi)
dove si conservò la tradizione classica. Nei monasteri si copiavano e si studiavano i vecchi testi e
si esercitavano l’arte medica e farmaceutica in un primo momento per necessità di vita.
Questo fu un periodo oscuro per il fenomeno delle Corporazioni degli Speziali, sia pure con
alcune eccezioni: a Roma i Collegi rimasero in vita, anche per iniziativa dello Stato interessato a
conservare il beneficio dei tributi in natura ed in denaro da essi elargiti.
Cassiodoro Senator (480-575), gradito a Teodorico il Grande, fondò nel 537 in Calabria il
monastero di Vivaro dove si sviluppò una scuola medica monastica in cui si tradussero e si
copiarono numerosi autori greco-romani come Ippocrate,
Dioscoride, Galeno. Cassiodoro, inoltre, scrisse un testo enci-
clopedico di storia naturale.
Isidoro di Siviglia (560-636) scrisse l’opera enciclopedica
Etymologiarum Libri XX, compendio in venti tomi sulle co-
noscenze scientifiche ed artistiche del tempo, di cui vari libri
sono dedicati alla medicina, alla storia naturale e alla dietetica.
Intanto, cominciavano a sorgere, in una Europa con ampie
zone avvolte nelle tenebre, importanti organizzazioni sanitarie:
nel meridione della nostra Penisola aveva preso corpo nel
VI secolo una Scuola Salernitana che manteneva un indirizzo
ippocratico con poche influenze magico-astrologiche mentre
più di un secolo dopo nella Renania, dove l’imperatore Carlo
Magno aveva insediato il suo potere esteso a tutto il Continente,
sorgeva un’organizzazione ispirata da Sant’Ildegarda da Bingen.
La Scuola Salernitana, in particolare, rappresentò
una cultura esclusiva radicata in una regione posta al
centro del Mediterraneo e, quindi, aperta ad ogni
scambio tra Oriente e Occidente e rese l’Italia Meridio-
nale l’ambiente ideale per la nascita e il progresso
della farmacia in forma autonoma tanto necessaria alla
specializzazione della farmacologia, da nessun medico
dopo Galeno ritenuta branca fondamentale per la
medicina.
Dopo la fine del mondo classico, per la caduta della
scienza sperimentale in occidente e per la ricerca
di astrazione che caratterizza la cultura medievale,
intesa a sfrondare le cose dei loro accidenti per
rivelarne solo l’essenza, il realismo dell’immagine
botanica negli erbari andò man mano disperdendo-
si a favore di un’immagine più o meno astratta della
della pianta che, in certi casi, divenne così schema-
tica e rigidamente simmetrica nelle sue parti da ri-
sultare irriconoscibile. Si abbandonò completamen-
te l’osservazione dal vero e il reiterato esercizio del
la copia, di manoscritto in manoscritto, e si accen-
tuò il processo di deterioramento dell’immagine che
divenne simbolo, e non ritratto, dell’erba medicinale.
Nel V secolo d.C. si verifica la caduta dell’Impero Romano d’Occidente che fu un altro
grande evento catastrofico, in aree geografiche particolarmente ampie, a livello militare, politico,
sociale,
culturale e, dunque, foriero di ampio degrado della conoscenza e dei sistemi descrittivi del
mondo.
Al tramonto dell’impero romano, in Oriente, dove è vivo il contatto con il mondo bizantino, gli
arabi accolgono quanto vi è di più prezioso nella tradizione classica in campo medico. Essi,
quindi, attraverso il grande impero Arabo, insediato a Baghdad ma irradiato verso il
Mediterraneo, diffondono la sapiente opera e cultura araba in Occidente facendo partecipi i
saggi di Spagna, della Sicilia, della Tunisia, dell’Algeria e del Marocco.
Ciò valse non solo a conservare e tramandare il sapere greco, di cui gli arabi erano i veri eredi,
ma ad arricchirlo considerevolmente impegnati, nel contempo, a perseguire una loro propria
scienza sperimentale arricchendo in particolare le loro cognizioni di farmacologia botanica anche
con la conoscenza e l’uso di piante sconosciute all’antichità, come per esempio gli alberi da
frutto importati dalla Persia, e influenzando anche la cultura dell’esistente realtà conventuale
cristiana: si ampliò la conoscenza sia delle erbe, delle droghe e dei modi opportuni per
combinarle sia degli strumenti di laboratorio e delle tecniche di conservazione dei vari
medicamenti.
In effetti, gli arabi volgarizzarono l’uso dell’alambicco (allora indispensabile per la preparazione
di alcool, alcoolati, essenze e acque aromatiche), degli apparecchi di filtraggio, dei vasi
d’argento e d’oro per la conservazione dei medicamenti più complessi nonché dei vasi di vetro o
porcellana di Cina per la conservazione degli sciroppi; la materia medica vegetale, inoltre, si
arricchisce della cassia, senna, tamarindo, noce vomica, rabarbaro, seme santo, zucchero,
canfora.
Si deve agli alchimisti Arabi, inoltre, il grande sviluppo delle tecniche di distillazione con gli
“alambicchi” che utilizzarono perseguendo l’idea di tentare di estrarre lo “spirito” (il respiro
vitale emesso dal Sole che dà vita alle cose), che si riteneva esercitasse la funzione di legame per
tenere assieme gli elementi terreni e i frutti della terra.
L’alcool distillato dal vino e dalla frutta fu, ad esempio, ritenuto un elisir magico in quanto
medicamento capace di curare dalle infezioni delle ferite ed anche vari altri mali. L’Islam dette
un grande incremento alla civiltà mediterranea e riuscì a integrare sotto un nuovo profilo
concettuale la scienza classica di origine greca con la cultura orientale (dell’India e della Cina).
In particolare ciò avvenne quando l’impero islamico realizzò il suo immenso dominio esteso
dall’India alla Persia al nord-Africa e, poi, alla Sicilia e alla Spagna.
In quell’epoca fu al massimo fulgore la capitale dell’Islam, che si spostò da Damasco (661-750
d.C.) a Bagdad, dove con grande tolleranza culturale il Califfo Harum al-Rashid (786 - 809 a.C.)
detto l’Illuminato, famoso per i riferimenti al suo tempo nel libro “Le Mille ed una Notte”),
iniziò a far convergere le culture dei popoli conquistati per dar sviluppo
alla “Casa della Sapienza” con una grandiosa biblioteca e grande
mecenatismo per i saggi di ogni provenienza culturale e religiosa.
In questo ambito l’alchimia islamica fiorì sviluppando la così
detta “via umida” (detta così a differenza delle “via secca” che
utilizza il fuoco per fondere sostanze omogenee e separarle da
quelle eterogenee).
Le nuove tecniche alchemiche condussero a scoprire molti acidi
ed alcali e nuovi sali nonché liquori medicamentosi utili a rende
re più perfette le attività dell’essere umano. La finalità della
“via umida” fu quella di ricercare l’Elisir di lunga vita, ovvero
“Oro-Liquido” oppure la “Medicina Vera ed Universale” come estremo obbiettivo del
perfezionamento della vita terrena. Avvenimento di enorme importanza per la nascita della
moderna “apoteka” fu, dunque, l’avvento dell’arte della distillazione, praticata soprattutto negli
ambienti delle spezierie monastiche. Essa, introdotta grazie all’acquisizione dell’esperienza
medica araba, fece progredire sensibilmente l’arte farmaceutica. La distillazione, permettendo
l’uso terapeutico delle acque e delle essenze, aprirà la strada, oltre che alle moderne tecniche
dell’estrazione dei principi attivi delle piante, alla specializzazione per uso “confortativo”, cioè
alla creazione di quell’arte profumataria e liquoristica che tanta fortuna avrebbe avuto dal finire
del secolo XVI in poi.
Diversamente dal mondo Arabo, l’Alchimia divenne “arte
segreta” nella sponda cristiana del mediterraneo, dove alli-
gnarono gente di malaffare, stregoni dediti ad arti magiche
ed occulte oltre che studiosi di scienza. Per tutto il Medio-
evo e sino al diciottesimo secolo la ricerca alchemica o
Opus Magnum è stata al centro dell’interesse di iniziati
che rinvenivano in essa un mezzo privilegiato volto a rag-
giungere la conoscenza e l’illuminazione ermetica, legate
anche a canoni di perfezione. Nel Medioevo in luoghi di
“culto” si svolgevano complessi riti di matrice esoterica,
noti solo a pochi uomini di conoscenza nei campi della
geometria, matematica, astronomia, mineralogia, ecc.
Il percorso, comunque, era indirizzato alla realizzazione di
un “cammino spirituale” atto a far progredire l’alchimista
attraverso l’Opus Magnum fino alle soglie dell’ascesi mistica.
Il più famoso alchimista arabo fu Giabin ibn Hayyan, che visse durante la seconda metà del
VII sec. d.C. e perfezionò il processo di distillazione costruendo nuovi tipi di alambicchi con cui
ottenne moltissimi altri elixir e tinture a base di alcool ed anche l’acqua distillata quale solvente
esente da impurità.
La preparazione dell’alcool (la cui etimologia deriva da al-ghul che significa spirito del
demonio) fu permessa per uso medicinale nonostante che l’assunzione di bevande alcoliche fosse
proibita e punita con fermezza dal Corano.
Il chimico Geber (715-815) preparava l’acido nitrico nonché, per distillazione, quello acetico e,
ancora, gli si attribuisce la scoperta dell’alcool e la composizione dell’acqua regia. Tutto ciò dà
luogo al fiorire della polifarmacia, come si riscontra dalle opere dei più famosi medici-
farmacologi del tempo: Rhazes, Mesué, Avicenna.
Abi Zahary ibn Masuyak, latinizzato in Mesué, arabo cristiano di Ni-
nive, vissuto a Baghdad che tra il 700 e l’800 rielabora tutte le cono-
scenze mediche dell’epoca integrandole con notizie tratte dalla tradi-
zione orientale condensando in due opere le pandette della Medicina
e la Farmacopea generale.
L’opera Antidotarii di Mesué, e quelle posteriori del Liber
Medicinalis Almansoris di Rhazes (875-923) e dei Canoni di
Avicenna (X secolo) vengono conosciute in Europa nei contatti che
si stabiliscono anche attraverso le crociate con l’Oriente.
Nel 641 d.C. un devastante incendio ordinato dall’Emiro musulmano
Amir Ibn As con il permesso del Califfo Omar causò la definitiva
distruzione della biblioteca di Alessandria d’Egitto. Dopo questo
ultimo incendio, i molti libri che pure si erano salvati furono comun-
comunque usati come combustibile delle caldaie.
Al IX secolo risale il Liber aggregatus in medicinis simplicibus vasto trattato sulle erbe
medicamentose o semplicemente utili alla buona salute opera, tradotta in latino, del medico arabo
Serapione il Giovane.
Altri testi arabi saranno adottati secoli dopo come Codici Ufficiali: il Dinameron di Nicolò
Mirepso, ad esempio, fu adottato fin dal 1300 nella Facoltà Medica dell’Università di Parigi
mentre l’Antidotario Salernitano fu “legge” per gli Speziali di Heidelberg nella seconda metà
del 1400.
Le cognizioni della scienza araba filtrarono ben presto in Italia meridionale venendo accolte ed
elaborate presso la scuola medica di Salerno.
Nel IX secolo la Scuola Salernitana nacque inizialmente come un centro di medicina pratica
laica dedita agli studi medici ippocratici dove dotti in scienze mediche commentavano davanti
agli studenti la patologia del malato e la relativa terapia; basato quindi sulla pratica, sulla
deduzione empirica. Questa scuola è considerata la più antica ed illustre istituzione medievale
medica del mondo occidentale; in essa confluirono tutte le grandi
correnti del pensiero medico fino ad allora conosciuto: poco si sa
della sua fondazione ad eccezione di una leggenda che l’attribui-
sce a quattro medici: Ponto, greco, Helinus, giudeo, Adela, arabo
e Salemus, latino, le cui provenienze rispecchiano le influenze
culturali presenti.
La leggenda narra, infatti, che nacque dall’incontro di un medico
romano, uno greco, uno ebreo ed uno arabo.
Una delle novità più importanti di questa scuola sta nel fatto di
non accettare passivamente la malattia: non solo non si arrende
di fronte ad essa, combattendola ecurandola, ma, soprattutto, cerca di prevenirla con ben precisi
strumenti medici; si oppone, inoltre, alla teoria secondo la quale è inutile curare il corpo in
quanto la vera salvezza non appartiene al mondo terreno. Alla base del concetto di medicina della
scuola di Salerno stanno approfonditi studi anatomici sul corpo umano, l’importanza
dell’armonia psico-fisica e il valore di una dieta corretta ed equilibrata, principi che ancora oggi
sono ripresi e riaffermati dalla medicina psicosomatica e dalla scienza dell’alimentazione. Altro
grande progresso è il fatto che i maestri salernitani sono disposti a scendere dalla cattedra per
avvicinarsi al letto del paziente e discutere con gli allievi degli aspetti clinici delle malattie. Non
era comunque facile diventare medico a Salerno: prima bisognava studiare la logica per tre anni,
poi altri cinque erano di scuola medica (non solo la teoria sui classici greci ma anche la pratica
con autopsie per poter riconoscere i vari organi e capirne la funzione) ed
infine si sosteneva un esame sia con il maestro del corso sia alla presenza
di un collegio composto da altri medici. Se l’esame veniva superato, il
giovane medico riceveva un attestato davanti al quale il re rilasciava la
licenza per esercitare la professione non prima, però, di avere trascorso
un anno come tirocinante presso un medico anziano.
Da notare, infine, che la scuola era aperta indistintamente a uomini e
donne (queste ultime, tuttavia, esercitavano soprattutto la ginecologia).
Sempre nel IX secolo sotto la dinastia dei Califfi Abbassides furono
scritte le prime regole del diritto farmaceutico di Bagdad.
A partire dal X secolo i monasteri diventano centri di produzione dei
medicamenti, elargiti dai monaci in cambio di elemosine, ed importan-
ti produttori e custodi di manoscritti di medicina, farmacia e botanica.
Con l’incremento dell’attivitàdi assistenza medica rivolta agli ammalati i monaci, soprattutto
Benedettini (è il caso di ricordare la Regola di San Benedetto che vuole presso ogni Convento
un “orto dei semplici” per avvicinarsi a Dio attraverso il suo giardino), seguirono ampiamente i
consigli di Cassiodoro e moltiplicarono le conoscenze e la produzione di erbe.
Essi crearono, a tale scopo, veri e propri orti botanici dove coltivavano erbe provenienti da ogni
parte del mondo ed in apposite domus medicorum, poi, elaboravano composti sotto l’occhio
vigile del monacus pigmentarius.
San Benedetto da Norcia fu tra i primi a sostenere che la scienza curatrice era da intendersi
come manifestazione della volontà di Dio e attributo necessario del Cristo. Egli si allontanò dallo
stretto misticismo imposto per dedicarsi all’assistenza del corpo oltre che dell’anima. Oltre a
stabilire le Regulae per guarire ed assistere i malati, definì la struttura dei ricoveri e le mansioni
dei medici e degli infermieri.
All’interno delle strutture monastiche la spezieria, presente fin
dai tempi più antichi, aveva un proprio locale autonomo ed era
attigua alla casa del medico e all’infermeria ed era inserita in
una serie più articolata di ambienti dove sono riconoscibili an-
che l’hortus sanitatis e la sala dei salassi e delle piaghe.
La spezieria era, dunque, una vera e propria struttura ben orga-
nizzata, rivolta alla cura e all’assistenza degli infermi cui, co-
me era previsto dalla Regula, doveva corrispondere un altret-
tanto organizzata distinzione di ruoli e di funzioni secondo
quanto era previsto dalla Regula.
Un ruolo preminente doveva essere svolto dal monacus
pigmentarius, o monaco speziale, che nella scala gerarchica
delle strutture conventuali veniva subito dopo il priore o il sottopriore. Egli, almeno fino a
quando i medici non si costituirono in corporazioni e pretesero di diagnosticare le malattie, aveva
la completa gestione della cura.
Nel 980 nasce a Buchara in Persia Avicenna, autore dei Canoni.
Già poco tempo dopo la nascita della religione cristiana iniziò la pratica dell’assistenza
caritativa agli ammalati e ai poveri in appositi ospizi e ricoveri: si chiamavano xenodochia
quelli riservati agli stranieri, ptochia quelli per i poveri, gerontocomi erano dette le strutture per
gli anziani, brefitrofi erano i luoghi dove si curavano i bambini e orfanotrofi quelli destinati a chi
aveva perso i genitori.
Sorsero praticamente allo stesso tempo delle associazioni dette Ordini Ospedalieri che avevano
in realtà una triplice natura: erano ospedalieri, militari e religiosi, visto che spesso svolgevano la
loro attività in terre straniere tra gli infedeli e i nemici del cristianesimo.
L’apparato assistenziale nel primo Medio Evo era inteso come semplice luogo
di ricovero per i poveri bisognosi o vero e proprio “albergo dei poveri”.
Nel corso di epoche successive il sistema ospedaliero, articolato in genere
in ospedali, ospedaletti, ospizi, denunciava sovente non poche carenze:
si trattava sovente di strutture gravate da difficoltà finanziarie dipen-
denti da una cattiva amministrazione, dall’utilizzo di fondi a scopo
personale e da abusi di varia natura.
Intorno al IX secolo, con lo sgretolarsi della struttura feudale, corrosa
dal suo interno da violente lotte ed antagonismi, con il definirsi della
sintesi tra romanità, germanesimo e Cristianesimo, con la fuga dalle
campagne e la rinascita della città, si determinò un risveglio economi-
co, sociale, artistico e culturale particolarmente accentuato dopo il Mille.
Gli organismi corporativi ripresero vigore, anche in concomitanza con la formazione dell’Istituto
comunale, a partire dall’Italia Settentrionale e Centrale, frutto non di una brusca rivoluzione ma
di una graduale conquista da parte delle forze economiche e sociali che stavano emergendo, e si
sarebbero consolidati nei successivi primi secoli dopo l’anno Mille.
Gli organismi corporativi ripresero vigore e sarebbero giunti, successivamente, ad una tale forza
economica e politica da porsi, in molte città italiane, in contrapposizione con il Comune stesso.
Dopo l’anno Mille molti centri italiani conobbero
l’arte della maiolica che si caratterizzò in tutta la
Penisola con manufatti di un colore verde bruno
su fondo bianco maiolicato definiti ceramiche
arcaiche.
Importanti figure della Scuola Salernitana in questo
periodo sono Garioponto (970-1050), autore della
raccolta di testi bizantini Passionarius Galeni e
Alfano (1015-1085), medico che studiò a Monte
cassino la cui opera è ugualmente di influenza
bizantina e greco-siriana.
Sul finire dell’XI secolo si ha l’influenza medico
araba ed il rafforzamento di una personalità tipica
dello Studium Salernitanum: Constantino l’Afri-
cano (1020-1087) di Cartagine, dedito al commer
cio di droghe e viandante in Oriente ed Europa si
stabilì a Salerno e, poi, con una carta di raccoman-
dazione dell’Arcivescovo di Salerno Alfano fu
Il Tractatus de aegritudinum curatione è un’opera collettiva in cui si ritrovano gli
insegnamenti di medicina generale di vari maestri di Salerno.
Va ricordato tra gli scrittori arabi tradotti in latino Ibn Botlan vissuto nell’XI secolo e autore di
un semplice trattato di farmacologi botanica, ad uso domestico, conosciuto in Occidente sotto il
nome di Tacuinum sanitatis.
Le Crociate in Terrasanta (XI-XIII sec.) contro il dominio musulmano valsero a creare
importanti rapporti commerciali e culturali fra Occidente ed Oriente, il mondo europeo ed il
mondo arabo, con il conseguente arricchimento delle città marinare. In questo periodo fiorisce la
Via della seta che attraverso Samarcanda governava gli scambi tra la Cina, la Persia ed i Paesi
del Mediterraneo Orientale consentendo l’introduzione di ingenti quantità di materie prime di
eminente importanza per la medicina (canfora, storace, rabarbaro, oppio) e per il gusto (pepe,
cannella, chiodi di garofano, noce moscata, tamarindo).
In questo periodo di scambi commerciali è documentata da atti di archivio la presenza a bordo di
molte flotte navali di Speziali con precisi compiti di controllo e di consulenza in merito alla
qualità dei prodotti sia d’interesse medicamentoso o
cosmetico che, talora, persino culinario.
E’noto che le spezie entravano in Occidente in parti
colari involucri, ricavati dalle canne di bambù, chia-
mati albarelli. Se in un primo momento questi invo-
lucri vennero conservati o rivenduti insieme al con-
tenuto, in seguito, per opportunità di durata o per
migliorare la conservazione del prodotto, si provvide
a sostituirli con altri che, simili per forma, erano ese-
guiti in ceramica.
Intorno al 1080 ad opera di un medico della famiglia dei Plateari, per alcuni Matteo, per altri
Giovanni II e per altri ancora Giovanni III, venne creato un nuovo dizionario di farmacologia
botanica, ricco di nuove piante e di nuove indicazioni terapeutiche, che si conosce con il nome di
Circa instans, dalle prime parole dell’introduzione, o di De simplici medicina oppure, con
dizione più attraente, di Secreta salernitana.
La riconquista di Toledo nel 1085 vede porre a disposizione dei cristiani una significativa
quantità di manoscritti arabi che erano stati accumulati dall’invasione del 711. Nel 1135 ad opera
dell’Arcivescovo vi fu l’istituzione della scuola di Toledo composta da traduttori cristiani e
giudei. Il lavoro di questo gruppo, che iniziò con la traduzione del Corano seguito dalle opere di
Tolomeo ed Aristotele, ebbe un lungo periodo aureo di traduzioni dall’arabo e dal latino che si
concluse nel XIII secolo.
Nel XII secolo, nel pieno sviluppo della civiltà romanica, l’astrazione
dell’immagine botanica raggiunse effetti di straordinario virtuosismo,
come documenta il Corpus apuleiano (il De herbarum virtutibus
opera di Pseudo Apuleio e il De herbis jemininis opera di Pseudo
Dioscoride) illustrati da 200 immagini di cui i tre quarti non sono na-
turalistiche ma chiaramente sul modello di manoscritti duecenteschi
mentre le restanti sono tratte dal vero e di altissima qualità, con una
eccezionale tridimensionalità e con una forza d’immagine e di colo-
colore che ne fanno dei veri capolavori di arte astratta.
Nel 1134, per diffusa esigenza di maggiore rigore scientifico, Rugge-
ro II d’Altavilla emana un Decreto nel quale si obbliga chi volesse
esercitare la professione di medico e farmacista a presentarsi alle auto
rità dello Stato che, valutato il diritto, rilasciavano l’autorizzazione.
Nel 1144 giunse alla Scuola di Toledo Gerardo da Cremona (1114-1187) che vi impresse un
notevole impulso traducendo ben 90 opere di varie aree del sapere includendo
24 opere di medicina tra cui gli autori Galeno, Hippocrate, Al-Israili,
Razés,
Al-Wafid, Serapione, Abulcassis, Al-Kindi e Avicenna. Dopo la morte
di Gerardo da Cremona il lavoro di traduzione fu continuato
da numerosi suoi collaboratori e discepoli.
In questo periodo Hildegarda da Bingen (1098-1179), badessa del
Convento benedettino di Disibodenberg, scrive testi sull’uso di
medica-
menti estratti da piante e animali.
Fin dal 1100 la Scuola medica salernitana adottò un metodo
di insegnamento teoretico logico e moderno mettendo a
disposi-
zione degli studenti testi nei quali veniva scritta - quindi
codifi
cata - la ricerca della Scuola stessa. É questa innovazione
scolasti
ca che trasformerà la Scuola medica di Salerno in una Università
quale oggi noi la intendiamo.
É nel momento di trasformazione del metodo scolastico della
Università
di Salerno che appare la figura di Nicolò Praepositus
Salernitanus
l’introduzione di nuovi medicamenti tra cui la spongia soporifera anestetica, il giusquiamo e la
mandragora. Questo testo viene considerato come la prima raccolta di ricette della medicina
europea e per molti secoli ha costituito la fonte ufficiale, alla quale fare riferimento, per medici
e farmacisti; ispirerà i vari erbari, ricettari, compendi e antidotari che seguiranno,
sino ai primi anni del XVIII secolo.
La Scuola di Salerno fu il centro della formazione medica in Europa fino al XII secolo. I medici
ivi formatisi si diffondevano in tutto il Continente e nel contempo nuove università sorgevano.
La Medicina si collega al sistema universale del sapere e della filosofia e cessa di essere
una mera attività manuale: questa tendenza, già verificatasi nel mondo arabo, si
approfondisce nel mondo cristiano generando un nuovo corpus teorico
di
concezioni tradizionali simile al mondo islamico grazie all’influenza
di Salerno e Toledo.
A Salerno e Montpellier, vi erano i professori di
medi-
cina che daranno vita all’impulso per creare università.
A Montpellier la scuola medica fu autorizzata nel 1180.
L’istituzione di università nasce dalla necessità di
docenti e discenti di creare una propria
struttura,
differenziata dalle strutture clericali
originarie,
capaci di affermare i suoi diritti e
privilegi. A Parigi l’Università fu
giuristi, in quella di Oxford i teologi.
Nel 1161 è scritto il testo medico-farmaceutico, di una certa importanza a quel tempo, dal titolo
Macer Floridus attribuito a Otto de Meudon che tratta delle virtù di 77 piante medicinali.
L’organizzazione del Comune appare documentata fin dall’inizio del XII secolo per la presenza,
testimoniata dalle fonti, di Consoli alla guida delle città.
Diversi fenomeni indipendenti e verificatisi a distanza di tempo l’uno dall’altro, poi, concorsero
in modo determinante all’istituzione di veri e propri esercizi professionali riconoscibili come
precursori delle future farmacie.
Il primo è legato ai Concilio di Reims del 1131 ed al Concilio del Laterano del 1180 che
interdissero ai monaci, per motivi esclusivamente religiosi, l’esercizio della medicina e della
farmacia. Tali provvedimenti, intuitivamente, aprirono ancor più la strada ai laici che, nel giro di
un secolo, si impadronirono di tutte le conoscenze mediche e farmacologiche.
Un altro fenomeno riguarda l’apertura di molti ospedali, dapprima legati ai monasteri e poi anche
laici, che richiedevano l’istituzione di vere e proprie farmacie
con un apotecario medico-farmacista.
Altro fenomeno fu, nei primi anni del 1200, la promulgazione
della Legge di Arles con la quale la preparazione delle medi-
cine era proibita ai medici e riservata a specialisti.
Al tempo delle crociate, poi, il mondo occidentale conobbe le
importanti droghe di origine orientale che avevano contribuito
allo sviluppo delle civiltà cinese, persiana, mesopotamica ed
egizia e questo non solo per ciò che riguarda i medicamenti.
Lo zucchero, la canfora, l’aloe, l’oppio ebbero un’importanza
fondamentale, ma i coloranti, le essenze come muschio e
ambra aprirono la strada a nuovi impieghi ed a nuove specializzazioni. Necessitavano
soprattutto, sufficienti conoscenze per trattare sostanze dotate di notevole valenza
terapeutica, se impiegate alla giusta dose; contrariamente gli
effetti tossici avrebbero potuto dare risultati letali.
Quest’ultimo fenomeno fu compreso dal genio di
Federico II di Svevia, Imperatore
di Germania e Re di Sicilia e di
Puglia dal 1212 al 1250, grande
statista ed uomo di cultura, (alla
cui Corte raffinata appartenevano
numerosi uomini di superiore
levatura e in cui incominciava a
farsi strada l’orientamento a
migliorare per tutti la qualità
della vita) che con rigidi
provvedimenti amministrativi regolò
con estrema precisione l’esercizio
professionale della medicina e
della farmacia.
Federico II promulgò le Costitutiones
e le Novae Constitutiones utriusque
Siciliae tra il 1231 ed il 1240, punto di
partenza per la realizzazione di un vero e proprio
servizio farmaceutico, con le quali (Titoli 46 e 47)
vietò al medico di fare lo speziale, istituì il ruolo del farmacista, stabilì le regole per l’esercizio
della farmacia tra cui la proibizione di vendita delle sostanze velenose, conferì al medico la
la possibilità di denunziare lo speziale per ogni inadempienza o
ine-
sattezza nella preparazione dei medicamenti e
nell’esercizio
della sua professione, fissò il controllo del numero
degli
esercizi degli speziali in rapporto al numero di abitanti ed al
loro
stanziamento, l’ubicazione ed il controllo delle staciones per
l’allestimento e la distribu- zione dei farmaci, introdusse
la tariffa dei medicinali, obbligò medici e speziali ad
un preciso giuramento con il quale si sanciva il controllo dell’attività
profes-
sionale da parte dello Stato attraverso due ispettori nominati dall’Imperatore.
Agli elementi autoctoni greco-latini ed arabi, dunque, se ne erano aggiunti
im-
portanti altri di provenienza germanica con la calata della dinastia Sveva su
Pa-
lermo e la presa di potere del Regno di Sicilia.
Sempre nel 1240 nelle Constitutiones di Federico Il appare il primo atto speci-
fico per imporre una tariffa ai medicinali in quanto tali e non come generiche
merci
autorità pubblica si presentavano ancora debolmente configurati. Ma, a partire dal Basso
Medioevo, la rete di connessioni e di intrecci che si erano venuti a creare tra coloro
che
esercitavano uno stesso mestiere si disegnò in un qua- dro gerarchizzato e verticistico
che
non escludeva la possibilità di un “accordo” tra logiche di interessi anche
non
coese tra loro. Gli associati, inizialmente mediante norme transitorie e
occasio-
nali, poi attraverso forme istituzionali stabili e durature,
giunsero alla codifica di formule statutarie destinate a
regolamentare la vita dei gruppi corporati sulla base di
principi che riconoscevano una gerarchia di poteri
garanti di equilibrio ed equità per tutti.
Il primo ospedale sorto in Italia fu quello di S.
Spirito in Sassia, fatto costruire dal Papa Innocenzo III nel
1201
a Roma. A questo seguirono poi gli ospedali di Pistoia (1271), quel-
lo di Firenze (1288).
A partire dal XII sec. si può fare in Europa un conto
approssima-
mativo di una pestilenza più o meno grave in media ogni 10-15
anni. Senza contare la lebbra, una delle malattie più
conosciu-
naturali e soprannaturali: l’opinione più diffusa era la presenza nell’aria di vapori nocivi
contenenti un veleno pestilenziale; un’altra ipotesi era quel- la di giganteschi
incendi
scoppiati in oriente che producevano fumi velenosi, oppure il morbo poteva
provenire
anche dalle viscere della terra o dal cielo a causa di
mali- gne congiunzioni astrali. Ci fu, poi, anche chi pensava
all’avvelenamento dei pozzi da parte di ebrei o di leb-
brosi, scatenando così vere e proprie persecuzioni soprat
tutto in Francia, credenza che rimase radicata nella storia
dando luogo alle dicerie sugli “untori” in epidemie poste-
riori.
Sin dalla prima metà del 1200 si costituiscono potenti e
fioren-
ti Corporazioni maggiori, fra cui l’Arte dei Medici e degli Spe
ziali, nelle città di Firenze, Venezia, Bologna, Siena. Tali
istituzioni avranno una notevole influenza nel tracciato storico dei
Comuni in quan to i loro Statuti non solo si richiamano a
regole di conoscenza e di comportamento ma promuovono valori culturali
ed etici nella pratica dell’arte e nel contesto sociale.
Nella società d’antico regime le Arti svolgevano il ruolo di coagulo e
di coordinamento di ogni attività artigianale, imprenditoriale, mercan-
tile; promuovevano e regolamenta- vano funzioni mutualistiche, caritate-
voli e di sostegno a favore dei soci e dei loro familiari, proteggevano i
salvaguardavano le autonomie professionali dei consociati.
Il “patto” stipulato tra i “corpi” sociali e il sovrano costituì per lungo tempo il fondamento
politico-istituzionale sopra il quale andarono a innervarsi logiche privatistiche e istanze
assolutistiche3
.
Per motivi storico-politici a Roma la Corporazione degli Speziali “Universitas Aromatario-
rum” prende forma molto più tardi rispetto ad altre
città italiane.
Secondo il Davidshon, le Corporazioni degli
Speziali
si distinguono non di rado per un marcato carattere
di
autonomia. Quando nel 1293 a Firenze gli
“Ordina-
menti di Giustizia” di Giano della Bella cercarono
di
ridurre la supremazia della Corporazione non
ebbero
esito fortunato, probabilmente, a causa del prestigio
e
del potenziale economico notevoli raggiunti
dall’Ar-
te degli Speziali. La valenza politica delle
Corpora-
zioni degli Speziali, inoltre, trova riscontro in
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R. Villano - Cenni di arte e storia della farmacia (p.1)

  • 1. L’origine della farmacia risale alla notte dei tempi e si confonde con il mito. Nella preistoria l’uomo del primo periodo dell’età della pietra nel Paleolitico, contemporaneo del mammut, in lotta aspra e continua con la natura, esposto alla fame, alle intemperie, ai parassiti, alle malattie, imparò ben presto guidato dall’istinto ad osser- vare il mondo vegetale e minerale che lo circondava ed a conoscerne, come documentato ampiamente nelle palafitte, le proprietà utili e nocive, a costo di esperienze dolorose e disastrose, ricavando i primi rimedi contro le malattie. Tuttavia, è molto difficile fare una adeguata ricostruzione scientifica dei primi atti curativi in età preistorica, poiché i reperti di medicina vera e propria a nostra disposizione non sono sufficien- ti (si tratta solamente di reperti di paleopatologia di crani trapanati, affezioni dentarie, problemi reumatici, rachitismo e ossa con fratture consolidate risalenti a non prima di 100.000 anni fa). Va posto in evidenza, comunque, il rinvenimento di crani trapa- nati che presentano processi di rigenerazione ossea consentendoci di poter affermare che trattasi di interventi effettuati su individui vivi. Nella Bibbia con la parola farmakia si definivano tutte le arti con cui Babilonia sedusse il mondo (dall’Apocalisse). È agevole immaginare che si alludesse ai filtri amorosi e agli afrodisiaci. Verificandosi, però, nel tempo anche effetti deleteri con queste terapie, al concetto iniziale subentrò quello di tossico o veleno 1 .
  • 2. Spesso nel mondo antico molte osservazioni di fenomeni naturali e loro integrazioni in un sistema dotato di una sua peculiare razionalità sono disperse e nascoste sotto il velo del mito, della struttura magico-religiosa o dell’opera teatrale o letteraria. Nelle età più remote la figura del farmacista era tutt’uno con quella del medico, del sacerdote, dello stregone. Fin dalle profondità della preistoria, prima che venisse inventata la scrittura, l’umanità “si è raccontata” la propria esperienza oralmente a memoria, con il canto o con la poesia, affidando al ritmo o alla scansione cadenzata le idee, le informazioni e le emozioni. I grandi sistemi scientifici e medici appartenenti alla tradizione scritta dotta alle origini derivano dai sistemi conoscitivi e tecnici trasmessi oralmente: trasmissione scritta e trasmissione orale, nell’ambito delle varie tradizioni, hanno sempre convissuto. Che la professione del farmacista sia una delle più antiche del mondo è attestato da documenti giuntici dalle grandi civiltà di Sumeri, Assiro- Babilonesi, Egizi, Cretesi, Micenei, Cinesi. Risale al 2700 a.C. il più antico testo di farmacologia conosciuto: una tavoletta in caratteri cuneiformi dell’antica Ur in Mesopotamia, rin- venuta nei primi decenni del XX secolo e decifrata nel 1953. La tavoletta contiene una dozzina di ricette del medico-farmacista Lulu, con preziose indicazioni circa i componenti e le procedure uti- lizzate per la preparazione di pomate, decotti e lozioni. Sorprendentemente si desume dalle ricette che a quel tempo per la Preparazione dei farmaci ci si serviva, sostanzialmente come in parte ancor oggi, di sostanze vegetali, animali e minerali.
  • 3. Ma ancor più sbalordisce il fatto che in questo testo la materia farmacologica è trattata con metodo “scientifico”, ovvero senza cedimento alcuno ai diffusissimi riti di magia e stregoneria che, del resto, prima, durante e dopo, fino ai tempi attuali, hanno sostituito o, nel migliore dei casi, affiancato le pratiche mediche e farmaceutiche. Dalla meticolosità scientifica di queste tavolette si può desumere lo sforzo che, anche molto indietro nel tempo, civiltà più avanzate e livelli sociali più elevati hanno prodotto per curare le malattie dell’uomo e, d’altro canto, che la scienza farmacologica, almeno in Mesopotamia, risale a tempi incredibilmente remoti e con dati e conoscenze di assoluto rispetto per l’epoca. Il farmacista di Ur, comunque, pur essendo emblematico di un modo di fare scienza, resta una eccezione nello scenario allargato dell’epoca giacché i principali tentativi terapeutici non andati a buon fine nell’ambito della magia e dei rimedi terapeutici e farmacologici approdavano sovente alla fase chirurgica, ultimo disperato rimedio. Essendo stato ritenuto, infatti, per lunghissimo tempo che molte malattie fossero generate da spiriti maligni che invadevano la testa del malato, non rimaneva altro da fare, dunque, che aprire il cranio per estrarre la materia ritenuta infettata. L’intervento si effettuava per mezzo di narcosi usando potenti veleni che, talvolta, conducevano a morte nel corso dell’operazione stessa. Nonostante l’evidente approssimazione dell’ intervento chirurgico, c’era anche chi sopravvi- veva, come ben testimoniano crani con tali segni e successivo callo osseo riformato.
  • 4. In Egitto all’interno della scienza medica si potevano distinguere due diversi filoni: quello magico-religioso, che comprendeva elementi molto primitivi, e quello empirico-razionale, basato sull’esperienza e l’osservazione, privo di componenti mistiche. Presso questa civiltà si effettuava la pratica della “incubazione”, ovvero l’induzione di sogni divinatori a scopo diagnostico. Tale pratica era frequente e sostenuta soprattutto all’epoca di Amen- Hotep II e Thutmosis IV (tra il 1439 e il 1398 a.C.); nel V secolo a.C. la pratica dell’incubazione fu associata al culto greco di Imothep. Durante la terza dinastia il medico iniziò a distinguersi come figura, sia pure primitiva, di scienziato, diversa dallo stregone e dal sacerdote. Il primo medico egizio e soprintendente alla sanità il cui nome è giunto fino a noi è proprio Imhotep (vissuto intorno al 2725 a.C.), famoso anche come costruttore di piramidi (quella a gradoni di Saqqara intitolata al Faraone Zoser) e come astrologo, che sembra abbia ottenuto grandi successi sia come medico operante che come ricercatore scientifico: fu probabilmente il primo a scoprire e a studiare i batteri e, quindi, a sperimentare soluzioni antibatteriche che diedero i loro più noti risultati per quanto riguarda le malattie degli occhi. Imhotep indica, dunque, un “individuo eminente” e depositario dell’intera conoscenza scientifica e tecnologica dell’epoca, tra cui la medicina e l’architettura.
  • 5. Nella medicina dell’antico Egitto, inoltre, per ogni patologia vi erano veri e propri specialisti. Così c’era il medico generico (termine egiziano sunu), l’oculista (sunu-irty), lo specialista per l’addome (sunu khef), lo specialista per le malattie di origine sconosciuta e altri ancora. Il termine “sunu” dovrebbe significare “colui che appartiene al malato” o “ colui che appartiene a chi è ammalato”. Il numero degli spe- cialisti era più alto nell’Antico Regno che nelle epoche successive che videro le varie specializzazioni accentrarsi sempre più in un’unica persona. I futuri medici imparavano l’arte di curare le malattie nelle “Case della Vita” situate vicino ai templi (le più celebrate erano quelle di Sais e di Eliopoli). Queste Case della Vita erano delle specie di biblioteche dove i giovani facevano esperienza con gli anziani, leggevano e ricopiavano gli antichi testi gelosamente custoditi dai medici-
  • 6. le Scuole mediche più antiche. Le conoscenze scientifiche fondamentali, quindi anche quelle chimiche e farmaceutiche, erano “depositate” nei “clan” sacerdotali e della corte faraonica. I sacerdoti di vari culti erano, come Imhotep, soprintendenti alle varie arti; con “arte” ovviamente si intende la pratica tecnologica e le modalità di realizzazione di un determinato processo produttivo. Erodoto riferisce che la medicina egizia era fortemente specializzata. Lo studio delle varie malattie, delle cause che le hanno provocate e delle tecniche di guarigione sono uno degli aspetti più sbalorditivi dell’Antico Egitto. Fin dall’Antico Regno venivano utilizzati strumenti chirurgici del tutto simili a quelli in uso nei nostri ospedali per operare i malati. La tecnica della conservazione dei cadaveri mise a disposi- zione una enorme quantità di dati chimici e farmacologici sulle sostanze impiegate, sulle spe- cie vegetali che producevano le materie rare
  • 7. La nostra documentazione conta: * il primo riferimento ad un papiro medico inciso su 4 blocchi all’ingresso della tomba di Uashptah (architetto capo, gran giudice e visir di Neferirkara); * un Papiro Smith (così chiamato dal nome dei suo primo possessore) che purtroppo ci è pervenuto non integro, la copia di un testo dell’Antico Regno, fatta in Epoca Lyksos, completa di glosse per spiegare i termini non più comprensibili; * il cosiddetto Papiro Ebers (anch’esso di Epoca Lyksos, acquistato da Ebers presso un ricco egiziano che disse di averlo trovato tra le gambe di una mummia non meglio identificata, lungo ben 20 metri e largo 20 cm, datato alla XVIII dinastia e composto da 108 pagine numerate da 1 a 1102 poichè i numeri 28 e 29 sono stati omessi; attualmente custodito dall’Università di Lipsia), una raccolta sistematica di casi di medicina tolti da trattati diversi giunta a noi completa e con glosse che descrive i rimedi per moltissime malattie, dalla tosse ai problemi cardiaci. •otto testi frammentari, alcuni coevi, altri posteriori, che sono semplicemente appunti scritti da praticanti o frettolose copie di originali andati perduti. Sotto il profilo della materia, risulta da tali documenti che la scienza trattava separatamente la chirurgia, la medicina generale e parecchie specializzazioni fra cui oftalmologia, ginecologia, pediatria, geronto- logia e malattie dell’ano. La sistematica della prassi appare ineccepibile: come i loro colleghi moderni, i medici egizi esaminavano il malato, identificavano la malattia in base
  • 8. ai sintomi (diagnosi) e ne prevedevano il decorso e l’esito (prognosi), e prescrivevano una terapia. Gli Egizi avevano idee già abbastanza precise sul funzionamento del cuore e dei vasi sanguigni: “Il cuore parla ai vasi di ogni membro”, è detto nel papiro di Ebers, significando che il cuore pompa sangue a tutto il corpo. Un’intuizione eccezionale se si pensa che ci troviamo a quasi 3000 anni prima di Harvey, che scoprì la circolazione del sangue. Dal Papiro Ebers si deduce, ancora, che i medici egizi ritenessero il cuore centro della vita e sembra che già ricollegassero il suo battito a quello del polso. I testi letterari descrivono, inoltre, il cuore come luogo della volontà e delle emozioni, oltre che sede del peccato: centro, quindi, dell’organismo umano fisico, psichico e spirituale. Di contro, l’importanza dell’encefalo (di cui compare per la prima volta nella lingua dell’uomo la parola “cervello” e che è accuratamente descritto nella forma, nelle circonvoluzioni e nelle meningi) non era avvertita. Nel Papiro Ebers si accen na anche al numero e alla posizione dei vasi che si originano dal cuore. Le loro conoscenze anatomiche, comunemente per l’osser- zione degli animali durante il macello, e ad alto livello per imbalsamazione del defunto (pratica riservata ai sacerdoti devoti ad Anubi) devono aver reso gli egizi abbastanza esper ti di anatomia umana, una condizione che si dimostrerà prezio sa nella pratica chirurgica. Il benessere del corpo si doveva, a loro avviso, allo scorrimento dei suoi liquidi nei metu, i vasi
  • 9. che lo attraversavano: se uno di questi vasi si ostruiva si manifestava la malattia. Le malattie venivano considerate risultato di misteriose influenze esterne che sarebbero penetrate nel corpo attraverso gli orifizi naturali corrompendo gli “umori”. Compito del medico era, dunque, quello di evacuare questi umori “corrotti”, facendoli uscire attraverso le normali vie di escrezione. Alcune malattie note erano l’asma bronchiale, l’epatite tropicale, la gonorrea, lo scorbuto, l’epilessia; la polmonite e la tubercolosi erano tra le malattie più diffuse a causa dell’inalazione di sabbia o di fumo dei focolari domestici. Le malattie parassitarie erano altrettanto comuni a causa della mancanza di igiene. Le comuni malattie erano solitamente curate dai medici con il metodo empirico-razionale, grazie soprattutto al fatto che questi organi sono direttamente accessibili; i disturbi di altre parti del corpo venivano, invece, curati da stregoni con magie e incantesimi. Le cure mediche in senso proprio consistono nel riposo, in una dieta adatta, e nella somministrazione di rimedi fra i quali i più frequenti sono i purganti. I medici preparavano essi stessi le loro ricette ma si procuravano la materia prima da una organizzazione farmaceutica con precisa gerarchia costituita da un “capo farmacista” che dirigeva e controllava i “conservatori dei farmaci” coadiuvati da tecnici; tuttavia la funzione di farmacista era svolta anche dai sacerdoti e dai medici stessi. La farmacopea del tempo includeva sostanze medicinali minerali, usate di rado, (allume, rame, ossido di ferro, calcare, carbonato e bicarbonato di sodio, zolfo, composti arsenicali, carbone, ferro, piombo, antimonio)
  • 10. e sostanze medicinali vegetali (è sfruttata quasi tutta la flora egizia): era comune l’uso di lassativi come fichi, datteri e olio di ricino; l’acido tannico, derivato principalmente dalla noce di galla, era considerato utile nel trattamento delle ustioni. Vi era, poi, un certo numero di ingredienti che fungevano da veicoli e che erano a base di grassi animali, acqua, latte, midollo o argilla, vino o birra, ai quali si aggiungeva, per renderli più graditi, un po’ di miele. Nel Papiro di Ebers sono citate circa 900 “ricette” di medicamenti, molte delle quali figurano ancora nelle moderne farmacopee, come la trementina, la senna, l’olio di ricino, il timo, la celidonia. Una pianta certamente nota in Egitto era la mandragora per i suoi effetti ipnotici e analgesici legati all’atropina e la scopolamina. Come anestetico, naturalmente in dosi molto basse essendo la pianta molto velenosa, si usava il giusquiamo che contiene scopolamina, potente sedativo del sistema nervoso centrale. In chirurgia gli Egizi conoscevano vari mezzi per pra- ticare una sorta di anestesia con una speciale “pietra” che si trovava vicino a Menfi la quale, ridotta in polvere e applicata alla parte, faceva scomparire ogni dolore. Forse si trattava semplicemente di pezzetti di bitume che, a contatto con la fiam- ma, sprigionavano vapori che assopivano il paziente. Venivano anche sfruttati, a scopo anestetico, gli effetti sedativi del coriandolo, della polvere di carruba, e verosimilmente an- che dell’oppio. Ma il rimedio più importante per gli Egizi fu la birra. Non solo come veicolante di numerosi medicamenti ma anche come medicina per i disturbi intestinali e contro le infiam mazioni e le ulcere delle gambe.
  • 11. L’effetto disinfettante era verosimilmente dovuto al lievito e al complesso B contenuti nella birra che producevano un’azione antibiotica; anche il “pane ammuffito”, prescritto in altre formule, risultava efficace per la sua azione antibiotica. Tra i purganti più in uso figurano l’olio di ricino e la senna. Ma gli Egizi praticavano anche il clistere. Sembra che questa pratica sia stata loro ispirata dall’ibis che introduce il lungo becco aguzzo nel proprio retto, irrigandolo a scopo di pulizia. L’enteroclisma veniva effettuato con l’aiuto di un corno, impiegando come lavanda bile di bue, oli o sostanze medicamentose. E’ certo che i medici egizi si servirono delle sanguisughe per decongestionare parti del corpo, ma è dubbio se conoscessero la tecnica del salasso. Anche la contraccezione veniva pra praticata con metodi magici, ma anche a
  • 12. Altro metodo era rappresentato dall’applicazione, sempre nel fondo della vagina, di un tampone imbevuto di succo d’acacia. Oggi si sa che la gomma acacia, fermentando con il calore, produce acido lattico, anch’esso dotato di un intenso potere spermicida. Molti rimedi venivano somministrati in forma di bevanda, pappa, pillole e cataplasma. Tutti gli ingredienti appaiono quasi sempre adatti allo scopo terapeutico prefisso, e comunque scelti secondo un criterio di scienza naturale, mai in obbedienza a presupposti religiosi o filosofici. Del resto le formule magiche rivolte a una divinità guaritrice venivano inserite nella cura solo per prudenza, per dare maggiore fiducia al paziente e per le malattie attribuite a cause extra-fisiche. Molti rimedi comportavano almeno un ingrediente raro e costoso, spesso importato dall’estero. Al momento di consegnare le medicine, poi, i medici erano sempre prodighi di consigli sull’igiene, che consisteva innanzitutto nel praticare abitudini sane. La cura del corpo era molto importante per gli antichi egizi che largamente ricorrevano alla cosmesi. Essi utilizzavano creme, unguenti e profumi per ammorbidire e profumare la pelle. Le donne si schiarivano la pelle con un composto cremoso ricavato dalla biacca, disponibile in colori diversi, dalla più pallida alla più ambrata generalmen- te destinata alle labbra. Evidenziavano il contorno degli occhi con il kohl nero o verde, rispettivamente estratti dalla golena e da malachite. Le unghie venivano tinte così come le palme delle mani e dei piedi e a volte an- che i capelli con una pasta a base di hennè.
  • 13. Utilizzavano specchi, pinzette per la depilazione e attrezzi per la manicure. I profumi (utilizzati da uomini e donne come le creme), venivano estratti da fiori, fatti macerare e pigiati. Tutte le essenze odorose avevano nel dio Shesmu il loro protettore. Venivano prodotti in laboratori associati ai templi e conservati in vasetti di pasta vetrosa, la faience. Imhotep riuscì ad unire l’utilità delle cure antibatteriche ad un gradevole aspetto estetico: infatti i vari trucchi utilizzati non erano altro che polveri per curare le varie infezioni degli occhi che, opportunamente colorate, davano un risultato estetico molto piacevole. Moltissimi prodotti cosmetici erano, ovviamente, appannaggio del farmacista. Numerosi medici-farmacisti diventavano gli estetisti presso le corti dei faraoni o dei nobili ricavandone considerevoli privilegi e godendo di un prestigio assoluto, erano ricercati, venerati e temuti per il loro potere: magico e misterioso, sicuramente “divino”. Tra le divinità egizie, sono di interesse “sanitario”: Harpokrate: in egizio Heru-pa-Khered, rappresenta Horus bambino. Viene raffigurato sia in braccio alla madre Isis che lo allatta, sia come fanciullo con un dito sulla bocca che, in questo caso, non significa silenzio ma è una derivazione del geroglifico “bambino”. In alcune steli esposte nei Templi cavalca un coccodrillo e tiene in mano dei serpenti. L’acqua versata sopra le steli acquisiva poteri protettivi e taumaturgici. Sekhmet: raffigurata, come Tefnut, con i connotati sanguinari della leonessa (legati ad una delle sue funzioni
  • 14. principali, che è quella di sconfiggere i nemici di Ra, nel suo viaggio nell’oltretomba), è nota dai fin tempi più antichi come Sekhmet-Hethert. È la “femmina potente”, la “signora rossa” che rappresenta la forza inarrestabile della vendetta divina contro i nemici ed il potere della distruzione nei casi in cui la violenza si rende necessaria. Come distruttrice veniva anche invocata contro i dèmoni portatori di malattie e di pestilenze e proteggeva medici e chirurghi. Patrocinava la loggia dei medici che erano sempre pronti ad attivarsi affinché le loro cure fossero efficaci, nutrendo sempre il forte convincimento che, una volta riusciti ad ammahsire Sekhmet, sarebbero riusciti a restituire la salute all’infermo. I sacerdoti della dea erano tutti medici e la consideravano una divinità essenzialmente risanatrice di tutti i mali e incaricata di equilibrare le forze del cosmo, poiché il suo aspetto sanguinario si scatena soltanto quando gli uomini cospirano contro gli dei. Sobek: Dio coccodrillo adorato a Kom Ombo, dove sono stati trovati moltissimi coccodrilli mummificati. Il suo nome significa “che veglia su di te”. Quindi, protettore contro le avversità ed i torti ed anche con capacità di guaritore. Il Tempio di Kom Ombo, infatti, era diviso in due sezioni: una dedicata al culto e l’altra alla cura dei malati. I Greci lo chiamarono Suchos. Tauret: originaria del Basso Egitto, è una divinità di origini pre-dinastiche. Rappresentata in forma di ippopotamo con abbondanti mammelle pendenti e con una pelle di coccodrillo sulla schiena, appoggia la mano sul “Sa”, simbolo del salvagen te di giunco usato sul Nilo. È la protettrice delle gestanti, dell’allattamento e dell’infanzia.
  • 15. Intorno all’800 a.C. c’erano i medici itineranti Etruschi dei quali nulla si sa tranne rari riferimenti. Benché la medicina etrusca sia stata sicuramente brillante e complessa, essa si è perduta con il declino e la dispersione della cultura di questo popolo che fu, in varie fasi e fin dall’inizio, integrato e fuso con quello romano. Eppure, per molti secoli dopo il tramonto della repubblica, i medici di Educazione etrusca percorsero le vie dell’Impero ma, trasmettendo le loro conoscenze per via orale e, forse, per via rigorosamente iniziatica, fecero perdere le loro tracce non consegnandosi alla storia. Dall’epoca omerica ci pervengono numerose testimonianze sulla disponibilità di piante medicinali esistenti ed usate come, ad esempio, il famoso nepenthes, indubbiamente un vino drogato con erbe fra cui il loto, lo giusquiamo, l’oppio, la mandra- gora ed altre, aventi proprietà sedative, calmanti e narcotiche. Anco ra si ricorda l’azione di Patroclo che cura la ferita di Euripilo con il succo di una radice pestata: quella che Chirone, saggio centauro, ha fatto conoscere ad Achille suo allievo e cioè, come dirà successi- vamente Plinio, l’Achillea, che prenderà, poi, l’attributo di millefolium per la sua caratteristica botanica: pianta comunissima che in seguito si scoprirà avere virtù emostatiche e cicatrizzanti, per
  • 16. comunicanti) precedenti. Esso fu anche il continuatore-competitore di un’altra cultura “di giunzione” e con grandi capacità tecnologiche, quella fenicia. La scienza, la tecnologia e, quindi, la medicina, con tutte le procedure diagnostiche e terapeutiche tipiche del mondo greco, enfatizzate a livello massimo in epoca ellenistica (massimo fulgore tra il III e II secolo a.C.), trasmesse a noi da alcuni geni della romanità imperiale, derivano con ragionevole certezza dalle grandi culture precedenti, tipiche delle aree geopolitiche vicine, in particolare dalle culture mesopotamiche e da quella egizia. La cultura babilonese influenzò in misura maggiore le scienze più esatte, come l’astronomia, la matematica e, in subordine, le tecniche diagnostiche fisiognomiche; la cultura egizia influenzò in misura maggiore il complesso dottrinario terapeutico e l’utilizzo di altre tecniche diagnostiche (le quali, in ogni caso, rientrano nella nozione più generale di Fisiognomica). Con la Scuola di Coo c’è il passaggio all’osservazione diretta del malato eseguita con grande larghezza di vedute ed ottime intuizioni che distinguono indiscutibilmente questa scuola da tutte le altre: nasce qui il vero concetto di clinica e della conseguente diagnosi. Il medico è uomo e la sua opera non ha sfumature soprannaturali, mistiche, astratte o filosofiche. La medicina deve essere una ricerca continua, serena e disinteressata alla quale bisogna dedicarsi solo per amore di essa e della natura umana.
  • 17. Nel V secolo a.C. visse Ippocrate, padre della medicina, appartenuto a una famiglia di medici che, secondo la tradizione, discendeva direttamente da Esculapio (divinità minore che eccelleva nell’arte medica); dopo aver trascorso la giovinezza viaggiando allo scopo di approfondire le conoscenze e perfezionare la sua istruzione soprattutto in campo medico, tornò in patria per dedicarsi all’insegnamento e per mettere a frutto tutto ciò che aveva appreso. L’insieme dei libri che sono attribuiti ad Ippocrate va sotto il nome di Corpus Hippocraticum o Collectio Hippocratica: si tratta di 53 opere per un totale di 72 libri che furono raccolti dai bibliotecari alessandrini nel III sec. a.C.. Notevole, senza dubbio, lo stile molto incisivo e diretto, senza troppi fronzoli, divagazioni filosofiche o circonlocuzioni contorte, anche se talvolta l’eccessi- va laconicità del pensiero può rendere difficile la giusta interpre- tazione. E’ proprio questo, comunque, che distingue le vere opere del caposcuola di Coo da quelle scritte probabilmente in seguito da qualche suo parente, allievo o successore. Le opere del Corpus possono essere divise, a seconda del loro contenuto, in diversi gruppi: libri a contenuto etico, libri di clinica e patologia, libri di chirurgia, libri di ostetricia, ginecologia e pediatria, libri di anatomia e fisiologia, libri di terapeutica e dietetica. Secondo il sistema ippocratico la malattia era determinata, per cause macromicrocosmiche, dalla discrasia dei quattro umori (sangue, muco o flemma, bile gialla, bile nera) normalmente
  • 18. presenti nell’organismo umano in equilibrata miscela (eucrasia) nello stato di salute. Lo stato di salute si aveva quando questi umori erano perfettamente bilanciati tra loro; se, invece, la crasi era alterata per l’eccesso, la corruzione o la putrefazione anche di un solo componente, allora insorgeva la malattia. Era la natura stessa con la sua capacità curativa ad intervenire nel tentativo di ristabilire l’equilibrio tramite l’espulsione degli umori in eccesso per mezzo di urina, sudore, pus, espettorato e diarrea. Se invece la malattia risultava più forte del processo autoriparativo dell’organismo il paziente moriva. Per poter essere eliminati gli umori, dovevano prima essere modificati con un processo che Ippocrate definiva di “cottura”. Il periodo intercorrente tra questo processo e la guarigione prendeva il nome di “crisi”. Il predominio di uno dei quattro umori conferiva anche particolari caratteristiche all’individuo (principio della costituzione e dei temperamenti): si avevano così i temperamenti sanguigno, biliare, flemmatico e atrabiliare. Per il mantenimento o il ricupero dello stato di salute era necessario attenersi o ricorrere a determinate regole di vita da osservare giornalmente (dietetica) secondo uno stile di vita (victus ratio, vitto) in cui gli alimenti (cibus et potus) assumevano un ruolo fondamentale, esercitando essi non solo funzioni genericamente nutritive, ma pure specifica- tamente terapeutiche, in rapporto alle loro qualità, esse pure classificabili secondo il succitato sistema quaternario. In particolare, nello stato di malattia risultava necessaria l’eliminazione degli umori alterati (corrotti, materia peccans), ottenibile mediante opportune tecniche, comprendenti
  • 19. l’impiego dei farmaci (diaforetici, purganti, carminativi, diuretici, vescicanti, revulsivi, ecc.), tra i quali spiccavano le piante medicinali. Altra novità fondamentale introdotta dalla dottrina di Ippocrate fu il fatto di considerare le patologie come fenomeni generali per l’organismo e non relativi ad un singolo organo. La figura del medico era per Ippocrate, infine, l’unione del perfetto uomo con il perfetto studioso: calma nell’azione, serenità nel giudizio, moralità, onestà, amore per la propria arte e per il malato sono i cardini della personalità del medico così come era concepito da Ippocrate. Ogni interesse personale passa in secondo piano. Non è certo un essere superiore ed infallibile come i sacerdoti degli antichi templi ma deve sopperire alla sua fallibilità con il massimo dell’impegno e della diligenza in modo da commettere solo errori di lieve entità. Deve, inoltre, essere filosofo ma non al punto da farsi distogliere dalla vera scienza che è quella che si appoggia su solide basi pratiche. Il suo abito, infine, deve essere decoroso ed il suo aspetto denotare salute. Il dogmatismo post-ippocratico da una parte riconosce la validità delle teorie e del pensiero di Ippocrate e dall’altra è, invece, il ritorno a una concezione di sacralità nella medicina anche se l’elemento divino è sostituito da quello umano. La scuola dogmatica, che vide come maggiori esponenti Diocle di Caristo (grande studioso di anatomia) e Prassagora di Coo (famoso per i suoi studi di semeiotica), ebbe tuttavia il merito di riconoscere il valore di un nuovo sintomo fino ad allora tenuto in scarsa considerazione: l’esa- me del polso. Tra i dogmatici va ricordato anche il filosofo Platone che in due delle sue opere, Timeo e Simposio, traccia una visione d’insieme sul livello della medicina a quei tempi.
  • 20. Nel VI secolo a.C. visse Diagora che fu il primo a praticare ed insegnare l’estrazione dell’oppio mediante incisione del papavero. Alla fine del V secolo a.C. risale il De antiqua Medicina del Corpus Hippocraticum, considerato il più antico testo di storia della medicina. È del IV secolo a.C. l’opera di Menone sulla Storia della Medicina inserita dal suo maestro Aristotele nel grandioso progetto di un’Enciclopedia di tutto lo scibile umano; brandelli di tale opera ci sono arrivati in un papiro, pubblicati nel III volume del Supplementum aristotelicum col titolo Anonymi Londiniensis iatrica. I contatti tra la cultura greca ionica e quella egizia risalgono alla XXVI dinastia fondata dal Faraone Psammetico I (tra il VII ed il VI secolo a.C.) con capitale a Sais: in quel periodo gli Egizi si trovarono in continuo stretto contatto con mercanti ed armatori greci. Come in Egitto anche in Grecia vi era la “incubazione” praticata nel V secolo a.C. nei templi di Asclepio, Dio spesso associato all’egizio Imothep. Lo stesso stile del Corpus Ippocraticum è caratteristicamente egizio: concetti dello scorrimento di umori in determinati canali verso organi o viceversa verso l’esterno, di “pletora” (“pienezza”), di congestione e putrefazio- ne/trasformazione patologica, sono comuni sia nella teoria generale medica egizia sia in quella greca e successive; le basi della stessa Dottrina Umorale si fondano su questi concetti. Dopo l’era della clinica rappresentata dalla scuola di Ippocrate, si apre quella caratterizzata dall’esperimento biologico: iniziano studi sistematici su sezioni anatomiche e comincia la pratica della vivisezione su animali.
  • 21. Il filosofo Aristotele, definito da molti come il fondatore dell’anatomia comparata, fu tra i primi ad intraprendere questo genere di studi fondendo scienza e filosofia in ragionamenti basati sui suoi famosi sillogismi: studiò a fondo l’anatomia con particolare attenzione per il sistema nervoso e per il cuore. Alessandria, fondata nel 332 a.C., fu indubbiamente il più importante centro culturale del IV sec. a. C., e la medicina, come tutte le altre scienze e discipline, raggiunse un elevato grado di specializzazione: partendo dalla dottrina di Ippocrate si approfondirono gli studi sull’anatomia e sulla fisiologia anche attraver- so vivisezioni per conoscere meglio la struttura e la funzione degli organi dando così il primo impulso all’anatomia patologica. Erasistrato fu uno dei più famosi esponenti di questa scuola: mise per primo in dubbio la teoria umorale e ipotizzò che la causa delle malattie fosse da ricercarsi in un’alterazione dei vasi o dei tessuti; dette particolare valore all’esame del polso e fu inoltre assai rinomato per l’accuratezza delle diagnosi; scoprì per primo i vasa vasorum, studiò le valvole atriali e vasali, la vena e l’arteria polmonare, il fegato (notò la correlazione esistente tra cirrosi epatica ed ascite). Altro caposcuola fu Erofilo, famoso come ginecologo e ostetrico, che si distinse per le precise descrizioni del cervello, dell’occhio e del nervo ottico.
  • 22. Nella sua De Historia Plantarum, stampata in epoca rinascimentale, fa un lungo elenco di vegetali utili per la terapia e considerando l’organo del gusto il più importante per il loro riconoscimento, si occupa diffusamente dell’azione medicamentosa dei vegetali. L’opera è un dettagliato elenco di 500 piante con particolare riguardo a quelle medicinali, riconoscendo ad ognuna di esse un proprio carattere mediante osservazione, confronto analogico, ricerca anatomica e impiego del linguaggio. Ma l’identificazione delle specie citate, mancando una vera e propria descrizione perché è presupposta la loro conoscenza, riesce spesso impossibile. Intorno al 310 a.C. si può collocare la fine della scuola dogmatica, ovvero quando la filosofia stoica vi si infiltrò alterandone i principi e mutandone la fisionomia: la dialettica e la speculazione astratta sostituirono, infatti, l’osservazione dei reali fenomeni patologici. Nel 284 a.C. fu messa in piedi da Tolomeo Soter, poco prima della sua morte, l’impressionante biblioteca di Alessandria d’Egitto, la più celebre dell’antichità che doveva contenere tutti i libri del mondo e dove si conservarono gli scritti ippocratici e di varie scuole mediche greche. Tra il 270 e il 220 a.C., grazie all’iniziativa di Filino di Coo e Serapione di Alessandria all’interno della stessa scuola ales- sandrina si sviluppò la Scuola empirica come risposta sia allo sterile dogmatismo in cui erano caduti molti dei successori di Erasistrato ed Erofilo, sia all’eccessivo indirizzo sperimentale che aveva fatto almeno in parte trascurare l’attuazione pratica
  • 23. della medicina: gli empirici ponevano, infatti, le cognizioni frutto della loro diretta esperienza in contrapposizionea quelle acquisite da altri. L’esperienza si basava essenzialmente su tre punti: l’autopsia (cioè la diretta osservazione), l’historicon (la storia delle osservazioni proprie e altrui), l’analogia (il confronto). Gli esponenti di questa scuola si distinsero nella chirurgia (soprattutto cura di lussazioni e fratture, cataratta e calcoli), nel trattamento delle ferite e nella tecnica delle fasciature, anche se tralasciarono completamente lo studio dell’anatomia e della fisiologia poichè le ritenevano di secondaria importanza rispetto al problema del malato. Persero quindi di vista il concetto di malattia come espressione di un generale malessere dell’organismo, considerando solo la particolarità e la localizzazione della singola patologia. In Grecia il venditore di medicamenti era il pharmakopolos mentre il preparatore di medicamenti era il pharmakopoeos; il preparatore di unguenti era il myropoeos o il myrepsos, il venditore di spezie era l’aromatopolo, il venditore di misture era il migmatopolos, il venditore di di mirra era il muropolos. La maggior parte dei medici apparteneva al gruppo sociale basso ed un numero esiguo si avvicinava alle sfere sociali elevate godendo del rispetto dell’élite sociale ed intellettuale greca. Ippocrate apparte- neva a quest’ultima minoranza. La società greca considerava il lavoro manuale di gran lunga inferiore a quello intellettuale.
  • 24. A Roma i preparatori e venditori di medicamenti, droghe e cosmetici erano i pharmacopoli e i pharmacopoei, i venditori itineranti di medicamenti erano i pharmacopoli circumforanei mentre i venditori stabili in luogo fisso erano i sellularii, i preparatori di medicamenti erano i medicamentarii, i preparatori di unguenti erano gli unguentarii, i venditori di spezie erano gli aromatarii, i trituratori di droghe erano i pharmacotribae o pharmacotriatae, i preparatori di cosmetici erano i pigmentari, i venditori di erbe erano gli herbarii. In componenti etrusche sembra affondino le radici della natura professionale ed associativa degli Speziali dell’Antica Roma. Nel mondo romano arcaico la medicina non era praticata se non dal “pater familias” che applicava semplici rimedi tradizionali; energiche invettive provennero dai repubblicani tradizionalisti, appartenenti prevalentemente all’aristocrazia senatoria, contro i “medici greci”, capaci solo di truffare i “sani” e onesti cittadini romani. Nei primi seicento anni di vita della città di Roma, si sviluppa il periodo della medicina autoctona, di antica origine italica, in cui più che di medici veri e propri si può parlare di persone (curatores) in grado di prestare occasionalmente una sorta di servizio sanitario in condizioni di straordinaria emergenza come ad esempio guerre o pestilenze. Due sono le espressioni della medicina in questa fase: quella empirica e quella sacerdotale. La prima si basa su nozioni desunte dall’esperienza (erbe medicamentose, infusi, decotti, ecc.) unite a elementi di magia ed ha come massimo esponente Catone il censore (234 a.C.-149 a.C.) che, pur non essendo medico, era famoso per la conoscenza di parecchi medicinali e per la pratica con apparecchi per ridurre lussazioni e fratture. La seconda è testimoniata dalla presenza di una serie di divinità, ognuna delle quali proteggeva una parte del corpo o era preposta a singoli aspetti (patologici e non) della vita fisiologica. Vi è, poi, la fase medica di transizione, caratterizzata dalla coesistenza dell’elemento autoctono
  • 25. e di quello greco che andava infiltrando il mondo romano con l’arrivo a Roma di parecchi medici greci, molti dei quali erano per la verità di scarsa abilità tecnica e di dubbia moralità: si occupavano, infatti, principalmente di esecuzione di aborti, della produzione e della vendita di filtri amorosi. Erano quasi tutti schiavi o liberti, per cui inizialmente non godevano di grande prestigio. Con Arcagato, arrivato dal Peloponneso intorno al 219 a.C., inizia invece la pubblica professione medica esercitata in luoghi a metà strada tra ambulatori, farmacie e scuole detti tabernae medicinae che ricordavano molto da vicino gli jatreia greci descritti da Ippocrate. Tra la fine del II ed il I secolo a.C. si sviluppa la conquista romana dell’Oriente Ellenistico, evento profondamente traumatico che fu causa di perdite di sapere enormi e, talvolta, irreparabili. Dall’antidoto usato da re del Ponto, in Asia Minore, Mitridate VI detto il “Grande” (120-63 a.C.), sconfitto da Pompeo presso l’Eufrate, deriva la formula del rimedio universale per eccellenza: la teriaca. Nel 91 a.C. Silla emana la Lex Comelia de sicariis et veneficiis diretta a reprimere lo straordinario traffico di tutta una serie di “venena stuporem facientia” che richiamano etimologicamente il vocabolo stupefacente. Risale al I secolo a.C. l’opera di Crateva dedicata al re del Ponto Mitridate VI Eupatore (120-63 a.C.) denominata Rhizotomaticon (andata perduta) caratterizzata da belle raffigurazioni a colori di piante in splendido realismo d’arte ellenistica e considerata il primo erbario figurato di cui siamo a conoscenza grazie alla nota di Ippocrate Epistola ad Cratevam in cui l’autore loda molto quest’ultimo definendolo un eccellente botanico. L’erbario figurato, grande invenzione dell’antichità, è un testo di farmacologia botanica in cui sono descritte le erbe medicamentose, osservate dal vero nella ricchezza delle loro forme e dei loro colori, e le loro proprietà terapeutiche. In epoca romana molte indicazioni di erbe salutari ci derivano anche dalla mitologia e dallo
  • 26. intervento benefico degli Dei: Apollo, è il conoscitore per eccellenza di tutte le erbe ed i rimedi, come ci attesta Ovidio (Metamorfosi, L.I., v. 32): Inventum Medicina meum est, opiferque per orbem Dicor, et herbarum subiecta potentia nobis. (La Medicina è mia invenzione e sono stimato porgitore d’aiuto per tutta la terra e sottoposta a noi è la virtù delle erbe...). Minerva, che ha fatto conoscere l’uso della camomilla (Matricaria chamomilla L.), dal greco Kamai (piccola, umile) e dal latino matrix (matrice), a significare alcune proprietà elettive sull’utero. Mercurio che introduce l’uso della mercorella (Mercurialis annua L.), comunissima erba nelle nostre zone detta anche “merda del diavolo” per la sua diffusione infestante, spesso usata per arrestare la secrezione lattea. Cerere che corre per i campi alla ricerca della diletta figliuola Proserpina e si cinge il capo con fiori che le conciliano il sonno. I bei fiori sono quelli del papavero (Papaver album L.) dalle cui capsule im- mature, per tagli trasversali, si estrae il lattice che imbrunendo all’aria, darà luo- go ai noti “pani d’oppio”, da cui la me- dicina ha tratto tanti vantaggi. A Venere, infine, è legata l’origine dei profumi: con una goccia del suo sangue e con un bacio del figlio diede alla rosa, fiore per eccellenza, la sua bellezza varia
  • 27. e splendente e soprattutto il suo profumo. I Romani furono maestri nel preparare i profumi traendo esempio ed ammaestramenti da terre lontane dalle quali riportavano numerose droghe. E’ famosa, ad esempio, la classica scena nella Casa dei Vetti a Pompei degli amorini profumieri distillatori. Si ha notizia, ad opera di Plutarco, che nel mondo romano esistevano “collegia opificum”, cioè organismi corporativi interessanti manodopera specializzata in vari settori, già ai tempi della monarchia. Il fenomeno corporativo, al pari di ogni altro, subì in Roma alterne vicende, al variare delle componenti storiche, dato lo stretto rapporto del fenomeno stesso con la libertà di iniziativa, la struttura sociale e lo sviluppo dei commerci. Le Corporazioni, inoltre, erano dotate anche di significativi elementi di sacralità essendo governate e protette da insigni Dei (Minerva, Ercole, Mercu- rio, per esempio) mentre ogni mestiere ed ogni applicazione tecnica erano caratterizzati da forti elementi iniziatici. La struttura della Corporazione degli Speziali Romani si svi- luppò e si diffuse nel periodo della Repubblica sotto il vigi- le occhio dello Stato. Verso la fine dello stesso periodo sto- rico, l’ampliarsi dell’impero territoriale di Roma portò a squilibri interni che sfociarono in antagonismi e sanguinose agitazioni; le Corporazioni, inserite ormai con impegno nel- la lotta tra le opposte fazioni politiche, furono sciolte per la quasi totalità ad opera di Cicerone con un Senatoconsulto nel 64 a.C. Le Corporazioni furono ricostituite nel 58 a.C. dal Tribuno Clodio con la “Lex de collegiis restituendis novisque
  • 28. instituendis” e furono, poi, sottoposte prima da Cesare e successivamente da Ottaviano a severe opere di revisione e di riforma istituzionale nonché di attento controllo statale. I romani, sin dai tempi della Repubblica, erano guidati da leggi precise d’igiene; sotto Nerone fu organizzata la classe dei sanitari, con l’istituzione dei medici primari e dei medici secondari. I medici primari od archiatri si distinguevano in archiatri palatini o medici di palazzo, ed in archiatri populares o medici comunali (urbani); i secondi, eletti dalla cittadinanza in numero proporzionato alla popolazione, venivano esaminati dal collegio degli archiatri ed erano tenuti a visitare i poveri infermi della città dalla quale erano pagati con adeguato stipendio. Durante l’impero di Antonino Pio gli archiatri populares erano dieci nelle città di primo rango, sette in quelle di secondo e cinque in quelle di terzo. Tutti i medici erano anche contemporaneamente farmacisti in quanto preparavano essi stessi i medicamenti da impiegare. Solo tardivamente, quando i preparati di- vennero più complessi, furono aperte in Roma delle speciali tabernae adibite appunto alla produzione ed al confezionamento dei medica- menti. Alcune erano più propriamente delle erboristerie (herbaria), addirittura con venditori specialisti di radici (rhizomatoi). Le tabernae erano veri e propri laboratori per la preparazione di far- maci composti (ma anche di profumi) ed i farmacisti operanti usava- no vasi, mortai, bicchieri, ampolle e fiale di vetro, bilance ed unità di misura. Il farmacista, a questo punto, era una figura professionale ben distinta e definita genericamente pharmacopola, la farmacia era denominata pharmacopolio ed i farmaci erano aggettivati col nome di pharma- ceutici.
  • 29. Plauto nelle sue commedie chiama il farmacista anche myrapola e myrapolium la farmacia. Plinio, invece, usa il termine di seplasia e di seplasarii per i farmacisti. Seplasium ha il significato di rimedio (a Capua c’è una piazza Seplasia riferita al luogo dove si svolgeva un tempo il mercato delle droghe). I farmacisti specializzati in unguenti erano detti unguentarii, i mercanti di profumi aromatarii, i commercianti di colori e profumi pigmentarii e, infine, i commercianti di incenso erano i thurarii e di droghe i myrobecharii. La scatola o il cofanetto dei medicamenti che il medico portava con sé nelle visite domiciliari era il loculus od il narthecium. Anche i Romani attingevano i medicamenti dai regni minerale, vegetale ed animale. Fra i minerali, ad esempio, si prescrivevano: verderame (aerugo), come lassativo e caustico-cicatrizzante; allume, come emo- statico ed astringente; solfato di rame (atramentum sutorium), come emostatico, astringente e contro le ul- cere torpide; bitume, per maturare gli ascessi e come depurativo; ossido di zinco (cadmia), come corrosivo; carbonato basico di piombo (cerussa), come empiastro per curare i morsi e le piaghe, come lenitivo; argilla (creta figularis), come emostatico; salnitro e/o nitrato di potassio (nitrum), come corrosivo ed emolliente; pietra pomice (plumex), come purgante, assorbente, espulsivo; cloruro di sodio (sal), come corrosivo e risolvente, e
  • 30. molti altri minerali ancora utili, altri meno (o addirittura inutili e pericolosi). Tra i medicamenti di provenienza animale, si possono citare: il grasso (adeps o sebum), la ragnatela (aranea), la vipera (si usava nella teriaca), la cantaride, il castoreo, la cera d’api, le lumache (coclea), il corallo, la colla di pesce (ichtyocolla), il midollo, il miele, il grasso di lana, le uova, lo sterco (!), le spugne. Largo uso era fatto di piante medicinali, tanto da poter considerare prevalente questo riferimento terapeutico. Galeno, ma anche altri grandi medici di Roma antica, come Celso, Catone, Scribonio Largo, Plinio e Dioscoride (quest’ultimo era greco ma lavorò anche a Roma) complessivamente citano almeno 600 diverse droghe vegetali medicinali. Le forme farmaceutiche più in uso erano: infusi, macerazioni, decotti, succhi, polveri, pillole (catapotia), pasticche (pastilla), unguenti, empiastri, cataplasmi, colliri, tamponi vaginali e tutta una serie di medicamenti composti (mixturae), tra cui famosi l’Antidoto di Mitridate (54 sostanze) e la Teriaca (oltre 500 ingredienti). Galeno sosteneva che i medici di allora dovevano ben conoscere le piante medicinali ed apprezzarne meglio il loro valore per usarle con la massima perizia. Nell’antica Roma, il medico dell’Imperatore Nerone, Andromaco il Vecchio, apportò un raffinato perfezionamento alla Teriaca aggiungendovi la carne di vipera. Questo potente contravveleno e specialità più famosa dell’antichità era ottenuta cuocendo la carne di vipera femmina depurata dalle scorie fino a renderla sfatta e miscelandola, poi, nel mortaio con oppio, scilla (cardiotonico) e molti altri ingredienti e polvere di pan secco raggiungendo una consistenza adatta a farne pasta per compresse, ovvero i famosi trosici di vipera. Negli anni a venire la Teriaca si arricchisce di portentose quanto fantasiose virtù e di inusuali mescolanze; tuttavia, mentre qualche semplice poteva essere sostituito per necessità, l’oppio doveva essere necessariamente quello di Tebe, di gran lunga più puro di quello turco, e la vipera doveva essere catturata in modo e tempi rigorosi.
  • 31. Il periodo delle scuole, che consiste nel definitivo trapianto della medicina greca nel mondo romano, è il momento di maggiore splendore della medicina a Roma coincidente con l’età imperiale. Sotto l’influenza delle varie scuole, che tuttavia degeneravano spesso in vere e proprie sette in aperta contraddizione tra loro, comincia a prendere forma un pensiero medico vero e proprio. Questo periodo abbraccia tre fasi ben distinte che hanno come punto di riferimento la figura di Galeno: la fase pre-galenica, quella galenica e quella post-ga- lenica. La scuola metodica prese questo nome perchè si proponeva di razionalizzare e semplificare la propria dottrina per renderla accessibile an- che alle menti meno brillanti. L’effetto che ottenne fu, invece, quello di togliere scientificità alla medicina e di avvilirne il signi- ficato. Ebbe come ispiratore Asclepiade di Bitinia (50 a.C. circa) il cui pensiero si basava sul fatto che la materia fosse composta da
  • 32. invece, dall’eccessiva larghezza o strettezza degli stessi (status laxus che provocava pallore, flaccidità e astenia e status strictus che era caratterizzato da rossori, calori e sete ardente). Negava, inoltre, il principio ippocratico della natura guaritrice che non poteva in alcun modo restringere o allargare i pori causa di malattia. Abbandonando, poi, la teoria umorale ridusse anche l’uso dei medicinali incentrando il suo modello di terapia su massaggi, idroterapia, passeggiate e musica. A questa scuola non mancarono, comunque, validi esponenti come Sorano d’Efeso e Celio Aureliano che andarono oltre la concezione degli atomi e dei pori occupandosi di patologia, di clinica, di terapia e di igiene. Nel 48 a.C. un incendio casuale propagatosi dall’arsenale durante l’occupazione di Giulio Cesare colpì la biblioteca di Alessandria d’Egitto. La scuola pneumatica rappresentò una reazione a quella metodica e il ritorno ad alcuni principi cari ad Ippocrate. Deve il suo nome al fatto che individuava il pneuma, cioè il respiro come base dell’economia vitale dell’organismo anche se riteneva molto impor- tante l’equilibrio degli umori sia per la costituzione fisica che per il temperamento. Fu fon- data intorno al 50 d.C. da Ateneo di At- taleia, famoso per i suoi studi di semeiotica e sul polso, che con siderava indice dello stato del pneuma nelle arterie. La scuola eclettica (dal 90 d.C.) tolse al sistema me todico la sua parte più ipotetica e assoluta
  • 33. l’accuratezza di alcune descrizioni anatomiche e di vari quadri patologici. L’enciclopedismo consisteva nella trattazione di argomenti o tematiche di qualsiasi genere. La medicina, essendo un settore ancora relativamente inesplorato, attirò molti tra i più famosi scrittori romani tra cui Cicerone, Vitruvio, Marco Terenzio Varrone, Lucrezio, Plinio il Vecchio, Gellio e Seneca che, pur non essendo medici, se ne occuparono comunque in maniera abbastanza approfondita. Durante il periodo di Diocleziano, inoltre, si ha traccia di determinazioni di tariffari dei medicamenti. Nel I secolo d.C., poi, fu Dioscoride Pedacio Anarzabeo, considerato il più grande farmacognosta dell’antichità (medico militare nelle legioni guidate dal proconsole Lucilio Basso durante la seconda guerra giudaica, intorno al 60 d.C., alla fine del potere dell’imperatore Nerone (50-68 d.C.) ed esperto di sostanze grazie alla possibilità di entrare in contatto con le vie carovaniere che giungevano al Mediterraneo dagli empori orientali) con il suo De Materia Medica a dare un sistema alle più arcaiche e mitiche forme del sapere: mentre in Teofrasto l’identificazione della specie è spesso impossibile per l’assenza della descrizione, con Dioscoride (e le edizioni critiche successive) si può stendere un elenco di oltre 500 vegetali. Esso reca ad ogni foglio, quasi sempre al verso, una grande immagine di pianta medicinale rappresentata con un realismo che, sostanzialmente ormai estraneo al gusto dell’arte bizantina, chiaramente deriva da quello di un precedente modello condotto ad evidenza sulla base della diretta osservazione del reale. Al recto del foglio si ha invece la descrizione della pianta e delle sue virtù terapeutiche.
  • 34. Dello stesso secolo è anche Scribonio la cui opera “Compositiones Medicamentorum” registra ben 242 medicamenti vegetali, 36 minerali e 27 animali ma pur sempre non può essere considerata una farmacopea. Successivamente, nel II secolo d.C., Galeno, nato a Pergamo e appartenente alla maggiore Scuola greca, l’Ippocratica-Umorale, dai forti legami con la ormai degradata scienza ellenistica, fu il riformatore e teorizzatore della medicina creando un sistema destinato a durare per 15 secoli senza significative contestazioni. Si battè con decisione contro l’imperversare delle scuole che, in ultima analisi, stavano portando la medicina verso un periodo di decadenza ergendosi ad arbitro di tutto lo scibile medico: tentò di separare il vero dal falso, indipendentemente dalla fonte di provenienza, riunificando i vari sistemi di studio con la raccolta di tutto il materiale a sua disposizione, esaminandolo e vagliandolo a fondo e cercando di perfezionare il metodo sperimentale che stava alla base del suo pensiero. Dal momento che dette anche particolare valore alla clinica ed alla patologia, si può certamente dire che fu l’artefice della più completa forma di medicina mai concepita fino a quel momento. In anatomia non si limitò a sterili descrizioni morfologiche: cercò di capi- re la funzione e la finalità di ogni singola parte dell’organismo, anche se sezionò più che altro corpi di animali (principalmente maiali, cani e scim- mie). La parti più minuziosamente trattate sono osteologia e neurologia. In fisiologia quasi ogni studio fu suffragato dalla parte sperimentale: scoprì la differenza tra nervi motori e sensitivi, distinse le lesioni degli emisferi cerebrali da quelle del cervelletto, valutò la funzione escretrice dei reni, la circolazione fetale e si occupò particolarmente degli organi di senso. Si soffermò, inoltre, a lungo sulla funzione circolatoria che,
  • 35. nonostante grossolani errori, avrebbe formato un caposaldo della fisiologia medioevale fino al rinascimento. I suoi punti fermi erano i seguenti: il fegato è il centro del sangue venoso e il cuore di quello arterioso; il cuore destro e quello sinistro comunicano tra loro; il sangue si esaurisce negli organi; le vene polmonari portano sangue sporco ai polmoni e lo riportano purificato al cuore. In clinica fu assai minuzioso: grazie alla diretta osservazione del malato, alla profonda conoscenza dell’anatomia ed all’esperienza accumulata durante i suoi studi di fisiologia era in grado di spiegare fatti e fenomeni che sfuggivano ai medici della sua epoca. Degna di essere ricordata è la diagnosi differenziale tra emottisi, ematemesi e sputo sanguigno da epistassi; descrisse inoltre vari tipi di febbre, i sintomi dell’infiammazione e sottolineò l’importanza dell’esame delle urine e della valutazione del polso di cui distinse non meno di 40 varietà. Galeno fu poi il primo vero esperto di medicina legale: si occupò di morti vere ed apparenti, iniziò la pratica della docimasia idrostatica polmonare per constatare, in caso di sospetto infanticidio, se il feto avesse o no respirato, e delle simulazioni delle malattie. In terapia partì dal concetto ippocratico della forza medicatrice della natura basandosi sulla regola del contraria contrariis. Ogni medicamento doveva poi essere di provata efficacia e pre- scritto per una ragione plausibile; conosceva quasi 500 sostanze semplici di origine vegetale e una vasta gamma di origine ani- male e minerale. Praticamente Galeno fu la fonte massima dell’arte medica e far- maceutica oltre che il fondatore stesso dell’arte farmaceutica dell’antico Occidente civile e, in un certo senso, egli rappresen- tò la sintesi di vari punti di vista mentre è molto probabile che nel suo sistema si integrassero anche dati e informazioni clini-
  • 36. che e farmaceutiche di origine etrusca e persino egizia e mesopotamica. Egli abbandonò gli elementi mitici e ricorse ai principi sperimentali quali basi delle sue ricerche, precorrendo il metodo della scienza moderna, in particolare nel campo della fisiologia. La sua opera, originariamente scritta in greco, venne tradotta in arabo e in latino giungendo in buona copia alla stamperia veneziana dei Giunta nel 1541. E’ suddivisa in sette tomi (anatomia, fisiologia, patologia e clinica, chirurgia e terapia). Il “De simplicium medicamentorum temperamentis et facultatibus”, manuale per le preparazioni di rimedi facili (una sorta di manuale “tascabile” da portare in viaggio, una specie di “breviario” del medico pratico itinerante) contiene 475 specie vegetali, frutto del suo peregrinare alla ricerca delle fonti dei medicamenti, come la terra lemnia nell’isola omonima e il bitume giudaico in Palestina. La sua teoria parte dagli assiomi ippocratici e dalla filosofia aristotelica: i quattro elementi costitutivi dei corpi non sono primari ma generati dalle quattro qualità principali tra loro variamente combinate (Dottrina delle Qualità: tutto è classificato in Caldo, Freddo, Secco, Umido). Fredda e secca è la Terra, fredda e umida è l’Acqua, calda e umida è l’Aria, caldo e secco è il Fuoco. Con tali criteri sono anche classificate tutte le altre sostanze e gli stati chimici: l’Aceto, ad esempio, è una delle sostanze considerate più Fredde; l’acidità è connessa con il Freddo al grado maggiore; tuttavia, essendo l’acido acetico volatile, si considerava l’Aceto Freddo (e Secco), ma “Leggero”. Le “cose di Terra” (cioè quelle propriamente Freddo-Secche) sono anche “Pesanti”, dense e poco volatili: in definitiva,l’Aceto rappresenta un singolare paradosso della scienza antica. Dalla mescolanza degli elementi hanno origine nel corpo umano
  • 37. dalla terra più il fuoco la bile gialla, dall’acqua più l’aria la pituita, dall’acqua più il fuoco il sangue. Il prevalere di un umore sugli altri fa parte della caratteristica di ogni uomo ma, quando per cause sconosciute si altera il primitivo equilibrio, subentra lo stato morboso. I Quattro Temperamenti sono: i Biliosi (Caldi e Secchi), i Malinconici (Freddi e Secchi), i Sanguigni ed i Flemmatici (che sono protetti dall’Umidità). Sempre secondo l’ippocratismo tradizionale, poi, si applicava la Tecnica di Compensazione per il ripristino dell’equilibrio organico. Altra opera di Galeno è la Perì aireseontois eisagomenois (Sulle scuole di medicina), in cui si considera l’influenza delle tre principali Scuole Mediche: la Dogmatica, l’Empirica e la Metodica. Galeno, inoltre, insegnò a comporre la teriaca, il potente contravveleno inventato da Andromaco. Con la morte di Galeno si ha la chiusura del periodo aureo della me- dicina romana. Nel periodo della medicina post-galenica, ad ogni mo- do, iniziò la tendenza allo sconfinamento del conoscibile nel campo dell’inconoscibile, caratteristica peculiare della medicina nel medioevo. Da ricordare Leonida di Alessandria (studiò la filaria e fu esperto negli interventi su ernia e gozzo), il famoso chirurgo Filagrio e negli suo fratello Poseidonio (si occupò delle malattie del cervello descri- vendo molto accuratamente i deliri acuti, gli stati comatosi, quelli catalettici, l’epilessia e la rabbia). In tale periodo è già presente la figura del medico itinerante. Tali me- dici erano differenziati in “ranghi” di competenza ed onestà; i massimi luminari itineranti viaggiavano sia tra le varie corti dei potenti sia tra
  • 38. i vari centri accademici, esercitando a clinica o l’insegnamento o ambedue, a seconda delle richieste; esisteva, poi, la massa dei medici meno noti, meno abili o semplicemente meno intraprendenti, fino ai ciarlatani e ai truffatori. È opportuno evidenziare che i medici itineranti appartenenti alle Scuole di origine greca, differentemente dai medici itineranti etruschi, scrivendo e tenendo pubbliche lezioni, non fecero perdere le loro tracce e passarono, dunque, alla storia. Plinio, Dioscoride, Galeno e numerosi altri autori antichi confidarono molto anche nella Dottrina della Signatura, credenza che la natura indicasse con segni esteriori i mezzi di salute che poneva a disposizione: colore, forma del vegetale o del minerale, somiglianza morfologica degli organi animali. Nel corso dei secoli successivi la Dottrina della Signatura non solo resistette all’usura del tempo ma si evolse più che per i puramente casuali risultati positivi soprattutto per talune scarse conoscenze mediche particolarmente in ambito farmacologico. Il colore fu il segno indicativo di più facile selezione: già i cinesi che traevano indicazioni d’uso dall’aspetto esterno o dalla somiglianza con le parti del corpo, non tardarono ad indicare il giallo rabarbaro nella cura dell’itterizia e su tale esempio si aggiunsero nel tempo lo zafferano, la chelidonia, la curcuma, ecc. Foglie e steli macchiati di rosso o di bruno indicavano che il vegetale era utile nelle emorragie od utile nelle malattie del sangue. Così le rosse ra- dici di tormentilla, i petali delle rose rosse, il sandalo rosso, il sangue di drago. La macchia della corolla dell’Eufrasia la indicò per le malattie oculari, mentre la corteccia tutta macchiettata della Betulla suggeriva l’uso per le lentiggini. Il Quercetano afferma utile l’Echio vulgare con le macchie
  • 39. che ricordano la pelle dei serpenti contro le loro morsicature, convinzione confermata anche dal Cardano ma su un altro segno: l’aspetto del seme che rassomiglia alla testa dei rettili. Dioscoride scopre la stessa virtù nella Serpentaria maggiore e minore dal gambo macchiato; la Pulmonaria è una delle tante specie botaniche il cui aspetto suggerì l’uso ed il nome. Pure la forma della droga contribuiva molto ad indicare le proprietà terapeutiche: l’Anacardio orientale cuoriforme era ritenuto cordiale, il Politrico che sembra un ciuffo di capelli era utile per l’alopecia. La Noce era interpretata quale indicazione per le malattie del capo: il guscio infatti ricorda il cranio, il seme interno il cervello, ricoperto da pellicole come il cervello dalle meningi. L’Alchechengi, il cui frutto ha l’aspetto di una vescica con all’interno la bacca rotonda giovava nelle calcolosi. Anche i metalli, le pietre preziose e comuni, furono soggetti alla Signatura: poiché la divinità ha segnato indelebilmente i farmaci al fine di poterli conoscere ed usare. La pietra galattite è bianca, dunque galattofora, il cristallo simile all’acqua, tenuto in bocca negli accessi febbrili, spegnerà la sete. Per quanto si riferisce al farmaco tratto dal regno animale, la segnatura rappresenta gli albori dell’organo-terapia, sia se rivolta agli animali in toto che a loro parti (il cervello di maiale nella perdita di memoria, i lombrichi seccati e polverizzati per espellere i vermi intestinali), sia a parti dell’uomo (la raschiatura di ossa di cranio per l’epilessia, la polvere di cuore essiccato nelle malattie cardiache, il distillato di capelli per l’alopecia). Nel III secolo d.C. fu utilizzato per la prima volta da Diogene Di Laerte il termine di farmacopea nel suo significato più ampio di “arte di preparare le medicine”.
  • 40. Fino al IIl secolo d.C. nel benessere economico e nella stabilità istituzionale e amministrativa che si erano creati nell’Impero successivamente a Cesare, i cui tentativi di ristabilizzazione erano stati inficiati da una eccessiva tendenza all’assolutismo monarchico, le Corporazioni mantennero, nonostante i controlli, la configurazione di persone giuridiche private. È un periodo di particolare favore che si conclude proprio nel III secolo d.C. sotto la spinta dei fattori denuncianti la progressiva decadenza dell’Impero: l’accentuarsi del dispotico potere dell’Imperatore sul Senato e sul popolo, l’inasprimento fiscale, il regresso della classe media, la crisi agraria, la depressione demografica. Tali fattori non potevano non influire sulle Corporazioni che, a causa della carenza di mano d’opera in diverse attività, furono trasformate da associazioni volontarie in associazioni obbligatorie, nel senso che l’appartenenza ad esse diventava coattiva, e lo era anche per i discendenti, in dipendenza dell’esercizio di un determinato mestiere. In tal modo lo Stato garantiva funzioni e servizi che di per sé non era più in grado di assicurare. Tale situazione alle soglie delle invasioni barbariche che sconvolsero ogni assetto economico, istituzionale e sociale, preparava il passaggio dall’era romana a quella medioevale, caratterizzata dalla travagliata fusione dell’elemento romano con quello germanico. Al 301 d.C. risalgono gli editti di Diocleziano, il primo intervento noto dell’Autorità nella determinazione del prezzo del medica- mento. Nel 391 d.C. per ordine del vescovo Teofilo fu appiccato un in- cendio alla biblioteca di Alessandria d’Egitto ritenuta “luogo pagano”. Giungendo al 470 d.C. rinveniamo Cassiodoro (ministro degli Ostrogoti con il re Teodorico e fondatore nel 540 di uno xeno- dochio in Calabria) che nella sua opera “Istituzioni Divine”
  • 41. raccomandava insistentemente d’istruirsi nell’arte della preparazione dei medicinali: “Apprendete a distinguere ogni pianta e a mescolare con cura ogni specie di droga. Se la lingua non vi è familiare, studiate il libro di Dioscoride in cui si tratta estesamente delle piante medicinali descritte, peraltro, con meravigliosa esattezza”. Nel 512 d.C. è realizzata a Costantinopoli, per la principessa bizantina Iuliana Anicia, una edizione del famoso Dioscoride (oggi conservata a Vienna) da cui ci è stata trasmessa un’adeguata immagine dell’originaria illustrazione di quest’opera famosa.
  • 42. Tuttavia, nell’opera vi è un certo collegamento con il mondo degli dei della tradizione omerica pur non mancando la sperimentazione venuta successivamente. Lo stesso ordine tenuto nella stesura dei cinque libri e la precedenza data a talune piante non rientrano nella nostra logica. Nel primo si parla delle specie aromatiche e delle essenze da loro derivate, come l’iris (dello stesso nome della messaggera degli dei) e l’alloro (simbolo di Apollo, dio del sole) che infonde calore nei diaforetici e va assunto per via interna. Nel secondo libro sono gli animali ed i loro derivati a costituire la serie dei rimedi con l’aggiunta di cose “acute e forti” come senape, cipolla ed aglio. Nel terzo si tratta di molte radici e semi domestici di uso alimentare, nel quarto di ciò che resta delle erbe e delle radici. Nel quinto libro la vite, il vino e i metalli introducono un discorso sui veleni, più ampiamente svolto nel sesto libro insieme alle sostanze in grado di opporvisi (ma dai filologi è ritenuto opera postuma). Si tratta della più grande opera di farmacologia botanica dell’antichità che fortunatamente è stata tramandata, attraverso i secoli, in tutta la sua interezza affermandosi ampiamente non solo nel mondo greco ma anche in quello romano e poi medievale. Ma la più grande fortuna dell’opera inizia dopo la prima edizione veneziana in lingua greca del 1499; dal 1544, poi, inizia la lunghissima serie dei commentari del Mattioli che illustrerà graficamente in modo sempre più accurato ogni specie. Tuttavia, il De Materia Medica, pur contenendo anche indicazioni sull’impiego terapeutico delle droghe allo stato di semplici ed anche di composti, non può essere considerato una farmacopea. Dell’opera originaria non è rimasta traccia: ci è stata trasmessa un’immagine adeguata dell’originaria illustrazione con il famo- so Dioscoride realizzato nel 512 a Costantinopoli per la prin- cipessa bizantina Iuliana Anicia e oggi conservato a Vienna.
  • 43. Dal 529 in poi, con la fondazione del Monastero di Montecassino ad opera di San Benedetto (480-544), la scienza della medicina e della farmacia greco-romana si rinchiude nell’ambito di pochi monasteri, (in Calabria a San Giovanni in Fiore, oltralpe a San Gallo ed in altri luoghi) dove si conservò la tradizione classica. Nei monasteri si copiavano e si studiavano i vecchi testi e si esercitavano l’arte medica e farmaceutica in un primo momento per necessità di vita. Questo fu un periodo oscuro per il fenomeno delle Corporazioni degli Speziali, sia pure con alcune eccezioni: a Roma i Collegi rimasero in vita, anche per iniziativa dello Stato interessato a conservare il beneficio dei tributi in natura ed in denaro da essi elargiti. Cassiodoro Senator (480-575), gradito a Teodorico il Grande, fondò nel 537 in Calabria il monastero di Vivaro dove si sviluppò una scuola medica monastica in cui si tradussero e si copiarono numerosi autori greco-romani come Ippocrate, Dioscoride, Galeno. Cassiodoro, inoltre, scrisse un testo enci- clopedico di storia naturale. Isidoro di Siviglia (560-636) scrisse l’opera enciclopedica Etymologiarum Libri XX, compendio in venti tomi sulle co- noscenze scientifiche ed artistiche del tempo, di cui vari libri sono dedicati alla medicina, alla storia naturale e alla dietetica. Intanto, cominciavano a sorgere, in una Europa con ampie zone avvolte nelle tenebre, importanti organizzazioni sanitarie: nel meridione della nostra Penisola aveva preso corpo nel VI secolo una Scuola Salernitana che manteneva un indirizzo ippocratico con poche influenze magico-astrologiche mentre più di un secolo dopo nella Renania, dove l’imperatore Carlo Magno aveva insediato il suo potere esteso a tutto il Continente,
  • 44. sorgeva un’organizzazione ispirata da Sant’Ildegarda da Bingen. La Scuola Salernitana, in particolare, rappresentò una cultura esclusiva radicata in una regione posta al centro del Mediterraneo e, quindi, aperta ad ogni scambio tra Oriente e Occidente e rese l’Italia Meridio- nale l’ambiente ideale per la nascita e il progresso della farmacia in forma autonoma tanto necessaria alla specializzazione della farmacologia, da nessun medico dopo Galeno ritenuta branca fondamentale per la medicina. Dopo la fine del mondo classico, per la caduta della scienza sperimentale in occidente e per la ricerca di astrazione che caratterizza la cultura medievale, intesa a sfrondare le cose dei loro accidenti per rivelarne solo l’essenza, il realismo dell’immagine botanica negli erbari andò man mano disperdendo- si a favore di un’immagine più o meno astratta della della pianta che, in certi casi, divenne così schema- tica e rigidamente simmetrica nelle sue parti da ri- sultare irriconoscibile. Si abbandonò completamen- te l’osservazione dal vero e il reiterato esercizio del la copia, di manoscritto in manoscritto, e si accen- tuò il processo di deterioramento dell’immagine che divenne simbolo, e non ritratto, dell’erba medicinale.
  • 45. Nel V secolo d.C. si verifica la caduta dell’Impero Romano d’Occidente che fu un altro grande evento catastrofico, in aree geografiche particolarmente ampie, a livello militare, politico, sociale, culturale e, dunque, foriero di ampio degrado della conoscenza e dei sistemi descrittivi del mondo. Al tramonto dell’impero romano, in Oriente, dove è vivo il contatto con il mondo bizantino, gli arabi accolgono quanto vi è di più prezioso nella tradizione classica in campo medico. Essi, quindi, attraverso il grande impero Arabo, insediato a Baghdad ma irradiato verso il Mediterraneo, diffondono la sapiente opera e cultura araba in Occidente facendo partecipi i saggi di Spagna, della Sicilia, della Tunisia, dell’Algeria e del Marocco. Ciò valse non solo a conservare e tramandare il sapere greco, di cui gli arabi erano i veri eredi, ma ad arricchirlo considerevolmente impegnati, nel contempo, a perseguire una loro propria scienza sperimentale arricchendo in particolare le loro cognizioni di farmacologia botanica anche con la conoscenza e l’uso di piante sconosciute all’antichità, come per esempio gli alberi da frutto importati dalla Persia, e influenzando anche la cultura dell’esistente realtà conventuale cristiana: si ampliò la conoscenza sia delle erbe, delle droghe e dei modi opportuni per combinarle sia degli strumenti di laboratorio e delle tecniche di conservazione dei vari medicamenti. In effetti, gli arabi volgarizzarono l’uso dell’alambicco (allora indispensabile per la preparazione di alcool, alcoolati, essenze e acque aromatiche), degli apparecchi di filtraggio, dei vasi d’argento e d’oro per la conservazione dei medicamenti più complessi nonché dei vasi di vetro o porcellana di Cina per la conservazione degli sciroppi; la materia medica vegetale, inoltre, si arricchisce della cassia, senna, tamarindo, noce vomica, rabarbaro, seme santo, zucchero, canfora.
  • 46. Si deve agli alchimisti Arabi, inoltre, il grande sviluppo delle tecniche di distillazione con gli “alambicchi” che utilizzarono perseguendo l’idea di tentare di estrarre lo “spirito” (il respiro vitale emesso dal Sole che dà vita alle cose), che si riteneva esercitasse la funzione di legame per tenere assieme gli elementi terreni e i frutti della terra. L’alcool distillato dal vino e dalla frutta fu, ad esempio, ritenuto un elisir magico in quanto medicamento capace di curare dalle infezioni delle ferite ed anche vari altri mali. L’Islam dette un grande incremento alla civiltà mediterranea e riuscì a integrare sotto un nuovo profilo concettuale la scienza classica di origine greca con la cultura orientale (dell’India e della Cina). In particolare ciò avvenne quando l’impero islamico realizzò il suo immenso dominio esteso dall’India alla Persia al nord-Africa e, poi, alla Sicilia e alla Spagna. In quell’epoca fu al massimo fulgore la capitale dell’Islam, che si spostò da Damasco (661-750 d.C.) a Bagdad, dove con grande tolleranza culturale il Califfo Harum al-Rashid (786 - 809 a.C.) detto l’Illuminato, famoso per i riferimenti al suo tempo nel libro “Le Mille ed una Notte”), iniziò a far convergere le culture dei popoli conquistati per dar sviluppo alla “Casa della Sapienza” con una grandiosa biblioteca e grande mecenatismo per i saggi di ogni provenienza culturale e religiosa. In questo ambito l’alchimia islamica fiorì sviluppando la così detta “via umida” (detta così a differenza delle “via secca” che utilizza il fuoco per fondere sostanze omogenee e separarle da quelle eterogenee). Le nuove tecniche alchemiche condussero a scoprire molti acidi ed alcali e nuovi sali nonché liquori medicamentosi utili a rende re più perfette le attività dell’essere umano. La finalità della “via umida” fu quella di ricercare l’Elisir di lunga vita, ovvero
  • 47. “Oro-Liquido” oppure la “Medicina Vera ed Universale” come estremo obbiettivo del perfezionamento della vita terrena. Avvenimento di enorme importanza per la nascita della moderna “apoteka” fu, dunque, l’avvento dell’arte della distillazione, praticata soprattutto negli ambienti delle spezierie monastiche. Essa, introdotta grazie all’acquisizione dell’esperienza medica araba, fece progredire sensibilmente l’arte farmaceutica. La distillazione, permettendo l’uso terapeutico delle acque e delle essenze, aprirà la strada, oltre che alle moderne tecniche dell’estrazione dei principi attivi delle piante, alla specializzazione per uso “confortativo”, cioè alla creazione di quell’arte profumataria e liquoristica che tanta fortuna avrebbe avuto dal finire del secolo XVI in poi. Diversamente dal mondo Arabo, l’Alchimia divenne “arte segreta” nella sponda cristiana del mediterraneo, dove alli- gnarono gente di malaffare, stregoni dediti ad arti magiche ed occulte oltre che studiosi di scienza. Per tutto il Medio- evo e sino al diciottesimo secolo la ricerca alchemica o Opus Magnum è stata al centro dell’interesse di iniziati che rinvenivano in essa un mezzo privilegiato volto a rag- giungere la conoscenza e l’illuminazione ermetica, legate anche a canoni di perfezione. Nel Medioevo in luoghi di “culto” si svolgevano complessi riti di matrice esoterica, noti solo a pochi uomini di conoscenza nei campi della geometria, matematica, astronomia, mineralogia, ecc. Il percorso, comunque, era indirizzato alla realizzazione di un “cammino spirituale” atto a far progredire l’alchimista attraverso l’Opus Magnum fino alle soglie dell’ascesi mistica.
  • 48. Il più famoso alchimista arabo fu Giabin ibn Hayyan, che visse durante la seconda metà del VII sec. d.C. e perfezionò il processo di distillazione costruendo nuovi tipi di alambicchi con cui ottenne moltissimi altri elixir e tinture a base di alcool ed anche l’acqua distillata quale solvente esente da impurità. La preparazione dell’alcool (la cui etimologia deriva da al-ghul che significa spirito del demonio) fu permessa per uso medicinale nonostante che l’assunzione di bevande alcoliche fosse proibita e punita con fermezza dal Corano. Il chimico Geber (715-815) preparava l’acido nitrico nonché, per distillazione, quello acetico e, ancora, gli si attribuisce la scoperta dell’alcool e la composizione dell’acqua regia. Tutto ciò dà luogo al fiorire della polifarmacia, come si riscontra dalle opere dei più famosi medici- farmacologi del tempo: Rhazes, Mesué, Avicenna. Abi Zahary ibn Masuyak, latinizzato in Mesué, arabo cristiano di Ni- nive, vissuto a Baghdad che tra il 700 e l’800 rielabora tutte le cono- scenze mediche dell’epoca integrandole con notizie tratte dalla tradi- zione orientale condensando in due opere le pandette della Medicina e la Farmacopea generale. L’opera Antidotarii di Mesué, e quelle posteriori del Liber Medicinalis Almansoris di Rhazes (875-923) e dei Canoni di Avicenna (X secolo) vengono conosciute in Europa nei contatti che si stabiliscono anche attraverso le crociate con l’Oriente. Nel 641 d.C. un devastante incendio ordinato dall’Emiro musulmano Amir Ibn As con il permesso del Califfo Omar causò la definitiva distruzione della biblioteca di Alessandria d’Egitto. Dopo questo ultimo incendio, i molti libri che pure si erano salvati furono comun-
  • 49. comunque usati come combustibile delle caldaie. Al IX secolo risale il Liber aggregatus in medicinis simplicibus vasto trattato sulle erbe medicamentose o semplicemente utili alla buona salute opera, tradotta in latino, del medico arabo Serapione il Giovane. Altri testi arabi saranno adottati secoli dopo come Codici Ufficiali: il Dinameron di Nicolò Mirepso, ad esempio, fu adottato fin dal 1300 nella Facoltà Medica dell’Università di Parigi mentre l’Antidotario Salernitano fu “legge” per gli Speziali di Heidelberg nella seconda metà del 1400. Le cognizioni della scienza araba filtrarono ben presto in Italia meridionale venendo accolte ed elaborate presso la scuola medica di Salerno. Nel IX secolo la Scuola Salernitana nacque inizialmente come un centro di medicina pratica laica dedita agli studi medici ippocratici dove dotti in scienze mediche commentavano davanti agli studenti la patologia del malato e la relativa terapia; basato quindi sulla pratica, sulla deduzione empirica. Questa scuola è considerata la più antica ed illustre istituzione medievale medica del mondo occidentale; in essa confluirono tutte le grandi correnti del pensiero medico fino ad allora conosciuto: poco si sa della sua fondazione ad eccezione di una leggenda che l’attribui- sce a quattro medici: Ponto, greco, Helinus, giudeo, Adela, arabo e Salemus, latino, le cui provenienze rispecchiano le influenze culturali presenti. La leggenda narra, infatti, che nacque dall’incontro di un medico romano, uno greco, uno ebreo ed uno arabo. Una delle novità più importanti di questa scuola sta nel fatto di non accettare passivamente la malattia: non solo non si arrende
  • 50. di fronte ad essa, combattendola ecurandola, ma, soprattutto, cerca di prevenirla con ben precisi strumenti medici; si oppone, inoltre, alla teoria secondo la quale è inutile curare il corpo in quanto la vera salvezza non appartiene al mondo terreno. Alla base del concetto di medicina della scuola di Salerno stanno approfonditi studi anatomici sul corpo umano, l’importanza dell’armonia psico-fisica e il valore di una dieta corretta ed equilibrata, principi che ancora oggi sono ripresi e riaffermati dalla medicina psicosomatica e dalla scienza dell’alimentazione. Altro grande progresso è il fatto che i maestri salernitani sono disposti a scendere dalla cattedra per avvicinarsi al letto del paziente e discutere con gli allievi degli aspetti clinici delle malattie. Non era comunque facile diventare medico a Salerno: prima bisognava studiare la logica per tre anni, poi altri cinque erano di scuola medica (non solo la teoria sui classici greci ma anche la pratica con autopsie per poter riconoscere i vari organi e capirne la funzione) ed infine si sosteneva un esame sia con il maestro del corso sia alla presenza di un collegio composto da altri medici. Se l’esame veniva superato, il giovane medico riceveva un attestato davanti al quale il re rilasciava la licenza per esercitare la professione non prima, però, di avere trascorso un anno come tirocinante presso un medico anziano. Da notare, infine, che la scuola era aperta indistintamente a uomini e donne (queste ultime, tuttavia, esercitavano soprattutto la ginecologia). Sempre nel IX secolo sotto la dinastia dei Califfi Abbassides furono scritte le prime regole del diritto farmaceutico di Bagdad. A partire dal X secolo i monasteri diventano centri di produzione dei medicamenti, elargiti dai monaci in cambio di elemosine, ed importan- ti produttori e custodi di manoscritti di medicina, farmacia e botanica.
  • 51. Con l’incremento dell’attivitàdi assistenza medica rivolta agli ammalati i monaci, soprattutto Benedettini (è il caso di ricordare la Regola di San Benedetto che vuole presso ogni Convento un “orto dei semplici” per avvicinarsi a Dio attraverso il suo giardino), seguirono ampiamente i consigli di Cassiodoro e moltiplicarono le conoscenze e la produzione di erbe. Essi crearono, a tale scopo, veri e propri orti botanici dove coltivavano erbe provenienti da ogni parte del mondo ed in apposite domus medicorum, poi, elaboravano composti sotto l’occhio vigile del monacus pigmentarius. San Benedetto da Norcia fu tra i primi a sostenere che la scienza curatrice era da intendersi come manifestazione della volontà di Dio e attributo necessario del Cristo. Egli si allontanò dallo stretto misticismo imposto per dedicarsi all’assistenza del corpo oltre che dell’anima. Oltre a stabilire le Regulae per guarire ed assistere i malati, definì la struttura dei ricoveri e le mansioni dei medici e degli infermieri. All’interno delle strutture monastiche la spezieria, presente fin dai tempi più antichi, aveva un proprio locale autonomo ed era attigua alla casa del medico e all’infermeria ed era inserita in una serie più articolata di ambienti dove sono riconoscibili an- che l’hortus sanitatis e la sala dei salassi e delle piaghe. La spezieria era, dunque, una vera e propria struttura ben orga- nizzata, rivolta alla cura e all’assistenza degli infermi cui, co- me era previsto dalla Regula, doveva corrispondere un altret- tanto organizzata distinzione di ruoli e di funzioni secondo quanto era previsto dalla Regula. Un ruolo preminente doveva essere svolto dal monacus pigmentarius, o monaco speziale, che nella scala gerarchica
  • 52. delle strutture conventuali veniva subito dopo il priore o il sottopriore. Egli, almeno fino a quando i medici non si costituirono in corporazioni e pretesero di diagnosticare le malattie, aveva la completa gestione della cura. Nel 980 nasce a Buchara in Persia Avicenna, autore dei Canoni. Già poco tempo dopo la nascita della religione cristiana iniziò la pratica dell’assistenza caritativa agli ammalati e ai poveri in appositi ospizi e ricoveri: si chiamavano xenodochia quelli riservati agli stranieri, ptochia quelli per i poveri, gerontocomi erano dette le strutture per gli anziani, brefitrofi erano i luoghi dove si curavano i bambini e orfanotrofi quelli destinati a chi aveva perso i genitori. Sorsero praticamente allo stesso tempo delle associazioni dette Ordini Ospedalieri che avevano in realtà una triplice natura: erano ospedalieri, militari e religiosi, visto che spesso svolgevano la loro attività in terre straniere tra gli infedeli e i nemici del cristianesimo. L’apparato assistenziale nel primo Medio Evo era inteso come semplice luogo di ricovero per i poveri bisognosi o vero e proprio “albergo dei poveri”. Nel corso di epoche successive il sistema ospedaliero, articolato in genere in ospedali, ospedaletti, ospizi, denunciava sovente non poche carenze: si trattava sovente di strutture gravate da difficoltà finanziarie dipen- denti da una cattiva amministrazione, dall’utilizzo di fondi a scopo personale e da abusi di varia natura. Intorno al IX secolo, con lo sgretolarsi della struttura feudale, corrosa dal suo interno da violente lotte ed antagonismi, con il definirsi della sintesi tra romanità, germanesimo e Cristianesimo, con la fuga dalle campagne e la rinascita della città, si determinò un risveglio economi- co, sociale, artistico e culturale particolarmente accentuato dopo il Mille.
  • 53. Gli organismi corporativi ripresero vigore, anche in concomitanza con la formazione dell’Istituto comunale, a partire dall’Italia Settentrionale e Centrale, frutto non di una brusca rivoluzione ma di una graduale conquista da parte delle forze economiche e sociali che stavano emergendo, e si sarebbero consolidati nei successivi primi secoli dopo l’anno Mille. Gli organismi corporativi ripresero vigore e sarebbero giunti, successivamente, ad una tale forza economica e politica da porsi, in molte città italiane, in contrapposizione con il Comune stesso. Dopo l’anno Mille molti centri italiani conobbero l’arte della maiolica che si caratterizzò in tutta la Penisola con manufatti di un colore verde bruno su fondo bianco maiolicato definiti ceramiche arcaiche. Importanti figure della Scuola Salernitana in questo periodo sono Garioponto (970-1050), autore della raccolta di testi bizantini Passionarius Galeni e Alfano (1015-1085), medico che studiò a Monte cassino la cui opera è ugualmente di influenza bizantina e greco-siriana. Sul finire dell’XI secolo si ha l’influenza medico araba ed il rafforzamento di una personalità tipica dello Studium Salernitanum: Constantino l’Afri- cano (1020-1087) di Cartagine, dedito al commer cio di droghe e viandante in Oriente ed Europa si stabilì a Salerno e, poi, con una carta di raccoman- dazione dell’Arcivescovo di Salerno Alfano fu
  • 54. Il Tractatus de aegritudinum curatione è un’opera collettiva in cui si ritrovano gli insegnamenti di medicina generale di vari maestri di Salerno. Va ricordato tra gli scrittori arabi tradotti in latino Ibn Botlan vissuto nell’XI secolo e autore di un semplice trattato di farmacologi botanica, ad uso domestico, conosciuto in Occidente sotto il nome di Tacuinum sanitatis. Le Crociate in Terrasanta (XI-XIII sec.) contro il dominio musulmano valsero a creare importanti rapporti commerciali e culturali fra Occidente ed Oriente, il mondo europeo ed il mondo arabo, con il conseguente arricchimento delle città marinare. In questo periodo fiorisce la Via della seta che attraverso Samarcanda governava gli scambi tra la Cina, la Persia ed i Paesi del Mediterraneo Orientale consentendo l’introduzione di ingenti quantità di materie prime di eminente importanza per la medicina (canfora, storace, rabarbaro, oppio) e per il gusto (pepe, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, tamarindo). In questo periodo di scambi commerciali è documentata da atti di archivio la presenza a bordo di molte flotte navali di Speziali con precisi compiti di controllo e di consulenza in merito alla qualità dei prodotti sia d’interesse medicamentoso o cosmetico che, talora, persino culinario. E’noto che le spezie entravano in Occidente in parti colari involucri, ricavati dalle canne di bambù, chia- mati albarelli. Se in un primo momento questi invo- lucri vennero conservati o rivenduti insieme al con- tenuto, in seguito, per opportunità di durata o per migliorare la conservazione del prodotto, si provvide a sostituirli con altri che, simili per forma, erano ese- guiti in ceramica.
  • 55. Intorno al 1080 ad opera di un medico della famiglia dei Plateari, per alcuni Matteo, per altri Giovanni II e per altri ancora Giovanni III, venne creato un nuovo dizionario di farmacologia botanica, ricco di nuove piante e di nuove indicazioni terapeutiche, che si conosce con il nome di Circa instans, dalle prime parole dell’introduzione, o di De simplici medicina oppure, con dizione più attraente, di Secreta salernitana. La riconquista di Toledo nel 1085 vede porre a disposizione dei cristiani una significativa quantità di manoscritti arabi che erano stati accumulati dall’invasione del 711. Nel 1135 ad opera dell’Arcivescovo vi fu l’istituzione della scuola di Toledo composta da traduttori cristiani e giudei. Il lavoro di questo gruppo, che iniziò con la traduzione del Corano seguito dalle opere di Tolomeo ed Aristotele, ebbe un lungo periodo aureo di traduzioni dall’arabo e dal latino che si concluse nel XIII secolo. Nel XII secolo, nel pieno sviluppo della civiltà romanica, l’astrazione dell’immagine botanica raggiunse effetti di straordinario virtuosismo, come documenta il Corpus apuleiano (il De herbarum virtutibus opera di Pseudo Apuleio e il De herbis jemininis opera di Pseudo Dioscoride) illustrati da 200 immagini di cui i tre quarti non sono na- turalistiche ma chiaramente sul modello di manoscritti duecenteschi mentre le restanti sono tratte dal vero e di altissima qualità, con una eccezionale tridimensionalità e con una forza d’immagine e di colo- colore che ne fanno dei veri capolavori di arte astratta. Nel 1134, per diffusa esigenza di maggiore rigore scientifico, Rugge- ro II d’Altavilla emana un Decreto nel quale si obbliga chi volesse esercitare la professione di medico e farmacista a presentarsi alle auto rità dello Stato che, valutato il diritto, rilasciavano l’autorizzazione.
  • 56. Nel 1144 giunse alla Scuola di Toledo Gerardo da Cremona (1114-1187) che vi impresse un notevole impulso traducendo ben 90 opere di varie aree del sapere includendo 24 opere di medicina tra cui gli autori Galeno, Hippocrate, Al-Israili, Razés, Al-Wafid, Serapione, Abulcassis, Al-Kindi e Avicenna. Dopo la morte di Gerardo da Cremona il lavoro di traduzione fu continuato da numerosi suoi collaboratori e discepoli. In questo periodo Hildegarda da Bingen (1098-1179), badessa del Convento benedettino di Disibodenberg, scrive testi sull’uso di medica- menti estratti da piante e animali. Fin dal 1100 la Scuola medica salernitana adottò un metodo di insegnamento teoretico logico e moderno mettendo a disposi- zione degli studenti testi nei quali veniva scritta - quindi codifi cata - la ricerca della Scuola stessa. É questa innovazione scolasti ca che trasformerà la Scuola medica di Salerno in una Università quale oggi noi la intendiamo. É nel momento di trasformazione del metodo scolastico della Università di Salerno che appare la figura di Nicolò Praepositus Salernitanus
  • 57. l’introduzione di nuovi medicamenti tra cui la spongia soporifera anestetica, il giusquiamo e la mandragora. Questo testo viene considerato come la prima raccolta di ricette della medicina europea e per molti secoli ha costituito la fonte ufficiale, alla quale fare riferimento, per medici e farmacisti; ispirerà i vari erbari, ricettari, compendi e antidotari che seguiranno, sino ai primi anni del XVIII secolo. La Scuola di Salerno fu il centro della formazione medica in Europa fino al XII secolo. I medici ivi formatisi si diffondevano in tutto il Continente e nel contempo nuove università sorgevano. La Medicina si collega al sistema universale del sapere e della filosofia e cessa di essere una mera attività manuale: questa tendenza, già verificatasi nel mondo arabo, si approfondisce nel mondo cristiano generando un nuovo corpus teorico di concezioni tradizionali simile al mondo islamico grazie all’influenza di Salerno e Toledo. A Salerno e Montpellier, vi erano i professori di medi- cina che daranno vita all’impulso per creare università. A Montpellier la scuola medica fu autorizzata nel 1180. L’istituzione di università nasce dalla necessità di docenti e discenti di creare una propria struttura, differenziata dalle strutture clericali originarie, capaci di affermare i suoi diritti e privilegi. A Parigi l’Università fu
  • 58. giuristi, in quella di Oxford i teologi. Nel 1161 è scritto il testo medico-farmaceutico, di una certa importanza a quel tempo, dal titolo Macer Floridus attribuito a Otto de Meudon che tratta delle virtù di 77 piante medicinali. L’organizzazione del Comune appare documentata fin dall’inizio del XII secolo per la presenza, testimoniata dalle fonti, di Consoli alla guida delle città. Diversi fenomeni indipendenti e verificatisi a distanza di tempo l’uno dall’altro, poi, concorsero in modo determinante all’istituzione di veri e propri esercizi professionali riconoscibili come precursori delle future farmacie. Il primo è legato ai Concilio di Reims del 1131 ed al Concilio del Laterano del 1180 che interdissero ai monaci, per motivi esclusivamente religiosi, l’esercizio della medicina e della farmacia. Tali provvedimenti, intuitivamente, aprirono ancor più la strada ai laici che, nel giro di un secolo, si impadronirono di tutte le conoscenze mediche e farmacologiche. Un altro fenomeno riguarda l’apertura di molti ospedali, dapprima legati ai monasteri e poi anche laici, che richiedevano l’istituzione di vere e proprie farmacie con un apotecario medico-farmacista. Altro fenomeno fu, nei primi anni del 1200, la promulgazione della Legge di Arles con la quale la preparazione delle medi- cine era proibita ai medici e riservata a specialisti. Al tempo delle crociate, poi, il mondo occidentale conobbe le importanti droghe di origine orientale che avevano contribuito allo sviluppo delle civiltà cinese, persiana, mesopotamica ed egizia e questo non solo per ciò che riguarda i medicamenti. Lo zucchero, la canfora, l’aloe, l’oppio ebbero un’importanza fondamentale, ma i coloranti, le essenze come muschio e
  • 59. ambra aprirono la strada a nuovi impieghi ed a nuove specializzazioni. Necessitavano soprattutto, sufficienti conoscenze per trattare sostanze dotate di notevole valenza terapeutica, se impiegate alla giusta dose; contrariamente gli effetti tossici avrebbero potuto dare risultati letali. Quest’ultimo fenomeno fu compreso dal genio di Federico II di Svevia, Imperatore di Germania e Re di Sicilia e di Puglia dal 1212 al 1250, grande statista ed uomo di cultura, (alla cui Corte raffinata appartenevano numerosi uomini di superiore levatura e in cui incominciava a farsi strada l’orientamento a migliorare per tutti la qualità della vita) che con rigidi provvedimenti amministrativi regolò con estrema precisione l’esercizio professionale della medicina e della farmacia. Federico II promulgò le Costitutiones e le Novae Constitutiones utriusque Siciliae tra il 1231 ed il 1240, punto di partenza per la realizzazione di un vero e proprio servizio farmaceutico, con le quali (Titoli 46 e 47)
  • 60. vietò al medico di fare lo speziale, istituì il ruolo del farmacista, stabilì le regole per l’esercizio della farmacia tra cui la proibizione di vendita delle sostanze velenose, conferì al medico la la possibilità di denunziare lo speziale per ogni inadempienza o ine- sattezza nella preparazione dei medicamenti e nell’esercizio della sua professione, fissò il controllo del numero degli esercizi degli speziali in rapporto al numero di abitanti ed al loro stanziamento, l’ubicazione ed il controllo delle staciones per l’allestimento e la distribu- zione dei farmaci, introdusse la tariffa dei medicinali, obbligò medici e speziali ad un preciso giuramento con il quale si sanciva il controllo dell’attività profes- sionale da parte dello Stato attraverso due ispettori nominati dall’Imperatore. Agli elementi autoctoni greco-latini ed arabi, dunque, se ne erano aggiunti im- portanti altri di provenienza germanica con la calata della dinastia Sveva su Pa- lermo e la presa di potere del Regno di Sicilia. Sempre nel 1240 nelle Constitutiones di Federico Il appare il primo atto speci- fico per imporre una tariffa ai medicinali in quanto tali e non come generiche merci
  • 61. autorità pubblica si presentavano ancora debolmente configurati. Ma, a partire dal Basso Medioevo, la rete di connessioni e di intrecci che si erano venuti a creare tra coloro che esercitavano uno stesso mestiere si disegnò in un qua- dro gerarchizzato e verticistico che non escludeva la possibilità di un “accordo” tra logiche di interessi anche non coese tra loro. Gli associati, inizialmente mediante norme transitorie e occasio- nali, poi attraverso forme istituzionali stabili e durature, giunsero alla codifica di formule statutarie destinate a regolamentare la vita dei gruppi corporati sulla base di principi che riconoscevano una gerarchia di poteri garanti di equilibrio ed equità per tutti. Il primo ospedale sorto in Italia fu quello di S. Spirito in Sassia, fatto costruire dal Papa Innocenzo III nel 1201 a Roma. A questo seguirono poi gli ospedali di Pistoia (1271), quel- lo di Firenze (1288). A partire dal XII sec. si può fare in Europa un conto approssima- mativo di una pestilenza più o meno grave in media ogni 10-15 anni. Senza contare la lebbra, una delle malattie più conosciu-
  • 62. naturali e soprannaturali: l’opinione più diffusa era la presenza nell’aria di vapori nocivi contenenti un veleno pestilenziale; un’altra ipotesi era quel- la di giganteschi incendi scoppiati in oriente che producevano fumi velenosi, oppure il morbo poteva provenire anche dalle viscere della terra o dal cielo a causa di mali- gne congiunzioni astrali. Ci fu, poi, anche chi pensava all’avvelenamento dei pozzi da parte di ebrei o di leb- brosi, scatenando così vere e proprie persecuzioni soprat tutto in Francia, credenza che rimase radicata nella storia dando luogo alle dicerie sugli “untori” in epidemie poste- riori. Sin dalla prima metà del 1200 si costituiscono potenti e fioren- ti Corporazioni maggiori, fra cui l’Arte dei Medici e degli Spe ziali, nelle città di Firenze, Venezia, Bologna, Siena. Tali istituzioni avranno una notevole influenza nel tracciato storico dei Comuni in quan to i loro Statuti non solo si richiamano a regole di conoscenza e di comportamento ma promuovono valori culturali ed etici nella pratica dell’arte e nel contesto sociale. Nella società d’antico regime le Arti svolgevano il ruolo di coagulo e di coordinamento di ogni attività artigianale, imprenditoriale, mercan- tile; promuovevano e regolamenta- vano funzioni mutualistiche, caritate- voli e di sostegno a favore dei soci e dei loro familiari, proteggevano i
  • 63. salvaguardavano le autonomie professionali dei consociati. Il “patto” stipulato tra i “corpi” sociali e il sovrano costituì per lungo tempo il fondamento politico-istituzionale sopra il quale andarono a innervarsi logiche privatistiche e istanze assolutistiche3 . Per motivi storico-politici a Roma la Corporazione degli Speziali “Universitas Aromatario- rum” prende forma molto più tardi rispetto ad altre città italiane. Secondo il Davidshon, le Corporazioni degli Speziali si distinguono non di rado per un marcato carattere di autonomia. Quando nel 1293 a Firenze gli “Ordina- menti di Giustizia” di Giano della Bella cercarono di ridurre la supremazia della Corporazione non ebbero esito fortunato, probabilmente, a causa del prestigio e del potenziale economico notevoli raggiunti dall’Ar- te degli Speziali. La valenza politica delle Corpora- zioni degli Speziali, inoltre, trova riscontro in