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UN AMORE INNOCENTE
Di quando avevo otto anni ricordo davvero pochissimo. Non ricordo
la scuola. Non ricordo i miei giocattoli o il mio programma
preferito in tv. Non ricordo la maggior parte dei miei compagni di
scuola e sono convinto che se li rivedessi ora probabilmente
nemmeno li riconoscerei. Forrest Gump diceva che è strano come
alcune cose le ricordi perfettamente mentre altre invece per
niente. Io ricordo perfettamente quel singolo giorno. Un giorno di
metà Aprile. Il giorno in cui sperimentai per la prima volta degli
acerbi e teneri sentimenti che un giorno avrei chiamato “amore”.
Ricordo perfettamente quel giorno. Era lunedì di Pasqua ed io lo
passai con la mia famiglia. Se non ricordo male, lo passai solo
con mia madre e altri parenti nemmeno tanto stretti. Fratelli e
cugini di un mio zio, credo.
Mi ricordo bene l‟arrivo nella piccola proprietà di campagna in
mezzo al verde e a poca distanza da una grossa e fitta pineta. Mi
ricordo quel giorno. Ricordo il sole cocente che colorava in varie
tinte di giallo tutto quello che mi circondava. Ricordo il profumo
del pane fatto in casa, quello dell‟erba martoriata dal sole,
quello del terreno ancora bagnato dopo esser stato innaffiato.
Ricordo la sensazione che provavo sulle dita quando, per gioco,
staccavo pezzi di corteccia dagli alberi. Ricordo il cinguettio
degli uccelli e il vento che soffiava nelle orecchie. Mi ricordo
lei. Era una bambina, come me: i capelli biondi, gli occhietti
vispi e azzurri. Le lentiggini le avvolgevano il viso e indossava
uno di quegli orrendi vestitini rosa e tappezzati di fiori che le
mamme scelgono per le loro bambine. Le scarpette con la cinghia e
i calzettoni bianchi fino al ginocchio. Si Chiamava Chiara e non
l‟avevo mai vista prima. Si chiamava Chiara e per tutta la
giornata fu la mia fidanzatina. Gli adulti erano troppo presi dai
loro pensieri e nemmeno si accorsero della tenerezza sbocciata tra
i due unici bambini presenti.
Arrivammo alla casetta rustica e mia madre subito mi lasciò la
mano per lasciarmi libero di “esplorare” il nuovo ambiente. Mi
avvicinai alla cucina, la zia stava impastando il pane.
“Vai a giocare fuori.” mi disse con voce dolce, “Oggi è una così
bella giornata.”
Caracollai fino al giardino antistante quella vecchia casa di
pietra e cominciai a guardarmi intorno. La piccola Chiara era
proprio lì: al centro del giardino. Dondolava seduta nel centro
dell‟altalena a due piazze. Tra le mani stingeva una bambola
bionda con i capelli tutti stropicciati. Dondolava e accarezzava
la sua bambola. Sembrava una bambina molto triste.
“Ciao” le dissi, “Io sono Salvatore. Tu come ti chiami?”
“Chiara” rispose con un sussurro.
Continuò ad accarezzare la sua bambola con uno sguardo triste e
non si voltò mai a guardarmi. La fissai per un po‟ e poi, con la
benedetta impazienza da bambino che mi ritrovavo, scattai via dal
giardino, diretto verso la pineta.
Non percorsi nemmeno dieci metri che sentii una vocina chiamare il
mio nome: “Salvatore!” Io mi fermai e Chiara mi si avvicinò
saltellando, tenendo per mano, sospeso a mezz‟aria, il suo
bambolotto.
“Scusa, vuoi giocare?” Mi porse la sua bambola con un‟espressione
quasi mortificata. Da bravo e cocciuto maschietto m‟indispettii:
“Io non gioco con le bambole!” Lei non disse nulla ma arricciò il
viso e scappò nella direzione opposta alla mia. Corsi con tutte le
mie forze (chissà perché da bambini corriamo per andare da
qualsiasi parte) e mi addentrai in quella che per me era natura
selvaggia. Vidi quell‟albero, maestoso e imponente, e mi ci
arrampicai sopra. Ero agile come uno scoiattolo in queste cose. Mi
sedetti su un ramo sporgente dall‟aspetto molto resistente e poi
rimasi lì a osservare il panorama attorno a me, con le gambe
penzoloni.
Avevo il vizio di infilarmi le merendine nella tasca dei pantaloni
e proprio lì, su quell‟albero presi il mio trancino al cioccolato
e cominciai a gustarlo. Mi sentivo come il capitano di una nave
pirata che osservava l‟orizzonte lassù, sull‟albero maestro.
Avevo quasi finito la mia colazione che arrivò la piccola Chiara,
senza la sua bambola.
“Lilli l‟ho lasciata alla mamma.” Non ricordo chi fosse sua madre.
Quella piccola bimbetta bionda con le trecce che le cadevano sulle
spalle cominciò a camminare attorno all‟albero, osservandolo con
aria curiosa. Si fermò sotto al „mio‟ ramo.
“Come hai fatto a salire lassù?”
“Mi sono arrampicato.”
“E non hai paura?” I suoi occhi si socchiudevano per proteggersi
dalla luce del sole. Occhi chiari, occhi sensibili alla luce.
“Non fa paura” affermai con aria altezzosa, “è solo un albero.”
“Voglio salire anch‟io” rispose con fare deciso.
Si mise a studiare il tronco dell‟albero per trovare il miglior
modo per poterlo scalare. Provò più volte ad arrampicarsi ma
riusciva a malapena ad afferrare il tronco con due braccia per poi
scivolare giù.
Tornò sotto il mio ramo e mise il broncio: “Non mi aiuti?”
Io sorridevo beffardo: “Aspetta che vengo giù!”
Scesi dall‟albero con qualche piccola difficoltà e poi la aiutai
nella scalata. Le dissi dove fare forza, dove mettere le mani e i
piedi. La spingevo verso l‟alto quando le mancava il coraggio di
salir su.

Eravamo entrambi su quel grande ramo, fianco a fianco, a osservare
la campagna che ci circondava, ad ascoltare il cinguettio degli
uccelli, all‟ombra delle foglie di quell‟albero amico. Io stavo in
silenzio ma lei dopo un po‟ mi diete un colpetto sulla spalla: “Ce
l‟hai un‟altra merendina?” Tirai fuori un altro trancino dalla
tasca: “Ho solo quest‟altro. Facciamo a metà?”. Aprii la
confezione e divisi a metà il soffice pan di spagna farcito al
cioccolato. Mangiammo in silenzio, osservando la casetta dove tra
qualche ora ci avrebbero richiamato per il pranzo. Sembrava così
lontana.
Continuammo a tenere gli occhi sull‟orizzonte e senza staccarli
dalla casetta cominciò a parlarmi:
“Mia sorella c‟ha il fidanzato. Ora a casa lei non c‟è mai e mi
lascia sempre da sola. Dice che non c‟è mai perché ora è grande ed
è innamorata.”
Il mio sguardo non si spostò:
“E tu non ce l‟hai il fidanzato?”
“No. E tu?”
“No.”
Mi scrollò la spalla e ci guardammo negli occhi: “Anch‟io sono
grande. Diventi tu il mio fidanzato?”
Io arrossii e anche lei.
“Sì, tu sei bella” farfugliai. Non ero abituato a dire certe cose.
“Anche tu sei bello.” Le bambine sono sempre state più brave in
queste cose.
Ora ripenso a quei momenti di silenzio che ci furono subito dopo.
Quale grande tenerezza c‟era in quei due bambini seduti su un
albero che decidevano di mettersi insieme con la stessa innocenza
con cui decidevano il regalo che volevano a Natale.
“Che cosa fanno le persone fidanzate?” chiesi imbarazzato.
“Non lo so” disse, “si danno i baci.” Le bambine sono sempre state
più brave in queste cose. Per me era una sperimentazione e, come
tutti i bambini, ero molto curioso: “Ok. Chiudi gli occhi”. Chiuse
gli occhi e allungò le labbra verso di me. Io avvicinai le labbra
alle sue e schioccai un bacio, un bacio di quelli che le mamme
americane danno ai figli. Ma per me era il primo bacio, tenni gli
occhi aperti mentre lo davo, come a non voler perdere quello che
succedeva, preso dalla curiosità di una cosa nuova. Subito dopo,
entrambi ci pulimmo la bocca col dorso della mano. Questo ci fece
ridere di gusto. Forse perché per entrambi i baci non erano come
ci aspettavamo. Lei si aggrappò al mio braccio e poggiò la testa
sulla mia spalla e restammo lì, seduti su quel ramo a guardare la
natura intorno per tutta la mattina. Non ricordo cosa ci dicemmo
in quelle ore. Forse ce ne siamo stati semplicemente in silenzio.
I bambini non hanno quella smania tutta adolescenziale di dover
parlare per forza di qualcosa.
Suonò un campanello, a dire il vero era un vero e proprio
campanaccio di quelli che non se ne vedono più in giro. Chiara mi
diede un colpetto sulla spalla: “E‟ pronto da mangiare. Dobbiamo
scendere. Mi aiuti, vero?”.
Scendere fu molto più difficile che salire, per me, ma soprattutto
per Chiara che aveva una gran paura ma anche un bel caratterino
già a quell‟età. Bastava imputargli di essere una fifona che
trovava il coraggio di fare qualsiasi cosa.
Corremmo mano nella mano attraverso la pineta, attraversammo il
giardino, fino in casa.
A tavola ci sedemmo l‟uno di fianco all‟altro e facemmo i
capricci, entrambi.
“Non mi piace la pasta col ragù!”
“Non voglio il pollo! Voglio solo le patate!”
Ci tenevamo la mano sotto il tavolo e ogni volta che rifiutavamo
il ben di Dio che ci avevano preparato, facendo andare ai matti
tutti gli adulti, ci guardavamo e sghignazzavamo sotto i baffi, in
una specie di complicità tutta nostra.

Dopo pranzo scappammo via di nuovo, come se volessimo dimenticare
la presenza degli adulti. Tornammo alla pineta, passammo ore ed
ore a correre nell‟erba alta, a rincorrerci, a fare quei giochi
che facevano i bimbi della nostra età: “nascondino”, “un, due,
tre, stella”, “color colore”, “tocca ferro”.
Io la facevo spaventare spuntando all‟improvviso dai cespugli o
urlandogli di scappare da uno sciame di api e lei correva via
urlando e ridendo. Mentre correva, cadde a terra e cominciò a
piangere. Le diedi un bacino sulla guancia “perché così passa la
bua” e lei si calmo e dopo cominciò a cadere di continuo e,
facendo finta di piangere mi diceva: “Mi sono fatta la bua”.
Ricordo che dopo mille giochi ci stendemmo stremati sull‟erba, la
sensazione umida del terreno sotto di me, i rumori della campagna
che facevano da sottofondo. Il respiro regolare di lei che si
appoggiò sul mio petto: “Io non voglio tornare a casa, domani non
voglio andare a scuola. Io voglio restare qui.”
Colsi una piccola margherita che penzolava proprio davanti ai miei
occhi, la porsi a lei e dissi “Anch‟io voglio stare qua.”
Lei prese quel piccolo fiore e dopo aver inutilmente cercato una
tasca che non c‟era, se lo infilò tra i capelli color grano.
Ricordo che pensai che in quel momento sembrassimo proprio due
adulti. Marito e moglie.
Ormai era il tramonto e la campagna attorno a noi si colorava di
arancione mentre noi restavamo distesi, sfiniti, l‟uno abbracciato
all‟altra.
Il vecchio campanaccio di casa suonò di nuovo. Entrambi sapevamo
che significava che dovevamo separarci. Tornare ognuno a casa sua.
Infatti, nessuno dei due accennava a muoversi.
La voce della madre della piccola Chiara si sentiva in lontananza
e poi avvicinarsi sempre di più: “Chiara! Andiamo a casa! C‟è papà
che ci aspetta” quando queste parole si sentirono distintamente,
la piccola Chiara si alzò di scatto. Un piccolo urlo di gioia:
“Papà!” e corse verso la madre. Io mi alzai lentamente e
m‟incamminai verso la casetta. Lei si fermò, tornò indietro di
corsa e si parò davanti a me, con gli occhi chiusi e le labbra
sporte in avanti, in attesa di un bacio. La baciai di nuovo,
stavolta le labbra s‟incontrarono e rimasero a contatto per
qualche secondo, entrambi con gli occhi chiusi, entrambi ben
distanti l‟uno dall‟altro, nessun abbraccio, solo quel piccolo
bacio innocente che per noi era una cosa così nuova.
“Ciao fidanzatino” mi sorrise, “Ciao fidanzatina” risposi
divertito. Poi scattò via.

Prima di tornare a casa i nostri sguardi s‟incrociarono di nuovo.
Lei era nei sedili posteriori della macchina della sua mamma ed io
in quelli della macchina di mio zio. Ci salutammo con la mano
attraverso il vetro del finestrino, lei sorrideva, ma aveva negli
occhi di nuovo quello sguardo triste di quando la incontrai la
prima volta; poche ore prima. Si chiamava Chiara ed è stata la mia
prima fidanzatina. Si chiamava Chiara ed era un amore innocente.
Si chiamava Chiara e non l‟ho mai più rivista.

                              FINE

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  • 1. UN AMORE INNOCENTE Di quando avevo otto anni ricordo davvero pochissimo. Non ricordo la scuola. Non ricordo i miei giocattoli o il mio programma preferito in tv. Non ricordo la maggior parte dei miei compagni di scuola e sono convinto che se li rivedessi ora probabilmente nemmeno li riconoscerei. Forrest Gump diceva che è strano come alcune cose le ricordi perfettamente mentre altre invece per niente. Io ricordo perfettamente quel singolo giorno. Un giorno di metà Aprile. Il giorno in cui sperimentai per la prima volta degli acerbi e teneri sentimenti che un giorno avrei chiamato “amore”. Ricordo perfettamente quel giorno. Era lunedì di Pasqua ed io lo passai con la mia famiglia. Se non ricordo male, lo passai solo con mia madre e altri parenti nemmeno tanto stretti. Fratelli e cugini di un mio zio, credo. Mi ricordo bene l‟arrivo nella piccola proprietà di campagna in mezzo al verde e a poca distanza da una grossa e fitta pineta. Mi ricordo quel giorno. Ricordo il sole cocente che colorava in varie tinte di giallo tutto quello che mi circondava. Ricordo il profumo del pane fatto in casa, quello dell‟erba martoriata dal sole, quello del terreno ancora bagnato dopo esser stato innaffiato. Ricordo la sensazione che provavo sulle dita quando, per gioco, staccavo pezzi di corteccia dagli alberi. Ricordo il cinguettio degli uccelli e il vento che soffiava nelle orecchie. Mi ricordo lei. Era una bambina, come me: i capelli biondi, gli occhietti vispi e azzurri. Le lentiggini le avvolgevano il viso e indossava uno di quegli orrendi vestitini rosa e tappezzati di fiori che le mamme scelgono per le loro bambine. Le scarpette con la cinghia e i calzettoni bianchi fino al ginocchio. Si Chiamava Chiara e non l‟avevo mai vista prima. Si chiamava Chiara e per tutta la giornata fu la mia fidanzatina. Gli adulti erano troppo presi dai loro pensieri e nemmeno si accorsero della tenerezza sbocciata tra i due unici bambini presenti. Arrivammo alla casetta rustica e mia madre subito mi lasciò la mano per lasciarmi libero di “esplorare” il nuovo ambiente. Mi avvicinai alla cucina, la zia stava impastando il pane. “Vai a giocare fuori.” mi disse con voce dolce, “Oggi è una così bella giornata.” Caracollai fino al giardino antistante quella vecchia casa di pietra e cominciai a guardarmi intorno. La piccola Chiara era proprio lì: al centro del giardino. Dondolava seduta nel centro dell‟altalena a due piazze. Tra le mani stingeva una bambola bionda con i capelli tutti stropicciati. Dondolava e accarezzava la sua bambola. Sembrava una bambina molto triste. “Ciao” le dissi, “Io sono Salvatore. Tu come ti chiami?”
  • 2. “Chiara” rispose con un sussurro. Continuò ad accarezzare la sua bambola con uno sguardo triste e non si voltò mai a guardarmi. La fissai per un po‟ e poi, con la benedetta impazienza da bambino che mi ritrovavo, scattai via dal giardino, diretto verso la pineta. Non percorsi nemmeno dieci metri che sentii una vocina chiamare il mio nome: “Salvatore!” Io mi fermai e Chiara mi si avvicinò saltellando, tenendo per mano, sospeso a mezz‟aria, il suo bambolotto. “Scusa, vuoi giocare?” Mi porse la sua bambola con un‟espressione quasi mortificata. Da bravo e cocciuto maschietto m‟indispettii: “Io non gioco con le bambole!” Lei non disse nulla ma arricciò il viso e scappò nella direzione opposta alla mia. Corsi con tutte le mie forze (chissà perché da bambini corriamo per andare da qualsiasi parte) e mi addentrai in quella che per me era natura selvaggia. Vidi quell‟albero, maestoso e imponente, e mi ci arrampicai sopra. Ero agile come uno scoiattolo in queste cose. Mi sedetti su un ramo sporgente dall‟aspetto molto resistente e poi rimasi lì a osservare il panorama attorno a me, con le gambe penzoloni. Avevo il vizio di infilarmi le merendine nella tasca dei pantaloni e proprio lì, su quell‟albero presi il mio trancino al cioccolato e cominciai a gustarlo. Mi sentivo come il capitano di una nave pirata che osservava l‟orizzonte lassù, sull‟albero maestro. Avevo quasi finito la mia colazione che arrivò la piccola Chiara, senza la sua bambola. “Lilli l‟ho lasciata alla mamma.” Non ricordo chi fosse sua madre. Quella piccola bimbetta bionda con le trecce che le cadevano sulle spalle cominciò a camminare attorno all‟albero, osservandolo con aria curiosa. Si fermò sotto al „mio‟ ramo. “Come hai fatto a salire lassù?” “Mi sono arrampicato.” “E non hai paura?” I suoi occhi si socchiudevano per proteggersi dalla luce del sole. Occhi chiari, occhi sensibili alla luce. “Non fa paura” affermai con aria altezzosa, “è solo un albero.” “Voglio salire anch‟io” rispose con fare deciso. Si mise a studiare il tronco dell‟albero per trovare il miglior modo per poterlo scalare. Provò più volte ad arrampicarsi ma riusciva a malapena ad afferrare il tronco con due braccia per poi scivolare giù. Tornò sotto il mio ramo e mise il broncio: “Non mi aiuti?” Io sorridevo beffardo: “Aspetta che vengo giù!” Scesi dall‟albero con qualche piccola difficoltà e poi la aiutai nella scalata. Le dissi dove fare forza, dove mettere le mani e i
  • 3. piedi. La spingevo verso l‟alto quando le mancava il coraggio di salir su. Eravamo entrambi su quel grande ramo, fianco a fianco, a osservare la campagna che ci circondava, ad ascoltare il cinguettio degli uccelli, all‟ombra delle foglie di quell‟albero amico. Io stavo in silenzio ma lei dopo un po‟ mi diete un colpetto sulla spalla: “Ce l‟hai un‟altra merendina?” Tirai fuori un altro trancino dalla tasca: “Ho solo quest‟altro. Facciamo a metà?”. Aprii la confezione e divisi a metà il soffice pan di spagna farcito al cioccolato. Mangiammo in silenzio, osservando la casetta dove tra qualche ora ci avrebbero richiamato per il pranzo. Sembrava così lontana. Continuammo a tenere gli occhi sull‟orizzonte e senza staccarli dalla casetta cominciò a parlarmi: “Mia sorella c‟ha il fidanzato. Ora a casa lei non c‟è mai e mi lascia sempre da sola. Dice che non c‟è mai perché ora è grande ed è innamorata.” Il mio sguardo non si spostò: “E tu non ce l‟hai il fidanzato?” “No. E tu?” “No.” Mi scrollò la spalla e ci guardammo negli occhi: “Anch‟io sono grande. Diventi tu il mio fidanzato?” Io arrossii e anche lei. “Sì, tu sei bella” farfugliai. Non ero abituato a dire certe cose. “Anche tu sei bello.” Le bambine sono sempre state più brave in queste cose. Ora ripenso a quei momenti di silenzio che ci furono subito dopo. Quale grande tenerezza c‟era in quei due bambini seduti su un albero che decidevano di mettersi insieme con la stessa innocenza con cui decidevano il regalo che volevano a Natale. “Che cosa fanno le persone fidanzate?” chiesi imbarazzato. “Non lo so” disse, “si danno i baci.” Le bambine sono sempre state più brave in queste cose. Per me era una sperimentazione e, come tutti i bambini, ero molto curioso: “Ok. Chiudi gli occhi”. Chiuse gli occhi e allungò le labbra verso di me. Io avvicinai le labbra alle sue e schioccai un bacio, un bacio di quelli che le mamme americane danno ai figli. Ma per me era il primo bacio, tenni gli occhi aperti mentre lo davo, come a non voler perdere quello che succedeva, preso dalla curiosità di una cosa nuova. Subito dopo, entrambi ci pulimmo la bocca col dorso della mano. Questo ci fece ridere di gusto. Forse perché per entrambi i baci non erano come ci aspettavamo. Lei si aggrappò al mio braccio e poggiò la testa sulla mia spalla e restammo lì, seduti su quel ramo a guardare la natura intorno per tutta la mattina. Non ricordo cosa ci dicemmo
  • 4. in quelle ore. Forse ce ne siamo stati semplicemente in silenzio. I bambini non hanno quella smania tutta adolescenziale di dover parlare per forza di qualcosa. Suonò un campanello, a dire il vero era un vero e proprio campanaccio di quelli che non se ne vedono più in giro. Chiara mi diede un colpetto sulla spalla: “E‟ pronto da mangiare. Dobbiamo scendere. Mi aiuti, vero?”. Scendere fu molto più difficile che salire, per me, ma soprattutto per Chiara che aveva una gran paura ma anche un bel caratterino già a quell‟età. Bastava imputargli di essere una fifona che trovava il coraggio di fare qualsiasi cosa. Corremmo mano nella mano attraverso la pineta, attraversammo il giardino, fino in casa. A tavola ci sedemmo l‟uno di fianco all‟altro e facemmo i capricci, entrambi. “Non mi piace la pasta col ragù!” “Non voglio il pollo! Voglio solo le patate!” Ci tenevamo la mano sotto il tavolo e ogni volta che rifiutavamo il ben di Dio che ci avevano preparato, facendo andare ai matti tutti gli adulti, ci guardavamo e sghignazzavamo sotto i baffi, in una specie di complicità tutta nostra. Dopo pranzo scappammo via di nuovo, come se volessimo dimenticare la presenza degli adulti. Tornammo alla pineta, passammo ore ed ore a correre nell‟erba alta, a rincorrerci, a fare quei giochi che facevano i bimbi della nostra età: “nascondino”, “un, due, tre, stella”, “color colore”, “tocca ferro”. Io la facevo spaventare spuntando all‟improvviso dai cespugli o urlandogli di scappare da uno sciame di api e lei correva via urlando e ridendo. Mentre correva, cadde a terra e cominciò a piangere. Le diedi un bacino sulla guancia “perché così passa la bua” e lei si calmo e dopo cominciò a cadere di continuo e, facendo finta di piangere mi diceva: “Mi sono fatta la bua”. Ricordo che dopo mille giochi ci stendemmo stremati sull‟erba, la sensazione umida del terreno sotto di me, i rumori della campagna che facevano da sottofondo. Il respiro regolare di lei che si appoggiò sul mio petto: “Io non voglio tornare a casa, domani non voglio andare a scuola. Io voglio restare qui.” Colsi una piccola margherita che penzolava proprio davanti ai miei occhi, la porsi a lei e dissi “Anch‟io voglio stare qua.” Lei prese quel piccolo fiore e dopo aver inutilmente cercato una tasca che non c‟era, se lo infilò tra i capelli color grano. Ricordo che pensai che in quel momento sembrassimo proprio due adulti. Marito e moglie.
  • 5. Ormai era il tramonto e la campagna attorno a noi si colorava di arancione mentre noi restavamo distesi, sfiniti, l‟uno abbracciato all‟altra. Il vecchio campanaccio di casa suonò di nuovo. Entrambi sapevamo che significava che dovevamo separarci. Tornare ognuno a casa sua. Infatti, nessuno dei due accennava a muoversi. La voce della madre della piccola Chiara si sentiva in lontananza e poi avvicinarsi sempre di più: “Chiara! Andiamo a casa! C‟è papà che ci aspetta” quando queste parole si sentirono distintamente, la piccola Chiara si alzò di scatto. Un piccolo urlo di gioia: “Papà!” e corse verso la madre. Io mi alzai lentamente e m‟incamminai verso la casetta. Lei si fermò, tornò indietro di corsa e si parò davanti a me, con gli occhi chiusi e le labbra sporte in avanti, in attesa di un bacio. La baciai di nuovo, stavolta le labbra s‟incontrarono e rimasero a contatto per qualche secondo, entrambi con gli occhi chiusi, entrambi ben distanti l‟uno dall‟altro, nessun abbraccio, solo quel piccolo bacio innocente che per noi era una cosa così nuova. “Ciao fidanzatino” mi sorrise, “Ciao fidanzatina” risposi divertito. Poi scattò via. Prima di tornare a casa i nostri sguardi s‟incrociarono di nuovo. Lei era nei sedili posteriori della macchina della sua mamma ed io in quelli della macchina di mio zio. Ci salutammo con la mano attraverso il vetro del finestrino, lei sorrideva, ma aveva negli occhi di nuovo quello sguardo triste di quando la incontrai la prima volta; poche ore prima. Si chiamava Chiara ed è stata la mia prima fidanzatina. Si chiamava Chiara ed era un amore innocente. Si chiamava Chiara e non l‟ho mai più rivista. FINE