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Ritratti100 anni di Italia
attraverso volti, storie,
testimonianze,
ricordi dei lavoratori
un progetto di
Pippo Onorati
Feltrinelli
Ritratti
100 anni di Italia
attraverso volti, storie,
testimonianze,
ricordi dei lavoratori
un progetto di
Pippo Onorati
per
Feltrinelli
Sotto l’alto patronato del
Presidente della Repubblica italiana
un progetto
per
Associazione Centenario CGIL
promotrice del Comitato Nazionale per il Centenario della CGIL
del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali
progetto e direzione artistica
Pippo Onorati
ideato in collaborazione con
Patrizia Pallara, Mirko Caretta, Roberto Manzone, Tommaso Vecchio
fotografie
Pippo Onorati
con Mirko Caretta, Daniele Federico, Melisa Scolaro, Alessandro Toscano
testi
Patrizia Pallara con Luca Pelini
redazione
Pippo Onorati e Patrizia Pallara
Luca Pelini (caporedattore), Giulia Altomonte, Luciana Auto, Mirko Caretta,
Matteo Cerro, Daria Di Mauro (montaggio video), Daniele Federico,
Michela Gentile, Roberto Manzone, Valentina Marella, Andrea Nobile,
Letizia Petrucci, Claudia Romagnoli, Melisa Scolaro, Giuliano Tarquini,
Alessandro Toscano, Federico Valente, Tommaso Vecchio, Maria Zipoli
produzione esecutiva
Roberto Manzone con Giulia Altomonte e Luciana Auto (segreteria di produzione)
post - produzione foto
Mirko Caretta, Matteo Cerro (responsabile tecnico), Daniele Federico, Dario Tassa
grafica e progettazione libro
Salvatore Gregorietti
amministrazione, finanza e controllo
Alda Coccia, Salvatore Romeo, Studio Ucci
ricerca e gestione sponsor
Mela Media Lavoro
un grazie speciale a
Silla Simonini, Debora Pietrobono, Patrizia Di Laura Frattura, Beppe Casadio,
Guglielmo Festa, Ferruccio Camilloni,Tarcisio Tarquini, Mario Marturano,
Marco Costa, Ascanio Celestini, Alessandro Piva, Sandro Costa, Maurizio Sarlo
abbiamo usato
macchine fotografiche Nikon e Hasselblad e computer Apple
www.mammanannapappacacca.it
www.100annicgil.it
© Giangiacomo Feltrinelli Editore
Prima edizione in “Fuori Collana” settembre 2006
ISBN 88-07-42119-4
Con il contributo di
Lasciar parlare la vita attraverso il lavoro. E i lavoratori
attraverso le loro storie. Nasce da questa idea il progetto
“Ritratti. 100 anni di Italia attraverso volti, storie, testimonianze,
ricordi dei lavoratori”: un libro, una mostra, 100 documentari.
È un diario lungo un secolo che racconta la quotidianità
e le passioni, le battaglie e le conquiste, i problemi
e le trasformazioni di un mondo che ci appartiene.
Pensato per festeggiare il centenario della CGIL, che si celebra
nel 2006, Ritratti è un'opera artistica inedita che non parla
solo di politica: ha l'ambizione di acquisire un valore
storico, culturale e sociologico da tramandare.
E si rivolge al cuore e alla testa degli italiani.
Per un intero anno la redazione di Ritratti, uno staff di
ricercatori, fotografi, registi, operatori, montatori, è andata
in giro per l'Italia, da Aosta a Trapani, da Cagliari a Trento,
per fotografare un gran numero di lavoratori, più di 500,
e raccogliere in video la loro testimonianza. Un viaggio
in Italia alla ricerca di protagonisti, testimonianze, facce,
luoghi, memorie delle persone che hanno contribuito
a costruire il nostro Paese.
Il mondo che emerge è vario, la realtà trasversale.
Volti e parole, idee e contraddizioni si fondono: accanto
agli operai di Torino ci sono i cassintegrati di Termini
Imerese, alle rivendicazioni degli anziani si affianca la
precarietà dei giovani. I personaggi sono persone normali,
giovani e vecchi, donne e uomini, protagonisti del passato
e del presente, con una storia straordinaria da raccontare:
la loro e quella di 100 anni d'Italia.
Con il materiale raccolto sono stati realizzati oltre al libro,
una mostra e una serie di 100 documentari. La mostra
è composta dai ritratti fotografici dei lavoratori e dai loro
racconti: 222 pannelli in formato gigante, montati su strutture
triangolari autoportanti. Ed è itinerante: il suo tour toccherà
le principali piazze italiane, per tradizione luogo della
protesta e della contestazione, della conquista delle libertà
e dei diritti. I documentari “centoXcento Ritratti. 100 storie
X 100 anni” raccontano l'Italia in video: ogni cortometraggio,
di durata variabile, è incentrato su un personaggio,
un territorio, un avvenimento, una vita.
Pippo Onorati
Giovanni Zorzi
42 anni, idrovorista, Maccarese (Roma)
“Sono un discendente dei coloni veneti venuti qui nel 1925
per la bonifica di Maccarese. Per primi sono arrivati i miei
nonni, poi mio padre e i suoi sette fratelli. L’80-90 per cento
degli abitanti di Maccarese è di origini venete, 2-3mila persone
che erano state scelte perché avevano lavorato nei canali per
la bonifica del Delta del Po e avevano una grande esperienza
nel campo dell’agricoltura. La bonifica dell’agro romano
è iniziata alla fine dell’Ottocento ed è stata completata nel
1927. Ancora oggi se si fermano le macchine idrovore, che
portano le acque basse al mare, in pochi mesi si potrebbe
riformare la palude. Nonostante siano passati novant’anni,
la tradizione veneta è ancora molto sentita, in alcuni centri si
brucia la befana come si fa al Nord, si fanno i dolci tipici,
e mentre gli anziani parlano il dialetto, i giovani parlano una
lingua imbastardita dal romanesco”.
Adige Zorzi
73 anni, contadino e vaccaio in pensione, Maccarese (Roma)
“Negli anni della bonifica in questa zona si campava male,
vivevamo in una baracca e non avevamo i soldi neanche per
le scarpe: si lavorava scalzi. Non potevamo andare a scuola
perché era occupata dai tedeschi. Per questo ho iniziato a
lavorare a 11 anni nella stalla: era un po’ come un gioco,
ma i vecchi ci insegnavano il mestiere”.
Domenico Trovato
79 anni, ex emigrante, Melissa (Crotone)
“Sono stato come una puttana, ho fatto tutti i lavori possibili.
Per bisogno sono andato anche in Germania dove ho conosciuto
persone di tutto il mondo. C’erano greci, turchi, spagnoli.
Noi italiani non eravamo gli unici disperati. È stata dura:
i tedeschi anziani, quelli che avevano fatto la guerra,
ci chiamavano merde, ci trattavano male. La mia storia è simile
a quella di tanti altri. In Calabria, a quei tempi, la vita era
difficile, per molto tempo siamo stati degli schiavi!”.
Nunzio Rosania
51 anni, direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario,
Barcellona Pozzo di Gotto (Messina)
“Ospitiamo gli ultimi della società. Non dobbiamo mai
dimenticare che queste persone soffrono e il nostro compito
è alleviare il loro dolore, salvaguardarne il decoro e la dignità.
Sono un medico e uno psichiatra, e sono abituato ad avere
con i pazienti un rapporto basato sull’umanità.
Rimango tuttora molto perplesso dal modo prevalente
di affrontare i problemi della psichiatria in ambito giudiziario,
certe volte manifesto insofferenza, ma mi sono dovuto adattare
alla realtà in cui vivo e opero. I miei collaboratori, il personale
di polizia penitenziaria, hanno il compito di tenermi con
i piedi per terra. Abito all’interno dell’istituto, il mio alloggio
di servizio è qua, per questo non vivo fasi di distacco vero
e proprio dal servizio”.
Andrea Siracusa
58 anni, tecnico caposala dell’ospedale psichiatrico giudiziario,
Barcellona Pozzo di Gotto (Messina)
“Ho un debole per le persone che hanno bisogno, i disabili,
i malati, i bambini, sono solidale con loro, guai a chi li tocca.
Per me è un grande piacere aiutarli. Ho visto ricoverati
abbandonati dalle famiglie, che hanno trascorso in solitudine
anche Pasqua e Natale. Ecco, io ho sempre cercato di stare
loro vicino, di dargli affetto. E adesso che non lavoro più nei
reparti mi manca il rapporto con i pazienti. Ho 39 anni di
servizio qui dentro e ho vissuto tutte le evoluzioni. Negli anni
Sessanta era un manicomio criminale, c’erano 600 detenuti,
e noi agenti di polizia penitenziaria facevamo turni di dodici
ore e ci spettava un giorno di riposo ogni cinque mesi; oggi
ci sono 200 ricoverati, tutti trattati bene.
Di qui ho visto passare i grandi mafiosi, Buscetta, Pellegrino,
il cosiddetto Omo mitra, Supera, Lombardo, Rizzato. Venivano
al centro clinico, facevano accertamenti e se ne andavano.
Sono molto contento di appartenere a questa amministrazione,
ho sempre fatto il mio lavoro con cuore e soddisfazione”.
Emanuele Fiorellini
80 anni, pensionato, Vittoria (Ragusa)
“‘Non arrenderti mai, uomo, i padroni e il re sono uomini
come te’. Questa frase di Bertolt Brecht racchiude tutta la vita
e le sofferenze dei vecchi braccianti. Ho avuto la fortuna
di ascoltare le loro storie da bambino, quando potevamo
sederci intorno a un tavolo con un piatto di minestra”.
Federico Cefaliello
50 anni, operaio Ilva, Taranto
“Sono un operaio con la O maiuscola. La mia tuta blu
è come il mio vestito di nozze: l’abito del matrimonio ce
l’ho conservato nell’armadio, anche la mia tuta sta lì, sempre
pronta per ogni evenienza. Le due cose per me sono
inseparabili. Non credo che mia moglie la pensi allo stesso
modo, perché la tuta lei la deve lavare, è piena di grasso
e di polvere. La testimonianza delle mogli di chi lotta con
il sindacato è più importante della nostra stessa
testimonianza, il loro sacrificio è più grande del nostro.
Noi lottiamo da anni per migliorare le condizioni di vita
e di lavoro in questo colosso dell’acciaieria. Ci sono incidenti
tutti i giorni, lavoratori che subiscono infortuni, che si
ammalano per le polveri, che muoiono. Là dentro non
si capisce niente, là dentro c’è un macello”.
Luigi Azzaro
35 anni, agente di sicurezza privata, Pescara
“Noi non siamo buttafuori, come a volte veniamo definiti.
Siamo pagati per assicurare ai clienti il regolare svolgimento
di una serata, non per ‘buttarli fuori’ ma per tutelarli da chi,
l’imbecille di turno che capita sempre, uno su mille,
uno su 10mila, vuole rovinare il divertimento degli altri.
Avevo 19 anni quando ho iniziato, facevo il pugile,
ero un ragazzo inesperto, e allora venivo chiamato davvero
per fare il buttafuori. Quell’incarico mi dava la voglia
di vivere e mi faceva stare con l’adrenalina a tremila”.
Teo Musso
41 anni, produttore di birra, Piozzo (Cuneo)
“Sono un provocatore. Rifiuto alcune convenzioni legate alla
cultura del gusto e con la mia birra voglio creare paradossi.
Io stesso lo sono: per la scuola italiana sono un ignorante,
ma nonostante ciò mi chiamano spesso a insegnare,
a tenere corsi anche all’università”.
Sabato Abbagnale
37 anni, produttore di pomodori, Sant’Antonio Abate (Napoli)
“Per me pomodoro significa vita, gusto, dolcezza, profumi.
La mia missione? Far capire che i pomodori devono essere
buoni da mangiare oltre che belli da guardare. Credo che con
il tempo sempre più persone invidieranno il mio lavoro:
avere a che fare con la terra e con il sole è un’esperienza
incredibile”.
Igino Gelone
53 anni, floricoltore e olivicoltore, Imperia
“La pianta è come un figlio: per farla crescere devi curarla
e trattarla con amore. Il legame che si instaura è un dialogo
muto, fatto di passione e di fatiche”.
Sabino Sansonne
42 anni, bracciante agricolo, Andria (Bari)
“Lavoro a giornata da 25 anni. Adesso prendo 47 euro alla
potatura, ho la paga da operaio qualificato, ad altri danno
anche meno, 37-40 euro. Così, difficilmente puoi campare,
soprattutto in un inverno come questo, in cui a gennaio abbiamo
fatto sì e no dieci giornate. Allora dobbiamo fare come
le formiche che risparmiano e mettono da parte per quando
non si lavora. Come oggi, che piove e te ne torni a casa
a fare il caffè con tua moglie”.
Lucio Parrotto
71 anni, minatore emigrato in pensione, Casarano (Lecce)
“Come contadino guadagnavo 400 lire al giorno. Sono emigrato
in Belgio, a lavorare nelle miniere di carbone. Lì prendevo
180 franchi, che corrispondevano a 3.500 lire al giorno.
A mio papà riuscivo a mandare solo 30mila lire al mese,
perché con il resto dovevo pagarmi l’alloggio, il cibo,
la biancheria pulita. Pochi mesi dopo il mio arrivo, è successo
il disastro di Marcinelle: l’8 agosto del 1956 la miniera prese
fuoco, ci furono 262 morti, 136 dei quali italiani e 16 della
provincia di Lecce. Da quel momento ho pensato che si doveva
fare qualcosa per quei poveri sventurati che avevano perso
la vita a 1.100 metri sotto terra e che erano stati meno fortunati
di me. Da allora ho cominciato a raccogliere articoli di giornale,
documenti, tutto ciò che capitava: quello che potevo raccogliere,
lo raccoglievo. E conservavo tutto nella mia vecchia valigia
di cartone. Quando sono rientrato a Casarano, nel 1986,
dopo 29 anni, ho voluto dedicarmi a costruire il monumento
del minatore. Nel 1995 ho aperto il circolo del minatore:
emigranti del Belgio, della Francia, della Svizzera la sera
vengono qui, giocano a carte, si bevono un bicchiere di birra,
chiacchierano”.
Salvatore Arcodia
45 anni, cassintegrato M.G., Termini Imerese (Palermo)
“Dal giorno che mi hanno messo in cassa integrazione la mia
quotidianità si è ridotta: mi alzo la mattina, accompagno
i figli a scuola, cerco di far passare una giornata interminabile.
Vorrei tornare in fabbrica a sentire il rumore delle macchine in
funzione, magari alle volte era fastidioso, ma mi faceva ben
sperare per il futuro. Mia moglie dice che ci vuole coraggio,
ma purtroppo con il solo coraggio non si tira avanti”.
Daniele Palestrini
54 anni, responsabile centro servizi pesca, Ancona
“Praticamente sono nato in acqua: la mia è una famiglia
di pescatori da almeno 500 anni. Fin da piccolo passavo
buona parte del mio tempo libero in barca, a giocare con
quelli che sarebbero diventati i ferri del mestiere. Sono molto
orgoglioso delle mie origini, perché vivere e lavorare con la
gente di mare ti forma. Sono persone abituate a fare di tutto,
in barca si è un po’ cuochi, un po’ sarti, un po’ motoristi,
poche chiacchiere e tanto lavoro. In barca impari anche che
cos’è la fiducia, spesso la tua vita dipende dal tuo compagno.
Oggi lavoro a terra e ho maggiori comodità, ma spesso
mi manca il contatto con il mare. Il mio posto è l’acqua”.
Anna Sangro
60 anni, operaia della Pelino, Sulmona (L’Aquila)
“Mia mamma ha lavorato qui, io lavoro qui, adesso anche mia
figlia. È come se fossi nata in questa ditta. Ho sempre avuto la
sensazione di appartenere a una grande famiglia, come se fossi
cresciuta in questi locali”.
Francesca Santorelli
35 anni, operaia della Pelino, figlia di Anna, Sulmona
(L’Aquila)
“Anche per me questo è un ambiente familiare, qui io ci sono
cresciuta perché da piccolina venivo a trovare mamma.
Se i miei figli un giorno lavoreranno alla Pelino? Chissà,
a loro piacerebbe molto perché sono golosissimi”.
Paola Pelino
50 anni, imprenditrice, Sulmona (L’Aquila)
“Sono entrata nell’azienda di famiglia a 17 anni, un atto di
obbedienza nei confronti di papà Olindo. Avrei voluto lavorare
nel mondo della moda, ma la nostra è una famiglia patriarcale.
La Pelino produce confetti a Sulmona dal 1783 e per sei
generazioni ha visto solo uomini al comando. Io sono stata
la prima donna al timone dell’azienda. Non nascondo che ho
incontrato molte difficoltà: ho dovuto dimostrare che cosa ero
capace di fare, con sforzo e con fatica, soprattutto a mio
padre. Qualche vantaggio, però, l’ho avuto. Da subito sono
riuscita a instaurare un buon rapporto con i dipendenti, quasi
tutte donne. Il mio sogno? Trasmettere alle mie figlie, Flavia
ed Elvezia, l’amore per questo lavoro, lo stesso che mi ha
trasmesso papà”.
Diego Brandalise
50 anni, operaio Heineken, Pedavena (Belluno)
“Le multinazionali non hanno un cuore. Pensano solo al profitto,
ma le persone non sono animali. Oggi si fa di tutto per creare
degli schiavi. Noi non ce ne rendiamo conto, ma siamo sulla
strada giusta per diventare degli schiavi. Dobbiamo ricostruire
i valori partendo dalla base. Nella scuola professionale per
birrai che ho frequentato, avevamo dei professori davvero in
gamba. Era come una famiglia, ci hanno insegnato i valori.
Adesso è tutto finito sotto il calco delle scarpe”.
Corrado Assenza
45 anni, pasticcere del Caffè Sicilia, Noto (Siracusa)
“Ho scelto questo lavoro in un momento di follia. Io e mio
fratello eravamo lanciati nella carriera universitaria ma il
richiamo della tradizione e della nostra terra è stato più
forte. Abbiamo deciso di rilevare la pasticceria di famiglia.
Oggi portiamo avanti una tradizione che dura da 113
anni. Ho dedicato la mia vita alla ricerca e all’innovazione.
In questo percorso i sensi hanno un ruolo fondamentale,
le mani, il tatto, l’olfatto sono gli strumenti principali…
Nella mia quotidianità l’umanità fa la differenza, i miei
collaboratori devono lavorare sodo, ma hanno la possibilità
di imparare molto. Il nostro rapporto è fatto di gesti semplici,
un sorriso, un’attenzione, un attrezzo dato al momento giusto”.
Reiko Hakata
35 anni, aiuto pasticcere del Caffè Sicilia, Noto (Siracusa)
Thomas Schuster
30 anni, pasticcere del Caffè Sicilia, Noto (Siracusa)
Corrado Lucci
37 anni, pasticcere del Caffè Sicilia, Noto (Siracusa)
Richard Perks
20 anni, pasticcere del Caffè Sicilia, Noto (Siracusa)
Luca Torneo
22 anni, operaio pasticcere del Caffè Sicilia, Noto (Siracusa)
Marco De Bartoli
60 anni, produttore di vino, Marsala (Trapani)
“I vini buoni li fanno le persone simpatiche: è la componente
umana che fa la differenza. Io sono uscito dall’industria del
marsala trent’anni fa con il sogno di realizzare un prodotto
di qualità. È bello poter dire che ci ho provato e forse ci sono
riuscito. Poteva essere più facile, magari meno costoso,
ma ho voluto farlo a modo mio e ho avuto ragione.
Come marito non valgo molto, ho dedicato tutta la mia vita al
lavoro. Sono molto orgoglioso dei miei figli, anche loro hanno
deciso di sposare il mio modo di lavorare. Ogni tanto faccio
la ‘prova del morto’. Che consiste: mi metto in disparte
e li guardo lavorare… Sono bravi. Per dare spazio a loro
ho deciso di trasferire il mio ufficio nel garage dove tengo le
macchine d’epoca. Ho una grande passione per le auto:
probabilmente sono nato in una macchina, perché mia madre
è stata la prima donna da queste parti a guidarne una”.
Fiorenzo Nicolasi
56 anni, tecnico centrale elettrica Enel, Porto Tolle (Rovigo)
“Pezzo dopo pezzo abbiamo costruito la centrale elettrica.
Ci hanno dovuto insegnare tutto, perché questo era un paese
prettamente agricolo, avevamo esperienza solo con la campagna.
Poi è arrivato il nostro momento, abbiamo istruito tecnici
provenienti da ogni parte d’Italia. Col tempo sono state assunte
più di mille persone. Prima c’era solo la Federbraccianti,
c’era l’abitudine a tenere la testa bassa davanti al padrone,
ma ogni tanto qualcuno la alzava: io ho sempre
ammirato queste piccole grandi persone che facevano
sindacato. Purtroppo i coraggiosi erano costretti a cambiare
paese, perché qui per loro non c’era più lavoro”.
Gianluca Bortolozzo
43 anni, tecnico impianti della Coca-Cola,
Porto Marghera (Venezia)
“Mio padre raccontava sempre che un bambino, tornato a casa
dopo una gita a Porto Marghera, si rivolse arrabbiato al papà
dicendo: ‘Non sapevo che lavorassi in un posto così schifoso’.
Quel bambino ero io. Allora la Montedison organizzava gite
negli impianti: doveva sembrare tutto bello e pulito. Mio papà
Gabriele ha iniziato per primo la battaglia per migliorare
le condizioni di vita e di lavoro degli operai del petrolchimico.
Allora molti lo consideravano pazzo, ma lui in trent’anni non
si è mai arreso, ha lottato fino alla fine. Uno dei miei più
grandi rimpianti è non averlo visto arrivare vivo all’inizio del
processo di Porto Marghera. Il primo anno del processo ho
trascorso le mie ferie in aula ad ascoltare deposizioni e
testimonianze: in qualche modo glielo dovevo. Cosa mi ha
insegnato papà? Che cosa significa crescere un figlio. Ho un
ragazzo di 12 anni e voglio trasmettere a lui quello che mio
padre ha lasciato a me, il rispetto per gli altri e l’amore per
la natura. Era un padre molto presente: faceva di tutto per
cambiare turno con i colleghi pur di essere, la domenica
mattina, alle mie partite di calcio. Ricordo che nonostante la
malattia c’era sempre, anche nelle più fredde giornate d’inverno.
Alcune volte tutto mi appare ancora confuso e devo fermarmi
per capire e mettere a fuoco con lucidità la storia di mio
padre e di Porto Marghera”.
Andrea Locatelli
44 anni, comandante nell’azienda di trasporto pubblico
della laguna veneta, Venezia
“Sacrificio. Il lavoro di marittimo è innanzitutto sacrificio.
Poi ti deve piacere il mare, perché sei sempre fuori, in servizio
24 ore su 24. Adesso non è più remunerativo come una
volta, perché i contratti sono sempre più schiacciati verso
il basso e le compagnie di navigazione preferiscono prendere
personale del Terzo Mondo, tra virgolette. Emarginati è la
parola più giusta”.
Naima Hammami
24 anni, cameriera, Bari
“Siamo venute in Italia insieme, con la promessa di un
contratto di lavoro in una fabbrica di pomodori. Arrivate
a Bari, il proprietario della fabbrica ci ha detto che potevamo
tornarcene in Tunisia, non c’era niente per noi. Ci siamo
rivolte alla Cgil e nel giro di due giorni siamo riuscite a far
rispettare gli accordi. Dopo un mese e mezzo ci hanno
costretto a firmare una busta paga falsa e ci hanno cacciate.
Con l’aiuto del sindacato siamo andate in tribunale
e abbiamo trovato un accordo. Adesso io lavoro in un
ristorante, Faten in un bar. Abbiamo il permesso di soggiorno
fino a settembre. Se non ce lo rinnovano? Ce ne torniamo
a casa”.
Faten Dellai
22 anni, cameriera, Bari
“Eravamo relegate in fabbrica. Lavoravamo dalle 5 di mattina
alle 7 di sera, dodici ore a 2,5 euro l’ora. Dormivamo
sopra la fabbrica, mangiavamo i panini che ci dava il
proprietario, potevamo uscire solo una volta alla settimana”.
Roberta Mariana Petitoiu
32 anni, operatrice del call center di Poste Italiane, Roma
“Sono emigrata dalla Romania perché ero disoccupata
e stavo ancora con mamma e papà. Il mio primo lavoro
qui è stato fare la colf per una famiglia in una villa
sull’Appia Antica. Poi sono entrata nella Securidata, che
gestiva il trasporto valori per le Poste. Dopo che la società
è stata assorbita, siamo stati tutti licenziati. Abbiamo fatto
causa e dopo tre anni le Poste ci hanno riassunto.
Nel frattempo, mi sono arrangiata facendo le pulizie
in nero. Non tornerei più in Romania, l’ultima volta che
ci sono stata, quattro anni fa, ho trovato tutto cambiato,
la gente non è più quella di una volta, pensa solo ai soldi
e a sé stessa. Qui mi sono comprata una casa, ma il mutuo
a tasso variabile mi spaventa, non so se ce la farò
a pagarlo”.
Salvatore Giglio
29 anni, operaio della ST Microelectronics, Catania
“Una tuta ci copre integralmente il corpo, alle mani portiamo
guanti di lattice. L’unica cosa che rimane scoperta sono
gli occhi. I nostri stati d’animo, se siamo nervosi o felici,
li comunichiamo con gli occhi. Tra colleghi ci capiamo al volo,
basta uno sguardo. È una cosa che ho imparato in fabbrica,
col tempo. Ho imparato anche a essere meno permaloso.
Avere rapporti con persone molto diverse da me e rappresentare
i lavoratori e le lavoratrici davanti all’azienda, ha smussato
questo mio difetto. Perché ho dovuto acquisire il dono della
mediazione, sono diventato più diplomatico. Quest’anno ho
iniziato a studiare psicologia all’università. Molti mi hanno
chiesto perché. L’unica spiegazione l’ho trovata nel valore
della parola: nella psicanalisi il colloquio è importante,
è la parola che è di per sé terapeutica. E la parola è anche
un elemento fondamentale per fare il sindacato. Con
i lavoratori ci devi parlare. Se un giorno cambierò mestiere?
Forse sì, ma sindacalista rimarrò sempre, perché è un modo
di essere e va al di là dell’avere un incarico come
rappresentante sindacale. La parola sindacato, nella sua
origine greca, significa ‘insieme per la giustizia’: chi vuole
conquistare la giustizia con gli altri, fa sindacato”.
Gaetano Giambalvo
47 anni, bracciante agricolo in pensione,
Castelvetrano (Trapani)
“C’è gente che la campagna non sa nemmeno dov’è, persone
in camicia e cravatta e mani bianchissime, belle signore
con le unghie lunghe dieci centimetri, ben pitturate. Vanno
dai datori di lavoro e pagano per essere assunti. Poi prendono
la disoccupazione agricola, si fanno le cinquanta giornate
di malattia, e così recuperano i soldi che hanno sborsato
per comprarsi le giornate. Mentre i poveracci come noi,
che abbiamo davvero bisogno delle giornate, noi che
effettivamente lavoriamo, siamo sempre in difficoltà e non
raggiungiamo mai il quorum per chiedere la disoccupazione.
Qui la mafia esiste ancora, nelle nostre terre c’è e continua
a camminare”.
Pasquale Marinelli
40 anni, fonditore di campane, Agnone (Campobasso)
“La fonderia Marinelli costruisce campane dall’anno Mille.
Da allora, c’è sempre stato un Marinelli che le fa.
La campana non è un oggetto usa e getta. In passato
era un vero e proprio mezzo di comunicazione, serviva per
scandire il tempo delle comunità. Io non mi sono mai sentito
in dovere di fare questo lavoro: sono nato qui, sono un Marinelli
e devo fare il campanaro”.
Armando Marinelli
45 anni, fonditore di campane, Agnone (Campobasso)
“Nel nostro lavoro c’è qualcosa di mistico che ti porta
a cercare il contatto con l’argilla, la terra, la manualità.
La passione nasce da bambino, quando inizi a giocare,
a sporcarti in fonderia, e poi capisci che quello sarà
il tuo mestiere”.
Rita Ricciardi
63 anni, collaboratrice scolastica, Brolo (Messina)
“A 16 anni sono andata a Milano dove c’erano le mie sorelle,
perché non volevo dipendere dai genitori. Ho trovato lavoro
in fabbrica a Varedo. Ogni giorno facevo 15-18 chilometri
in bicicletta. I primi tempi andava tutto bene, poi una sera
uscendo dalla fabbrica… una nebbia fitta, ma così fitta
che non si vedeva a un metro di distanza. Ai miei colleghi
ho detto: ‘Non mi lasciate sola, ho paura di questa nebbia’.
Era la prima volta che la vedevo. Mi sono persa, sono
trascorse ore e non sapevo dov’ero. È stata un’avventura.
A un certo punto i nostri genitori hanno detto che dovevamo
ricamare il nostro corredo, così mi sono licenziata e sono
tornata in Sicilia. Da allora ho fatto molti lavori, tutti in nero.
Come sarta, come cuoca nei ristoranti, pagata poco e senza
contributi. Mi sono adattata a tutto perché volevo che i miei
figli studiassero, si sistemassero. Sono anche stata vittima
di incidenti sul lavoro, ma non mi è stato mai riconosciuto
nulla. Dopo un aneurisma e un coma mi hanno riconosciuto
il 65 per cento di invalidità. Non potrei fare niente, invece
a scuola faccio quello che mi tocca, lavo i bagni
e i pavimenti. Purtroppo i contributi per andare in pensione
non ce li ho. Devo avere coraggio e combattere ancora
due anni, poi forse potrò avere una pensione di 500 euro
al mese!”.
Cinzia Scaffidi
41 anni, responsabile centro studi Slow Food, Bra (Cuneo)
“Una volta, a cena, un produttore argentino di mais mi disse:
‘In questi due giorni con voi ho capito che i piccoli cambiamenti
possono fare grande differenza’. Ecco in una frase il nostro
lavoro di anni. È proprio questo uno degli aspetti che amo
di più del mio lavoro, il contatto con le persone, perché
si mescola un po’ tutto… Con gli anni ho costruito una rete
di amicizie e di affetti incredibile. Ho scoperto che è possibile
innamorarsi cento volte al mese. Le persone più importanti
sono quelle che incontri tutti i giorni o quelle che magari
ti sfiorano per un attimo e ti lasciano una frase che potrebbe
rimanere scolpita nel marmo. Che lavoro faccio?
Quanto tempo avete per farvelo raccontare?”.
Laura Valentina Socco
39 anni, ricercatrice universitaria del Politecnico, Torino
“Mi sono iscritta a ingegneria pensando che un giorno avrei
costruito i ponti: mi piaceva l’idea della grande opera. I primi
approcci alla costruzione ingegneristica mi hanno fatto disamorare:
troppa tecnocrazia, troppo snobismo per gli aspetti non prettamente
tecnici. Poi ho capito che una donna difficilmente avrebbe trovato
spazio in un grande cantiere. Così, sono approdata alla ricerca
scientifica. Quella italiana è caratterizzata da un’estrema libertà
e, di contro, da una totale precarietà e da una grande carenza
di obiettivi: ognuno fa un po’ quello che gli pare, nel bene
e nel male. Questo consente di mettere in pratica le proprie idee,
ma d’altra parte produce poca massa critica e un forte isolamento,
con tanti piccoli gruppi che vivono alla giornata”.
Giuseppe Sessa
37 anni, ingegnere, Catania
“Sono entrato nel mondo del lavoro quando la new economy
stava vivendo il suo momento di gloria. Torino, Roma, Tel Aviv.
Poi sono tornato a Catania, in una delle realtà più promettenti
di allora. Mi sono tuffato nel lavoro, facendomi assorbire
completamente. Ero felice perché lavoravo nella mia città
e perché potevo crescere. La crisi e scelte sbagliate del
management hanno portato al mio licenziamento. È stato un
trauma. Oggi il mio approccio con il lavoro è profondamente
cambiato. Ho capito quanto sia importante avere tempo
libero, ho riscoperto la lettura, la politica, lo sport, il piacere
del chiacchierare. Ho capito che sono un uomo prima di essere
un lavoratore”.
Fabio Massarelli
43 anni, operaio Thiessen Krupp, Terni
“Da bambino vivevo vicino alle acciaierie. All’epoca c’erano
circa 10mila operai e alla fine dei turni sembrava di assistere
al Giro d’Italia, centinaia di persone che tornavano a casa
in bicicletta o in motorino. Il lavoro aveva una dimensione
familiare, tutti avevano un parente alle acciaierie, molti le
consideravano l’unico futuro possibile. Ricordo il mio primo
giorno, avevo il cuore in gola per la felicità… Potevo considerarmi
sistemato. Oggi la Thiessen Krupp ci ha rubato i sogni e la
tranquillità. Se continua così questo posto è destinato a tornare
quello che era un tempo: una necropoli”.
Idea Pepe
91 anni, insegnante in pensione, Bari
“Il mio compito è stato costruire la coscienza dei cittadini.
Non ho mai voluto imporre le mie idee, anzi. Il mio obiettivo
era far ragionare i ragazzi con la loro testa e non impartire
delle nozioni. Credo che sia costruttivo insegnare e praticare
un democratico scambio di opinioni. In passato agli
insegnanti era vietato parlare di politica a scuola, la sola
lettura della Costituzione era considerata un atto sovversivo,
ma per me era semplicemente un modo per far conoscere
ai ragazzi i loro diritti e i loro doveri”.
Nicolò Muciaccia
60 anni, avvocato del lavoro, figlio di Idea, Bari
“Ho iniziato la mia attività politica da ragazzo, con mio
padre. Lui faceva l’avvocato del lavoro, ha organizzato
e seguito le battaglie dei lavoratori per quasi un secolo.
Ha difeso dapprima i braccianti, poi gli edili e gli operai
ripercorrendo l’evoluzione del lavoro nel nostro territorio.
Giravamo insieme le Camere del lavoro, anche le più
remote, per leggere la Costituzione ai contadini. Era un
modo per renderli coscienti dei loro diritti. Il nostro
slogan era: ‘Conosci i tuoi diritti ed esercitali’. I ricordi
delle lotte di quel periodo passano anche per i sapori,
i cibi, i piatti della tradizione, che hanno ancora oggi un
valore sociale molto forte”.
Pippo Flora
73 anni, agronomo, sovrintendente teatrale e musicista,
Agrigento
“Io mi considero in questa città come una sorta di vecchia
quercia nel suo habitat. Quando vado via, sento il male
di questa città, quando non c’è, mi manca”.
Antonio D’Alì Staiti
86 anni, presidente società delle saline, Marsala (Trapani)
“La vita dei salinai è diversa da quella degli altri lavoratori:
non ci sono orari e per ogni operaio la salina è come
se fosse sua. C’era un vecchio capo che scriveva poesie,
parlavano del sale e del suo mondo. Era così affezionato
a questo posto che non voleva abbandonarlo neppure
quando si è ammalato: non ho avuto il coraggio di dirgli
che non poteva più venire a lavorare. La salina ti provoca
una nostalgia profonda, come un mal d’Africa”.
Cristina Presutti
26 anni, operaia del canile, Santo Stefano di Campobasso
(Campobasso)
“La mia famiglia, mio padre, mia madre, mia nonna, tutti
mi criticano perché sono laureata ma lavoro al canile come
operaia precaria e quando serve come volontaria. Ho avuto
altre opportunità, è vero, ma proprio non riesco a staccarmi
dai miei cani. Loro aspettano che io venga, aspettano che
gli dia da mangiare, aspettano me, insomma. Non potrei
mai abbandonarli”.
Pierpaolo Scanu
49 anni, pastore, Mogoro (Oristano)
“Mio nonno era un pastore, mio padre era un pastore, io pure.
Lavoriamo tra mille difficoltà, senza la certezza di raggiungere
un guadagno a fine anno. Spesso il paesaggio mi conforta
e penso che faremo delle belle scorte di foraggio, che
quest’anno sarà una buona annata. A dispetto dei politici,
che dicono il contrario”.
“Non avevo mai visto la nebbia,
io abituato al mare. Il primo giorno
che sono arrivato a Torino
non sapevo se respirare quella
roba lì”.
Elena Petragallo
28 anni, imprenditrice di un salottificio,
Santeramo in Colle (Bari)
“Il mio sogno era questo, imparare a cucire un divano, realizzarlo
e possedere un’azienda mia per farlo. Ho iniziato come operaia,
oggi ho 45 dipendenti tra ragazzi e ragazze, con i quali
c’è un ottimo rapporto. Ma non ho tempo libero. Comincio
la mattina alle 7.30 e finisco la sera alle 6.30.
In pratica, vivo solo la sera. Ma non potrei stare senza
il mio lavoro, è la grande soddisfazione della mia vita. Spero
di avere un giorno dei figli perché amo i bambini. Sì, penso
che metterò su famiglia, non so quando. So con certezza
che baderò io ai miei bambini, sono dell’opinione che i figli
bisogna crescerseli”.
Basilio Scocchera
53 anni, veterinario e produttore di formaggio,
Vastogirardi (Isernia)
“Abbiamo scelto di vivere da spiriti liberi e di non essere
schiavi della catena di montaggio. Ci proviamo da qualche
anno con una cooperativa. Con il nostro caseificio diamo
lavoro a tre persone, che per una realtà piccola come
la nostra sono paragonabili a 300 dipendenti della grande
industria. Se riusciamo nel nostro intento? Non so, però
continuiamo insieme su questa strada”.
Saverio Fraccalvieri
34 anni, dirigente sindacale, Santeramo in Colle (Bari)
“Quando presentai domanda per entrare nel gruppo Natuzzi,
feci finta di non sapere cosa fosse il sindacato. L’obiettivo era
superare i 24 mesi, il contratto di formazione. Poi ho iniziato
la mia carriera nella Fillea Cgil. Di recente sui giornali
mi hanno definito il Cofferati della Murgia, perché dopo
tanto tempo siamo riusciti a organizzare qualche iniziativa
all’interno del gruppo. La crisi c’è e si sente. 1.200 famiglie
sono in mobilità, molti conto lavorazioni stanno chiudendo.
Ma perché puntare soltanto sul salotto? Bisognerebbe diversificare
le attività: abbiamo un territorio meraviglioso e buoni
prodotti, tipicità che sono da valorizzare”.
Simonetta Cappello
38 anni, proiezionista di cinema, Torino
“Vorrei fare un documentario dal titolo ‘Cento cabine’ con gli
aneddoti dei proiezionisti. Quello che quando lo spettatore
grida ‘Fuori fuoco!’, impassibile risponde ‘Cambiati gli occhiali’.
Quell’altro che quando si protesta ‘Fa troppo freddo in sala’,
dice ‘Adesso accendo il riscaldamento, così poi sudi’. Ho un
collega che si è bevuto il glicole dell’impianto di riscaldamento,
perché una valvola di ritorno non funzionava bene. Oppure
capita che stai proiettando il film, ti suona l’allarme, vai in
cabina e trovi la pellicola per terra, chessò tutto il Soldato
Ryan. Tre ore di film per terra è un film dell’orrore, perché la
pellicola è viva, è qualcosa che si muove, chilometri e chilometri
di un serpente da riavvolgere. Si rischia di impazzire a fare
questa vita solitaria”.
Daniel Mauceri
23 anni, puparo, Siracusa
Alfredo Mauceri
30 anni, puparo, Siracusa
“La mia è una famiglia di pupari. Mio nonno morì nel 1994,
e con lui rischiò di scomparire anche la tradizione a Siracusa.
L’ultima notte che era in vita, mi disse che non c’era più speranza
per i pupi. Da quel momento non parlò più. Mi sentii in dovere
di fare una solenne promessa: tramandare la sua arte ed
esaudire il suo ultimo desiderio, costruire un museo dei pupi.
Oggi io e mio fratello abbiamo un teatro dove continuiamo
a portare in scena le gesta dei paladini di Francia. È un
lavoro che soddisfa a pieno la mia creatività: sono un po’
regista, un po’ attore, un po’ stilista. Certo, sono anche molto
solo, non ci sono domeniche né giorni di festa.
Ma lo spettacolo continua, fa il suo corso…”.
Anna Lepore
42 anni, formatrice linguistica, Bari
“Ero segretaria del direttore. Dopo il primo figlio le mie priorità
sono cambiate, non avevo più la disponibilità di tempo
di prima. Lasciare il bambino al nido dalle 6.30 del mattino
alle 6 di sera mi creava sensi di colpa. Dall’altra parte,
avevo sempre quella brutta sensazione che hanno le donne
dopo aver avuto figli, come di togliere qualcosa all’azienda.
Mentre cercavo una soluzione ho avuto la seconda bambina.
Ho chiesto e ottenuto il part-time. Questo ha significato
cambiare il mio ruolo. Sono diventata formatrice linguistica:
adesso insegno italiano ai colleghi stranieri. Ho dovuto riciclarmi,
reinventarmi una vita lavorativa dopo la maternità, ma a me
è andata bene. Molte donne sono costrette a rinunciare alla
loro professionalità o a fare figli, firmano lettere di dimissioni
in bianco, si piegano ai ricatti dei datori di lavoro, non per
mancanza di coraggio ma per una mentalità dura a morire”.
Antonio Somma
82 anni, partigiano, ex funzionario Cgil, Francavilla Fontana
(Brindisi)
“Ho ricevuto il certificato di patriota, rilasciato dal comando
degli alleati: c’è la firma del comandante americano.
Fu attribuito a ogni partigiano. Il mio nome di battaglia era
Scugnizzo: lo avevo scelto perché mi affascinava la figura
dell’eroe delle Quattro giornate di Napoli.
In fondo gli assomigliavo, ero vivace, generoso, proprio come lui”.
Roberto Raheli
45 anni, musicista, editore e coltivatore diretto, Lecce
“A 12 anni andavo in bici nella campagna di mio padre
armato di zappetta. È lì che per la prima volta ho sentito
i contadini intonare i canti popolari del Salento. Quelle note
non mi hanno più abbandonato. E adesso sono diventate
la mia occupazione principale. A 20 anni ho iniziato
a recuperare le radici musicali del Salento, quelle tradizionali,
degli anziani, allora non le proponeva nessuno. Prima come
hobby, perché facevo l’insegnante di educazione fisica, poi
per professione con il gruppo Canzoniere di Terra d’Otranto,
e oggi con la compagnia Aramirè. Insieme alla musica
tradizionale rischiavamo di perdere un pezzo della nostra
storia, così ho iniziato a pubblicare le fonti, i canti
e i racconti degli anziani. Ora c’è la moda della pizzica,
tutti la suonano, tutti la vogliono: basta mettere la taranta
in copertina e stai sicuro che vendi. Sapete che cosa ho
messo sul nostro ultimo disco? La scritta: ‘Stop agli abusi sui
ragni: nessun ragno è stato impiegato per la realizzazione
di questo Cd’”.
Domenico Santirocco
68 anni, ispettore del lavoro in pensione, Roma
“Una cosa che mi aveva molto colpito da ragazzo era lo
sfruttamento dei lavoratori. Anche mio padre faceva orari
pazzeschi, che superavano le 12-13 ore al giorno. Da lì
sentii l’esigenza di fare giustizia. A 23 anni vinsi il concorso
per ispettore del lavoro, l’ho fatto per 35 anni.
È un’attività che ti consente un’ampia libertà di movimento,
fai le ispezioni di giorno e di notte. Ricordo un episodio storico:
l’irruzione in un convento di clausura per un caso di lavoro
nero. Era notte e c’era un silenzio irreale. Dopo aver sfondato
la finestra del convento, un mio collega entrò e trovò le suore
a cucire e ricamare bavaglini che sarebbero stati venduti a
prezzi bassissimi. Vedendolo, scapparono urlando: ‘Il diavolo,
questo è il diavolo che è venuto a trovarci’. Tuttora in Italia si
contano mille infortuni mortali l’anno e un milione di incidenti
non mortali. Cifre che fanno rabbrividire. E stanno aumentando
i casi di malattia professionale. Un nuovo male, un male che
appartiene al 2005, è il mobbing. C’è molta confusione su
questo fenomeno, e anche se non abbiamo una legislazione
specifica, il lavoratore ha strumenti per difendersi con la
normativa esistente. Sei anni fa all’Italsider di Taranto avevano
istituito la palazzina dei mobbizzati: vi erano stati confinati
i rappresentanti sindacali, le lavoratrici madri, le persone
scomode. A farcela scoprire fu un lavoratore che tentò il suicidio.
Non immaginavamo potesse esistere una cosa del genere”.
Sebastiano De Bartoli
27 anni, produttore di vino, Marsala (Trapani)
“Sono figlio d’arte. È importante avere una tradizione alle
spalle, anche se non capisci mai se hai scelto una strada per
passione o per dovere verso tuo padre. Io sono nato in questa
azienda, il mio lavoro è diventato la mia vita”.
Renato De Bartoli
31 anni, enologo, Marsala (Trapani)
“Quando ho capito il limite dell’enologia mi sono avvicinato
alla terra. Il giorno che dovrò ricorrere alla meccanizzazione
e non avere più un contatto diretto con la vigna, smetterò
di fare vino. Secondo me, lavorare con le mani vuol dire
continuare la tradizione contadina del territorio.
Siamo un’azienda a conduzione familiare, dove si fa un lavoro
d’équipe: non abbiamo dipendenti ma collaboratori che
condividono il nostro modo di fare vino”.
Cheikh Djoum
43 anni, commerciante, Agrigento
Ndiaye Abdourahmane
39 anni, commerciante, Agrigento
“Del Senegal mi manca tutto. La mia famiglia, i miei amici,
il mio paese. Ho una figlia di sette mesi che ancora non ho
visto, mi manca terribilmente. Ogni giorno telefono a mia
mamma per sapere come stanno le cose, ogni giorno, non
posso resistere. Quando ero a casa non riuscivo a vedere
la bellezza del mio Paese, volevo andarmene via da quel posto
schifoso. Da quando sono emigrato ho capito che abbiamo
una terra bellissima, che è bellissimo essere senegalesi.
Io sono fiero di esserlo”.
Renzo Buttazzo
42 anni, artigiano, Lecce
“Volevo usare le mani. È per questo che mi sono messo
a fare l’artigiano. Mi ha sempre affascinato plasmare
la pietra leccese, materiale unico al mondo, stravolgere
completamente il blocco per renderlo un’altra cosa. Per far
sì che chi lo guarda non pensi che sia pietra, ma un oggetto
morbido e fluido che richiama la natura. Ci sono clienti che
non possono permettersi di comprare, ma entrano lo stesso
nel mio negozio per toccare gli oggetti, per provare le
sensazioni che trasmette accarezzare la pietra. Questo mi
riempie di gioia. All’artigianato non rinunceremo mai.
Più ci sarà industrializzazione e più torneremo all’età della
pietra, ai materiali che vengono dalla terra. Perché gli
oggetti artigianali hanno un cuore, quelli industriali no:
sono le mani a dare un valore aggiunto”.
Manuela Cozzi
50 anni, agronoma, Anversa degli Abruzzi (L’Aquila)
“Sono arrivata qui dalla Toscana nel 1982 subito dopo la laurea,
incaricata dalla comunità montana di Sulmona di fare una
ricerca sulle piante aromatiche medicinali di queste montagne.
La mia passione però erano le pecore, sulle quali avevo fatto
la tesi di laurea. Cercando tra le piante, ho scoperto un progetto
incredibile di valorizzazione di una montagna in via d’abbandono.
Mi sono unita a questa avventura. Abbiamo inventato ‘Adotta
una pecora’, riproponendo un contratto in uso nell’antichità:
il consumatore finanziava il produttore per ottenere i prodotti
necessari al sostentamento della famiglia. Niente di nuovo,
solo il marketing. L’iniziativa ha fatto il giro del mondo, abbiamo
collezionato quasi mille articoli di giornale e in tutto circa
5mila contratti. E molti genitori adottivi vengono a trovare
la loro pecorella”.
Giovanni Ottaviani
55 anni, stampatore, Città di Castello (Perugia)
“Potrei lavorare per delle ore, spesso non mi accorgo che sono
le 10 di sera. È così piacevole stare in tipografia, magari
con un amico e un buon bicchiere di vino! L’etica del lavoro
l’ho imparata da mia nonna. Lei mi diceva sempre:
‘Prima di comandare bisogna imparare a farsi comandare’”.
Eudokia Karapati Chatzipetrou
44 anni, studentessa e cuoca, Catania
“Per quindici anni ho lavorato a Catania come cuoca in diversi
locali notturni, sempre in nero. Il meccanismo che si innesca
dopo quindici anni di lavoro nero è la rabbia, soprattutto
la rabbia e la voglia di spaccare tutto. Guadagni dai 30
ai 50 euro a sera, per otto ore di fatica in cucina, senza
assicurazione e senza copertura sanitaria. Per questo ho
deciso di uscire allo scoperto e di denunciare. Ho fatto
volantinaggio, ho cercato di creare una rete attraverso Internet,
ma poi mi sono fermata perché era troppo pericoloso.
Alla fine ho denunciato i miei datori di lavoro e li ho trascinati
in tribunale”.

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Ritratti, Feltrinelli Ed. 01

  • 1. Ritratti100 anni di Italia attraverso volti, storie, testimonianze, ricordi dei lavoratori un progetto di Pippo Onorati Feltrinelli
  • 2. Ritratti 100 anni di Italia attraverso volti, storie, testimonianze, ricordi dei lavoratori un progetto di Pippo Onorati per Feltrinelli
  • 3. Sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica italiana un progetto per Associazione Centenario CGIL promotrice del Comitato Nazionale per il Centenario della CGIL del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali progetto e direzione artistica Pippo Onorati ideato in collaborazione con Patrizia Pallara, Mirko Caretta, Roberto Manzone, Tommaso Vecchio fotografie Pippo Onorati con Mirko Caretta, Daniele Federico, Melisa Scolaro, Alessandro Toscano testi Patrizia Pallara con Luca Pelini redazione Pippo Onorati e Patrizia Pallara Luca Pelini (caporedattore), Giulia Altomonte, Luciana Auto, Mirko Caretta, Matteo Cerro, Daria Di Mauro (montaggio video), Daniele Federico, Michela Gentile, Roberto Manzone, Valentina Marella, Andrea Nobile, Letizia Petrucci, Claudia Romagnoli, Melisa Scolaro, Giuliano Tarquini, Alessandro Toscano, Federico Valente, Tommaso Vecchio, Maria Zipoli produzione esecutiva Roberto Manzone con Giulia Altomonte e Luciana Auto (segreteria di produzione) post - produzione foto Mirko Caretta, Matteo Cerro (responsabile tecnico), Daniele Federico, Dario Tassa grafica e progettazione libro Salvatore Gregorietti amministrazione, finanza e controllo Alda Coccia, Salvatore Romeo, Studio Ucci ricerca e gestione sponsor Mela Media Lavoro un grazie speciale a Silla Simonini, Debora Pietrobono, Patrizia Di Laura Frattura, Beppe Casadio, Guglielmo Festa, Ferruccio Camilloni,Tarcisio Tarquini, Mario Marturano, Marco Costa, Ascanio Celestini, Alessandro Piva, Sandro Costa, Maurizio Sarlo abbiamo usato macchine fotografiche Nikon e Hasselblad e computer Apple www.mammanannapappacacca.it www.100annicgil.it © Giangiacomo Feltrinelli Editore Prima edizione in “Fuori Collana” settembre 2006 ISBN 88-07-42119-4 Con il contributo di Lasciar parlare la vita attraverso il lavoro. E i lavoratori attraverso le loro storie. Nasce da questa idea il progetto “Ritratti. 100 anni di Italia attraverso volti, storie, testimonianze, ricordi dei lavoratori”: un libro, una mostra, 100 documentari. È un diario lungo un secolo che racconta la quotidianità e le passioni, le battaglie e le conquiste, i problemi e le trasformazioni di un mondo che ci appartiene. Pensato per festeggiare il centenario della CGIL, che si celebra nel 2006, Ritratti è un'opera artistica inedita che non parla solo di politica: ha l'ambizione di acquisire un valore storico, culturale e sociologico da tramandare. E si rivolge al cuore e alla testa degli italiani. Per un intero anno la redazione di Ritratti, uno staff di ricercatori, fotografi, registi, operatori, montatori, è andata in giro per l'Italia, da Aosta a Trapani, da Cagliari a Trento, per fotografare un gran numero di lavoratori, più di 500, e raccogliere in video la loro testimonianza. Un viaggio in Italia alla ricerca di protagonisti, testimonianze, facce, luoghi, memorie delle persone che hanno contribuito a costruire il nostro Paese. Il mondo che emerge è vario, la realtà trasversale. Volti e parole, idee e contraddizioni si fondono: accanto agli operai di Torino ci sono i cassintegrati di Termini Imerese, alle rivendicazioni degli anziani si affianca la precarietà dei giovani. I personaggi sono persone normali, giovani e vecchi, donne e uomini, protagonisti del passato e del presente, con una storia straordinaria da raccontare: la loro e quella di 100 anni d'Italia. Con il materiale raccolto sono stati realizzati oltre al libro, una mostra e una serie di 100 documentari. La mostra è composta dai ritratti fotografici dei lavoratori e dai loro racconti: 222 pannelli in formato gigante, montati su strutture triangolari autoportanti. Ed è itinerante: il suo tour toccherà le principali piazze italiane, per tradizione luogo della protesta e della contestazione, della conquista delle libertà e dei diritti. I documentari “centoXcento Ritratti. 100 storie X 100 anni” raccontano l'Italia in video: ogni cortometraggio, di durata variabile, è incentrato su un personaggio, un territorio, un avvenimento, una vita. Pippo Onorati
  • 4. Giovanni Zorzi 42 anni, idrovorista, Maccarese (Roma) “Sono un discendente dei coloni veneti venuti qui nel 1925 per la bonifica di Maccarese. Per primi sono arrivati i miei nonni, poi mio padre e i suoi sette fratelli. L’80-90 per cento degli abitanti di Maccarese è di origini venete, 2-3mila persone che erano state scelte perché avevano lavorato nei canali per la bonifica del Delta del Po e avevano una grande esperienza nel campo dell’agricoltura. La bonifica dell’agro romano è iniziata alla fine dell’Ottocento ed è stata completata nel 1927. Ancora oggi se si fermano le macchine idrovore, che portano le acque basse al mare, in pochi mesi si potrebbe riformare la palude. Nonostante siano passati novant’anni, la tradizione veneta è ancora molto sentita, in alcuni centri si brucia la befana come si fa al Nord, si fanno i dolci tipici, e mentre gli anziani parlano il dialetto, i giovani parlano una lingua imbastardita dal romanesco”. Adige Zorzi 73 anni, contadino e vaccaio in pensione, Maccarese (Roma) “Negli anni della bonifica in questa zona si campava male, vivevamo in una baracca e non avevamo i soldi neanche per le scarpe: si lavorava scalzi. Non potevamo andare a scuola perché era occupata dai tedeschi. Per questo ho iniziato a lavorare a 11 anni nella stalla: era un po’ come un gioco, ma i vecchi ci insegnavano il mestiere”. Domenico Trovato 79 anni, ex emigrante, Melissa (Crotone) “Sono stato come una puttana, ho fatto tutti i lavori possibili. Per bisogno sono andato anche in Germania dove ho conosciuto persone di tutto il mondo. C’erano greci, turchi, spagnoli. Noi italiani non eravamo gli unici disperati. È stata dura: i tedeschi anziani, quelli che avevano fatto la guerra, ci chiamavano merde, ci trattavano male. La mia storia è simile a quella di tanti altri. In Calabria, a quei tempi, la vita era difficile, per molto tempo siamo stati degli schiavi!”.
  • 5. Nunzio Rosania 51 anni, direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario, Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) “Ospitiamo gli ultimi della società. Non dobbiamo mai dimenticare che queste persone soffrono e il nostro compito è alleviare il loro dolore, salvaguardarne il decoro e la dignità. Sono un medico e uno psichiatra, e sono abituato ad avere con i pazienti un rapporto basato sull’umanità. Rimango tuttora molto perplesso dal modo prevalente di affrontare i problemi della psichiatria in ambito giudiziario, certe volte manifesto insofferenza, ma mi sono dovuto adattare alla realtà in cui vivo e opero. I miei collaboratori, il personale di polizia penitenziaria, hanno il compito di tenermi con i piedi per terra. Abito all’interno dell’istituto, il mio alloggio di servizio è qua, per questo non vivo fasi di distacco vero e proprio dal servizio”. Andrea Siracusa 58 anni, tecnico caposala dell’ospedale psichiatrico giudiziario, Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) “Ho un debole per le persone che hanno bisogno, i disabili, i malati, i bambini, sono solidale con loro, guai a chi li tocca. Per me è un grande piacere aiutarli. Ho visto ricoverati abbandonati dalle famiglie, che hanno trascorso in solitudine anche Pasqua e Natale. Ecco, io ho sempre cercato di stare loro vicino, di dargli affetto. E adesso che non lavoro più nei reparti mi manca il rapporto con i pazienti. Ho 39 anni di servizio qui dentro e ho vissuto tutte le evoluzioni. Negli anni Sessanta era un manicomio criminale, c’erano 600 detenuti, e noi agenti di polizia penitenziaria facevamo turni di dodici ore e ci spettava un giorno di riposo ogni cinque mesi; oggi ci sono 200 ricoverati, tutti trattati bene. Di qui ho visto passare i grandi mafiosi, Buscetta, Pellegrino, il cosiddetto Omo mitra, Supera, Lombardo, Rizzato. Venivano al centro clinico, facevano accertamenti e se ne andavano. Sono molto contento di appartenere a questa amministrazione, ho sempre fatto il mio lavoro con cuore e soddisfazione”. Emanuele Fiorellini 80 anni, pensionato, Vittoria (Ragusa) “‘Non arrenderti mai, uomo, i padroni e il re sono uomini come te’. Questa frase di Bertolt Brecht racchiude tutta la vita e le sofferenze dei vecchi braccianti. Ho avuto la fortuna di ascoltare le loro storie da bambino, quando potevamo sederci intorno a un tavolo con un piatto di minestra”.
  • 6. Federico Cefaliello 50 anni, operaio Ilva, Taranto “Sono un operaio con la O maiuscola. La mia tuta blu è come il mio vestito di nozze: l’abito del matrimonio ce l’ho conservato nell’armadio, anche la mia tuta sta lì, sempre pronta per ogni evenienza. Le due cose per me sono inseparabili. Non credo che mia moglie la pensi allo stesso modo, perché la tuta lei la deve lavare, è piena di grasso e di polvere. La testimonianza delle mogli di chi lotta con il sindacato è più importante della nostra stessa testimonianza, il loro sacrificio è più grande del nostro. Noi lottiamo da anni per migliorare le condizioni di vita e di lavoro in questo colosso dell’acciaieria. Ci sono incidenti tutti i giorni, lavoratori che subiscono infortuni, che si ammalano per le polveri, che muoiono. Là dentro non si capisce niente, là dentro c’è un macello”.
  • 7. Luigi Azzaro 35 anni, agente di sicurezza privata, Pescara “Noi non siamo buttafuori, come a volte veniamo definiti. Siamo pagati per assicurare ai clienti il regolare svolgimento di una serata, non per ‘buttarli fuori’ ma per tutelarli da chi, l’imbecille di turno che capita sempre, uno su mille, uno su 10mila, vuole rovinare il divertimento degli altri. Avevo 19 anni quando ho iniziato, facevo il pugile, ero un ragazzo inesperto, e allora venivo chiamato davvero per fare il buttafuori. Quell’incarico mi dava la voglia di vivere e mi faceva stare con l’adrenalina a tremila”. Teo Musso 41 anni, produttore di birra, Piozzo (Cuneo) “Sono un provocatore. Rifiuto alcune convenzioni legate alla cultura del gusto e con la mia birra voglio creare paradossi. Io stesso lo sono: per la scuola italiana sono un ignorante, ma nonostante ciò mi chiamano spesso a insegnare, a tenere corsi anche all’università”.
  • 8. Sabato Abbagnale 37 anni, produttore di pomodori, Sant’Antonio Abate (Napoli) “Per me pomodoro significa vita, gusto, dolcezza, profumi. La mia missione? Far capire che i pomodori devono essere buoni da mangiare oltre che belli da guardare. Credo che con il tempo sempre più persone invidieranno il mio lavoro: avere a che fare con la terra e con il sole è un’esperienza incredibile”. Igino Gelone 53 anni, floricoltore e olivicoltore, Imperia “La pianta è come un figlio: per farla crescere devi curarla e trattarla con amore. Il legame che si instaura è un dialogo muto, fatto di passione e di fatiche”. Sabino Sansonne 42 anni, bracciante agricolo, Andria (Bari) “Lavoro a giornata da 25 anni. Adesso prendo 47 euro alla potatura, ho la paga da operaio qualificato, ad altri danno anche meno, 37-40 euro. Così, difficilmente puoi campare, soprattutto in un inverno come questo, in cui a gennaio abbiamo fatto sì e no dieci giornate. Allora dobbiamo fare come le formiche che risparmiano e mettono da parte per quando non si lavora. Come oggi, che piove e te ne torni a casa a fare il caffè con tua moglie”.
  • 9. Lucio Parrotto 71 anni, minatore emigrato in pensione, Casarano (Lecce) “Come contadino guadagnavo 400 lire al giorno. Sono emigrato in Belgio, a lavorare nelle miniere di carbone. Lì prendevo 180 franchi, che corrispondevano a 3.500 lire al giorno. A mio papà riuscivo a mandare solo 30mila lire al mese, perché con il resto dovevo pagarmi l’alloggio, il cibo, la biancheria pulita. Pochi mesi dopo il mio arrivo, è successo il disastro di Marcinelle: l’8 agosto del 1956 la miniera prese fuoco, ci furono 262 morti, 136 dei quali italiani e 16 della provincia di Lecce. Da quel momento ho pensato che si doveva fare qualcosa per quei poveri sventurati che avevano perso la vita a 1.100 metri sotto terra e che erano stati meno fortunati di me. Da allora ho cominciato a raccogliere articoli di giornale, documenti, tutto ciò che capitava: quello che potevo raccogliere, lo raccoglievo. E conservavo tutto nella mia vecchia valigia di cartone. Quando sono rientrato a Casarano, nel 1986, dopo 29 anni, ho voluto dedicarmi a costruire il monumento del minatore. Nel 1995 ho aperto il circolo del minatore: emigranti del Belgio, della Francia, della Svizzera la sera vengono qui, giocano a carte, si bevono un bicchiere di birra, chiacchierano”. Salvatore Arcodia 45 anni, cassintegrato M.G., Termini Imerese (Palermo) “Dal giorno che mi hanno messo in cassa integrazione la mia quotidianità si è ridotta: mi alzo la mattina, accompagno i figli a scuola, cerco di far passare una giornata interminabile. Vorrei tornare in fabbrica a sentire il rumore delle macchine in funzione, magari alle volte era fastidioso, ma mi faceva ben sperare per il futuro. Mia moglie dice che ci vuole coraggio, ma purtroppo con il solo coraggio non si tira avanti”. Daniele Palestrini 54 anni, responsabile centro servizi pesca, Ancona “Praticamente sono nato in acqua: la mia è una famiglia di pescatori da almeno 500 anni. Fin da piccolo passavo buona parte del mio tempo libero in barca, a giocare con quelli che sarebbero diventati i ferri del mestiere. Sono molto orgoglioso delle mie origini, perché vivere e lavorare con la gente di mare ti forma. Sono persone abituate a fare di tutto, in barca si è un po’ cuochi, un po’ sarti, un po’ motoristi, poche chiacchiere e tanto lavoro. In barca impari anche che cos’è la fiducia, spesso la tua vita dipende dal tuo compagno. Oggi lavoro a terra e ho maggiori comodità, ma spesso mi manca il contatto con il mare. Il mio posto è l’acqua”.
  • 10. Anna Sangro 60 anni, operaia della Pelino, Sulmona (L’Aquila) “Mia mamma ha lavorato qui, io lavoro qui, adesso anche mia figlia. È come se fossi nata in questa ditta. Ho sempre avuto la sensazione di appartenere a una grande famiglia, come se fossi cresciuta in questi locali”. Francesca Santorelli 35 anni, operaia della Pelino, figlia di Anna, Sulmona (L’Aquila) “Anche per me questo è un ambiente familiare, qui io ci sono cresciuta perché da piccolina venivo a trovare mamma. Se i miei figli un giorno lavoreranno alla Pelino? Chissà, a loro piacerebbe molto perché sono golosissimi”. Paola Pelino 50 anni, imprenditrice, Sulmona (L’Aquila) “Sono entrata nell’azienda di famiglia a 17 anni, un atto di obbedienza nei confronti di papà Olindo. Avrei voluto lavorare nel mondo della moda, ma la nostra è una famiglia patriarcale. La Pelino produce confetti a Sulmona dal 1783 e per sei generazioni ha visto solo uomini al comando. Io sono stata la prima donna al timone dell’azienda. Non nascondo che ho incontrato molte difficoltà: ho dovuto dimostrare che cosa ero capace di fare, con sforzo e con fatica, soprattutto a mio padre. Qualche vantaggio, però, l’ho avuto. Da subito sono riuscita a instaurare un buon rapporto con i dipendenti, quasi tutte donne. Il mio sogno? Trasmettere alle mie figlie, Flavia ed Elvezia, l’amore per questo lavoro, lo stesso che mi ha trasmesso papà”. Diego Brandalise 50 anni, operaio Heineken, Pedavena (Belluno) “Le multinazionali non hanno un cuore. Pensano solo al profitto, ma le persone non sono animali. Oggi si fa di tutto per creare degli schiavi. Noi non ce ne rendiamo conto, ma siamo sulla strada giusta per diventare degli schiavi. Dobbiamo ricostruire i valori partendo dalla base. Nella scuola professionale per birrai che ho frequentato, avevamo dei professori davvero in gamba. Era come una famiglia, ci hanno insegnato i valori. Adesso è tutto finito sotto il calco delle scarpe”.
  • 11. Corrado Assenza 45 anni, pasticcere del Caffè Sicilia, Noto (Siracusa) “Ho scelto questo lavoro in un momento di follia. Io e mio fratello eravamo lanciati nella carriera universitaria ma il richiamo della tradizione e della nostra terra è stato più forte. Abbiamo deciso di rilevare la pasticceria di famiglia. Oggi portiamo avanti una tradizione che dura da 113 anni. Ho dedicato la mia vita alla ricerca e all’innovazione. In questo percorso i sensi hanno un ruolo fondamentale, le mani, il tatto, l’olfatto sono gli strumenti principali… Nella mia quotidianità l’umanità fa la differenza, i miei collaboratori devono lavorare sodo, ma hanno la possibilità di imparare molto. Il nostro rapporto è fatto di gesti semplici, un sorriso, un’attenzione, un attrezzo dato al momento giusto”. Reiko Hakata 35 anni, aiuto pasticcere del Caffè Sicilia, Noto (Siracusa) Thomas Schuster 30 anni, pasticcere del Caffè Sicilia, Noto (Siracusa) Corrado Lucci 37 anni, pasticcere del Caffè Sicilia, Noto (Siracusa) Richard Perks 20 anni, pasticcere del Caffè Sicilia, Noto (Siracusa) Luca Torneo 22 anni, operaio pasticcere del Caffè Sicilia, Noto (Siracusa)
  • 12. Marco De Bartoli 60 anni, produttore di vino, Marsala (Trapani) “I vini buoni li fanno le persone simpatiche: è la componente umana che fa la differenza. Io sono uscito dall’industria del marsala trent’anni fa con il sogno di realizzare un prodotto di qualità. È bello poter dire che ci ho provato e forse ci sono riuscito. Poteva essere più facile, magari meno costoso, ma ho voluto farlo a modo mio e ho avuto ragione. Come marito non valgo molto, ho dedicato tutta la mia vita al lavoro. Sono molto orgoglioso dei miei figli, anche loro hanno deciso di sposare il mio modo di lavorare. Ogni tanto faccio la ‘prova del morto’. Che consiste: mi metto in disparte e li guardo lavorare… Sono bravi. Per dare spazio a loro ho deciso di trasferire il mio ufficio nel garage dove tengo le macchine d’epoca. Ho una grande passione per le auto: probabilmente sono nato in una macchina, perché mia madre è stata la prima donna da queste parti a guidarne una”. Fiorenzo Nicolasi 56 anni, tecnico centrale elettrica Enel, Porto Tolle (Rovigo) “Pezzo dopo pezzo abbiamo costruito la centrale elettrica. Ci hanno dovuto insegnare tutto, perché questo era un paese prettamente agricolo, avevamo esperienza solo con la campagna. Poi è arrivato il nostro momento, abbiamo istruito tecnici provenienti da ogni parte d’Italia. Col tempo sono state assunte più di mille persone. Prima c’era solo la Federbraccianti, c’era l’abitudine a tenere la testa bassa davanti al padrone, ma ogni tanto qualcuno la alzava: io ho sempre ammirato queste piccole grandi persone che facevano sindacato. Purtroppo i coraggiosi erano costretti a cambiare paese, perché qui per loro non c’era più lavoro”.
  • 13. Gianluca Bortolozzo 43 anni, tecnico impianti della Coca-Cola, Porto Marghera (Venezia) “Mio padre raccontava sempre che un bambino, tornato a casa dopo una gita a Porto Marghera, si rivolse arrabbiato al papà dicendo: ‘Non sapevo che lavorassi in un posto così schifoso’. Quel bambino ero io. Allora la Montedison organizzava gite negli impianti: doveva sembrare tutto bello e pulito. Mio papà Gabriele ha iniziato per primo la battaglia per migliorare le condizioni di vita e di lavoro degli operai del petrolchimico. Allora molti lo consideravano pazzo, ma lui in trent’anni non si è mai arreso, ha lottato fino alla fine. Uno dei miei più grandi rimpianti è non averlo visto arrivare vivo all’inizio del processo di Porto Marghera. Il primo anno del processo ho trascorso le mie ferie in aula ad ascoltare deposizioni e testimonianze: in qualche modo glielo dovevo. Cosa mi ha insegnato papà? Che cosa significa crescere un figlio. Ho un ragazzo di 12 anni e voglio trasmettere a lui quello che mio padre ha lasciato a me, il rispetto per gli altri e l’amore per la natura. Era un padre molto presente: faceva di tutto per cambiare turno con i colleghi pur di essere, la domenica mattina, alle mie partite di calcio. Ricordo che nonostante la malattia c’era sempre, anche nelle più fredde giornate d’inverno. Alcune volte tutto mi appare ancora confuso e devo fermarmi per capire e mettere a fuoco con lucidità la storia di mio padre e di Porto Marghera”. Andrea Locatelli 44 anni, comandante nell’azienda di trasporto pubblico della laguna veneta, Venezia “Sacrificio. Il lavoro di marittimo è innanzitutto sacrificio. Poi ti deve piacere il mare, perché sei sempre fuori, in servizio 24 ore su 24. Adesso non è più remunerativo come una volta, perché i contratti sono sempre più schiacciati verso il basso e le compagnie di navigazione preferiscono prendere personale del Terzo Mondo, tra virgolette. Emarginati è la parola più giusta”.
  • 14. Naima Hammami 24 anni, cameriera, Bari “Siamo venute in Italia insieme, con la promessa di un contratto di lavoro in una fabbrica di pomodori. Arrivate a Bari, il proprietario della fabbrica ci ha detto che potevamo tornarcene in Tunisia, non c’era niente per noi. Ci siamo rivolte alla Cgil e nel giro di due giorni siamo riuscite a far rispettare gli accordi. Dopo un mese e mezzo ci hanno costretto a firmare una busta paga falsa e ci hanno cacciate. Con l’aiuto del sindacato siamo andate in tribunale e abbiamo trovato un accordo. Adesso io lavoro in un ristorante, Faten in un bar. Abbiamo il permesso di soggiorno fino a settembre. Se non ce lo rinnovano? Ce ne torniamo a casa”. Faten Dellai 22 anni, cameriera, Bari “Eravamo relegate in fabbrica. Lavoravamo dalle 5 di mattina alle 7 di sera, dodici ore a 2,5 euro l’ora. Dormivamo sopra la fabbrica, mangiavamo i panini che ci dava il proprietario, potevamo uscire solo una volta alla settimana”. Roberta Mariana Petitoiu 32 anni, operatrice del call center di Poste Italiane, Roma “Sono emigrata dalla Romania perché ero disoccupata e stavo ancora con mamma e papà. Il mio primo lavoro qui è stato fare la colf per una famiglia in una villa sull’Appia Antica. Poi sono entrata nella Securidata, che gestiva il trasporto valori per le Poste. Dopo che la società è stata assorbita, siamo stati tutti licenziati. Abbiamo fatto causa e dopo tre anni le Poste ci hanno riassunto. Nel frattempo, mi sono arrangiata facendo le pulizie in nero. Non tornerei più in Romania, l’ultima volta che ci sono stata, quattro anni fa, ho trovato tutto cambiato, la gente non è più quella di una volta, pensa solo ai soldi e a sé stessa. Qui mi sono comprata una casa, ma il mutuo a tasso variabile mi spaventa, non so se ce la farò a pagarlo”.
  • 15. Salvatore Giglio 29 anni, operaio della ST Microelectronics, Catania “Una tuta ci copre integralmente il corpo, alle mani portiamo guanti di lattice. L’unica cosa che rimane scoperta sono gli occhi. I nostri stati d’animo, se siamo nervosi o felici, li comunichiamo con gli occhi. Tra colleghi ci capiamo al volo, basta uno sguardo. È una cosa che ho imparato in fabbrica, col tempo. Ho imparato anche a essere meno permaloso. Avere rapporti con persone molto diverse da me e rappresentare i lavoratori e le lavoratrici davanti all’azienda, ha smussato questo mio difetto. Perché ho dovuto acquisire il dono della mediazione, sono diventato più diplomatico. Quest’anno ho iniziato a studiare psicologia all’università. Molti mi hanno chiesto perché. L’unica spiegazione l’ho trovata nel valore della parola: nella psicanalisi il colloquio è importante, è la parola che è di per sé terapeutica. E la parola è anche un elemento fondamentale per fare il sindacato. Con i lavoratori ci devi parlare. Se un giorno cambierò mestiere? Forse sì, ma sindacalista rimarrò sempre, perché è un modo di essere e va al di là dell’avere un incarico come rappresentante sindacale. La parola sindacato, nella sua origine greca, significa ‘insieme per la giustizia’: chi vuole conquistare la giustizia con gli altri, fa sindacato”. Gaetano Giambalvo 47 anni, bracciante agricolo in pensione, Castelvetrano (Trapani) “C’è gente che la campagna non sa nemmeno dov’è, persone in camicia e cravatta e mani bianchissime, belle signore con le unghie lunghe dieci centimetri, ben pitturate. Vanno dai datori di lavoro e pagano per essere assunti. Poi prendono la disoccupazione agricola, si fanno le cinquanta giornate di malattia, e così recuperano i soldi che hanno sborsato per comprarsi le giornate. Mentre i poveracci come noi, che abbiamo davvero bisogno delle giornate, noi che effettivamente lavoriamo, siamo sempre in difficoltà e non raggiungiamo mai il quorum per chiedere la disoccupazione. Qui la mafia esiste ancora, nelle nostre terre c’è e continua a camminare”. Pasquale Marinelli 40 anni, fonditore di campane, Agnone (Campobasso) “La fonderia Marinelli costruisce campane dall’anno Mille. Da allora, c’è sempre stato un Marinelli che le fa. La campana non è un oggetto usa e getta. In passato era un vero e proprio mezzo di comunicazione, serviva per scandire il tempo delle comunità. Io non mi sono mai sentito in dovere di fare questo lavoro: sono nato qui, sono un Marinelli e devo fare il campanaro”. Armando Marinelli 45 anni, fonditore di campane, Agnone (Campobasso) “Nel nostro lavoro c’è qualcosa di mistico che ti porta a cercare il contatto con l’argilla, la terra, la manualità. La passione nasce da bambino, quando inizi a giocare, a sporcarti in fonderia, e poi capisci che quello sarà il tuo mestiere”.
  • 16. Rita Ricciardi 63 anni, collaboratrice scolastica, Brolo (Messina) “A 16 anni sono andata a Milano dove c’erano le mie sorelle, perché non volevo dipendere dai genitori. Ho trovato lavoro in fabbrica a Varedo. Ogni giorno facevo 15-18 chilometri in bicicletta. I primi tempi andava tutto bene, poi una sera uscendo dalla fabbrica… una nebbia fitta, ma così fitta che non si vedeva a un metro di distanza. Ai miei colleghi ho detto: ‘Non mi lasciate sola, ho paura di questa nebbia’. Era la prima volta che la vedevo. Mi sono persa, sono trascorse ore e non sapevo dov’ero. È stata un’avventura. A un certo punto i nostri genitori hanno detto che dovevamo ricamare il nostro corredo, così mi sono licenziata e sono tornata in Sicilia. Da allora ho fatto molti lavori, tutti in nero. Come sarta, come cuoca nei ristoranti, pagata poco e senza contributi. Mi sono adattata a tutto perché volevo che i miei figli studiassero, si sistemassero. Sono anche stata vittima di incidenti sul lavoro, ma non mi è stato mai riconosciuto nulla. Dopo un aneurisma e un coma mi hanno riconosciuto il 65 per cento di invalidità. Non potrei fare niente, invece a scuola faccio quello che mi tocca, lavo i bagni e i pavimenti. Purtroppo i contributi per andare in pensione non ce li ho. Devo avere coraggio e combattere ancora due anni, poi forse potrò avere una pensione di 500 euro al mese!”. Cinzia Scaffidi 41 anni, responsabile centro studi Slow Food, Bra (Cuneo) “Una volta, a cena, un produttore argentino di mais mi disse: ‘In questi due giorni con voi ho capito che i piccoli cambiamenti possono fare grande differenza’. Ecco in una frase il nostro lavoro di anni. È proprio questo uno degli aspetti che amo di più del mio lavoro, il contatto con le persone, perché si mescola un po’ tutto… Con gli anni ho costruito una rete di amicizie e di affetti incredibile. Ho scoperto che è possibile innamorarsi cento volte al mese. Le persone più importanti sono quelle che incontri tutti i giorni o quelle che magari ti sfiorano per un attimo e ti lasciano una frase che potrebbe rimanere scolpita nel marmo. Che lavoro faccio? Quanto tempo avete per farvelo raccontare?”. Laura Valentina Socco 39 anni, ricercatrice universitaria del Politecnico, Torino “Mi sono iscritta a ingegneria pensando che un giorno avrei costruito i ponti: mi piaceva l’idea della grande opera. I primi approcci alla costruzione ingegneristica mi hanno fatto disamorare: troppa tecnocrazia, troppo snobismo per gli aspetti non prettamente tecnici. Poi ho capito che una donna difficilmente avrebbe trovato spazio in un grande cantiere. Così, sono approdata alla ricerca scientifica. Quella italiana è caratterizzata da un’estrema libertà e, di contro, da una totale precarietà e da una grande carenza di obiettivi: ognuno fa un po’ quello che gli pare, nel bene e nel male. Questo consente di mettere in pratica le proprie idee, ma d’altra parte produce poca massa critica e un forte isolamento, con tanti piccoli gruppi che vivono alla giornata”.
  • 17. Giuseppe Sessa 37 anni, ingegnere, Catania “Sono entrato nel mondo del lavoro quando la new economy stava vivendo il suo momento di gloria. Torino, Roma, Tel Aviv. Poi sono tornato a Catania, in una delle realtà più promettenti di allora. Mi sono tuffato nel lavoro, facendomi assorbire completamente. Ero felice perché lavoravo nella mia città e perché potevo crescere. La crisi e scelte sbagliate del management hanno portato al mio licenziamento. È stato un trauma. Oggi il mio approccio con il lavoro è profondamente cambiato. Ho capito quanto sia importante avere tempo libero, ho riscoperto la lettura, la politica, lo sport, il piacere del chiacchierare. Ho capito che sono un uomo prima di essere un lavoratore”. Fabio Massarelli 43 anni, operaio Thiessen Krupp, Terni “Da bambino vivevo vicino alle acciaierie. All’epoca c’erano circa 10mila operai e alla fine dei turni sembrava di assistere al Giro d’Italia, centinaia di persone che tornavano a casa in bicicletta o in motorino. Il lavoro aveva una dimensione familiare, tutti avevano un parente alle acciaierie, molti le consideravano l’unico futuro possibile. Ricordo il mio primo giorno, avevo il cuore in gola per la felicità… Potevo considerarmi sistemato. Oggi la Thiessen Krupp ci ha rubato i sogni e la tranquillità. Se continua così questo posto è destinato a tornare quello che era un tempo: una necropoli”.
  • 18. Idea Pepe 91 anni, insegnante in pensione, Bari “Il mio compito è stato costruire la coscienza dei cittadini. Non ho mai voluto imporre le mie idee, anzi. Il mio obiettivo era far ragionare i ragazzi con la loro testa e non impartire delle nozioni. Credo che sia costruttivo insegnare e praticare un democratico scambio di opinioni. In passato agli insegnanti era vietato parlare di politica a scuola, la sola lettura della Costituzione era considerata un atto sovversivo, ma per me era semplicemente un modo per far conoscere ai ragazzi i loro diritti e i loro doveri”. Nicolò Muciaccia 60 anni, avvocato del lavoro, figlio di Idea, Bari “Ho iniziato la mia attività politica da ragazzo, con mio padre. Lui faceva l’avvocato del lavoro, ha organizzato e seguito le battaglie dei lavoratori per quasi un secolo. Ha difeso dapprima i braccianti, poi gli edili e gli operai ripercorrendo l’evoluzione del lavoro nel nostro territorio. Giravamo insieme le Camere del lavoro, anche le più remote, per leggere la Costituzione ai contadini. Era un modo per renderli coscienti dei loro diritti. Il nostro slogan era: ‘Conosci i tuoi diritti ed esercitali’. I ricordi delle lotte di quel periodo passano anche per i sapori, i cibi, i piatti della tradizione, che hanno ancora oggi un valore sociale molto forte”.
  • 19. Pippo Flora 73 anni, agronomo, sovrintendente teatrale e musicista, Agrigento “Io mi considero in questa città come una sorta di vecchia quercia nel suo habitat. Quando vado via, sento il male di questa città, quando non c’è, mi manca”. Antonio D’Alì Staiti 86 anni, presidente società delle saline, Marsala (Trapani) “La vita dei salinai è diversa da quella degli altri lavoratori: non ci sono orari e per ogni operaio la salina è come se fosse sua. C’era un vecchio capo che scriveva poesie, parlavano del sale e del suo mondo. Era così affezionato a questo posto che non voleva abbandonarlo neppure quando si è ammalato: non ho avuto il coraggio di dirgli che non poteva più venire a lavorare. La salina ti provoca una nostalgia profonda, come un mal d’Africa”.
  • 20. Cristina Presutti 26 anni, operaia del canile, Santo Stefano di Campobasso (Campobasso) “La mia famiglia, mio padre, mia madre, mia nonna, tutti mi criticano perché sono laureata ma lavoro al canile come operaia precaria e quando serve come volontaria. Ho avuto altre opportunità, è vero, ma proprio non riesco a staccarmi dai miei cani. Loro aspettano che io venga, aspettano che gli dia da mangiare, aspettano me, insomma. Non potrei mai abbandonarli”. Pierpaolo Scanu 49 anni, pastore, Mogoro (Oristano) “Mio nonno era un pastore, mio padre era un pastore, io pure. Lavoriamo tra mille difficoltà, senza la certezza di raggiungere un guadagno a fine anno. Spesso il paesaggio mi conforta e penso che faremo delle belle scorte di foraggio, che quest’anno sarà una buona annata. A dispetto dei politici, che dicono il contrario”.
  • 21. “Non avevo mai visto la nebbia, io abituato al mare. Il primo giorno che sono arrivato a Torino non sapevo se respirare quella roba lì”.
  • 22. Elena Petragallo 28 anni, imprenditrice di un salottificio, Santeramo in Colle (Bari) “Il mio sogno era questo, imparare a cucire un divano, realizzarlo e possedere un’azienda mia per farlo. Ho iniziato come operaia, oggi ho 45 dipendenti tra ragazzi e ragazze, con i quali c’è un ottimo rapporto. Ma non ho tempo libero. Comincio la mattina alle 7.30 e finisco la sera alle 6.30. In pratica, vivo solo la sera. Ma non potrei stare senza il mio lavoro, è la grande soddisfazione della mia vita. Spero di avere un giorno dei figli perché amo i bambini. Sì, penso che metterò su famiglia, non so quando. So con certezza che baderò io ai miei bambini, sono dell’opinione che i figli bisogna crescerseli”. Basilio Scocchera 53 anni, veterinario e produttore di formaggio, Vastogirardi (Isernia) “Abbiamo scelto di vivere da spiriti liberi e di non essere schiavi della catena di montaggio. Ci proviamo da qualche anno con una cooperativa. Con il nostro caseificio diamo lavoro a tre persone, che per una realtà piccola come la nostra sono paragonabili a 300 dipendenti della grande industria. Se riusciamo nel nostro intento? Non so, però continuiamo insieme su questa strada”. Saverio Fraccalvieri 34 anni, dirigente sindacale, Santeramo in Colle (Bari) “Quando presentai domanda per entrare nel gruppo Natuzzi, feci finta di non sapere cosa fosse il sindacato. L’obiettivo era superare i 24 mesi, il contratto di formazione. Poi ho iniziato la mia carriera nella Fillea Cgil. Di recente sui giornali mi hanno definito il Cofferati della Murgia, perché dopo tanto tempo siamo riusciti a organizzare qualche iniziativa all’interno del gruppo. La crisi c’è e si sente. 1.200 famiglie sono in mobilità, molti conto lavorazioni stanno chiudendo. Ma perché puntare soltanto sul salotto? Bisognerebbe diversificare le attività: abbiamo un territorio meraviglioso e buoni prodotti, tipicità che sono da valorizzare”.
  • 23. Simonetta Cappello 38 anni, proiezionista di cinema, Torino “Vorrei fare un documentario dal titolo ‘Cento cabine’ con gli aneddoti dei proiezionisti. Quello che quando lo spettatore grida ‘Fuori fuoco!’, impassibile risponde ‘Cambiati gli occhiali’. Quell’altro che quando si protesta ‘Fa troppo freddo in sala’, dice ‘Adesso accendo il riscaldamento, così poi sudi’. Ho un collega che si è bevuto il glicole dell’impianto di riscaldamento, perché una valvola di ritorno non funzionava bene. Oppure capita che stai proiettando il film, ti suona l’allarme, vai in cabina e trovi la pellicola per terra, chessò tutto il Soldato Ryan. Tre ore di film per terra è un film dell’orrore, perché la pellicola è viva, è qualcosa che si muove, chilometri e chilometri di un serpente da riavvolgere. Si rischia di impazzire a fare questa vita solitaria”. Daniel Mauceri 23 anni, puparo, Siracusa Alfredo Mauceri 30 anni, puparo, Siracusa “La mia è una famiglia di pupari. Mio nonno morì nel 1994, e con lui rischiò di scomparire anche la tradizione a Siracusa. L’ultima notte che era in vita, mi disse che non c’era più speranza per i pupi. Da quel momento non parlò più. Mi sentii in dovere di fare una solenne promessa: tramandare la sua arte ed esaudire il suo ultimo desiderio, costruire un museo dei pupi. Oggi io e mio fratello abbiamo un teatro dove continuiamo a portare in scena le gesta dei paladini di Francia. È un lavoro che soddisfa a pieno la mia creatività: sono un po’ regista, un po’ attore, un po’ stilista. Certo, sono anche molto solo, non ci sono domeniche né giorni di festa. Ma lo spettacolo continua, fa il suo corso…”.
  • 24. Anna Lepore 42 anni, formatrice linguistica, Bari “Ero segretaria del direttore. Dopo il primo figlio le mie priorità sono cambiate, non avevo più la disponibilità di tempo di prima. Lasciare il bambino al nido dalle 6.30 del mattino alle 6 di sera mi creava sensi di colpa. Dall’altra parte, avevo sempre quella brutta sensazione che hanno le donne dopo aver avuto figli, come di togliere qualcosa all’azienda. Mentre cercavo una soluzione ho avuto la seconda bambina. Ho chiesto e ottenuto il part-time. Questo ha significato cambiare il mio ruolo. Sono diventata formatrice linguistica: adesso insegno italiano ai colleghi stranieri. Ho dovuto riciclarmi, reinventarmi una vita lavorativa dopo la maternità, ma a me è andata bene. Molte donne sono costrette a rinunciare alla loro professionalità o a fare figli, firmano lettere di dimissioni in bianco, si piegano ai ricatti dei datori di lavoro, non per mancanza di coraggio ma per una mentalità dura a morire”. Antonio Somma 82 anni, partigiano, ex funzionario Cgil, Francavilla Fontana (Brindisi) “Ho ricevuto il certificato di patriota, rilasciato dal comando degli alleati: c’è la firma del comandante americano. Fu attribuito a ogni partigiano. Il mio nome di battaglia era Scugnizzo: lo avevo scelto perché mi affascinava la figura dell’eroe delle Quattro giornate di Napoli. In fondo gli assomigliavo, ero vivace, generoso, proprio come lui”. Roberto Raheli 45 anni, musicista, editore e coltivatore diretto, Lecce “A 12 anni andavo in bici nella campagna di mio padre armato di zappetta. È lì che per la prima volta ho sentito i contadini intonare i canti popolari del Salento. Quelle note non mi hanno più abbandonato. E adesso sono diventate la mia occupazione principale. A 20 anni ho iniziato a recuperare le radici musicali del Salento, quelle tradizionali, degli anziani, allora non le proponeva nessuno. Prima come hobby, perché facevo l’insegnante di educazione fisica, poi per professione con il gruppo Canzoniere di Terra d’Otranto, e oggi con la compagnia Aramirè. Insieme alla musica tradizionale rischiavamo di perdere un pezzo della nostra storia, così ho iniziato a pubblicare le fonti, i canti e i racconti degli anziani. Ora c’è la moda della pizzica, tutti la suonano, tutti la vogliono: basta mettere la taranta in copertina e stai sicuro che vendi. Sapete che cosa ho messo sul nostro ultimo disco? La scritta: ‘Stop agli abusi sui ragni: nessun ragno è stato impiegato per la realizzazione di questo Cd’”. Domenico Santirocco 68 anni, ispettore del lavoro in pensione, Roma “Una cosa che mi aveva molto colpito da ragazzo era lo sfruttamento dei lavoratori. Anche mio padre faceva orari pazzeschi, che superavano le 12-13 ore al giorno. Da lì sentii l’esigenza di fare giustizia. A 23 anni vinsi il concorso per ispettore del lavoro, l’ho fatto per 35 anni. È un’attività che ti consente un’ampia libertà di movimento, fai le ispezioni di giorno e di notte. Ricordo un episodio storico: l’irruzione in un convento di clausura per un caso di lavoro nero. Era notte e c’era un silenzio irreale. Dopo aver sfondato la finestra del convento, un mio collega entrò e trovò le suore a cucire e ricamare bavaglini che sarebbero stati venduti a prezzi bassissimi. Vedendolo, scapparono urlando: ‘Il diavolo, questo è il diavolo che è venuto a trovarci’. Tuttora in Italia si contano mille infortuni mortali l’anno e un milione di incidenti non mortali. Cifre che fanno rabbrividire. E stanno aumentando i casi di malattia professionale. Un nuovo male, un male che appartiene al 2005, è il mobbing. C’è molta confusione su questo fenomeno, e anche se non abbiamo una legislazione specifica, il lavoratore ha strumenti per difendersi con la normativa esistente. Sei anni fa all’Italsider di Taranto avevano istituito la palazzina dei mobbizzati: vi erano stati confinati i rappresentanti sindacali, le lavoratrici madri, le persone scomode. A farcela scoprire fu un lavoratore che tentò il suicidio. Non immaginavamo potesse esistere una cosa del genere”.
  • 25. Sebastiano De Bartoli 27 anni, produttore di vino, Marsala (Trapani) “Sono figlio d’arte. È importante avere una tradizione alle spalle, anche se non capisci mai se hai scelto una strada per passione o per dovere verso tuo padre. Io sono nato in questa azienda, il mio lavoro è diventato la mia vita”. Renato De Bartoli 31 anni, enologo, Marsala (Trapani) “Quando ho capito il limite dell’enologia mi sono avvicinato alla terra. Il giorno che dovrò ricorrere alla meccanizzazione e non avere più un contatto diretto con la vigna, smetterò di fare vino. Secondo me, lavorare con le mani vuol dire continuare la tradizione contadina del territorio. Siamo un’azienda a conduzione familiare, dove si fa un lavoro d’équipe: non abbiamo dipendenti ma collaboratori che condividono il nostro modo di fare vino”. Cheikh Djoum 43 anni, commerciante, Agrigento Ndiaye Abdourahmane 39 anni, commerciante, Agrigento “Del Senegal mi manca tutto. La mia famiglia, i miei amici, il mio paese. Ho una figlia di sette mesi che ancora non ho visto, mi manca terribilmente. Ogni giorno telefono a mia mamma per sapere come stanno le cose, ogni giorno, non posso resistere. Quando ero a casa non riuscivo a vedere la bellezza del mio Paese, volevo andarmene via da quel posto schifoso. Da quando sono emigrato ho capito che abbiamo una terra bellissima, che è bellissimo essere senegalesi. Io sono fiero di esserlo”.
  • 26. Renzo Buttazzo 42 anni, artigiano, Lecce “Volevo usare le mani. È per questo che mi sono messo a fare l’artigiano. Mi ha sempre affascinato plasmare la pietra leccese, materiale unico al mondo, stravolgere completamente il blocco per renderlo un’altra cosa. Per far sì che chi lo guarda non pensi che sia pietra, ma un oggetto morbido e fluido che richiama la natura. Ci sono clienti che non possono permettersi di comprare, ma entrano lo stesso nel mio negozio per toccare gli oggetti, per provare le sensazioni che trasmette accarezzare la pietra. Questo mi riempie di gioia. All’artigianato non rinunceremo mai. Più ci sarà industrializzazione e più torneremo all’età della pietra, ai materiali che vengono dalla terra. Perché gli oggetti artigianali hanno un cuore, quelli industriali no: sono le mani a dare un valore aggiunto”.
  • 27. Manuela Cozzi 50 anni, agronoma, Anversa degli Abruzzi (L’Aquila) “Sono arrivata qui dalla Toscana nel 1982 subito dopo la laurea, incaricata dalla comunità montana di Sulmona di fare una ricerca sulle piante aromatiche medicinali di queste montagne. La mia passione però erano le pecore, sulle quali avevo fatto la tesi di laurea. Cercando tra le piante, ho scoperto un progetto incredibile di valorizzazione di una montagna in via d’abbandono. Mi sono unita a questa avventura. Abbiamo inventato ‘Adotta una pecora’, riproponendo un contratto in uso nell’antichità: il consumatore finanziava il produttore per ottenere i prodotti necessari al sostentamento della famiglia. Niente di nuovo, solo il marketing. L’iniziativa ha fatto il giro del mondo, abbiamo collezionato quasi mille articoli di giornale e in tutto circa 5mila contratti. E molti genitori adottivi vengono a trovare la loro pecorella”. Giovanni Ottaviani 55 anni, stampatore, Città di Castello (Perugia) “Potrei lavorare per delle ore, spesso non mi accorgo che sono le 10 di sera. È così piacevole stare in tipografia, magari con un amico e un buon bicchiere di vino! L’etica del lavoro l’ho imparata da mia nonna. Lei mi diceva sempre: ‘Prima di comandare bisogna imparare a farsi comandare’”. Eudokia Karapati Chatzipetrou 44 anni, studentessa e cuoca, Catania “Per quindici anni ho lavorato a Catania come cuoca in diversi locali notturni, sempre in nero. Il meccanismo che si innesca dopo quindici anni di lavoro nero è la rabbia, soprattutto la rabbia e la voglia di spaccare tutto. Guadagni dai 30 ai 50 euro a sera, per otto ore di fatica in cucina, senza assicurazione e senza copertura sanitaria. Per questo ho deciso di uscire allo scoperto e di denunciare. Ho fatto volantinaggio, ho cercato di creare una rete attraverso Internet, ma poi mi sono fermata perché era troppo pericoloso. Alla fine ho denunciato i miei datori di lavoro e li ho trascinati in tribunale”.