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Facoltà di Medicina e Psicologia
Corso di Laurea Magistrale in Psicologia della Comunicazione e del Marketing
Tesi di laurea
“Peroni e Algida: sviluppo di una brand alliance”
RELATORE CORRELATORE
Chiar.ma Prof.ssa Chiar.mo Prof.
Renata Metastasio Fabio Babiloni
CANDIDATO
Diego Cortes
Matricola 1329546
Anno Accademico 2015/2016
INTRODUZIONE........................................................................................................ 4
CAPITOLO 1: IL POSIZIONAMENTO.................................................................. 6
1.1 Il concetto di posizionamento................................................................. 6
1.2 Elementi di parità e di differenziazione................................................ 7
1.3 Vincoli e posizionamento dei Competitors ......................................... 10
1.4 Strategie di posizionamento................................................................. 11
1.5 Il target: segmentazione del mercato obiettivo .................................. 14
1.6 Le variabili della segmentazione ......................................................... 15
CAPITOLO 2: IL BRAND E LE BRAND ALLIANCES...................................... 19
2.1 Il concetto di Brand e il ruolo delle marche ....................................... 19
2.2 La Brand Equity ................................................................................... 20
2.3 La Brand Identity e il Prisma di Kapferer......................................... 23
2.4 Le Brand Alliances: Il Co-Branding................................................... 26
2.5 Brand e Line Extension........................................................................ 28
2.6 Il risultato delle strategie di Co-Branding.......................................... 29
2.6.1 Gli effetti diretti del Co-Branding............................................................... 29
2.6.2 Percezioni di Posizionamento dei consumatori sul Co-Branding............... 30
2.6.3 Brand Fit e Product Fit................................................................................ 31
2.6.4 Implicazioni manageriali ............................................................................ 31
CAPITOLO 3: ALGIDA E PERONI....................................................................... 33
3.1 La nostra Brand Alliance..................................................................... 33
3.2 Unilever: La storia................................................................................ 33
3.2.1 La Mission Vitality e il nuovo Corporate Brand......................................... 35
3.2.2 La Brand Strategy multimarca.................................................................... 36
3.2.3 Algida e il ghiacciolo “Freddolone” ........................................................... 37
3.3 Birra Peroni........................................................................................... 38
3.3.1 Peroni Chill Lemon e il Vertical Summer Tour.......................................... 39
3.4 Case History .......................................................................................... 40
3.4.1 Ghiaccioli, Gelati e Milkshake alcolici: Il nuovo trend newyorkese.......... 40
3.4.2 Il Festival del gelato per adulti di Londra e il drink gelato di Roma .......... 41
3.4.3 Il caso del “N1CE” – Ghiacciolo Alcolico Svedese ................................... 41
3
3.5 Normativa Italiana sugli alcolici e sui gelati....................................... 43
3.6 Confartigianato: Birra e Gelati in cima ai consumi dell’estate........ 44
3.7 Partnership Commerciale e Codice dei Business Partner ................ 44
CAPITOLO 4: IL GHIACCIOLO ALLA BIRRA................................................. 46
4.1 Freddolone e Peroni Chill Lemon: ipotesi di partenza ..................... 46
4.2 Il Focus Group ...................................................................................... 46
4.2.1 I partecipanti ............................................................................................... 48
4.2.2 Il moderatore............................................................................................... 49
4.2.3 La classificazione dei Focus Group ............................................................ 50
4.3 Il nostro Focus Group .......................................................................... 51
4.4 Analisi dei dati....................................................................................... 52
4.4.1 Focus su Birra Peroni e Peroni Chill Lemon .............................................. 55
4.4.2 Presentazione del Co-Branding ai partecipanti........................................... 57
CONCLUSIONI......................................................................................................... 63
BIBLIOGRAFIA ....................................................................................................... 66
SITOGRAFIA............................................................................................................ 68
RINGRAZIAMENTI................................................................................................. 69
4
INTRODUZIONE
Secondo una rilevazione della Confartigianato le famiglie italiane spendono in
media 3,1 miliardi di euro in consumi di birre e gelati, solamente durante il
periodo estivo. Per soddisfare questa domanda interviene un piccolo esercito di
circa 16.000 aziende tra gelaterie, pasticcerie e birrifici. Inoltre negli ultimi tre
anni c’è stato un vero e proprio boom di birrifici che hanno registrato un
incremento del 60% nel settore.
Leader di mercato nel settore della birra da 170 anni e con una produzione
annua di 5 milioni di ettolitri c’è il Gruppo Peroni che comprende Birra Peroni,
Nastro Azzurro e Pilsner Urquell ai quali si aggiungono almeno altri venti
marchi. Algida invece, marchio appartenente a Unilever – azienda leader nel
settore dei beni di largo consumo – è oggi sinonimo di qualità e innovazione
nel mondo dei gelati.
La forte competizione tra produttori e rivenditori, il breve ciclo di vita del
prodotto e la sempre più sofisticata domanda da parte dei consumatori, hanno
portato le aziende a ricercare altre possibilità di sviluppo del proprio brand.
Questa Tesi di Laurea propone un Co-Branding – ossia quando due o più
brand sono combinati insieme per creare un nuovo prodotto - tra il marchio
Algida e Birra Peroni con l’intento di realizzare il “Ghiacciolo alla birra al
gusto limone” ed è per questo che i prodotti oggetto di analisi del presente
lavoro saranno la Birra Peroni Chill Lemon e il ghiacciolo Algida Freddolone.
Il co-branding è una delle strategie di marketing più utilizzate oggi, dalle
aziende che intendono rinfrescare la propria brand image, rafforzare la propria
brand equity o semplicemente sfruttare le possibilità e le conoscenze tecniche
proprie di una collaborazione tra brand totalmente differenti tra loro.
Dopo una rassegna generale sulla letteratura finora presente sui concetti di
posizionamento, segmentazione del mercato, sul concetto di Brand e le sue
5
declinazioni nelle varie Brand Alliances, esamineremo nel dettaglio le case
history di ghiaccioli alcolici, la normativa italiana vigente su birre e gelati.
Analizzate le condizioni che per Unilever e il Gruppo Peroni rappresentano la
base per una Partnership commerciale, spiegheremo come e perché la tecnica
di indagine qualitativa del Focus Group può fare al caso nostro e racconteremo
attraverso l’analisi delle trascrizioni e degli appunti presi durante il focus quali
sono i risultati di questa indagine e quali saranno i possibili sviluppi futuri di
questo lavoro.
6
CAPITOLO 1: IL POSIZIONAMENTO
1.1 Il concetto di posizionamento
Il punto di partenza per ogni azienda è il posizionamento. Infatti, per costruire
una propria identità all’interno del mercato, bisogna definire prima alcuni punti
fondamentali che serviranno poi alla marca per essere ben visibile ai futuri
clienti, ben riconosciuta dai propri fedeli e distinta dalla concorrenza. Il
posizionamento è un’operazione di marketing imprescindibile che ogni azienda
dovrebbe ben tenere a mente durante tutta la sua vita. E’ un concetto molto
ampio e a riguardo ne hanno scritto e parlato in molti tra i vari autori, infatti in
questa sede cercheremo di dare una definizione che prenda in considerazione
tutti gli aspetti di un’operazione così importante quanto delicata. Tutte le
aziende devono posizionare e questo è un vero e proprio must dal quale non si
può e non si deve prescindere, altrimenti è lo stesso mercato che posiziona
autonomamente e spesso agendo per stereotipi lontani dalla marca stessa.
Quando si parla di pubblicità, infatti, la comunicazione interpersonale gioca un
ruolo fondamentale: il famoso word of mouth, più conosciuto come
passaparola, è spesso un obiettivo strategico degli operatori di marketing e
molto ambìto soprattutto perché rumors e scambi di opinione sono spesso non
controllabili. Quando scegliamo un prodotto piuttosto che un altro, quando
siamo fedeli alla marca, quando ci facciamo un’idea riguardo una marca e ne
attribuiamo dei valori, lo facciamo grazie ad operazioni di posizionamento
scelte dall’azienda. Attraverso il posizionamento l’azienda sceglie il target o il
tipo di pubblico bersaglio, a cui rivolgersi e allo stesso tempo definisce
l’immagine che vuole comunicare al mercato obiettivo e costruisce i significati
e i valori intorno alla marca (Fabris, 1992). Se il posizionamento non è corretto
allora il mercato sarà disorientato. Il posizionamento quindi “consiste in una
definizione dell’offerta e dell’immagine dell’impresa tale da conferirle una
posizione distinta e apprezzata nella mente del mercato obiettivo. La meta
ultima consiste nell’attribuire alla marca una posizione nella mente dei
consumatori che ne massimizzi il beneficio potenziale per l’impresa” (Kotler,
P. et al.,2007, p.378). Infatti l’obiettivo finale è dare al cliente un motivo valido
7
per acquistare un prodotto e preferirlo a quelli di pari attribuiti dei competitors
o di sua conoscenza. Il termine posizionamento si è affermato grazie a due
pubblicitari Al Ries e Jack Trout, i quali lo considerano un esercizio di
creatività applicato ad un prodotto esistente: “Il posizionamento nasce assieme
al prodotto, sia esso un bene, un servizio, un’impresa, un’istituzione o anche un
individuo. […] Ma il posizionamento non ha nulla a che vedere con
l’intervento sul prodotto, bensì sulla mente del possibile acquirente. Il
posizionamento, cioè, riguarda il modo in cui un prodotto trova collocazione
nella mente del potenziale consumatore” (cit. in Kotler, et al. 2007, p.378).
1.2 Elementi di parità e di differenziazione
E’ quindi opportuno lavorare su quelli che sono i punti di somiglianza e di
differenziazione tra le varie marche leader e follower presenti sul mercato,
definendo nel tempo uno schema competitivo e andando a lavorare sui valori e
gli ideali della categoria di appartenenza scelta. Infatti, scegliere una
categoria di appartenenza è importante perché in un certo senso si definisce la
concorrenza stessa, proprio perché molte imprese hanno già deciso di lavorare
in passato nel medesimo settore o hanno intenzione di farlo.
Gli elementi di differenziazione sono “attributi o benefici che nella mente dei
consumatori hanno una forte associazione positiva alla marca e rimangono
ineguagliati dalle marche concorrenti” (Kotler et al.,2007, p.379) e si basano su
attributi e benefici di varia natura. Ad esempio IKEA ha costruito la sua
reputazione sull’idea che i prodotti svedesi che vende alle masse siano di buona
qualità e allo stesso tempo sicuri, risparmiando però su quelle che sono le spese
di consegna e montaggio della merce che sono operazioni a carico del cliente.
Gli elementi di parità invece sono “associazioni di marca non esclusive e
generalmente condivise con le marche concorrenti”. In questo caso non si fa
riferimento al settore di competenza dell’azienda stessa: ad esempio, quando ci
si rivolge ad un negozio di scarpe ci si aspetta che venda scarpe multimarca o
monomarca, che abbia dei camerini e sedute prova e che consenta il pagamento
della merce in varie forme, ma sulla base della stessa parità di categoria esiste
anche una parità competitiva che invece è quella relativa alle associazioni
8
messe in atto in termini di marketing per annullare le differenze ,o almeno
ridurle, con i competitors. Per far sì che un attributo sia visto come un elemento
di parità almeno tanto quanto quello di un’azienda concorrente, c’è bisogno che
aggiunga valore e che molti consumatori si ritengano soddisfatti proprio per
quello specifico attributo. Un esempio emblematico è il caso di American
Express e Visa da sempre competitor nella categoria delle carte di credito: se
da un lato American Express ha costruito l’identità di marca sull’idea di
esclusività e prestigio delle proprie carte, Visa lo ha fatto sul concetto di
praticità, di poterla usare ovunque nel mondo, vista la sua diffusione.
Attualmente però entrambe le aziende competono cercando di vanificare i
vantaggi del concorrente e produrre elementi di parità. Visa mette a
disposizione dei propri clienti carte Oro e Platino per aumentare di prestigio,
mentre American Express ha promosso una serie di accordi con molti esercenti
fornendo incentivi attraverso il programma “Make Life Rewarding” (Kotler, et
al.,2007, p.382). Ma come si comunica al nostro target la categoria di
appartenenza scelta? E’ naturale quando parliamo di un marchio leader il
settore in cui si colloca e i prodotti che vende, ad esempio il dentifricio di
Colgate, le lamette per Gillette o i panini per McDonald’s, ma spesso accade,
soprattutto per quel che riguarda il lancio di nuovi prodotti, che si debba
informare il cliente sulla categoria di appartenenza scelta. I nostri clienti hanno
bisogno di sapere cosa sia il prodotto e quali funzioni svolga prima di decidere
se può o meno battere le offerte della concorrenza. In questi casi infatti la
pubblicità si concentra prima sulla creazione della consapevolezza della marca
e poi sulla costruzione dell’immagine della marca stessa.
Philip Kotler e Kevin Lane Keller (2007) individuano tre metodi principali per
comunicare l’appartenenza ad una categoria:
1. Esprimere i benefici della categoria in modo chiaro e diretto facendo
luce su quelle che sono le peculiarità del prodotto ad esempio: la qualità
e la resistenza del legno nel caso di mobili o comunicando nel caso di
biscotti da forno la golosità del prodotto dichiarando che gli ingredienti
sono di elevata qualità (prestazioni del prodotto) o mostrando immagini
9
dei consumatori intenti a mangiare i biscotti con piacere (immaginario
della marca).
2. Associarsi a esempi illustri come nel caso di Tommy Hilfiger che
quando era ancora sconosciuto al grande pubblico, la pubblicità lo
annunciava come un grande stilista statunitense, associandolo a nomi
come Calvin Klein, Perry Ellis (…).
3. Descrivere il prodotto semplicemente usando una breve
denominazione che segue il nome della marca, come per i modelli dei
vari prodotti Apple o Samsung.
E’ importante che gli elementi di differenziazione risultino desiderabili per i
consumatori e che l’azienda sia effettivamente in grado di offrire quanto
promette. Anche in questo caso è importante stabilire dei criteri. L’attributo
desiderato deve risultare:
1. Significativo: e cioè rilevante per i singoli consumatori;
2. Distintivo e superiore: rispetto alla concorrenza;
3. Credibile: deve essere convincente per essere scelto;
Per quanto riguarda la promessa aziendale, è importante che sia:
1. Praticabile: è importante che la promessa fatta trovi riscontro nella
realtà e che sia sostenuta sia da un punto di vista di design del prodotto
che dal punto di vista dell’offerta di marketing.
2. Comunicabile: l’impresa deve offrire una spiegazione plausibile sul
fatto che la marca è in grado di dare il beneficio atteso.
3. Sostenibile: in termini di posizionamento. E’ importante che sia
duraturo e consolidato nel tempo e per far ciò è necessario che tutti i
reparti dell’impresa vadano nella stessa direzione. Ovviamente questo
dipende anche dalla tipologia di prodotto. Ci sono marche come Gillette
e Microsoft – leader di mercato – che sono posizionate rispetto alle
evidenti prestazioni del prodotto, invece marchi di moda o nel settore
food & beverage hanno un mercato variabile periodicamente.
10
1.3 Vincoli e posizionamento dei Competitors
Esistono diversi vincoli alle operazioni di posizionamento: da un lato ci sono
quelli che si presentano quando si parla di posizionamenti pregressi e dall’altro
quando si parla di posizionamento dei competitor. Infatti l’idea di cambiare
l’identità di prodotto soprattutto quando è consolidata da tempo è una
procedura rischiosa perché si deve cambiare il vecchio sistema di significati e
crearne di nuovi o comunque gestire questa identità schizofrenica e molto
confusa. Tuttavia questo non è sempre vero; Marlboro infatti che era una marca
rivolta prettamente ad un pubblico femminile, ad esempio le sigarette avevano i
filtri rosa, decise di lavorare sulle criticità riposizionando il brand con una
pubblicità prettamente indirizzata verso l’universo maschile, utilizzando il
cowboy tatuato e allo stesso tempo attuando dei miglioramenti in termini di
design: furono i primi a lanciare sul mercato il primo pacchetto di sigarette
squadrato e rigido (Fabris, 1992). Bisognerebbe studiare nel dettaglio le
strategie adottate dalle aziende concorrenti e cercare di optare per la strategia di
posizionamento più proficua in termini di visibilità, valore, identità di marca e
mirando, ove possibile, al segmento di mercato non ancora occupato o che
lascia spazio ad altre novità nello stesso settore. Per quel che riguarda il
posizionamento dei competitors, non sempre le strategie di me too sono
efficaci: è infatti molto rischioso tentare di posizionare la propria marca se già
esistono leader di mercato fortemente radicati in quella categoria di
appartenenza. “La procedura più corretta , e più stimolante, è certamente quella
di cercare un proprio sistema di segni nell’ambito dell’universo simbolico del
prodotto, negli spazi che non siano presidiati, o siano solo debolmente
presidiati da altri, in modo da costruirsi una propria, distintiva identità” (Fabris,
1992, p.334). E’ abbastanza ovvio che il posizionamento più interessante è
quello occupato dalla marca leader in quel dato settore ed è tale proprio perché
avendolo occupato gode di una posizione di superiorità rispetto ad un
concorrente. Negli ultimi anni, comunque, le aziende concorrenti stanno
cercando di minimizzare le differenze e massimizzare le parità tra esse,
cercando di occupare in maniera seppur debole anche altri spazi e significati
diversi ma altrettanto importanti per la costruzione del valore di marca.
11
Ecco una serie di associazioni alla base del posizionamento di marca
individuate da Fabris (1992):
 Valore particolarmente significativo presso il suo target (Ad es.
l’avventura: Camel; la casa: Barilla; la natura: Mulino Bianco; il
prestigio: Chivas Regal; il cosmopolitismo gastronomico: Kraft).
 Particolare modalità di consumo o utilizzazione del prodotto (Ad es.
After Eight come cioccolato da dopocena e Perlana detersivo per i
tessuti di lana – casi in cui il brand name esprime l’ipotesi di
posizionamento).
 Una caratteristica specifica del prodotto (Nel caso dei tonni in scatola:
la morbidezza: Riomare; il sapore forte: Palmera; il sapore seducente:
Star; la cura e la protezione: Alco, che ha il packaging in vetro).
 Un particolare beneficio per il consumatore (la sicurezza: Goodyear;
l’alito profumato, il sapore, il sorriso, i denti sani, la protezione delle
gengive, l’anticarie, il tartaro, la placca: ecco una serie di consumer
benefits con cui si posizionano le marche di dentifrici).
 Essere consumati da una particolare categoria di consumatori (Lux:
il sapone delle stelle; Denim: per l’uomo che non deve chiedere mai).
1.4 Strategie di posizionamento
Come dovrebbe posizionarsi un nuovo brand? Può una crisi del brand essere
rianimata da una strategia di posizionamento? Queste le domande da cui sono
partiti David A. Aaker e J. Gary Shansby nel loro "Positioning Your Product"
del 1982, per trovare degli aspetti strategici in termini di posizionamento. C'è
chi considera il posizionamento una questione di segmentazione. Altri ne fanno
una questione di immagine. Altri ancora credono si basi sul selezionare quale
caratteristica del prodotto esaltare. Alcuni manager considerano tutti questi
12
aspetti e spesso la decisione di posizionamento è costruita ad hoc ed è cruciale
per un'azienda o un brand, perchè la posizione può essere centrale per le
percezioni dei clienti e le loro decisioni future. Aaker e Shansby individuano
alcuni modi in cui una strategia di posizionamento può essere concepita e
implementata:
1. Per attributi: è la strategia più frequentemente usata e si basa
sull’associazione del prodotto ad una o più caratteristiche che lo
distinguono; caratteristiche che possono essere proprie del prodotto o
un beneficio per il cliente (es. il gusto per un amaro, la puntualità per
una compagnia aerea).
2. Sul confronto prezzo-qualità: utilizzato per i beni a cui è associato un
elevato valore in termini di status sociale.
3. In relazione alle modalità d’uso: associando il prodotto ad uno
specifico utilizzo, consumo, applicazione. Questa è una strategia che
può essere aggiunta per incrementare il mercato e in combinazione con
le altre. Gatorade, per esempio, ha costruito la sua identità sull’idea di
una bevanda per sportivi nata per sopperire alle carenze nutritive dopo
l’attività fisica.
4. Per tipo di consumatore: associazione del prodotto ad un tipo di
consumatori, in base allo stile di vita, all’età (…). Basti pensare a
marche di cosmetici che usano modelle per posizionare i loro prodotti o
alla linea shampoo di Johnson & Johnson per bambini o per chi lava i
capelli di frequente.
5. In termini di confronto con la concorrenza: generica (ad es. “il più
venduto”) o specifica con la pubblicità comparativa. Alle volte non è
importante quanto i clienti credano tu sia bravo piuttosto è importante
che loro credano che tu sia migliore o almeno tanto bravo quanto la
concorrenza.
6. Per benefici attesi: e cioè caratteristiche dell’offerta analizzate in
relazione alla capacità di risolvere specifici problemi in termini di
soddisfazione conseguibile.
13
7. Sulle caratteristiche base dell’impresa: valorizzando gli attributi che
danno una particolare personalità alla marca.
8. Rispetto ad una classe di prodotti: Ad esempio i brand di caffè che si
posizionano come solubile, la margarina rispetto al burro o il latte in
polvere come colazione istantanea.
9. Su base ibrida: combinazione di due o più strategie.
In riferimento alla situazione competitiva un importante contributo è quello di
Ries e Trout (1972,1984) che pongono l'accento sulle modalità in cui la marca
si dovrebbe posizionare nel mercato. Se la marca è follower è necessario
occupare uno spazio libero non ancora occupato dal leader di mercato e
proporre strategie di posizionamento mirate all'identificazione con uno
specifico gruppo di consumatori. Se invece è leader nel mercato basterà
rinforzare tale leadership. Se invece non ci sono spazi liberi in cui posizionarsi,
la marca dovrebbe riposizionare la concorrenza lavorando su quelle che sono le
percezioni dei consumatori rispetto ad essa, ad esempio modificando il
comportamento della domanda facendo cambiare l’utilità percepita dal
consumatore.
Donato Lucev invece individua dei fattori che un’azienda dovrebbe prendere in
esame per definire la situazione competitiva (1998):
 Percezioni manifestate dai consumatori sul prodotto dell’impresa e sui
prodotti dei concorrenti;
 Struttura e stabilità delle preferenze dei consumatori: capire quanto
queste preferenze sono modificabili, per esempio cambiando gli
attributi o introducendone di nuovi;
 Risorse che l’impresa ha a disposizione.
14
1.5 Il target: segmentazione del mercato obiettivo
Come detto in precedenza, l’altra faccia del posizionamento è la segmentazione
del mercato obiettivo, che rappresenta il target a cui rivolgere le nostre
operazioni e strategie di marketing per raggiungere gli obiettivi aziendali
prefissati. L’impresa quindi suddivide il mercato in segmenti di consumatori,
ognuno con le sue specifiche richieste da soddisfare, e individua tra essi quella
parte di pubblico che è più sensibile ai benefit del prodotto. Un tempo si era
soliti rivolgersi ai consumatori come un unico grande gruppo senza tener conto
di eventuali esigenze e bisogni diversi di ognuno di loro. Anche la pubblicità e
i prodotti erano pensati in maniera univoca. Successivamente si è passati a
modificare l’offerta in una serie di varianti con varie versioni di prodotto. Nella
concezione odierna la prospettiva è spostata alla domanda sempre più
incessante e in continua evoluzione del mercato (Fabris, 1992). “Il mercato
viene suddiviso in sottoinsiemi omogenei, da un punto di vista degli
atteggiamenti e dei comportamenti di consumo, che implicano un approccio
differenziato da parte dell’impresa ed una diversa strumentazione del mix di
marketing” (Fabris, 1992, p.435). D’altro canto i consumatori hanno la
tendenza a segmentarsi in maniera autonoma e cioè vengono attratti dalle
diverse proposte che in qualche modo soddisfano i loro bisogni ad un prezzo
che ritengono conveniente per il beneficio ottenuto (Dunbar e McDonald,
2009). Segmentare quindi significa scomporre il mercato in singole unità
(segmenti), omogenei per bisogni, aspettative e comportamenti d’acquisto
rispetto a un dato prodotto o servizio.
Prima di analizzare le diverse tipologie di segmentazione in base alle variabili
che le determinano è doveroso fare un piccolo accenno su quelle che oggi sono
definite come le funzioni del Target (Lombardi, 2008):
 Misura la pressione della campagna pubblicitaria e controlla quella
realizzata dalle campagne concorrenti;
 Guida l’analisi e la selezione dei mezzi e controlla i livelli di
ottimizzazione raggiunti;
15
 Identifica i costi da sostenere e permette di identificare il budget
necessario ai fini degli obiettivi che si intende perseguire.
1.6 Le variabili della segmentazione
Ogni azienda, prima di scegliere a chi comunicare (target) e in che modo, deve
operare delle strategie di segmentazione che sono il risultato di alcune variabili
dipendenti o indipendenti che in un certo qual modo le definiscono. Possiamo
raggruppare queste variabili in quattro grandi macrocategorie: geografiche,
demografiche, psicografiche e comportamentali.
Segmentazione geografica:
Il mercato, gruppo di soggetti o organizzazioni che hanno bisogno o desiderano
un prodotto/servizio e hanno la capacità, disponibilità e potere di acquistarlo, è
suddiviso in diverse unità geografiche come nazioni, Stati, regioni, province,
città o quartieri e l’impresa decide in quale aerea operare. In questo tipo di
segmentazione rientra anche la zona climatica e la dimensione dei centri
urbani. Ci sono aziende che decidono di distribuire i prodotti in diverse varianti
rispetto al tipo di area geografica, anche nella nazione stessa. Questo tipo di
segmentazione è facile da realizzare ma si ottengono delle informazioni
limitate.
Segmentazione demografica:
Il mercato è suddiviso sulla base di variabili demografiche come età, genere,
livello di reddito, livello di istruzione, professione, religione, razza, nazionalità,
dimensioni della famiglia e stadio del ciclo di vita della famiglia. In generale le
aziende segmentano il mercato combinando due o più variabili demografiche.
Anche questo tipo di segmentazione è facile da realizzare ma i dati ottenuti
sono standard e facilmente reperibili anche dai competitors.
16
Ora vedremo nel dettaglio alcune variabili presenti nella segmentazione
demografica che contribuiscono in maniera significativa a determinarla:
 Età: è possibile ritenere che individui con età diversa rispondono a
bisogni e caratteristiche differenti ma spesso questo non si traduce in un
vero e proprio acquisto ed è quindi doveroso analizzare nel dettaglio
questa variabile. La Hasbro ad esempio ha creato una linea di giocattoli
che corrisponde alle diverse fasi di sviluppo del bambino.
 Genere: se è facile pensare che consumi di abbigliamento e cosmetici
siano più elevati per il genere femminile e i consumi per l’industria
automobilistica più per quello maschile, il genere a volte non risulta una
discriminante alla base del processo di acquisto. Oggi l’attenzione al
consumo è centrata su entrambi i generi.
 Reddito: auto, barche, abbigliamento, viaggi; rappresenta la variabile
più utilizzata per quel che riguarda la segmentazione, ma è doveroso
studiarla in combinazione di altri fattori come la motivazione
all’acquisto e il rapporto spesa-risparmio.
 Famiglia: in questo caso è importante il numero dei componenti del
nucleo famigliare ma anche il numero e l’età dei figli stessi. Per quel
che riguarda il ciclo di vita è importante anche lo stato civile.
Segmentazione psicografica:
Gli acquirenti sono suddivisi in gruppi sulla base della classe sociale di
appartenenza, dello stile di vita adottato e delle caratteristiche di personalità
che presentano (atteggiamenti, valori, interessi, desideri di acquisto e bisogni,
abitudini di consumo). Ad esempio Volkswagen ha progettato auto sicure ed
ecologiche e adatte per chi ama la guida sportiva ed elevate prestazioni.
A questi parametri vengono aggiunti anche quelli che riguardano il
comportamento socioculturale nelle più vaste accezioni, come l’attenzione alla
pubblicità, la modalità di fruizione dei mezzi di comunicazione,
17
l’autovalutazione, il consumo di beni e servizi e gli atteggiamenti verso i più
importanti valori sociali (Fabris, 1992). In generale gli stili di vita in
combinazione al comportamento d’acquisto, forniscono delle descrizioni chiare
e specifiche della tipologia utente. Questo tipo di segmentazione fornisce delle
informazioni dettagliate ma è difficile da definire e applicare al meglio.
Segmentazione comportamentale:
Gli acquirenti sono suddivisi in gruppi sulla base della conoscenza che
mostrano del prodotto in esame, del loro atteggiamento verso di questo,
dell’uso che ne fanno e di come in genere rispondono al prodotto. Questo tipo
di segmentazione fornisce una ricca quantità di informazioni, ma è difficile da
applicare anche per gli elevati costi di realizzazione. Nello specifico indaga le
seguenti caratteristiche abitudini di acquisto, situazioni d’uso, frequenza,
vantaggi ricercati, fedeltà alla marca, clienti inconsapevoli/esperti e clienti
attuali/potenziali analizzate in queste dimensioni:
 Occasioni: i consumatori di un certo prodotto possono essere stabiliti
sulla base dell’occasione in cui manifestano la necessità di un dato
prodotto. Ad esempio una compagnia aerea indirizza l’acquisto di voli
low-cost a quel target che ritiene determinante il prezzo per la scelta
d’acquisto.
 Vantaggi ricercati: gli acquirenti sono classificati in funzione dei
benefici o dei vantaggi che si aspettano di ottenere da un certo bene.
Elementi come durata, prezzo e qualità sono determinanti.
 Status dell’utilizzatore: vi sono mercati in cui è possibile individuare
il segmento dei user/non-user ma anche ex-utilizzatori, nuovi
utilizzatori e potenziali utilizzatori.
 Intensità d’uso: è la segmentazione per volume e include i gruppi in
funzione dell’intensità con cui il bene viene consumato (forte, medio e
18
limitato utilizzo del prodotto). I dati delle ricerche di mercato di natura
quantitativa riferiti a questo tipo di variabile sono facilmente reperibili.
 Stadio di disponibilità all’acquisto: Si effettua quando si individua nei
consumatori un diverso grado di disponibilità all’acquisto come quei
consumatori che non conoscono il prodotto, che conoscono il prodotto
per alcune caratteristiche o che conoscono il prodotto e intendono
acquistarlo.
 Atteggiamento: selezionati in base al loro livello di interesse verso i
prodotti in termini di atteggiamento (entusiasti, indifferenti, contrari,
ostili).
 Fedeltà alla marca (occasionali – ricorrenti): il cliente può essere
fedele alla marca, al prodotto o al punto vendita e può essere
classificato come segue:
- Fedelissimi: che acquistano sempre la stessa marca;
- Fedeli tiepidi: che comprano sempre quelle due o tre marche;
- Fedeli mutevoli: consumatori che trasferiscono la propria fedeltà da
una marca all’altra;
- Incostanti: non manifestano alcuna fedeltà di marca.
C’è da sottolineare però che spesso il riacquisto di una determinata
marca non dipende sempre dal grado di soddisfazione del consumatore:
spesso infatti intervengono delle variabili come le promozioni aziendali,
o la paura del rischio nel cambiare la propria preferenza verso una
marca sconosciuta o più semplicemente per “abitudine” di acquisto.
19
CAPITOLO 2: IL BRAND E LE BRAND ALLIANCES
2.1 Il concetto di Brand e il ruolo delle marche
L’operazione di definire una marca, più comunemente conosciuta come
branding , esiste da molto tempo. Infatti, già dal Medioevo, veniva chiesto agli
artigiani di marchiare i propri prodotti per tutelare sé stessi, i consumatori e la
qualità dei loro prodotti. Anche nel mondo dell’arte, l’artista era solito firmare
la proprie opere. Oggi comunque le marche ricoprono un ruolo centrale nella
vita del consumatore e sono molto importanti per le aziende (Kotler et al.,
2007). La marca, quindi, è l’identità di un’azienda sul mercato e non è un
concetto oggettivo, bensì astratto, dinamico e relativo perché include valori,
sentimenti ed emozioni. La marca, inoltre, è uno dei segnali che un cliente
prende in considerazione prima di acquistare un prodotto o un servizio ed ha un
peso importante nel processo decisionale per soddisfare un bisogno. La
notorietà della marca spesso compensa la mancanza di informazioni sul
prodotto da parte dell’acquirente. “Le marche identificano il produttore o la
provenienza di un prodotto e consentono ai consumatori di attribuirne la
responsabilità a un determinato produttore o distributore. I consumatori
possono valutare il medesimo prodotto in modo diverso in base alla marca”
(Kotler et al., 2007, p.336). Di fondamentale importanza sono le esperienze
passate dei consumatori rispetto alla marca perché generano una conoscenza
delle marche tale che consente loro di orientarsi nelle successive scelte e di
scegliere i prodotti che desiderano o di cui hanno bisogno. Il nome di una
marca si può proteggere registrando il marchio o trademark, brevettando la
produzione e i processi ad essa connessi e depositando il design del packaging.
Compito di una marca è comunicare una certa qualità di prodotto al fine di
soddisfare il cliente secondo le sue esigenze e consentirgli di ripetere l’acquisto
in futuro. La fedeltà della marca offre all’impresa prevedibilità e stabilità della
domanda e crea barriere che ostacolano l’ingresso nel mercato di altre imprese.
Inoltre, anche se le caratteristiche e i benefici del prodotto possono essere
imitati, è molto più difficile riprodurre le impressioni e benefici ottenuti nella
20
mente dei consumatori frutto di anni di intensa attività di marketing e
attenzione alle scelte del cliente (Kotler et al.,2007).
L’American Marketing Association definisce una marca (brand) come “un
nome, un termine, un simbolo, un design o una combinazione di questi
elementi che identifica i beni o i servizi di un venditore o di un gruppo di
venditori e li differenzia da quelli dei concorrenti. Una marca è un prodotto o
servizio con delle caratteristiche aggiuntive che lo distinguono in qualche
modo da altri prodotti o servizi studiati per soddisfare il medesimo bisogno.
Tali differenze possono essere funzionali, razionali o tangibili, ossia correlate
alle prestazione del prodotto di marca oppure possono essere più simboliche,
emotive o intangibili, ossia correlate a ciò che la marca rappresenta”. (Kotler et
al., 2007, pp.336).
2.2 La Brand Equity
Il concetto di brand equity è stato introdotto da David A. Aaker nel 1991. Con
questo termine egli si riferiva al “patrimonio di marca”, una risorsa immateriale
dell’impresa che si fonda sulla conoscenza di una marca da parte di un preciso
segmento di mercato. L’attenzione che pone Aaker è proprio sulle strategie di
gestione della brand equity da parte di un’impresa e, a tal proposito, individua
quattro componenti fondamentali:
1. Fedeltà della marca: esprime la misura dell’attaccamento al brand da
parte del consumatore. Per un’azienda è molto più faticoso e
dispendioso conquistare nuovi consumatori piuttosto che consolidare
quelli esistenti. Questi ultimi infatti, soprattutto se soddisfatti del
prodotto possono farsi promotori e consentire all’azienda di acquisirne
di nuovi. La fedeltà dei consumatori scoraggia la concorrenza e
consente all’azienda di imporsi sul mercato come leader.
2. Notorietà del nome o del marchio: è un fattore rassicurante per il
consumatore perché ritiene che il brand noto sia più affidabile e che la
sua notorietà si rifletti anche nella qualità. La top of mind è quella che
Aaker definisce la prima marca spontaneamente citata.
21
3. Qualità percepita: ha un influenza diretta sulle decisioni di acquisto e
sulla fedeltà della marca perché esprime la percezione del consumatore
sulla qualità globale e sulla superiorità rispetto alle alternative.
4. Associazioni di marca: sono le associazioni che nascono nella mente
di un consumatore rispetto ad una marca. Anche la “situazione d’uso” è
un associazione che funge come motivo di acquisto che attrae il
consumatore, come anche lo stile di vita o l’associazione a un
personaggio noto.
Il Costumer-Based Brand Equity model di Kevin Lane Keller del 1993 fornisce
un punto di vista unico e prezioso sul valore del brand e sulle modalità con cui
costruirlo. L’autore afferma che da un punto di vista del cliente le basi
attraverso cui si crea valore di marca sono sostanzialmente due: la brand
awareness (consapevolezza della marca) e la brand image (immagine di
marca). Per brand awareness si intende la capacità del brand di essere ricordato
e riconosciuto, e questo dipende dal processo mentale con cui il consumatore lo
identifica. In generale, possiamo dire che la consapevolezza del brand si
alimenta con l’esposizione ripetuta a stimoli per favorire il riconoscimento e
con la promozione di associazioni forti con la categoria di appartenenza. Keller
individua due livelli di brand awareness in base a quanto il cliente conosce la
marca, che definisce brand recognition (capacità del consumatore di
riconoscere la marca attraverso uno stimolo esterno) e brand recall (capacità
del consumatore di ricordare la marca a prescindere da stimoli esterni espliciti).
La brand image invece racchiude in sé le percezioni da parte dei consumatori
in termini di valori e significati rispetto al sistema dell’offerta dell’impresa.
Keller poi, pone l’accento sugli elementi su cui puntare per creare
un’immagine di marca forte e nello specifico, sulle associazioni di marca che
suddivide in: a) attributi del sistema dell’offerta che sono gli elementi di base o
distintivi che compongono e caratterizzano l’offerta rispetto alla concorrenza,
b) benefici di prodotto percepiti dai consumatori che sono la personale
percezione che i consumatori hanno degli attributi di prodotto e infine c)
l’atteggiamento verso la marca che riguarda la valutazione e le idee che i
consumatori hanno verso una marca.
22
Per Kotler (2007) invece, il valore della marca è il valore aggiunto che una
marca conferisce ad un prodotto o servizio. Tale valore si riflette sia nelle idee,
nelle percezioni e nelle reazioni dei consumatori nei confronti della marca, sia
nei prezzi, nella quota di mercato e nella profittabilità della marca stessa per
l’impresa. Il vero potere di una marca risiede in quello che i consumatori hanno
visto, letto, sentito, appreso, pensato e provato nei confronti della marca nel
tempo. In sostanza, dipende molto dalle esperienze dirette e indirette dei clienti
abituali e potenziali con la marca, e da come queste esperienze abbiano
plasmato le loro immagini mentali, le loro credenze e il modo di rapportarsi ad
essa rispetto alla concorrenza. E’ molto importante per un’azienda lavorare
sulle attività di marketing che sono alla base di una corretta comunicazione
delle potenzialità e dei benefici attesi di un prodotto. Il valore della marca
basato sul cliente può essere definito come “l’impatto della conoscenza della
marca sulla reazione del consumatore alle attività di marketing per la marca
stessa”(Kotler, 2007,p.339). Per creare una marca forte e con una brand
identity ben definita è importante per gli operatori di marketing, assicurare ai
clienti il giusto tipo di esperienza sul prodotto o servizio fornito, al fine di
favorire una corretta e adeguata conoscenza della marca.
Secondo Keller (2003) ci sono diversi elementi di rischio da tenere a mente e
cercare di evitare durante la fase di costruzione del valore di marca per fornire
sicurezza al consumatore e ridurre l’incertezza nella scelta rispetto ad un’altra
marca: a) rischio economico quando il prodotto potrebbe non valere il prezzo
pagato, b) rischio funzionale quando il prodotto non è all’altezza delle
aspettative promesse rispetto alle prestazioni ottenute, c) rischio sociale
quando il prodotto potrebbe non garantire la legittimazione sociale della scelta,
d) rischio di integrità fisica nel caso in cui il prodotto rappresenti un pericolo
per chi lo utilizza, e) rischio psicologico quando il prodotto non contribuirebbe
anche al benessere economico dell’utente, f) rischio temporale quando il
prodotto induce il cliente a perdere tempo a causa di problemi di gestione e
utilizzo e, infine, g) rischio del ‘mordi e fuggi’ quando il prodotto potrebbe
avere una carente assistenza e supporto tecnico durante il suo utilizzo,
eventualmente necessaria.
23
2.3 La Brand Identity e il Prisma di Kapferer
Con il termine Brand Identity o identità aziendale si intende l’insieme degli
aspetti e degli elementi grafico-comunicativi che determinano la percezione e
la reputazione di un brand da parte del suo pubblico. Quella percezione che si
basa su emozione ed istinto e che, in qualche modo determina il gradimento e
di conseguenza il successo di un marchio. La brand identity è il sistema di
significati, valori, di associazioni simboliche e promesse fatte ai consumatori.
La Brand Identity può essere vista come l’insieme di elementi espressivi
utilizzati da un’azienda per veicolare le credenziali di una marca (Pratesi,
2006). L’identità di un brand è un processo controllabile solo in parte
dell’azienda infatti non può essere imposta, ma recepita dai consumatori
secondo il loro personale punto di vista. Proprio per questo motivo il brand può
assumere un’identità diversa da quella programmata nella strategia iniziale. Le
principali dimensioni che compongono la brand identity sono a) la cultura è
quella parte intangibile dell’azienda, un vero e proprio patrimonio inserito
all’interno dell’azienda che racconta la storia e lo sviluppo nel tempo
dell’impresa, b) i valori sono il modo di essere di un’azienda, dei veri e propri
punti di riferimento, il modo di comportarsi nelle varie situazioni, c) la mission
è l’obiettivo principale dell’azienda, quello che vorrebbe essere ed è una
promessa nei confronti degli stakeholder, d) la personalità proprio come con le
persone anche ad un’azienda vengono attribuite caratteristiche di personalità ed
è importante che siano ben definite per distinguersi dalla concorrenza. Inoltre
devono essere comunicate in modo chiaro e dovrebbero trovare riscontro nella
realtà e nelle percezioni dei consumatori, e) l’essenza è l’obiettivo a lungo
termine più importante per un’azienda ed è ciò che la marca si propone di
soddisfare (Pratesi, 2006).
L’obiettivo principale dell’identità di marca, quindi, è quello di comunicare
messaggi che siano il più coerenti tra loro al fine di far durare la marca più a
lungo possibile. La fase di comunicazione inoltre è la fase conclusiva nel
percorso di costruzione di una brand identity.
24
Jean Noel Kapferer (1997) ha teorizzato un modello che riguarda la
costruzione dell’identità di marca, rappresentato attraverso un prisma a sei
facce (Fig.1).
Fig.1 – Fonte: Pinterest
Secondo questo modello, l’identità si compone di sei elementi costituenti:
1. Fisici (Physique): è l’insieme delle caratteristiche intrinseche ed
esteriori associate alla marca e percepibili in modo oggettivo dal
mercato obiettivo. Sono gli elementi di base della marca come il colore,
il design o la forma (Baffo della Nike, la M gialla del McDonald’s).
2. Personalità (Personality): è il modo di essere, di presentarsi al
pubblico, è il modo di porgersi, il tone of voice, il carattere, ed è tagliato
su misura rispetto al mercato obiettivo. E’ proprio come con le persone,
anche le marche hanno la loro personalità che le distingue dai
competitor in modo specifico (Sisley è provocatoria).
25
3. Cultura (Culture): è il sistema di valori a cui la marca attinge. Può
trattarsi del Paese o luogo di appartenenza piuttosto che di una
tecnologia specifica o di specifici valori come quelli di Barilla per la
famiglia o l’accettazione del diverso da parte del marchio Benetton.
4. Relazione (Relationship): si basa sul rapporto tra il cliente e la marca.
E’ proprio il valore aggiunto che l’azienda può offrire al suo pubblico.
Può essere un tipo di rapporto interpersonale o una causa sociale che
l’azienda sente di portare avanti (il lusso di Lacoste, la festa per la
Nutella).
5. Immagine Riflessa (Reflection): chi acquista un determinato prodotto
vuole identificarsi con il prototipo di cliente per cui quello stesso
prodotto è pensato. E’ il modo in cui la clientela vorrebbe essere vista
(Coraggio per Sector, Lusso per Fendi).
6. Auto-immagine o mentalizzazione (Self-image): è come il
consumatore si sente utilizzando il prodotto della marca. E’ lo stesso
principio del processo di Reflection , ma in maniera autoreferenziale. La
percezione che proviamo utilizzando quel dato prodotto (usare Apple
per essere al passo con i tempi).
26
2.4 Le Brand Alliances: Il Co-Branding
La forte competizione tra produttori e rivenditori, il breve ciclo di vita del
prodotto e la sempre più sofisticata domanda da parte dei consumatori hanno
portato le aziende a ricercare altre possibilità di sviluppo del proprio brand.
Sotto questo punto di vista, la collaborazione tra brand può dare un grande
vantaggio competitivo oltre che per i prodotti anche in termini di brand equity.
Nel panorama delle alleanze tra brand trova spazio il co-branding che si
verifica quando due o più brand sono combinati insieme per creare un nuovo
prodotto o quando sono commercializzati insieme. Il co-branding rappresenta
“una strategia di alleanza tra brand a lungo termine dove un prodotto è marcato
e identificato simultaneamente da due brand” (Helming et al.,2008). I partner
coinvolti nell’operazione di co-branding dovrebbero essere indipendenti prima
e dopo il progetto di collaborazione su un prodotto e questo dovrebbe essere
comunicato in maniera chiara ai potenziali consumatori. Inoltre, la
“combinazione di due brand fornisce più garanzia sulla qualità di un prodotto
di quello che può fare un singolo brand” (Rao et al., 1999) anche se, spiegando
il meccanismo dei segnali nel Co-branding, Rao e Ruekert (1994, p.89)
sostengono che “se il brandname di un prodotto dà un certo segnale di qualità,
allora la presenza di un secondo brandname sul prodotto dovrebbe risultare in
un segnale che è almeno potente, se non di più, del segnale nel caso in cui il
brandname fosse singolo”. Nel caso di co-branding è doveroso distinguere due
tipi di brand-partner: uno invitato per la cooperazione, l’altro che propone la
collaborazione (Grebosz, 2008). In ogni caso il co-branding è un mezzo molto
potente per lo sviluppo nel mercato da parte di un’industria. E’ capace di
portare nuovi clienti per i prodotti, rinfrescare l’immagine del brand e
aumentare la condivisione di mercato e lo sviluppo di nuove tecnologie in
azienda attraverso lo scambio di conoscenze tecniche (Grebosz, 2012). Ed è
inoltre un metodo per minimizzare i costi.
Le collaborazioni tra brand dovrebbero aumentare la brand equity di entrambi i
partner coinvolti e in generale aggiungere valore alla collaborazione. Inoltre,
anche il co-branding ha dei limiti ben precisi: infatti questa relazione tra brand
27
include contratti e licenze di varia natura lungo il percorso, ed entrambi i brand
devono “coordinare accuratamente le loro attività di marketing e prendersi cura
del proprio brand e di quello del partner per proteggere la loro immagine
finale; infatti un’operazione di co-branding con scarso successo, potrebbe
influenzare negativamente il patrimonio di marca e limitare la portata di
mercato o addirittura scoraggiare i clienti esistenti” (Kotler, Armstrong, 2009).
La letteratura riguardo alle Brand Alliance è piuttosto recente e non ci sono
molti contributi, ma diversi autori concordano sulle opportunità che può offrire
un’operazione di co-branding come, la riqualificazione di una brand image
esistente, il rafforzamento di una brand equity ben radicata e la possibilità di
sfruttare conoscenze e competenze tecniche nell’incontro tra due brand che
collaborano insieme per un prodotto unico. Oltre al co-branding esistono una
varietà di strategie di brand alliance che includono (Helmig et al., 2008):
 Joint Sales Promotion: in cui l’elemento chiave è la collaborazione tra
brand in termini di “promozione” delle vendite, dando al cliente un
valore aggiunto. Ad esempio, la catena di ristoranti fast-food
McDonald’s per un periodo regalava bicchieri in vetro da collezionare
per ogni menù acquistato;
 Advertising Alliance: è un’alleanza tra brand basata sulla promozione
di due brand insieme rispetto all’utilizzo (Kellogg’s e Tropicana);
 Merchandising: è un’attività al servizio del prodotto e della sua
promozione, licensing (la tazza brandizzata “Sapienza” per esempio);
 Sponsorship: quando un’azienda divenda Sponsor di un’altra azienda
(Tim per la Serie-A Calcio);
 Dual Branding: quando l’attività di due brand avviene in un luogo
comune, “shop in shop concept” (Burger King alla stazione di servizio
Shell);
 Bundling: è un tipo di vendita abbinata, per “pacchetti”. Tipica
dell’imprese che producono prodotti differenti che decidono di vendere
insieme. In questo caso i prodotti non sono venduti separatamente;
28
 Celebrity Endorsment: utilizzo di un testimonial che porta con se i
valori del brand per attivare processi di transfert (Fiona May per Kinder
Fette al latte);
Inoltre ci sono le Cause Alliances (basate sulla promozione di cause sociali
attraverso un brand), le Cross Promotion (la promozione incrociata per
generare traffico su entrambi i brand partner oggetto della campagna
pubblicitaria), le Ingredient Branding (basate sull’aggiunta in un prodotto
come componente di qualità, ad esempio intel nei Personal Computer) e infine
le Brand e Line Extension.
2.5 Brand e Line Extension
La Brand Extension viene definita come una strategia di Marketing dove
un’azienda con un’immagine ben nota utilizza lo stesso brand per una categoria
di prodotti differente. Se invece la stessa operazione accade all’interno della
stessa categoria di prodotti allora si parla di Line Extension che per Aaker
(1991) è la modifica parziale di un prodotto già esistente. Il processo per
attuare un’estensione di un marchio è piuttosto lungo e spesso impiega la
presenza di un gran numero di risorse per essere attuato. Inoltre segue una vera
e propria strategia studiata meticolosamente. L’azienda che decide di
posizionarsi e sviluppare una nuova categoria di prodotti dovrebbe avere le
competenze tecniche e un certo know-how per progettare un tale cambiamento.
Le estensioni di linea o di categoria posso servire ad un brand per conquistare
nuovi consumatori ed aumentare la propria copertura di mercato.
Le implicazioni per le aziende ed i loro marchi variano se si parla di estensioni
di linea o di categoria. Un'estensione di categoria è più difficile da praticare in
quanto il rischio è maggiore. Infatti, il marchio viene apposto su un prodotto
diverso da quello che i clienti di solito vi associano. Allo stesso tempo, ai
clienti viene richiesto di affrontare una nuova alternativa a loro sconosciuta,
percepita dunque come un rischio maggiore nella decisione di acquisto,
potrebbero perciò essere meno propensi a testare il nuovo prodotto (Pervez,
2005). L’estensione di categoria può essere distinta tenendo conto di quanto il
nuovo prodotto sia correlato o meno con quello originale. L’estensione non
29
correlata del marchio viene definita anche come brand stretching (Jobber,
2001). Un caso emblematico di brand stretching è quello della Virgin, che ha
inizialmente avuto successo nel campo della produzione discografica, per poi
espandersi nell’abbigliamento, alle bibite analcoliche e addirittura alle linee
aeree. Un successo che l’azienda deve soprattutto alla figura di Richard
Branson fondatore e fonte di ispirazione dell’azienda, che oggi conta 35.000
dipendenti in tutto il mondo per un fatturato annuale di 5 miliardi di sterline.
2.6 Il risultato delle strategie di Co-Branding
Le strategie di co-Branding richiedono sempre una certa attenzione durante
tutto il loro processo di sviluppo e nascono per generare dei risultati tangibili e
misurabili. A questo punto si andranno ad analizzare gli effetti diretti di questa
Brand Alliance in termini di valutazioni di marca e percezioni sul
posizionamento dei consumatori, di Brand fit e Product fit nella selezione dei
partner coinvolti nel co-Branding e le relative implicazioni manageriali.
2.6.1 Gli effetti diretti del Co-Branding
Il lavoro concettuale di Rao e Ruekert (1994) e Rao (1997) si basa sulla
profonda analisi di prodotti coinvolti in strategie di co-branding ed ha mostrato
che i consumatori tendono a valutare meglio la qualità di un brand che ha
attributi inosservabili quando è alleato con un secondo brand percepito come
debole e vulnerabile dai consumatori. Vaidyanathan e Aggarwal (2000),
invece, hanno analizzato il co-branding tra un brand conosciuto a livello
nazionale e un brand privato sconosciuto e hanno dimostrato che un prodotto
frutto di una collaborazione tra brand riceve più valutazioni positive se è
incorporato ad un brand nazionale piuttosto conosciuto.
Judith Washburn ha stabilito una diretta connessione tra la brand equity e i
prodotti co-branded, mostrando che alta brand equity dei Brands Partner
aumentava la percezione della brand equity sui co-branded products generando
spesso, effetti positivi (Washburn, 1999).
30
2.6.2 Percezioni di Posizionamento dei consumatori sul Co-Branding
L’impatto delle percezioni di strategie di posizionamento esistenti dei Brand
Partner rispetto alle percezioni di posizionamento a seguito del co-branding è
l’oggetto di studio di una ricerca di Singh e collaboratori (2014). Gli autori
ritenevano che le percezioni su un nuovo prodotto co-branded fossero
condizionate da quelle esistenti su ogni brand preso singolarmente prima del
co-branding e che, una volta terminata la collaborazione, tornassero ad essere
quelle iniziali.
Fig.2 – Fonte: Marketing Intelligence & Planning Vol.32 No.2, 2014, p.148
I risultati della ricerca dimostrano come c’è un trasferimento di percezioni dei
brands partner sul co-branding in cui sono coinvolti coerentemente con gli
effetti evidenziati in studi precedenti sul transfer. Rao e Ruekert (1994)
suggeriscono che la presenza di un secondo brandname sul prodotto può
conferire un maggiore segnale di qualità quando un brand individuale non è in
grado di comunicarla da solo.
31
2.6.3 Brand Fit e Product Fit
La selezione dei Partner per una brand alliance è un problema piuttosto
complicato perché ancora non si conoscono bene i driver che guidano o meno
un’operazione di co-branding di successo (Helmig, 2008). Il termine “Fit” è
stato inventato da Rao e Ruekert (1994) per indicare gli attributi di effetto
complementare da tenere in considerazione nella riuscita del match tra due
brand. Gli effetti del “Fit” sono stati studiati empiricamente da Simonin e Ruth
(1998) come un duplice concetto: da una parte il product fit che il modo in cui i
consumatori percepiscono due categorie di prodotto come ben combinate,
dall’altra il brand fit ossia la congruenza tra le percezioni dei consumatori sui
brands partner. Gli autori sostengono che sia il product fit che il brand fit
abbiano un impatto simultaneo sulle valutazioni dei consumatori rispetto al co-
branding. Ci si aspetta che una certa similarità tra brand aumenti il fit, ma una
moderata incongruenza può aumentare le valutazioni a favore dei brand
coinvolti: dopotutto anche i pezzi di puzzle si incastrano perché sono
complementari e non perché sono simili (Meyers-Levy and Tybout, 1989).
Proprio perché i motivi dei fit non sono ancora ben compresi, i contributi di
ricerca non forniscono ancora indicazioni chiare in merito alle procedure che le
aziende dovrebbero seguire per una scelta accurata nella selezione dei Partner
per una brand alliance.
2.6.4 Implicazioni manageriali
Generalmente i manager di un’azienda devono decidere se perseguire una
branding strategy a medio o lungo termine. Le joint sales promotions,
advertising alliances e le strategie di product bundling suggeriscono una
vittoria rapida perché i costi di implementazione sono piuttosto bassi e i rischi
sono limitati grazie alla breve durata della collaborazione tra brand. Invece il
dual branding, la brand o line extension e le strategie di co-branding
forniscono vantaggi a lunga durata. In generale ci si aspetta che una strategia di
co-branding offra benefici migliori delle altre strategie. In paragone con una
brand extension ad esempio, il co-branding aggiunge un tipo di valore al
32
prodotto che un singolo brand da solo non potrebbe dare. I manager che
decidono di aumentare la forza di un brand debole dovrebbero preferire una
strategia di co-branding anziché una brand extension perché sfrutterebbe la
potenza degli effetti complementari. Infatti, quando un brand debole viene
combinato con un brand forte si ha l’effetto denominato spill-over, in cui le
caratteristiche positive del brand forte sono trasferite sul brand debole.
La Figura 3 rappresenta la matrice decisionale per le strategie di branding che i
manager di un’azienda dovrebbero seguire per orientarsi nella scelta della
strategia più consona alla loro realtà aziendale. Il co-branding, la brand
extension e il dual branding, rappresentano delle strategie a lungo termine dove
l’impatto dei ricavi è maggiore rispetto al product bundling, le co-advertising e
le co-promotion che sono invece, delle strategie a breve termine.
Fig.3 – Fonte: Schmalenbach Business Review Vol.60 No.10, p.371
Tuttavia, anche se la scelta di un co-branding è la migliore fra le varie strategie
di brand alliance, va sottolineato che il successo ottenuto da un co-branding è
tale fintanto che il co-branding dura e genera associazioni positive nella mente
dei consumatori. Pertanto, i brand manager dovrebbero prendere in
considerazione come partner solo quei brand che hanno una forza simile alla
loro, con delle valutazioni positive e in generale un’elevata brand equity.
33
CAPITOLO 3: ALGIDA E PERONI
3.1 La nostra Brand Alliance
In questo capitolo si prenderà in considerazione l’idea di base da cui è partita
questa Tesi di Laurea, ossia la volontà di realizzare una collaborazione tra due
brand, un co-branding, tra due grandi aziende conosciute globalmente come
Unilever e il Gruppo Peroni. Nello specifico i prodotti oggetto di indagine sono
il ghiacciolo Freddolone di Algida, marchio appartenente al gruppo Unilever, e
la nuova birra Peroni Chill Lemon. Dopo un’attenta analisi dei brand oggetto
di ricerca e un breve accenno alle Case History di co-branding simili a questo,
si passerà ad una valutazione di quelle che sono le condizioni di una Partner
Commerciale di questo tipo rispetto alla normativa italiana vigente.
3.2 Unilever: La storia
Unilever è un'azienda nata nel 1930 grazie alla
fusione di due società, una olandese, la
Margarine Unie specializzata nel settore
alimentare e l'altra inglese, la Lever Brothers
specializzata nel settore dei detergenti. L'azienda
dal 1930 ad oggi ha avuto una forte espansione
tanto che oggi è considerata una delle più grandi
multinazionali nel settore dei beni di largo
consumo. Algida, Dove, Lipton, Findus, Calvè e Cif sono solo alcuni dei
marchi di Unilever che ad oggi conta oltre 400 marche in cento industrie
presenti in tutto il mondo.
Fig.4 – Logo Unilever
34
Unilever crea da sempre prodotti che aiutano le persone a vivere meglio e il
suo intento è quello di ridurre il tempo dedicato alle faccende domestiche, di
migliorare l'alimentazione dei suoi consumatori attraverso l'utilizzo di questi
prodotti e a prendersi cura di se stessi e della loro famiglia. Questo forse è ciò
che ha determinato negli anni il loro successo, basti pensare che oggi è presente
in oltre 190 paesi, con 176.000 dipendenti, con un fatturato che supera i 55
miliardi di dollari e che la rende leader di mercato nel settore Ice Cream, Food,
Home e Personal Care.
L'attenzione alle multi-culture , la comprensione dei consumatori e lo sviluppo
di prodotti specifici in base all'area geografica delle varie sedi di Unilever nel
mondo, ha determinato nel tempo il suo successo. Infatti, il desiderio principale
dell’azienda è quello di soddisfare le esigenze locali, rispettandone le
caratteristiche specifiche e di impegnarsi ad agire in modo responsabile nei
confronti della società. Unilever mette al servizio dei clienti locali tutta la sua
conoscenza ed esperienza internazionale, assumendo la forma di una vera e
propria multi-local multinational (Cherubini, 2007). Unilever Italia è
attualmente la quarta azienda del largo consumo in Italia con una quota di
mercato del 5% ed è una delle più importanti aziende in investimenti
pubblicitari. In media un consumatore Unilever spende oltre 118€ l’anno e
acquista 45 prodotti all’anno.
La presenza in Italia è storicamente legata a due marchi, Omo e Gradina: il
primo detersivo sintetico e la prima margarina da tavola proposti ai
consumatori. Nel mercato alimentare italiano, che copre il 41% del business,
Unilever è presente con alcuni tra i più noti marchi: Lipton, Knorr, Calvé,
Algida, Magnum, Carte d'Or. Nel settore della cura della casa e della persona i
marchi più conosciuti sono: Dove, Axe, Mentadent, Sunsilk, Clear, Cif,
Coccolino, Lysoform, Svelto, Domestos.
35
3.2.1 La Mission Vitality e il nuovo Corporate Brand
Unilever attraverso i propri brand soddisfa esigenze di nutrizione, di igiene e di
cura della persona e il suo obiettivo è quello di aggiungere valore alla vita delle
persone facendole sentire bene conferendole un bell'aspetto. Questa è la
mission con cui l’azienda si descrive e, sensibile a temi come l’urbanizzazione,
il cambiamento degli stili di vita e l’invecchiamento della popolazione è
consapevole del fatto che il mondo in cui opera sta cambiando e vitality è la
parola chiave di questo cambiamento perché sintetizza tutta una serie di
bisogni che vanno dal praticare sani stili di vita, alla gratificazione personale,
all'avere più tempo libero da poter trascorrere con la famiglia e gli amici.
Per rimanere coerente con questa mission l’azienda ha modificato il suo logo
che ora è composto da diversi simboli con immagini naturali finalizzate a
comunicare gli obiettivi aziendali e a mantenere l’impegno della mission
vitality. Nella Fig. 5 è rappresentato il logo attuale di Unilever che racchiude in
sé tutta la filosofia aziendale con la descrizione di alcuni dei simboli presenti.
Fig.5 – Descrizione dei pittogrammi del Logo Unilever
36
3.2.2 La Brand Strategy multimarca
La carta vincente di Unilever risiede nel fatto di saper gestire e di saper
introdurre diverse marche per soddisfare tutte le richieste che provengono dal
mercato. Si pensi ad “Algida” che al suo interno ha altre marche di gelati come
“Magnum”, “Cornetto” e “Solero”, o alle categorie di prodotti per la cura della
casa come “Cif” e “Coccolino” , al tea “Lipton” e al brand “Dove”. Questa
linea di condotta rende l’azienda molto più elastica ai cambiamenti repentini
del mercato e sempre più differenziata nelle categorie di prodotto.
Gli investimenti sulle multi-marche da parte di Unilever nel corso degli anni
sono stati considerevoli e il numero di marchi è aumentato sempre più al punto
che l’azienda ha deciso di riformulare il brand mix concentrandosi sulle
marche forti e riformulando il portafoglio esistente da 1600 a 400 marchi,
quaranta dei quali mondiali che l’impresa considera trainanti per portare avanti
la Mission Vitality.
Tra le altre strategie di brand che l’azienda propone costantemente, troviamo
diverse brand extension per quel che riguarda i formati dei nuovi prodotti, ad
esempio è possibile acquistare i gelati sia in confezioni da sei, sia in vaschetta
o in formato mini al supermercato, sia venduti singolarmente in spiaggia,
oppure un’altra strategia è quella di lanciare sul mercato un nuovo prodotto
come il dentifricio “Zendium” nella categoria oral-care commercializzato nel
2015. Unilever investe molto in pubblicità sia online che offline, in promozioni
nei punti vendita e, in eventi, concentrando tutti gli sforzi sulla qualità dei vari
brand che nella mente del consumatore occupano uno spazio ben preciso e
rappresentano, singolarmente, un mondo di valori ognuno diverso dall’altro.
Il marchio preso in considerazione per il nostro co-branding con il Gruppo
Peroni è Algida di proprietà Unilever.
37
3.2.3 Algida e il ghiacciolo “Freddolone”
L'Algida fu fondata a Roma nel 1945 da
Italo Barbiani, un ex lavoratore della
Gelateria Fassi e da Alfred Wiesner. Nel
1974 il capitale sociale della società era
di 40 milioni di lire ed fu acquisita dalla
multinazionale anglo-olandese Unilever.
Il primo prodotto venuto alla luce era un
gelato alla panna ricoperto di cacao magro sorretto da un bastoncino di legno:
si chiamava Cremino. Da allora il marchio Algida è diventato sinonimo di
qualità e innovazione legandosi, di generazione in generazione, ai momenti più
belli e spensierati delle nostre estati.
Se all'inizio l'offerta era caratterizzata principalmente dai gelati cosiddetti da
passeggio, confezionati singolarmente e venduti nei bar, successivamente la
gamma Algida si e' arricchita di prodotti dedicati al consumo casalingo, come
torte, vaschette e confezioni multiple di gelati da passeggio in vendita nei
supermercati. In questa continua ricerca della soddisfazione dei nuovi bisogni
dei consumatori, sono nati negli ultimi anni prodotti innovativi e di grande
successo: dagli storici Cornetto, Cremino, Fiordifragola, Croccante,
Cucciolone a prodotti piu' recenti come Magnum e Solero. E ancora la
Viennetta e la ricca gamma di dessert Carte d'Or che comprende vaschette,
coppe e torte. Tutto questo ha permesso ad Algida di diventare non solo il
brand più amato nel mondo dei gelati ma anche uno dei marchi in assoluto più
noti ed apprezzati dagli italiani. Il Freddolone è il ghiacciolo Algida per
eccellenza, disponibile al limone, cola, amarena, menta e arancio, è il prodotto
oggetto del nostro co-branding con la birra Peroni Chill Lemon.
Fig. 6 – Logo Algida
38
3.3 Birra Peroni
Birra Peroni nasce nel 1846 a
Vigevano grazie a Francesco Peroni,
un giovane imprenditore figlio di
produttori di “pasta” che decise di
mettersi in proprio e realizzare il suo
birrificio. Il marchio si afferma nel
1864 con l’apertura del primo
stabilimento romano guidato dai figli di Francesco Peroni, Giovanni e Cesare.
Pur sapendo quanto fosse fiorente il mercato birrario dell’epoca, Giovanni e
Cesare avevano capito che, vista la concorrenza, avrebbero dovuto tenere alta
l’innovazione e migliorare le tecniche di produzione e infatti, più tardi, Cesare
si trasferisce in Germania per capire tutti i segreti della produzione della birra e
i suoi processi innovativi. Innovazione che rimane tutt’oggi e fa di Birra Peroni
un vero e proprio leader di mercato con una produzione annua di 5 milioni di
ettolitri di cui oltre un milione in sola esportazione (Archivio Storico Peroni).
“Essere l’azienda a livello globale più stimata nel settore della birra” è la
vision del Gruppo Peroni, ma la mission, che rappresenta la sfida più grande e
gli obiettivi che si vogliono perseguire è quella di “gestire e sviluppare brand
locali e internazionali che rappresentino la prima scelta del consumatore” e in
qualche modo, nel tempo, ci sta riuscendo.
Oggi infatti, i suoi marchi principali sono: Peroni, Nastro Azzurro e Pilsner
Urquell. A questi si aggiungono altri marchi di prestigio sia nazionali che
internazionali, come Miller Genuine Draft, St. Stefanus, Grolsch, Tourtel,
Peroni Gran Riserva Doppio Malto, Peroni Gran Riserva Rossa, Peroni Gran
Riserva Puro Malto, Peroni Forte, Peroni Senza Glutine, Peroni Chill Lemon,
Peroncino, Raffo, Crystall Wuhrer e Wuhrer.
Fig.8 – Logo Birra Peroni
39
Da un punto di vista pubblicitario la Peroni ha
da sempre dato molti contributi e già dal 1967
con l’attrice tedesca Solvi Stubing che è stata la
prima a pronunciare la frase "Chiamami Peroni,
sarò la tua birra", dando il la alla storia
pubblicitaria di Birra Peroni.
L'attrice appare come protagonista in molti
Caroselli con Mario Girotti - il Terence Hill dei
giorni nostri - in questo frame
dell'inseguimento. La Stubing infatti si fa
rincorrere dal suo corteggiatore e cede alle sue
avances solo quando il giovane le mostra la Birra Peroni. La pubblicità è stata
curata da Armando Testa, uno dei più importanti tra pubblicitari e disegnatori
italiani dell’ultimo secolo. Contestualmente al Carosello, nascono i primi
manifesti della Birra Peroni come quello della Figura 9.
3.3.1 Peroni Chill Lemon e il Vertical Summer Tour
“Nasce da un incontro unico, il gusto rotondo e bilanciato
di Peroni e il potere dissetante del succo di limone, per
regalare un’esperienza tutta nuova” questo è ciò che il
gruppo Peroni esprime rispetto al mondo Chill Lemon che
infatti è l’unica radler ad essere prodotta con Malto e
Limoni 100% Italiani, in grado di conferirle un profumo di
limoni appena colti e un gusto rinfrescante e naturale, che la
rendono un prodotto di altà qualità oltre che una prima
scelta nel settore delle birre radler. Il target di riferimento
dell’Universo Chill è giovane, fresco, fatto di allegria, brio e
spensieratezza, dove godere a pieno i momenti di relax tipici
dell’estate e divertirsi in spiaggia con gli amici. Non a caso
Fig.9 – Primo Manifesto pubblicitario
Fig.10
40
il gruppo Peroni, ha organizzato l’estate scorsa il Vertical Summer Tour, un
evento itinerante con il fine di portare sulla spiaggia il mondo Chill Lemon
attraverso stand in cui era possibile provare e degustare prodotti e ritirare
gadget brandizzati messi a disposizione dai Partner della manifestazione.
Inoltre in questi stand Peroni Chill Lemon c’era una vera e propria area
attrezzata per l’attività quotidiane come se fosse un villaggio turistico e quindi,
calcio balilla, balli di gruppo, beach-volley, animazione e al calar del sole
aperitivi e djset per tutta la sera. Eventi come questo, contribuiscono ad
aumentare la Brand Equity di Birra Peroni e, a lavorare sulla costruzione della
Brand Identity della marca Peroni Chill Lemon.
3.4 Case History
Dal momento che l’idea di partenza è quella di realizzare un nuovo prodotto,
ossia un ghiacciolo alla Birra sarebbe giusto identificare se in passato ci sono
stati casi simili al nostro, in cui alcune aziende hanno collaborato alla
realizzazione di un ghiacciolo o gelato alcolico. Si prenderanno in esame
quindi, alcuni eventi dedicati all’utilizzo di alcolici nei prodotti come gelati e
ghiaccioli piuttosto che veri e propri produttori. Ora vedremo alcuni casi
selezionati e spiegati in dettaglio.
3.4.1 Ghiaccioli, Gelati e Milkshake alcolici: Il nuovo trend newyorkese
A New York i bar e i club più in della Grande Mela si sono preparati ad
affrontare l’estate con delle nuove e deliziose proposte come i ghiaccioli
alcolici con Rum e Bourbon che sono diventati una vera e propria tendenza.
L’alcol corrisponde a circa un 20% del ghiacciolo, perché il sapore deve essere
forte, ma non eccessivo. Gli esperti assicurano che non è molto facile trovare il
giusto equilibrio tra l’alcol e gli altri ingredienti: se è troppo poco il sapore non
sarà abbastanza forte, se è troppo ci saranno invece dei problemi nel
ghiacciarlo. Nel Conrad Hotel di New York servono dei gustosissimi ghiaccioli
alla frutta in bicchieri di prosecco. Piacciono molto anche i milkshake
41
“corretti” così come i gelati. Il segreto sta anche nel loro appeal, nel loro
sembrare degli snack da bambini ma con uno sprint in più.
3.4.2 Il Festival del gelato per adulti di Londra e il drink gelato di Roma
Il Festival del gelato alcolico è ambientato nel parco giochi del quartiere di
Hackney ed è dedicato ai ghiaccioli alcolici, ai gelati all’azoto liquido e agli
yogurt ghiacciati. Oltre a questo la manifestazione prevede che il ricavato
andrà a sostenere un ente no profit che si occupa di bambini con disabilità.
Inoltre, la location del parco giochi offre la possibilità ai grandi golosi che si
vogliono sentire piccoli almeno per un giorno di utilizzare scivoli e altalene.
A Roma invece, tre ragazzi con una grande voglia di sperimentare due settori ,
quello del gelato e quello del mondo notturno dei cocktail bar hanno
organizzato un evento nella location straordinaria e inusuale a bordo piscina di
un Hotel 5 Stelle lusso al centro di Roma, al Parco dei Principi, dedicato alla
presentazione di un nuovo prodotto: un gelato artigianale superalcolico
proposto in sei gusti prettamente identici ai drink più bevuti.
Una volta trovato il modo di stabilizzare il gelato, hanno realizzato sei gusti
alcolici: Mojito, Moscow Mule, Spritz, Aviation, Caipiroska e Margarita.
Questo ha permesso di capire che qualunque cocktail può essere trasformato da
liquido a solido, o semisolido. Al momento i gusti più richiesti e apprezzati
sono lo Spritz e il Moscow Mule, ma naturalmente anche gli altri sono molto
gettonati. I cocktail gelato vanno consumati entro tre o quattro giorni dalla
preparazione, non tanto perché non più buoni, ma perché perdono di
gradazione alcolica.
3.4.3 Il caso del “N1CE” – Ghiacciolo Alcolico Svedese
Il gelato diventato oggetto di controversia si chiama "N1CE" ed è entrato
in commercio per la prima volta lo scorso anno. Solo in Svezia ne sono state
vendute più di 1,5 milioni di porzioni. Ogni porzione contiene il 5% di alcol ed
è disponibile ai gusti mojito, pina colada, margaritas e daiquiri. Secondo il
produttore, l'alcol contenuto nel gelato serve solo a dare un sapore originale.
42
Dato che il gelato appartiene alla categoria dei generi alimentari, la sua vendita
non richiede una licenza speciale. Ma gli acquirenti non dovrebbero essere
minori di 18 anni e dovrebbero confermare la loro età esibendo al venditore un
documento d'identità.
Fig.11
In base alla legislazione svedese, il gelato alcolico, a differenza delle bevande,
può essere venduto nei supermercati. Il più grande negozio on line di prodotti
alimentari in Svezia “mathem.se” , dopo un lunga esitazione, ha inserito il
gelato alcolico nel suo catalogo. La Svezia storicamente faceva parte della
cosiddetta "cintura della vodka" che comprendeva Scandinavia, i Paesi Baltici,
Bielorussia, Ucraina e Russia. Nel 1905, per combattere i problemi causati
dall'alcol, il governo svedese ha introdotto il monopolio sulla sua vendita,
fissando i prezzi più alti in Europa per prodotti alcolici. Quando la Svezia ha
aderito all'Unione Europea nel 1995, il consumo di alcol è aumentato a causa
della progressiva perdita dello stato di quegli strumenti che hanno influito sul
prezzo e la disponibilità. Il consumo così è aumentato dagli 8 litri per persona
del 1996 ai 9,9 litri del 2013. Casi simili riguardanti gelati alcolici si sono
registrati anche in Danimarca, che, a differenza della Svezia, ha una politica
più liberale sulla vendita degli alcolici. Non è la prima volta che un gelato
alcolico accende il dissenso nei paesi nordici. Più di dieci anni fa il gelato
"Vodka-Goblin" è stato ritirato dagli scaffali dei negozi di tutta la Scandinavia.
43
3.5 Normativa Italiana sugli alcolici e sui gelati
Nel processo di co-branding tra i marchi Algida Freddolone e Peroni Chill
Lemon è opportuno prendere consapevolezza delle discipline che regolano le
norme di condotta sull’utilizzo di alcolici all’interno di gelati e le norme di
somministrazione di bevande a minori, considerando che il pubblico giovanile
prende una buona parte dei consumatori di gelato.
Somministrazione di bevande alcoliche a minori o a infermi di mente:
La norma prevede il divieto, da parte di un esercente di un locale pubblico, di
somministrare bevande alcoliche ai minori di 16 anni o a persone che appaiono
in condizioni mentali tali da pregiudicare le loro capacità di intendere e di
volere. La violazione di tale norma è punita con la pena pecuniaria da €. 516,00
a €. 2.582,00 o con la pena della permanenza domiciliare da 15 a 45 giorni o
quella del lavoro di pubblica utilità da 20 giorni a 6 mesi; la pena è aumentata
se dal fatto deriva ubriachezza. La condanna comporta inoltre la sospensione
dell'esercizio. Nel regolamento per l'esecuzione del T.U.18 giugno 1931, n.
773 delle Leggi di pubblica sicurezza (R.D. 1940 n:635), l'articolo 188 prevede
inoltre che i minori di 18 anni non possano essere adibiti alla somministrazione
di bevande alcoliche negli esercizi pubblici (Art.689 C.P.).
Gelato alimentare: si intende una miscela che, attraverso un processo di
congelamento durante la produzione, viene portata ad uno stato consistente
come un impasto, come ad esempio il “Softeis”, che viene messa in commercio
gelata ed è destinata ad essere consumata in tale stato; allo stato scongelato il
gelato perde la sua forma e modifica la sua struttura.
Il gelato viene prodotto impiegando in modo particolare il latte e i suoi derivati,
uova, vari tipi di zuccheri, miele, acqua potabile, frutta, burro, grassi vegetali,
aromi e/o prodotti alimentari coloranti. A seconda dei vari tipi e dei gusti di
gelato, vengono impiegati anche altri ingredienti. Il gelato viene messo in
commercio anche in combinazione con altri generi alimentari, per esempio con
succhi di frutta, coperture, alcolici e cialde e confezionato in diverse forme
come sandwich, cornetti o torte-gelato.
44
3.6 Confartigianato: Birra e Gelati in cima ai consumi dell’estate
Per rinfrescarsi sotto la canicola d'agosto non c'è niente di meglio di un gelato
o una birra. Rigorosamente artigiani. Lo sanno bene le famiglie italiane che -
secondo una rilevazione della Confartigianato - spendono complessivamente
per questi due prodotti, 3,1 miliardi di euro l'anno, equamente divisi tra 1.541
milioni di euro per i gelati e 1.523 milioni di euro per le birre. In media,
ciascun nucleo familiare spende ogni anno 71,5 euro per i gelati e 70,7 euro per
le birre. Che la qualità e la varietà di birre e gelati italiani sia sempre più
apprezzata dai nostri connazionali e dai turisti stranieri lo dimostra il numero
dei produttori artigiani: Confartigianato ha calcolato infatti che, per soddisfare
la domanda di queste specialità, si muove un piccolo esercito di 15.969
imprese, di cui 15.702 pasticcerie e gelaterie e 267 birrifici. E negli ultimi 3
anni, i birrifici artigiani hanno registrato un vero e proprio boom, con un
incremento del 61,8%, pari a una nuova impresa ogni 11 giorni.
Chiariti i dubbi sulla rilevanza di prodotti come Birra e Gelato rispetto ai
consumi estivi che coincidono con il picco di consumo di gelati e birra ,
appurato che si può utilizzare l’alcol all’interno di gelati e ghiaccioli e che,
eventualmente, andrebbe venduto a maggiori di diciotto anni, non ci resta che
stabilire quali potrebbero essere per Unilever e il Gruppo Peroni le condizioni
per la Partnership Commerciale e il loro codice dei Business Partner.
3.7 Partnership Commerciale e Codice dei Business Partner
Unilever si impegna a costruire rapporti di reciproco beneficio con fornitori,
clienti e partner commerciali e si aspetta, a questo proposito, l’adesione dei
partner a principi commerciali coerenti con i propri. Per soddisfare le
aspettative dei consumatori, quali la qualità elevata e l'affidabilità dei prodotti,
l’azienda crea strette relazioni di lavoro, spesso a lungo termine, con i business
partner. Per agevolare questo approccio Unilever ha definito un Codice dei
Business Partner compatibile e il Codice dei principi aziendali.
45
Il Codice definisce gli standard a cui dovranno aderire i business partner e
contiene dieci principi che vanno dall'integrità aziendale alla responsabilità
verso i dipendenti, i consumatori e l’ambiente. Nel 2004 Unilever ha introdotto
il Codice in forma scritta presso tutti i fornitori diretti ("fornitori di primo
livello"). L'approccio di partnership prevede la collaborazione con i
collaboratori, in primo luogo, per stabilire la compatibilità degli standard e poi,
ove necessario, per concordare misure e tempistica volte a conseguire i livelli
di performance auspicati.
Birra Peroni invece, vuole contribuire alla crescita e allo sviluppo socio-
economico delle imprese che sostengono la propria catena del valore: dalla
terra alla tavola. Per questo motivo cerca opportunità per creare nuove
partnership e vuole impegnarsi con più partner della catena del valore.
L’azienda mira ad espandere i propri programmi di sviluppo nei prossimi anni,
sostenendo gli attori della propria catena del valore attraverso interventi mirati
e promuovendo lo sviluppo di una filiera sempre più sostenibile, dalla terra alla
tavola, dall’agricoltore che coltiva le materie prime di qualità al rivenditore dei
propri prodotti. La promozione del consumo responsabile di alcol è
fondamentale per Birra Peroni, che ha continuato a rafforzare negli anni, al
proprio interno e all’esterno, la consapevolezza che la birra possa aggiungere
piacere alla vita, solo se consumata moderatamente e in modo responsabile. Per
questo, molte sono le attività e gli interventi messi in campo dall’azienda nel
tempo per la sensibilizzazione verso un consumo moderato, responsabile e
consapevole di alcol. La birra deve diventare la scelta naturale di chi beve con
moderazione e responsabilmente.
46
CAPITOLO 4: IL GHIACCIOLO ALLA BIRRA
4.1 Freddolone e Peroni Chill Lemon: ipotesi di partenza
L’idea di base di questa ricerca è stata quella di creare un co-branding tra il
ghiacciolo Freddolone dell’Algida che, sebbene si posizioni principalmente
verso un target di bambini, così come si evince dalla scheda prodotto riportata
sul sito dell’Algida, resta la scelta più fresca e dissetante anche per gli adulti
perché “rinfresca il palato lasciando in bocca il sapore intenso di limone”, e
Peroni Chill Lemon “un universo super rinfrescante, giovane, fatto di allegria,
brio e spensieratezza, dove godere a pieno i momenti di relax tipici
dell’estate”. Si è pensato, seppur con qualche eccezione, che il ghiacciolo
venga acquistato direttamente dal genitore, il quale, trovandosi in quella
situazione, valuterebbe la possibilità di acquistarlo anche per sé. Da qui nasce
l’idea di proporre un ghiacciolo per un mercato di adulti con una variante
alcolica proponendo il co-branding con Peroni Chill Lemon. Un altro ipotetico
buyer personas sono i nuovi adulti, giovani da poco maggiorenni e fino ai
ventisei anni di età. Ci troviamo di fronte ad un co-branding che, almeno
ipoteticamente, sarebbe rivolto a due diverse fette di mercato, genitori e figli.
Si è pensato di realizzare un ghiacciolo con il gusto della Birra Peroni Chill
Lemon cercando di mantenere invariata la gradazione alcolica di circa 2°.
Inoltre, all’interno del ghiacciolo, c’è un vero e proprio cuore di birra al
limone, che è possibile notare guardando il ghiacciolo a prima vista senza
doverlo necessariamente mordere per vedere cosa c’è dentro.
Per verificare queste ipotesi è stata usata la tecnica di indagine qualitativa del
Focus Group, che sembra necessario approfondire in tutte le sue declinazioni.
4.2 Il Focus Group
Il Focus Group è un intervista di gruppo o discussione di gruppo intorno ad un
argomento composto da 6-10 persone attentamente selezionate in base a
determinati criteri demografici, psicografici o in base ad altre variabili.
47
(Kotler,2007). I Focus Group inoltre sono condotti in maniera poco strutturata
da un discussion leader o moderatore esperto. L’obiettivo principale è
“indagare in profondità aspettative, atteggiamenti, opinioni, valutazioni,
motivazioni dei consumatori-target ascoltando le loro discussioni su argomenti
di interesse della ricerca”(Chirumbolo, Mannetti, 2004, pp.65).
Per Krueger (1994) il Focus Group è una discussione pianificata al fine di
ottenere informazioni sulla percezione dei soggetti partecipanti, rispetto ad una
specifica area di interesse. Di solito la durata di un Focus Group è compresa tra
una e tre ore e anche l’ambiente gioca un ruolo fondamentale, infatti non deve
essere angusto e freddo bensì confortevole e accogliente. Ai partecipanti in
genere viene offerto un piccolo rinfresco prima dell’inizio della discussione.
Inoltre, il Focus Group prevede l’audio o videoregistrazione dietro consenso
dei partecipanti e spesso la figura del moderatore si avvale di un recorder che
si occupa di prendere appunti relativi alla posizione fisica dei partecipanti nello
spazio, notare atteggiamenti come cambi di posizione, impressioni personali e
comunicazione non verbale. Il recorder non deve inserirsi nella conduzione
dell’intervista.
Il Focus Group si attiva con un stimolo ben preciso da parte del moderatore che
segue una traccia di conduzione o scaletta - precedentemente redatta in ogni
sua parte - e procede attraverso questa, nella gestione delle interazioni tra i
partecipanti. L’unità di analisi di questa tecnica qualitativa è il gruppo e ha per
oggetto le sue dinamiche di interazione (Chirumbolo et al., 2004).
I ricercatori comunque dovrebbero cercare di limitare le generalizzazioni dei
dati e delle percezioni da parte dei partecipanti all’intervista perché i campioni
sono piccoli, selezionati e poco rappresentativi della popolazione (Kotler
2007). L’ideale sarebbe, dopo una ricerca “esplorativa” tipica del Focus Group,
pensare ad uno sviluppo della ricerca per mezzo di un questionario, o
comunque con ulteriori metodologie e tecniche di analisi.
48
4.2.1 I partecipanti
Una tra le cose fondamentali per un Focus Group sono i partecipanti che in
genere sono selezionati attraverso un database di cui le agenzie specializzate
nella ricerca qualitativa si avvalgono, per esempio cercando persone che
utilizzano un dato prodotto oggetto di indagine (user) oppure ex consumatori o
consumatori che non conoscono il prodotto o semplicemente lo conoscono ma
non lo utilizzano. La ricerca per mezzo di database avviene anche attraverso
variabili come età, genere, reddito, posizione sociale, componenti nucleo
famigliare e informazioni psicografiche e comportamentali, proprio come
accade nella segmentazione del mercato analizzata nel primo capitolo di questa
Tesi.
Il dubbio che i partecipanti vogliano dare una determinata immagine di sé in
pubblico, o che avvertano il bisogno di identificarsi con altri membri del
gruppo è molto forte. Questa tendenza a voler fornire risposte socialmente e
culturalmente accettabili rispetto a ciò che realmente si pensa, è definita come
desiderabilità sociale, costrutto ampiamente studiato e sul quale sono state
costruite diverse scale di misurazione, tra cui quella di Marlowe e Crowne
(1960), la MC-SDS, utilizzata per indagare questo costrutto. Poi c’è il
problema del soggetto più carismatico che con le proprie posizioni limita il
resto del gruppo. (Kotler, 2007). I partecipanti dovrebbero essere scelti in
maniera omogenea e con l’idea che davvero possano dare un contributo
all’oggetto di indagine altrimenti è facile pensare al fallimento della ricerca
stessa.
Tutti questi limiti possono essere arginati se ci si avvale di un moderatore
esperto.
49
4.2.2 Il moderatore
Fig.12
La conduzione di un Focus Group è forse la cosa più importante. Il moderatore
gioca davvero un ruolo fondamentale e spesso viene anche definito facilitatore
perché “ha il compito fondamentale di favorire e facilitare l’interazione e la
comunicazione tra i partecipanti, in maniera da ottenere le informazioni
necessarie” (Chirumbolo et al., 2004). La sua funzione principale è quella di
moderare – e non intervistare - un Focus Group. In linea generale è possibile
identificare due tipi di approcci adottati dal moderatore: un a) approccio non
direttivo, in cui il ruolo del moderatore è molto marginale, propone il tema e le
regole di interazione e lascia che la discussione tra i partecipanti sia spontanea
e naturale e un b) approccio direttivo in cui ha un notevole controllo sul
contenuto della discussione e sulle dinamiche di gruppo.
Se la discussione è ferma e non trova una direzione oppure un membro del
gruppo concentra l’attenzione solo su un determinato argomento impedendo
agli altri partecipanti di intervenire, allora è opportuno che il moderatore
intervenga. Anche lo stile del Focus Group è molto importante e ovviamente
varia in base alla tipologia di indagine. Ci sono casi in cui è opportuno essere
diretti e altri in cui la carta vincente è l’ascolto piuttosto che l’intrusività. E’
fondamentale eliminare credenze, pregiudizi e distorsioni delle informazioni
provenienti dall’intervista di gruppo e sotto questo punto di vista è proprio il
discussion leader che comunica ai partecipanti che è assolutamente normale
50
non avere all’inizio un’opinione sul tema proposto e formarsene una nel corso
della discussione.
Durante la discussione, il moderatore deve cercare di non prendere nessuna
posizione riguardo il focus principale e anzi dovrebbe incoraggiare
l’espressione del dissenso facendo capire ai partecipanti che è interessato ad
ogni singolo punto di vista. Se le persone non sono interessate tendono ad
essere passive e ad esprimersi poco rispetto al tema della discussione. E’
compito di un buon moderatore tenere vivo l’interesse per tutta la durata
dell’indagine, individuando, ad esempio, una posizione forte evidenziata
durante la discussione e chiedendo pareri a tutti i membri del focus group.
4.2.3 La classificazione dei Focus Group
La suddivisione più diffusa di tipologia di Focus Group è quella di Calder
(1977,1994) e adottata anche dalla Advertising Research Foundation (1985),
che prevede tre approcci principali rispetto alla conduzione di un Focus:
1. Focus Group Fenomenologico (o esperenziale) in cui si formulano
ipotesi dal punto di vista del consumatore da sottoporre a verifica nella
fase di ricerca quantitativa. L’obiettivo è quello di comprendere le
esperienze delle persone, il loro “microcosmo emotivo-cognitivo”
rispetto all’oggetto di studio;
2. Focus Group Esplorativi, molto utili se non si conosce
preliminarmente il fenomeno o prodotto oggetto di indagine perché si
costruisce una base di conoscenza. Questo tipo di Focus Group sono tra
i più utilizzati e spesso sono utilizzati come approccio creativo per
generare e produrre nuove idee;
3. Focus Group Clinici, il cui intento è scoprire elementi del subconscio
e non verbalizzati, servono per andare oltre le opinioni e capire quali
sono i motivi di determinati comportamenti. Questo tipo di approccio è
piuttosto soggettivo e inoltre è esposto a problemi di scarso rigore
metodologico.
51
Il punto di forza delle analisi tradizionali dei Focus Group è “che producono
report facilmente fruibili e molto apprezzati da manager e uomini d’azienda. Il
punto di debolezza è il basso rigore metodologico nell’analisi dei dati”
(Chirumbolo et al., 2004, p.69). In ogni caso il Focus Group rimane il modo
più economico e rapido per ottenere informazioni su un’idea in poco tempo
(Kotler, 2007).
4.3 Il nostro Focus Group
La nostra intervista di gruppo ha preso in considerazione l’approccio che i
partecipanti avevano nei confronti del prodotto “birra” e del prodotto
“ghiacciolo”. In un primo momento abbiamo sondato semplicemente la
valutazione della proposta attraverso l’illustrazione di un co-branding fittizio
(senza i marchi coinvolti nel co-branding) per capire meglio se, a prescindere
dalla conoscenza dei marchi oggetto di questa collaborazione, piacesse l’idea
di avere all’interno di un ghiacciolo le caratteristiche di una birra, come il
gusto, la freschezza e la gradazione alcolica. In un secondo momento dopo aver
indagato le abitudini di consumo dei partecipanti rispetto alla birra e ai
ghiaccioli, abbiamo presentato il co-branding ufficiale in tre varianti grafiche
(descritte nel dettaglio più avanti), indagando eventuali intenzioni di acquisto e
indicazioni di eventuali cambiamenti in relazione al target, al packaging, al
brandname, al payoff, alla campagna pubblicitaria e alle sponsorizzazioni nel
loro insieme.
I partecipanti di questo Focus Group sono 5 uomini e 3 donne, tra i 24 e i 26
anni, principalmente provenienti da varie regioni del Sud Italia e studenti del
corso di Laurea Magistrale in Psicologia della Comunicazione e del Marketing
nella Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università degli studi di Roma “La
Sapienza”. Inoltre, cinque di loro, lavorano saltuariamente oltre a studiare.
L’intervista di gruppo si è tenuta all’interno dell’Aula Ponzo della Facoltà di
Psicologia ed è stata videoregistrata su consenso dei partecipanti. Ha avuto una
durata totale di un’ora e quaranta minuti e ai partecipanti è stato offerto un
piccolo rinfresco prima di iniziare. Dopo la spiegazione del funzionamento del
Focus, il consenso alla videoregistrazione e una breve presentazione di ognuno
52
dei partecipanti, si è entrati nel vivo dell’indagine, seguendo la scaletta con le
domande preparate come traccia di conduzione del Focus Group.
4.4 Analisi dei dati
In un primo momento, è stato chiesto ai partecipanti di osservare l’immagine
del prodotto fittizio (Fig.13) , riprodotta
su cartaceo, pensando che tipo di
prodotto potesse essere, associandolo a
dei marchi e immaginando dei gusti. Le
risposte fornite sono state diverse: C.
pone l’accento sullo stecco che, da un
lato veniva visto come poco funzionale
perché “ha lo stecco troppo corto e mi
infastidisce perché mi sporco le mani,
quindi mi da fastidio” e con una forma
inusuale “il bastoncino non ha la forma
classica”, dall’altro B. e D. hanno
vagamente citato la somiglianza dello
stecco ad una bottiglia di birra capovolta dicendo “il bastoncino sembra una
bottiglia”. Il partecipante A. dice “mi sa tanto di prodotto sottomarca” mentre
E. sostiene che “sembra un gelato con due gusti differenti, un gusto
concentrato all’interno” e in effetti, il colore dorato centrale mette in evidenza
la presenza di un ingrediente aggiunto che in qualche modo trova conferma con
la nostra ipotesi di partenza. Quando è stato chiesto ai partecipanti che tipo di
marca gli venisse in mente guardando questo prodotto la risposta fornita con
maggiore frequenza è stata “Algida”, marchio top of mind anche se per F. “ha
il colore del Solero, preciso e identico” e questo è un dato importante perché
consente di immaginare quanto lavoro c’è stato dietro la costruzione
dell’identità di brand di Solero, che oggi rappresenta uno dei marchi punta di
Algida. Inoltre, questa considerazione ci fa riflettere su quanta penetrazione
hanno i gelati confezionati rispetto al gelato artigianale nel mercato. Infatti, il
consumo dei gelati è concentrato per il 50% nei 4 mesi tradizionalmente caldi.
Fig.13
53
Ma se la ripartizione annuale è 75% di consumo di gelato confezionato e 25%
di gelato sfuso, da metà maggio a metà settembre il mix vede crescere il gelato
artigianale fino quasi al 50% del totale.
Il 10% dei naviganti coinvolti nell’indagine sviluppata da Web-Research.it
sostiene di sostituire il panino, il toast, la pizzetta, l’”insalatona” , il “piattino”
che costituisce il pranzo veloce, lavorativo, dei giorni feriali con un gelato
durante il periodo estivo. Nei 4 mesi caldi il 50% delle mamme che scrivono in
rete i propri pareri riguardo al gelato afferma di sostituire la merenda
pomeridiana dei propri figli con un gelato; nei restanti 8 mesi le stesse mamme
dichiarano di comperare per i propri figli uno/ due, massimo tre gelati alla
settimana. Questi dati sono piuttosto importanti rispetto al nostro lavoro perché
ci fanno capire la direzione che dovrebbero prendere Unilever e Birra Peroni
qualora volessero davvero collaborare alla creazione di un ghiacciolo o gelato
alcolico. Sapere che il 75% del consumo annuale di gelati è di quelli
confezionati ci fa ipotizzare che la direzione è giusta e che, sapendo che questa
percentuale è destinata a scendere durante il periodo estivo, ci suggerisce che
forse è meglio lanciare il prodotto in questione in primavera, o direttamente
verso la fine della stagione estiva.
A questo punto si è cercato di capire quale fosse il rapporto dei partecipanti al
Focus Group con il prodotto “ghiacciolo” e mondo dei gelati e con il prodotto
birra e alcolici. Per quanto riguarda il mondo dei gelati e i ghiaccioli, F. dice:
“D’estate tendo a prendere ghiaccioli e gelati alla frutta mentre di inverno un
po’ più golosi” e quasi tutti sono stati d’accordo con questo intervento sul fatto
che sia preferibile mangiare il ghiacciolo durante l’estate mentre, l’inverno si
concedono qualcosa di più goloso come un gelato artigianale. C’è anche chi è
contrario a questo, come D. che invece dice “D’inverno non ho mai mangiato
gelati”. Molto importante, inoltre, è la situazione d’utilizzo e di acquisto. In
spiaggia, infatti, è più difficile reperire un gelato artigianale, cosa piuttosto
facile in città. E su questo B. aggiunge “ il gelato confenzionato lo mangio solo
nelle occasioni in cui ho difficoltà a reperire quello artigianale” e anche F.
conferma questa posizione dicendo “il confenzionato lo compro in spiaggia nei
bar”. Questi interventi ci suggeriscono una chiave di lettura importante per il
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  • 1. Facoltà di Medicina e Psicologia Corso di Laurea Magistrale in Psicologia della Comunicazione e del Marketing Tesi di laurea “Peroni e Algida: sviluppo di una brand alliance” RELATORE CORRELATORE Chiar.ma Prof.ssa Chiar.mo Prof. Renata Metastasio Fabio Babiloni CANDIDATO Diego Cortes Matricola 1329546 Anno Accademico 2015/2016
  • 2. INTRODUZIONE........................................................................................................ 4 CAPITOLO 1: IL POSIZIONAMENTO.................................................................. 6 1.1 Il concetto di posizionamento................................................................. 6 1.2 Elementi di parità e di differenziazione................................................ 7 1.3 Vincoli e posizionamento dei Competitors ......................................... 10 1.4 Strategie di posizionamento................................................................. 11 1.5 Il target: segmentazione del mercato obiettivo .................................. 14 1.6 Le variabili della segmentazione ......................................................... 15 CAPITOLO 2: IL BRAND E LE BRAND ALLIANCES...................................... 19 2.1 Il concetto di Brand e il ruolo delle marche ....................................... 19 2.2 La Brand Equity ................................................................................... 20 2.3 La Brand Identity e il Prisma di Kapferer......................................... 23 2.4 Le Brand Alliances: Il Co-Branding................................................... 26 2.5 Brand e Line Extension........................................................................ 28 2.6 Il risultato delle strategie di Co-Branding.......................................... 29 2.6.1 Gli effetti diretti del Co-Branding............................................................... 29 2.6.2 Percezioni di Posizionamento dei consumatori sul Co-Branding............... 30 2.6.3 Brand Fit e Product Fit................................................................................ 31 2.6.4 Implicazioni manageriali ............................................................................ 31 CAPITOLO 3: ALGIDA E PERONI....................................................................... 33 3.1 La nostra Brand Alliance..................................................................... 33 3.2 Unilever: La storia................................................................................ 33 3.2.1 La Mission Vitality e il nuovo Corporate Brand......................................... 35 3.2.2 La Brand Strategy multimarca.................................................................... 36 3.2.3 Algida e il ghiacciolo “Freddolone” ........................................................... 37 3.3 Birra Peroni........................................................................................... 38 3.3.1 Peroni Chill Lemon e il Vertical Summer Tour.......................................... 39 3.4 Case History .......................................................................................... 40 3.4.1 Ghiaccioli, Gelati e Milkshake alcolici: Il nuovo trend newyorkese.......... 40 3.4.2 Il Festival del gelato per adulti di Londra e il drink gelato di Roma .......... 41 3.4.3 Il caso del “N1CE” – Ghiacciolo Alcolico Svedese ................................... 41
  • 3. 3 3.5 Normativa Italiana sugli alcolici e sui gelati....................................... 43 3.6 Confartigianato: Birra e Gelati in cima ai consumi dell’estate........ 44 3.7 Partnership Commerciale e Codice dei Business Partner ................ 44 CAPITOLO 4: IL GHIACCIOLO ALLA BIRRA................................................. 46 4.1 Freddolone e Peroni Chill Lemon: ipotesi di partenza ..................... 46 4.2 Il Focus Group ...................................................................................... 46 4.2.1 I partecipanti ............................................................................................... 48 4.2.2 Il moderatore............................................................................................... 49 4.2.3 La classificazione dei Focus Group ............................................................ 50 4.3 Il nostro Focus Group .......................................................................... 51 4.4 Analisi dei dati....................................................................................... 52 4.4.1 Focus su Birra Peroni e Peroni Chill Lemon .............................................. 55 4.4.2 Presentazione del Co-Branding ai partecipanti........................................... 57 CONCLUSIONI......................................................................................................... 63 BIBLIOGRAFIA ....................................................................................................... 66 SITOGRAFIA............................................................................................................ 68 RINGRAZIAMENTI................................................................................................. 69
  • 4. 4 INTRODUZIONE Secondo una rilevazione della Confartigianato le famiglie italiane spendono in media 3,1 miliardi di euro in consumi di birre e gelati, solamente durante il periodo estivo. Per soddisfare questa domanda interviene un piccolo esercito di circa 16.000 aziende tra gelaterie, pasticcerie e birrifici. Inoltre negli ultimi tre anni c’è stato un vero e proprio boom di birrifici che hanno registrato un incremento del 60% nel settore. Leader di mercato nel settore della birra da 170 anni e con una produzione annua di 5 milioni di ettolitri c’è il Gruppo Peroni che comprende Birra Peroni, Nastro Azzurro e Pilsner Urquell ai quali si aggiungono almeno altri venti marchi. Algida invece, marchio appartenente a Unilever – azienda leader nel settore dei beni di largo consumo – è oggi sinonimo di qualità e innovazione nel mondo dei gelati. La forte competizione tra produttori e rivenditori, il breve ciclo di vita del prodotto e la sempre più sofisticata domanda da parte dei consumatori, hanno portato le aziende a ricercare altre possibilità di sviluppo del proprio brand. Questa Tesi di Laurea propone un Co-Branding – ossia quando due o più brand sono combinati insieme per creare un nuovo prodotto - tra il marchio Algida e Birra Peroni con l’intento di realizzare il “Ghiacciolo alla birra al gusto limone” ed è per questo che i prodotti oggetto di analisi del presente lavoro saranno la Birra Peroni Chill Lemon e il ghiacciolo Algida Freddolone. Il co-branding è una delle strategie di marketing più utilizzate oggi, dalle aziende che intendono rinfrescare la propria brand image, rafforzare la propria brand equity o semplicemente sfruttare le possibilità e le conoscenze tecniche proprie di una collaborazione tra brand totalmente differenti tra loro. Dopo una rassegna generale sulla letteratura finora presente sui concetti di posizionamento, segmentazione del mercato, sul concetto di Brand e le sue
  • 5. 5 declinazioni nelle varie Brand Alliances, esamineremo nel dettaglio le case history di ghiaccioli alcolici, la normativa italiana vigente su birre e gelati. Analizzate le condizioni che per Unilever e il Gruppo Peroni rappresentano la base per una Partnership commerciale, spiegheremo come e perché la tecnica di indagine qualitativa del Focus Group può fare al caso nostro e racconteremo attraverso l’analisi delle trascrizioni e degli appunti presi durante il focus quali sono i risultati di questa indagine e quali saranno i possibili sviluppi futuri di questo lavoro.
  • 6. 6 CAPITOLO 1: IL POSIZIONAMENTO 1.1 Il concetto di posizionamento Il punto di partenza per ogni azienda è il posizionamento. Infatti, per costruire una propria identità all’interno del mercato, bisogna definire prima alcuni punti fondamentali che serviranno poi alla marca per essere ben visibile ai futuri clienti, ben riconosciuta dai propri fedeli e distinta dalla concorrenza. Il posizionamento è un’operazione di marketing imprescindibile che ogni azienda dovrebbe ben tenere a mente durante tutta la sua vita. E’ un concetto molto ampio e a riguardo ne hanno scritto e parlato in molti tra i vari autori, infatti in questa sede cercheremo di dare una definizione che prenda in considerazione tutti gli aspetti di un’operazione così importante quanto delicata. Tutte le aziende devono posizionare e questo è un vero e proprio must dal quale non si può e non si deve prescindere, altrimenti è lo stesso mercato che posiziona autonomamente e spesso agendo per stereotipi lontani dalla marca stessa. Quando si parla di pubblicità, infatti, la comunicazione interpersonale gioca un ruolo fondamentale: il famoso word of mouth, più conosciuto come passaparola, è spesso un obiettivo strategico degli operatori di marketing e molto ambìto soprattutto perché rumors e scambi di opinione sono spesso non controllabili. Quando scegliamo un prodotto piuttosto che un altro, quando siamo fedeli alla marca, quando ci facciamo un’idea riguardo una marca e ne attribuiamo dei valori, lo facciamo grazie ad operazioni di posizionamento scelte dall’azienda. Attraverso il posizionamento l’azienda sceglie il target o il tipo di pubblico bersaglio, a cui rivolgersi e allo stesso tempo definisce l’immagine che vuole comunicare al mercato obiettivo e costruisce i significati e i valori intorno alla marca (Fabris, 1992). Se il posizionamento non è corretto allora il mercato sarà disorientato. Il posizionamento quindi “consiste in una definizione dell’offerta e dell’immagine dell’impresa tale da conferirle una posizione distinta e apprezzata nella mente del mercato obiettivo. La meta ultima consiste nell’attribuire alla marca una posizione nella mente dei consumatori che ne massimizzi il beneficio potenziale per l’impresa” (Kotler, P. et al.,2007, p.378). Infatti l’obiettivo finale è dare al cliente un motivo valido
  • 7. 7 per acquistare un prodotto e preferirlo a quelli di pari attribuiti dei competitors o di sua conoscenza. Il termine posizionamento si è affermato grazie a due pubblicitari Al Ries e Jack Trout, i quali lo considerano un esercizio di creatività applicato ad un prodotto esistente: “Il posizionamento nasce assieme al prodotto, sia esso un bene, un servizio, un’impresa, un’istituzione o anche un individuo. […] Ma il posizionamento non ha nulla a che vedere con l’intervento sul prodotto, bensì sulla mente del possibile acquirente. Il posizionamento, cioè, riguarda il modo in cui un prodotto trova collocazione nella mente del potenziale consumatore” (cit. in Kotler, et al. 2007, p.378). 1.2 Elementi di parità e di differenziazione E’ quindi opportuno lavorare su quelli che sono i punti di somiglianza e di differenziazione tra le varie marche leader e follower presenti sul mercato, definendo nel tempo uno schema competitivo e andando a lavorare sui valori e gli ideali della categoria di appartenenza scelta. Infatti, scegliere una categoria di appartenenza è importante perché in un certo senso si definisce la concorrenza stessa, proprio perché molte imprese hanno già deciso di lavorare in passato nel medesimo settore o hanno intenzione di farlo. Gli elementi di differenziazione sono “attributi o benefici che nella mente dei consumatori hanno una forte associazione positiva alla marca e rimangono ineguagliati dalle marche concorrenti” (Kotler et al.,2007, p.379) e si basano su attributi e benefici di varia natura. Ad esempio IKEA ha costruito la sua reputazione sull’idea che i prodotti svedesi che vende alle masse siano di buona qualità e allo stesso tempo sicuri, risparmiando però su quelle che sono le spese di consegna e montaggio della merce che sono operazioni a carico del cliente. Gli elementi di parità invece sono “associazioni di marca non esclusive e generalmente condivise con le marche concorrenti”. In questo caso non si fa riferimento al settore di competenza dell’azienda stessa: ad esempio, quando ci si rivolge ad un negozio di scarpe ci si aspetta che venda scarpe multimarca o monomarca, che abbia dei camerini e sedute prova e che consenta il pagamento della merce in varie forme, ma sulla base della stessa parità di categoria esiste anche una parità competitiva che invece è quella relativa alle associazioni
  • 8. 8 messe in atto in termini di marketing per annullare le differenze ,o almeno ridurle, con i competitors. Per far sì che un attributo sia visto come un elemento di parità almeno tanto quanto quello di un’azienda concorrente, c’è bisogno che aggiunga valore e che molti consumatori si ritengano soddisfatti proprio per quello specifico attributo. Un esempio emblematico è il caso di American Express e Visa da sempre competitor nella categoria delle carte di credito: se da un lato American Express ha costruito l’identità di marca sull’idea di esclusività e prestigio delle proprie carte, Visa lo ha fatto sul concetto di praticità, di poterla usare ovunque nel mondo, vista la sua diffusione. Attualmente però entrambe le aziende competono cercando di vanificare i vantaggi del concorrente e produrre elementi di parità. Visa mette a disposizione dei propri clienti carte Oro e Platino per aumentare di prestigio, mentre American Express ha promosso una serie di accordi con molti esercenti fornendo incentivi attraverso il programma “Make Life Rewarding” (Kotler, et al.,2007, p.382). Ma come si comunica al nostro target la categoria di appartenenza scelta? E’ naturale quando parliamo di un marchio leader il settore in cui si colloca e i prodotti che vende, ad esempio il dentifricio di Colgate, le lamette per Gillette o i panini per McDonald’s, ma spesso accade, soprattutto per quel che riguarda il lancio di nuovi prodotti, che si debba informare il cliente sulla categoria di appartenenza scelta. I nostri clienti hanno bisogno di sapere cosa sia il prodotto e quali funzioni svolga prima di decidere se può o meno battere le offerte della concorrenza. In questi casi infatti la pubblicità si concentra prima sulla creazione della consapevolezza della marca e poi sulla costruzione dell’immagine della marca stessa. Philip Kotler e Kevin Lane Keller (2007) individuano tre metodi principali per comunicare l’appartenenza ad una categoria: 1. Esprimere i benefici della categoria in modo chiaro e diretto facendo luce su quelle che sono le peculiarità del prodotto ad esempio: la qualità e la resistenza del legno nel caso di mobili o comunicando nel caso di biscotti da forno la golosità del prodotto dichiarando che gli ingredienti sono di elevata qualità (prestazioni del prodotto) o mostrando immagini
  • 9. 9 dei consumatori intenti a mangiare i biscotti con piacere (immaginario della marca). 2. Associarsi a esempi illustri come nel caso di Tommy Hilfiger che quando era ancora sconosciuto al grande pubblico, la pubblicità lo annunciava come un grande stilista statunitense, associandolo a nomi come Calvin Klein, Perry Ellis (…). 3. Descrivere il prodotto semplicemente usando una breve denominazione che segue il nome della marca, come per i modelli dei vari prodotti Apple o Samsung. E’ importante che gli elementi di differenziazione risultino desiderabili per i consumatori e che l’azienda sia effettivamente in grado di offrire quanto promette. Anche in questo caso è importante stabilire dei criteri. L’attributo desiderato deve risultare: 1. Significativo: e cioè rilevante per i singoli consumatori; 2. Distintivo e superiore: rispetto alla concorrenza; 3. Credibile: deve essere convincente per essere scelto; Per quanto riguarda la promessa aziendale, è importante che sia: 1. Praticabile: è importante che la promessa fatta trovi riscontro nella realtà e che sia sostenuta sia da un punto di vista di design del prodotto che dal punto di vista dell’offerta di marketing. 2. Comunicabile: l’impresa deve offrire una spiegazione plausibile sul fatto che la marca è in grado di dare il beneficio atteso. 3. Sostenibile: in termini di posizionamento. E’ importante che sia duraturo e consolidato nel tempo e per far ciò è necessario che tutti i reparti dell’impresa vadano nella stessa direzione. Ovviamente questo dipende anche dalla tipologia di prodotto. Ci sono marche come Gillette e Microsoft – leader di mercato – che sono posizionate rispetto alle evidenti prestazioni del prodotto, invece marchi di moda o nel settore food & beverage hanno un mercato variabile periodicamente.
  • 10. 10 1.3 Vincoli e posizionamento dei Competitors Esistono diversi vincoli alle operazioni di posizionamento: da un lato ci sono quelli che si presentano quando si parla di posizionamenti pregressi e dall’altro quando si parla di posizionamento dei competitor. Infatti l’idea di cambiare l’identità di prodotto soprattutto quando è consolidata da tempo è una procedura rischiosa perché si deve cambiare il vecchio sistema di significati e crearne di nuovi o comunque gestire questa identità schizofrenica e molto confusa. Tuttavia questo non è sempre vero; Marlboro infatti che era una marca rivolta prettamente ad un pubblico femminile, ad esempio le sigarette avevano i filtri rosa, decise di lavorare sulle criticità riposizionando il brand con una pubblicità prettamente indirizzata verso l’universo maschile, utilizzando il cowboy tatuato e allo stesso tempo attuando dei miglioramenti in termini di design: furono i primi a lanciare sul mercato il primo pacchetto di sigarette squadrato e rigido (Fabris, 1992). Bisognerebbe studiare nel dettaglio le strategie adottate dalle aziende concorrenti e cercare di optare per la strategia di posizionamento più proficua in termini di visibilità, valore, identità di marca e mirando, ove possibile, al segmento di mercato non ancora occupato o che lascia spazio ad altre novità nello stesso settore. Per quel che riguarda il posizionamento dei competitors, non sempre le strategie di me too sono efficaci: è infatti molto rischioso tentare di posizionare la propria marca se già esistono leader di mercato fortemente radicati in quella categoria di appartenenza. “La procedura più corretta , e più stimolante, è certamente quella di cercare un proprio sistema di segni nell’ambito dell’universo simbolico del prodotto, negli spazi che non siano presidiati, o siano solo debolmente presidiati da altri, in modo da costruirsi una propria, distintiva identità” (Fabris, 1992, p.334). E’ abbastanza ovvio che il posizionamento più interessante è quello occupato dalla marca leader in quel dato settore ed è tale proprio perché avendolo occupato gode di una posizione di superiorità rispetto ad un concorrente. Negli ultimi anni, comunque, le aziende concorrenti stanno cercando di minimizzare le differenze e massimizzare le parità tra esse, cercando di occupare in maniera seppur debole anche altri spazi e significati diversi ma altrettanto importanti per la costruzione del valore di marca.
  • 11. 11 Ecco una serie di associazioni alla base del posizionamento di marca individuate da Fabris (1992):  Valore particolarmente significativo presso il suo target (Ad es. l’avventura: Camel; la casa: Barilla; la natura: Mulino Bianco; il prestigio: Chivas Regal; il cosmopolitismo gastronomico: Kraft).  Particolare modalità di consumo o utilizzazione del prodotto (Ad es. After Eight come cioccolato da dopocena e Perlana detersivo per i tessuti di lana – casi in cui il brand name esprime l’ipotesi di posizionamento).  Una caratteristica specifica del prodotto (Nel caso dei tonni in scatola: la morbidezza: Riomare; il sapore forte: Palmera; il sapore seducente: Star; la cura e la protezione: Alco, che ha il packaging in vetro).  Un particolare beneficio per il consumatore (la sicurezza: Goodyear; l’alito profumato, il sapore, il sorriso, i denti sani, la protezione delle gengive, l’anticarie, il tartaro, la placca: ecco una serie di consumer benefits con cui si posizionano le marche di dentifrici).  Essere consumati da una particolare categoria di consumatori (Lux: il sapone delle stelle; Denim: per l’uomo che non deve chiedere mai). 1.4 Strategie di posizionamento Come dovrebbe posizionarsi un nuovo brand? Può una crisi del brand essere rianimata da una strategia di posizionamento? Queste le domande da cui sono partiti David A. Aaker e J. Gary Shansby nel loro "Positioning Your Product" del 1982, per trovare degli aspetti strategici in termini di posizionamento. C'è chi considera il posizionamento una questione di segmentazione. Altri ne fanno una questione di immagine. Altri ancora credono si basi sul selezionare quale caratteristica del prodotto esaltare. Alcuni manager considerano tutti questi
  • 12. 12 aspetti e spesso la decisione di posizionamento è costruita ad hoc ed è cruciale per un'azienda o un brand, perchè la posizione può essere centrale per le percezioni dei clienti e le loro decisioni future. Aaker e Shansby individuano alcuni modi in cui una strategia di posizionamento può essere concepita e implementata: 1. Per attributi: è la strategia più frequentemente usata e si basa sull’associazione del prodotto ad una o più caratteristiche che lo distinguono; caratteristiche che possono essere proprie del prodotto o un beneficio per il cliente (es. il gusto per un amaro, la puntualità per una compagnia aerea). 2. Sul confronto prezzo-qualità: utilizzato per i beni a cui è associato un elevato valore in termini di status sociale. 3. In relazione alle modalità d’uso: associando il prodotto ad uno specifico utilizzo, consumo, applicazione. Questa è una strategia che può essere aggiunta per incrementare il mercato e in combinazione con le altre. Gatorade, per esempio, ha costruito la sua identità sull’idea di una bevanda per sportivi nata per sopperire alle carenze nutritive dopo l’attività fisica. 4. Per tipo di consumatore: associazione del prodotto ad un tipo di consumatori, in base allo stile di vita, all’età (…). Basti pensare a marche di cosmetici che usano modelle per posizionare i loro prodotti o alla linea shampoo di Johnson & Johnson per bambini o per chi lava i capelli di frequente. 5. In termini di confronto con la concorrenza: generica (ad es. “il più venduto”) o specifica con la pubblicità comparativa. Alle volte non è importante quanto i clienti credano tu sia bravo piuttosto è importante che loro credano che tu sia migliore o almeno tanto bravo quanto la concorrenza. 6. Per benefici attesi: e cioè caratteristiche dell’offerta analizzate in relazione alla capacità di risolvere specifici problemi in termini di soddisfazione conseguibile.
  • 13. 13 7. Sulle caratteristiche base dell’impresa: valorizzando gli attributi che danno una particolare personalità alla marca. 8. Rispetto ad una classe di prodotti: Ad esempio i brand di caffè che si posizionano come solubile, la margarina rispetto al burro o il latte in polvere come colazione istantanea. 9. Su base ibrida: combinazione di due o più strategie. In riferimento alla situazione competitiva un importante contributo è quello di Ries e Trout (1972,1984) che pongono l'accento sulle modalità in cui la marca si dovrebbe posizionare nel mercato. Se la marca è follower è necessario occupare uno spazio libero non ancora occupato dal leader di mercato e proporre strategie di posizionamento mirate all'identificazione con uno specifico gruppo di consumatori. Se invece è leader nel mercato basterà rinforzare tale leadership. Se invece non ci sono spazi liberi in cui posizionarsi, la marca dovrebbe riposizionare la concorrenza lavorando su quelle che sono le percezioni dei consumatori rispetto ad essa, ad esempio modificando il comportamento della domanda facendo cambiare l’utilità percepita dal consumatore. Donato Lucev invece individua dei fattori che un’azienda dovrebbe prendere in esame per definire la situazione competitiva (1998):  Percezioni manifestate dai consumatori sul prodotto dell’impresa e sui prodotti dei concorrenti;  Struttura e stabilità delle preferenze dei consumatori: capire quanto queste preferenze sono modificabili, per esempio cambiando gli attributi o introducendone di nuovi;  Risorse che l’impresa ha a disposizione.
  • 14. 14 1.5 Il target: segmentazione del mercato obiettivo Come detto in precedenza, l’altra faccia del posizionamento è la segmentazione del mercato obiettivo, che rappresenta il target a cui rivolgere le nostre operazioni e strategie di marketing per raggiungere gli obiettivi aziendali prefissati. L’impresa quindi suddivide il mercato in segmenti di consumatori, ognuno con le sue specifiche richieste da soddisfare, e individua tra essi quella parte di pubblico che è più sensibile ai benefit del prodotto. Un tempo si era soliti rivolgersi ai consumatori come un unico grande gruppo senza tener conto di eventuali esigenze e bisogni diversi di ognuno di loro. Anche la pubblicità e i prodotti erano pensati in maniera univoca. Successivamente si è passati a modificare l’offerta in una serie di varianti con varie versioni di prodotto. Nella concezione odierna la prospettiva è spostata alla domanda sempre più incessante e in continua evoluzione del mercato (Fabris, 1992). “Il mercato viene suddiviso in sottoinsiemi omogenei, da un punto di vista degli atteggiamenti e dei comportamenti di consumo, che implicano un approccio differenziato da parte dell’impresa ed una diversa strumentazione del mix di marketing” (Fabris, 1992, p.435). D’altro canto i consumatori hanno la tendenza a segmentarsi in maniera autonoma e cioè vengono attratti dalle diverse proposte che in qualche modo soddisfano i loro bisogni ad un prezzo che ritengono conveniente per il beneficio ottenuto (Dunbar e McDonald, 2009). Segmentare quindi significa scomporre il mercato in singole unità (segmenti), omogenei per bisogni, aspettative e comportamenti d’acquisto rispetto a un dato prodotto o servizio. Prima di analizzare le diverse tipologie di segmentazione in base alle variabili che le determinano è doveroso fare un piccolo accenno su quelle che oggi sono definite come le funzioni del Target (Lombardi, 2008):  Misura la pressione della campagna pubblicitaria e controlla quella realizzata dalle campagne concorrenti;  Guida l’analisi e la selezione dei mezzi e controlla i livelli di ottimizzazione raggiunti;
  • 15. 15  Identifica i costi da sostenere e permette di identificare il budget necessario ai fini degli obiettivi che si intende perseguire. 1.6 Le variabili della segmentazione Ogni azienda, prima di scegliere a chi comunicare (target) e in che modo, deve operare delle strategie di segmentazione che sono il risultato di alcune variabili dipendenti o indipendenti che in un certo qual modo le definiscono. Possiamo raggruppare queste variabili in quattro grandi macrocategorie: geografiche, demografiche, psicografiche e comportamentali. Segmentazione geografica: Il mercato, gruppo di soggetti o organizzazioni che hanno bisogno o desiderano un prodotto/servizio e hanno la capacità, disponibilità e potere di acquistarlo, è suddiviso in diverse unità geografiche come nazioni, Stati, regioni, province, città o quartieri e l’impresa decide in quale aerea operare. In questo tipo di segmentazione rientra anche la zona climatica e la dimensione dei centri urbani. Ci sono aziende che decidono di distribuire i prodotti in diverse varianti rispetto al tipo di area geografica, anche nella nazione stessa. Questo tipo di segmentazione è facile da realizzare ma si ottengono delle informazioni limitate. Segmentazione demografica: Il mercato è suddiviso sulla base di variabili demografiche come età, genere, livello di reddito, livello di istruzione, professione, religione, razza, nazionalità, dimensioni della famiglia e stadio del ciclo di vita della famiglia. In generale le aziende segmentano il mercato combinando due o più variabili demografiche. Anche questo tipo di segmentazione è facile da realizzare ma i dati ottenuti sono standard e facilmente reperibili anche dai competitors.
  • 16. 16 Ora vedremo nel dettaglio alcune variabili presenti nella segmentazione demografica che contribuiscono in maniera significativa a determinarla:  Età: è possibile ritenere che individui con età diversa rispondono a bisogni e caratteristiche differenti ma spesso questo non si traduce in un vero e proprio acquisto ed è quindi doveroso analizzare nel dettaglio questa variabile. La Hasbro ad esempio ha creato una linea di giocattoli che corrisponde alle diverse fasi di sviluppo del bambino.  Genere: se è facile pensare che consumi di abbigliamento e cosmetici siano più elevati per il genere femminile e i consumi per l’industria automobilistica più per quello maschile, il genere a volte non risulta una discriminante alla base del processo di acquisto. Oggi l’attenzione al consumo è centrata su entrambi i generi.  Reddito: auto, barche, abbigliamento, viaggi; rappresenta la variabile più utilizzata per quel che riguarda la segmentazione, ma è doveroso studiarla in combinazione di altri fattori come la motivazione all’acquisto e il rapporto spesa-risparmio.  Famiglia: in questo caso è importante il numero dei componenti del nucleo famigliare ma anche il numero e l’età dei figli stessi. Per quel che riguarda il ciclo di vita è importante anche lo stato civile. Segmentazione psicografica: Gli acquirenti sono suddivisi in gruppi sulla base della classe sociale di appartenenza, dello stile di vita adottato e delle caratteristiche di personalità che presentano (atteggiamenti, valori, interessi, desideri di acquisto e bisogni, abitudini di consumo). Ad esempio Volkswagen ha progettato auto sicure ed ecologiche e adatte per chi ama la guida sportiva ed elevate prestazioni. A questi parametri vengono aggiunti anche quelli che riguardano il comportamento socioculturale nelle più vaste accezioni, come l’attenzione alla pubblicità, la modalità di fruizione dei mezzi di comunicazione,
  • 17. 17 l’autovalutazione, il consumo di beni e servizi e gli atteggiamenti verso i più importanti valori sociali (Fabris, 1992). In generale gli stili di vita in combinazione al comportamento d’acquisto, forniscono delle descrizioni chiare e specifiche della tipologia utente. Questo tipo di segmentazione fornisce delle informazioni dettagliate ma è difficile da definire e applicare al meglio. Segmentazione comportamentale: Gli acquirenti sono suddivisi in gruppi sulla base della conoscenza che mostrano del prodotto in esame, del loro atteggiamento verso di questo, dell’uso che ne fanno e di come in genere rispondono al prodotto. Questo tipo di segmentazione fornisce una ricca quantità di informazioni, ma è difficile da applicare anche per gli elevati costi di realizzazione. Nello specifico indaga le seguenti caratteristiche abitudini di acquisto, situazioni d’uso, frequenza, vantaggi ricercati, fedeltà alla marca, clienti inconsapevoli/esperti e clienti attuali/potenziali analizzate in queste dimensioni:  Occasioni: i consumatori di un certo prodotto possono essere stabiliti sulla base dell’occasione in cui manifestano la necessità di un dato prodotto. Ad esempio una compagnia aerea indirizza l’acquisto di voli low-cost a quel target che ritiene determinante il prezzo per la scelta d’acquisto.  Vantaggi ricercati: gli acquirenti sono classificati in funzione dei benefici o dei vantaggi che si aspettano di ottenere da un certo bene. Elementi come durata, prezzo e qualità sono determinanti.  Status dell’utilizzatore: vi sono mercati in cui è possibile individuare il segmento dei user/non-user ma anche ex-utilizzatori, nuovi utilizzatori e potenziali utilizzatori.  Intensità d’uso: è la segmentazione per volume e include i gruppi in funzione dell’intensità con cui il bene viene consumato (forte, medio e
  • 18. 18 limitato utilizzo del prodotto). I dati delle ricerche di mercato di natura quantitativa riferiti a questo tipo di variabile sono facilmente reperibili.  Stadio di disponibilità all’acquisto: Si effettua quando si individua nei consumatori un diverso grado di disponibilità all’acquisto come quei consumatori che non conoscono il prodotto, che conoscono il prodotto per alcune caratteristiche o che conoscono il prodotto e intendono acquistarlo.  Atteggiamento: selezionati in base al loro livello di interesse verso i prodotti in termini di atteggiamento (entusiasti, indifferenti, contrari, ostili).  Fedeltà alla marca (occasionali – ricorrenti): il cliente può essere fedele alla marca, al prodotto o al punto vendita e può essere classificato come segue: - Fedelissimi: che acquistano sempre la stessa marca; - Fedeli tiepidi: che comprano sempre quelle due o tre marche; - Fedeli mutevoli: consumatori che trasferiscono la propria fedeltà da una marca all’altra; - Incostanti: non manifestano alcuna fedeltà di marca. C’è da sottolineare però che spesso il riacquisto di una determinata marca non dipende sempre dal grado di soddisfazione del consumatore: spesso infatti intervengono delle variabili come le promozioni aziendali, o la paura del rischio nel cambiare la propria preferenza verso una marca sconosciuta o più semplicemente per “abitudine” di acquisto.
  • 19. 19 CAPITOLO 2: IL BRAND E LE BRAND ALLIANCES 2.1 Il concetto di Brand e il ruolo delle marche L’operazione di definire una marca, più comunemente conosciuta come branding , esiste da molto tempo. Infatti, già dal Medioevo, veniva chiesto agli artigiani di marchiare i propri prodotti per tutelare sé stessi, i consumatori e la qualità dei loro prodotti. Anche nel mondo dell’arte, l’artista era solito firmare la proprie opere. Oggi comunque le marche ricoprono un ruolo centrale nella vita del consumatore e sono molto importanti per le aziende (Kotler et al., 2007). La marca, quindi, è l’identità di un’azienda sul mercato e non è un concetto oggettivo, bensì astratto, dinamico e relativo perché include valori, sentimenti ed emozioni. La marca, inoltre, è uno dei segnali che un cliente prende in considerazione prima di acquistare un prodotto o un servizio ed ha un peso importante nel processo decisionale per soddisfare un bisogno. La notorietà della marca spesso compensa la mancanza di informazioni sul prodotto da parte dell’acquirente. “Le marche identificano il produttore o la provenienza di un prodotto e consentono ai consumatori di attribuirne la responsabilità a un determinato produttore o distributore. I consumatori possono valutare il medesimo prodotto in modo diverso in base alla marca” (Kotler et al., 2007, p.336). Di fondamentale importanza sono le esperienze passate dei consumatori rispetto alla marca perché generano una conoscenza delle marche tale che consente loro di orientarsi nelle successive scelte e di scegliere i prodotti che desiderano o di cui hanno bisogno. Il nome di una marca si può proteggere registrando il marchio o trademark, brevettando la produzione e i processi ad essa connessi e depositando il design del packaging. Compito di una marca è comunicare una certa qualità di prodotto al fine di soddisfare il cliente secondo le sue esigenze e consentirgli di ripetere l’acquisto in futuro. La fedeltà della marca offre all’impresa prevedibilità e stabilità della domanda e crea barriere che ostacolano l’ingresso nel mercato di altre imprese. Inoltre, anche se le caratteristiche e i benefici del prodotto possono essere imitati, è molto più difficile riprodurre le impressioni e benefici ottenuti nella
  • 20. 20 mente dei consumatori frutto di anni di intensa attività di marketing e attenzione alle scelte del cliente (Kotler et al.,2007). L’American Marketing Association definisce una marca (brand) come “un nome, un termine, un simbolo, un design o una combinazione di questi elementi che identifica i beni o i servizi di un venditore o di un gruppo di venditori e li differenzia da quelli dei concorrenti. Una marca è un prodotto o servizio con delle caratteristiche aggiuntive che lo distinguono in qualche modo da altri prodotti o servizi studiati per soddisfare il medesimo bisogno. Tali differenze possono essere funzionali, razionali o tangibili, ossia correlate alle prestazione del prodotto di marca oppure possono essere più simboliche, emotive o intangibili, ossia correlate a ciò che la marca rappresenta”. (Kotler et al., 2007, pp.336). 2.2 La Brand Equity Il concetto di brand equity è stato introdotto da David A. Aaker nel 1991. Con questo termine egli si riferiva al “patrimonio di marca”, una risorsa immateriale dell’impresa che si fonda sulla conoscenza di una marca da parte di un preciso segmento di mercato. L’attenzione che pone Aaker è proprio sulle strategie di gestione della brand equity da parte di un’impresa e, a tal proposito, individua quattro componenti fondamentali: 1. Fedeltà della marca: esprime la misura dell’attaccamento al brand da parte del consumatore. Per un’azienda è molto più faticoso e dispendioso conquistare nuovi consumatori piuttosto che consolidare quelli esistenti. Questi ultimi infatti, soprattutto se soddisfatti del prodotto possono farsi promotori e consentire all’azienda di acquisirne di nuovi. La fedeltà dei consumatori scoraggia la concorrenza e consente all’azienda di imporsi sul mercato come leader. 2. Notorietà del nome o del marchio: è un fattore rassicurante per il consumatore perché ritiene che il brand noto sia più affidabile e che la sua notorietà si rifletti anche nella qualità. La top of mind è quella che Aaker definisce la prima marca spontaneamente citata.
  • 21. 21 3. Qualità percepita: ha un influenza diretta sulle decisioni di acquisto e sulla fedeltà della marca perché esprime la percezione del consumatore sulla qualità globale e sulla superiorità rispetto alle alternative. 4. Associazioni di marca: sono le associazioni che nascono nella mente di un consumatore rispetto ad una marca. Anche la “situazione d’uso” è un associazione che funge come motivo di acquisto che attrae il consumatore, come anche lo stile di vita o l’associazione a un personaggio noto. Il Costumer-Based Brand Equity model di Kevin Lane Keller del 1993 fornisce un punto di vista unico e prezioso sul valore del brand e sulle modalità con cui costruirlo. L’autore afferma che da un punto di vista del cliente le basi attraverso cui si crea valore di marca sono sostanzialmente due: la brand awareness (consapevolezza della marca) e la brand image (immagine di marca). Per brand awareness si intende la capacità del brand di essere ricordato e riconosciuto, e questo dipende dal processo mentale con cui il consumatore lo identifica. In generale, possiamo dire che la consapevolezza del brand si alimenta con l’esposizione ripetuta a stimoli per favorire il riconoscimento e con la promozione di associazioni forti con la categoria di appartenenza. Keller individua due livelli di brand awareness in base a quanto il cliente conosce la marca, che definisce brand recognition (capacità del consumatore di riconoscere la marca attraverso uno stimolo esterno) e brand recall (capacità del consumatore di ricordare la marca a prescindere da stimoli esterni espliciti). La brand image invece racchiude in sé le percezioni da parte dei consumatori in termini di valori e significati rispetto al sistema dell’offerta dell’impresa. Keller poi, pone l’accento sugli elementi su cui puntare per creare un’immagine di marca forte e nello specifico, sulle associazioni di marca che suddivide in: a) attributi del sistema dell’offerta che sono gli elementi di base o distintivi che compongono e caratterizzano l’offerta rispetto alla concorrenza, b) benefici di prodotto percepiti dai consumatori che sono la personale percezione che i consumatori hanno degli attributi di prodotto e infine c) l’atteggiamento verso la marca che riguarda la valutazione e le idee che i consumatori hanno verso una marca.
  • 22. 22 Per Kotler (2007) invece, il valore della marca è il valore aggiunto che una marca conferisce ad un prodotto o servizio. Tale valore si riflette sia nelle idee, nelle percezioni e nelle reazioni dei consumatori nei confronti della marca, sia nei prezzi, nella quota di mercato e nella profittabilità della marca stessa per l’impresa. Il vero potere di una marca risiede in quello che i consumatori hanno visto, letto, sentito, appreso, pensato e provato nei confronti della marca nel tempo. In sostanza, dipende molto dalle esperienze dirette e indirette dei clienti abituali e potenziali con la marca, e da come queste esperienze abbiano plasmato le loro immagini mentali, le loro credenze e il modo di rapportarsi ad essa rispetto alla concorrenza. E’ molto importante per un’azienda lavorare sulle attività di marketing che sono alla base di una corretta comunicazione delle potenzialità e dei benefici attesi di un prodotto. Il valore della marca basato sul cliente può essere definito come “l’impatto della conoscenza della marca sulla reazione del consumatore alle attività di marketing per la marca stessa”(Kotler, 2007,p.339). Per creare una marca forte e con una brand identity ben definita è importante per gli operatori di marketing, assicurare ai clienti il giusto tipo di esperienza sul prodotto o servizio fornito, al fine di favorire una corretta e adeguata conoscenza della marca. Secondo Keller (2003) ci sono diversi elementi di rischio da tenere a mente e cercare di evitare durante la fase di costruzione del valore di marca per fornire sicurezza al consumatore e ridurre l’incertezza nella scelta rispetto ad un’altra marca: a) rischio economico quando il prodotto potrebbe non valere il prezzo pagato, b) rischio funzionale quando il prodotto non è all’altezza delle aspettative promesse rispetto alle prestazioni ottenute, c) rischio sociale quando il prodotto potrebbe non garantire la legittimazione sociale della scelta, d) rischio di integrità fisica nel caso in cui il prodotto rappresenti un pericolo per chi lo utilizza, e) rischio psicologico quando il prodotto non contribuirebbe anche al benessere economico dell’utente, f) rischio temporale quando il prodotto induce il cliente a perdere tempo a causa di problemi di gestione e utilizzo e, infine, g) rischio del ‘mordi e fuggi’ quando il prodotto potrebbe avere una carente assistenza e supporto tecnico durante il suo utilizzo, eventualmente necessaria.
  • 23. 23 2.3 La Brand Identity e il Prisma di Kapferer Con il termine Brand Identity o identità aziendale si intende l’insieme degli aspetti e degli elementi grafico-comunicativi che determinano la percezione e la reputazione di un brand da parte del suo pubblico. Quella percezione che si basa su emozione ed istinto e che, in qualche modo determina il gradimento e di conseguenza il successo di un marchio. La brand identity è il sistema di significati, valori, di associazioni simboliche e promesse fatte ai consumatori. La Brand Identity può essere vista come l’insieme di elementi espressivi utilizzati da un’azienda per veicolare le credenziali di una marca (Pratesi, 2006). L’identità di un brand è un processo controllabile solo in parte dell’azienda infatti non può essere imposta, ma recepita dai consumatori secondo il loro personale punto di vista. Proprio per questo motivo il brand può assumere un’identità diversa da quella programmata nella strategia iniziale. Le principali dimensioni che compongono la brand identity sono a) la cultura è quella parte intangibile dell’azienda, un vero e proprio patrimonio inserito all’interno dell’azienda che racconta la storia e lo sviluppo nel tempo dell’impresa, b) i valori sono il modo di essere di un’azienda, dei veri e propri punti di riferimento, il modo di comportarsi nelle varie situazioni, c) la mission è l’obiettivo principale dell’azienda, quello che vorrebbe essere ed è una promessa nei confronti degli stakeholder, d) la personalità proprio come con le persone anche ad un’azienda vengono attribuite caratteristiche di personalità ed è importante che siano ben definite per distinguersi dalla concorrenza. Inoltre devono essere comunicate in modo chiaro e dovrebbero trovare riscontro nella realtà e nelle percezioni dei consumatori, e) l’essenza è l’obiettivo a lungo termine più importante per un’azienda ed è ciò che la marca si propone di soddisfare (Pratesi, 2006). L’obiettivo principale dell’identità di marca, quindi, è quello di comunicare messaggi che siano il più coerenti tra loro al fine di far durare la marca più a lungo possibile. La fase di comunicazione inoltre è la fase conclusiva nel percorso di costruzione di una brand identity.
  • 24. 24 Jean Noel Kapferer (1997) ha teorizzato un modello che riguarda la costruzione dell’identità di marca, rappresentato attraverso un prisma a sei facce (Fig.1). Fig.1 – Fonte: Pinterest Secondo questo modello, l’identità si compone di sei elementi costituenti: 1. Fisici (Physique): è l’insieme delle caratteristiche intrinseche ed esteriori associate alla marca e percepibili in modo oggettivo dal mercato obiettivo. Sono gli elementi di base della marca come il colore, il design o la forma (Baffo della Nike, la M gialla del McDonald’s). 2. Personalità (Personality): è il modo di essere, di presentarsi al pubblico, è il modo di porgersi, il tone of voice, il carattere, ed è tagliato su misura rispetto al mercato obiettivo. E’ proprio come con le persone, anche le marche hanno la loro personalità che le distingue dai competitor in modo specifico (Sisley è provocatoria).
  • 25. 25 3. Cultura (Culture): è il sistema di valori a cui la marca attinge. Può trattarsi del Paese o luogo di appartenenza piuttosto che di una tecnologia specifica o di specifici valori come quelli di Barilla per la famiglia o l’accettazione del diverso da parte del marchio Benetton. 4. Relazione (Relationship): si basa sul rapporto tra il cliente e la marca. E’ proprio il valore aggiunto che l’azienda può offrire al suo pubblico. Può essere un tipo di rapporto interpersonale o una causa sociale che l’azienda sente di portare avanti (il lusso di Lacoste, la festa per la Nutella). 5. Immagine Riflessa (Reflection): chi acquista un determinato prodotto vuole identificarsi con il prototipo di cliente per cui quello stesso prodotto è pensato. E’ il modo in cui la clientela vorrebbe essere vista (Coraggio per Sector, Lusso per Fendi). 6. Auto-immagine o mentalizzazione (Self-image): è come il consumatore si sente utilizzando il prodotto della marca. E’ lo stesso principio del processo di Reflection , ma in maniera autoreferenziale. La percezione che proviamo utilizzando quel dato prodotto (usare Apple per essere al passo con i tempi).
  • 26. 26 2.4 Le Brand Alliances: Il Co-Branding La forte competizione tra produttori e rivenditori, il breve ciclo di vita del prodotto e la sempre più sofisticata domanda da parte dei consumatori hanno portato le aziende a ricercare altre possibilità di sviluppo del proprio brand. Sotto questo punto di vista, la collaborazione tra brand può dare un grande vantaggio competitivo oltre che per i prodotti anche in termini di brand equity. Nel panorama delle alleanze tra brand trova spazio il co-branding che si verifica quando due o più brand sono combinati insieme per creare un nuovo prodotto o quando sono commercializzati insieme. Il co-branding rappresenta “una strategia di alleanza tra brand a lungo termine dove un prodotto è marcato e identificato simultaneamente da due brand” (Helming et al.,2008). I partner coinvolti nell’operazione di co-branding dovrebbero essere indipendenti prima e dopo il progetto di collaborazione su un prodotto e questo dovrebbe essere comunicato in maniera chiara ai potenziali consumatori. Inoltre, la “combinazione di due brand fornisce più garanzia sulla qualità di un prodotto di quello che può fare un singolo brand” (Rao et al., 1999) anche se, spiegando il meccanismo dei segnali nel Co-branding, Rao e Ruekert (1994, p.89) sostengono che “se il brandname di un prodotto dà un certo segnale di qualità, allora la presenza di un secondo brandname sul prodotto dovrebbe risultare in un segnale che è almeno potente, se non di più, del segnale nel caso in cui il brandname fosse singolo”. Nel caso di co-branding è doveroso distinguere due tipi di brand-partner: uno invitato per la cooperazione, l’altro che propone la collaborazione (Grebosz, 2008). In ogni caso il co-branding è un mezzo molto potente per lo sviluppo nel mercato da parte di un’industria. E’ capace di portare nuovi clienti per i prodotti, rinfrescare l’immagine del brand e aumentare la condivisione di mercato e lo sviluppo di nuove tecnologie in azienda attraverso lo scambio di conoscenze tecniche (Grebosz, 2012). Ed è inoltre un metodo per minimizzare i costi. Le collaborazioni tra brand dovrebbero aumentare la brand equity di entrambi i partner coinvolti e in generale aggiungere valore alla collaborazione. Inoltre, anche il co-branding ha dei limiti ben precisi: infatti questa relazione tra brand
  • 27. 27 include contratti e licenze di varia natura lungo il percorso, ed entrambi i brand devono “coordinare accuratamente le loro attività di marketing e prendersi cura del proprio brand e di quello del partner per proteggere la loro immagine finale; infatti un’operazione di co-branding con scarso successo, potrebbe influenzare negativamente il patrimonio di marca e limitare la portata di mercato o addirittura scoraggiare i clienti esistenti” (Kotler, Armstrong, 2009). La letteratura riguardo alle Brand Alliance è piuttosto recente e non ci sono molti contributi, ma diversi autori concordano sulle opportunità che può offrire un’operazione di co-branding come, la riqualificazione di una brand image esistente, il rafforzamento di una brand equity ben radicata e la possibilità di sfruttare conoscenze e competenze tecniche nell’incontro tra due brand che collaborano insieme per un prodotto unico. Oltre al co-branding esistono una varietà di strategie di brand alliance che includono (Helmig et al., 2008):  Joint Sales Promotion: in cui l’elemento chiave è la collaborazione tra brand in termini di “promozione” delle vendite, dando al cliente un valore aggiunto. Ad esempio, la catena di ristoranti fast-food McDonald’s per un periodo regalava bicchieri in vetro da collezionare per ogni menù acquistato;  Advertising Alliance: è un’alleanza tra brand basata sulla promozione di due brand insieme rispetto all’utilizzo (Kellogg’s e Tropicana);  Merchandising: è un’attività al servizio del prodotto e della sua promozione, licensing (la tazza brandizzata “Sapienza” per esempio);  Sponsorship: quando un’azienda divenda Sponsor di un’altra azienda (Tim per la Serie-A Calcio);  Dual Branding: quando l’attività di due brand avviene in un luogo comune, “shop in shop concept” (Burger King alla stazione di servizio Shell);  Bundling: è un tipo di vendita abbinata, per “pacchetti”. Tipica dell’imprese che producono prodotti differenti che decidono di vendere insieme. In questo caso i prodotti non sono venduti separatamente;
  • 28. 28  Celebrity Endorsment: utilizzo di un testimonial che porta con se i valori del brand per attivare processi di transfert (Fiona May per Kinder Fette al latte); Inoltre ci sono le Cause Alliances (basate sulla promozione di cause sociali attraverso un brand), le Cross Promotion (la promozione incrociata per generare traffico su entrambi i brand partner oggetto della campagna pubblicitaria), le Ingredient Branding (basate sull’aggiunta in un prodotto come componente di qualità, ad esempio intel nei Personal Computer) e infine le Brand e Line Extension. 2.5 Brand e Line Extension La Brand Extension viene definita come una strategia di Marketing dove un’azienda con un’immagine ben nota utilizza lo stesso brand per una categoria di prodotti differente. Se invece la stessa operazione accade all’interno della stessa categoria di prodotti allora si parla di Line Extension che per Aaker (1991) è la modifica parziale di un prodotto già esistente. Il processo per attuare un’estensione di un marchio è piuttosto lungo e spesso impiega la presenza di un gran numero di risorse per essere attuato. Inoltre segue una vera e propria strategia studiata meticolosamente. L’azienda che decide di posizionarsi e sviluppare una nuova categoria di prodotti dovrebbe avere le competenze tecniche e un certo know-how per progettare un tale cambiamento. Le estensioni di linea o di categoria posso servire ad un brand per conquistare nuovi consumatori ed aumentare la propria copertura di mercato. Le implicazioni per le aziende ed i loro marchi variano se si parla di estensioni di linea o di categoria. Un'estensione di categoria è più difficile da praticare in quanto il rischio è maggiore. Infatti, il marchio viene apposto su un prodotto diverso da quello che i clienti di solito vi associano. Allo stesso tempo, ai clienti viene richiesto di affrontare una nuova alternativa a loro sconosciuta, percepita dunque come un rischio maggiore nella decisione di acquisto, potrebbero perciò essere meno propensi a testare il nuovo prodotto (Pervez, 2005). L’estensione di categoria può essere distinta tenendo conto di quanto il nuovo prodotto sia correlato o meno con quello originale. L’estensione non
  • 29. 29 correlata del marchio viene definita anche come brand stretching (Jobber, 2001). Un caso emblematico di brand stretching è quello della Virgin, che ha inizialmente avuto successo nel campo della produzione discografica, per poi espandersi nell’abbigliamento, alle bibite analcoliche e addirittura alle linee aeree. Un successo che l’azienda deve soprattutto alla figura di Richard Branson fondatore e fonte di ispirazione dell’azienda, che oggi conta 35.000 dipendenti in tutto il mondo per un fatturato annuale di 5 miliardi di sterline. 2.6 Il risultato delle strategie di Co-Branding Le strategie di co-Branding richiedono sempre una certa attenzione durante tutto il loro processo di sviluppo e nascono per generare dei risultati tangibili e misurabili. A questo punto si andranno ad analizzare gli effetti diretti di questa Brand Alliance in termini di valutazioni di marca e percezioni sul posizionamento dei consumatori, di Brand fit e Product fit nella selezione dei partner coinvolti nel co-Branding e le relative implicazioni manageriali. 2.6.1 Gli effetti diretti del Co-Branding Il lavoro concettuale di Rao e Ruekert (1994) e Rao (1997) si basa sulla profonda analisi di prodotti coinvolti in strategie di co-branding ed ha mostrato che i consumatori tendono a valutare meglio la qualità di un brand che ha attributi inosservabili quando è alleato con un secondo brand percepito come debole e vulnerabile dai consumatori. Vaidyanathan e Aggarwal (2000), invece, hanno analizzato il co-branding tra un brand conosciuto a livello nazionale e un brand privato sconosciuto e hanno dimostrato che un prodotto frutto di una collaborazione tra brand riceve più valutazioni positive se è incorporato ad un brand nazionale piuttosto conosciuto. Judith Washburn ha stabilito una diretta connessione tra la brand equity e i prodotti co-branded, mostrando che alta brand equity dei Brands Partner aumentava la percezione della brand equity sui co-branded products generando spesso, effetti positivi (Washburn, 1999).
  • 30. 30 2.6.2 Percezioni di Posizionamento dei consumatori sul Co-Branding L’impatto delle percezioni di strategie di posizionamento esistenti dei Brand Partner rispetto alle percezioni di posizionamento a seguito del co-branding è l’oggetto di studio di una ricerca di Singh e collaboratori (2014). Gli autori ritenevano che le percezioni su un nuovo prodotto co-branded fossero condizionate da quelle esistenti su ogni brand preso singolarmente prima del co-branding e che, una volta terminata la collaborazione, tornassero ad essere quelle iniziali. Fig.2 – Fonte: Marketing Intelligence & Planning Vol.32 No.2, 2014, p.148 I risultati della ricerca dimostrano come c’è un trasferimento di percezioni dei brands partner sul co-branding in cui sono coinvolti coerentemente con gli effetti evidenziati in studi precedenti sul transfer. Rao e Ruekert (1994) suggeriscono che la presenza di un secondo brandname sul prodotto può conferire un maggiore segnale di qualità quando un brand individuale non è in grado di comunicarla da solo.
  • 31. 31 2.6.3 Brand Fit e Product Fit La selezione dei Partner per una brand alliance è un problema piuttosto complicato perché ancora non si conoscono bene i driver che guidano o meno un’operazione di co-branding di successo (Helmig, 2008). Il termine “Fit” è stato inventato da Rao e Ruekert (1994) per indicare gli attributi di effetto complementare da tenere in considerazione nella riuscita del match tra due brand. Gli effetti del “Fit” sono stati studiati empiricamente da Simonin e Ruth (1998) come un duplice concetto: da una parte il product fit che il modo in cui i consumatori percepiscono due categorie di prodotto come ben combinate, dall’altra il brand fit ossia la congruenza tra le percezioni dei consumatori sui brands partner. Gli autori sostengono che sia il product fit che il brand fit abbiano un impatto simultaneo sulle valutazioni dei consumatori rispetto al co- branding. Ci si aspetta che una certa similarità tra brand aumenti il fit, ma una moderata incongruenza può aumentare le valutazioni a favore dei brand coinvolti: dopotutto anche i pezzi di puzzle si incastrano perché sono complementari e non perché sono simili (Meyers-Levy and Tybout, 1989). Proprio perché i motivi dei fit non sono ancora ben compresi, i contributi di ricerca non forniscono ancora indicazioni chiare in merito alle procedure che le aziende dovrebbero seguire per una scelta accurata nella selezione dei Partner per una brand alliance. 2.6.4 Implicazioni manageriali Generalmente i manager di un’azienda devono decidere se perseguire una branding strategy a medio o lungo termine. Le joint sales promotions, advertising alliances e le strategie di product bundling suggeriscono una vittoria rapida perché i costi di implementazione sono piuttosto bassi e i rischi sono limitati grazie alla breve durata della collaborazione tra brand. Invece il dual branding, la brand o line extension e le strategie di co-branding forniscono vantaggi a lunga durata. In generale ci si aspetta che una strategia di co-branding offra benefici migliori delle altre strategie. In paragone con una brand extension ad esempio, il co-branding aggiunge un tipo di valore al
  • 32. 32 prodotto che un singolo brand da solo non potrebbe dare. I manager che decidono di aumentare la forza di un brand debole dovrebbero preferire una strategia di co-branding anziché una brand extension perché sfrutterebbe la potenza degli effetti complementari. Infatti, quando un brand debole viene combinato con un brand forte si ha l’effetto denominato spill-over, in cui le caratteristiche positive del brand forte sono trasferite sul brand debole. La Figura 3 rappresenta la matrice decisionale per le strategie di branding che i manager di un’azienda dovrebbero seguire per orientarsi nella scelta della strategia più consona alla loro realtà aziendale. Il co-branding, la brand extension e il dual branding, rappresentano delle strategie a lungo termine dove l’impatto dei ricavi è maggiore rispetto al product bundling, le co-advertising e le co-promotion che sono invece, delle strategie a breve termine. Fig.3 – Fonte: Schmalenbach Business Review Vol.60 No.10, p.371 Tuttavia, anche se la scelta di un co-branding è la migliore fra le varie strategie di brand alliance, va sottolineato che il successo ottenuto da un co-branding è tale fintanto che il co-branding dura e genera associazioni positive nella mente dei consumatori. Pertanto, i brand manager dovrebbero prendere in considerazione come partner solo quei brand che hanno una forza simile alla loro, con delle valutazioni positive e in generale un’elevata brand equity.
  • 33. 33 CAPITOLO 3: ALGIDA E PERONI 3.1 La nostra Brand Alliance In questo capitolo si prenderà in considerazione l’idea di base da cui è partita questa Tesi di Laurea, ossia la volontà di realizzare una collaborazione tra due brand, un co-branding, tra due grandi aziende conosciute globalmente come Unilever e il Gruppo Peroni. Nello specifico i prodotti oggetto di indagine sono il ghiacciolo Freddolone di Algida, marchio appartenente al gruppo Unilever, e la nuova birra Peroni Chill Lemon. Dopo un’attenta analisi dei brand oggetto di ricerca e un breve accenno alle Case History di co-branding simili a questo, si passerà ad una valutazione di quelle che sono le condizioni di una Partner Commerciale di questo tipo rispetto alla normativa italiana vigente. 3.2 Unilever: La storia Unilever è un'azienda nata nel 1930 grazie alla fusione di due società, una olandese, la Margarine Unie specializzata nel settore alimentare e l'altra inglese, la Lever Brothers specializzata nel settore dei detergenti. L'azienda dal 1930 ad oggi ha avuto una forte espansione tanto che oggi è considerata una delle più grandi multinazionali nel settore dei beni di largo consumo. Algida, Dove, Lipton, Findus, Calvè e Cif sono solo alcuni dei marchi di Unilever che ad oggi conta oltre 400 marche in cento industrie presenti in tutto il mondo. Fig.4 – Logo Unilever
  • 34. 34 Unilever crea da sempre prodotti che aiutano le persone a vivere meglio e il suo intento è quello di ridurre il tempo dedicato alle faccende domestiche, di migliorare l'alimentazione dei suoi consumatori attraverso l'utilizzo di questi prodotti e a prendersi cura di se stessi e della loro famiglia. Questo forse è ciò che ha determinato negli anni il loro successo, basti pensare che oggi è presente in oltre 190 paesi, con 176.000 dipendenti, con un fatturato che supera i 55 miliardi di dollari e che la rende leader di mercato nel settore Ice Cream, Food, Home e Personal Care. L'attenzione alle multi-culture , la comprensione dei consumatori e lo sviluppo di prodotti specifici in base all'area geografica delle varie sedi di Unilever nel mondo, ha determinato nel tempo il suo successo. Infatti, il desiderio principale dell’azienda è quello di soddisfare le esigenze locali, rispettandone le caratteristiche specifiche e di impegnarsi ad agire in modo responsabile nei confronti della società. Unilever mette al servizio dei clienti locali tutta la sua conoscenza ed esperienza internazionale, assumendo la forma di una vera e propria multi-local multinational (Cherubini, 2007). Unilever Italia è attualmente la quarta azienda del largo consumo in Italia con una quota di mercato del 5% ed è una delle più importanti aziende in investimenti pubblicitari. In media un consumatore Unilever spende oltre 118€ l’anno e acquista 45 prodotti all’anno. La presenza in Italia è storicamente legata a due marchi, Omo e Gradina: il primo detersivo sintetico e la prima margarina da tavola proposti ai consumatori. Nel mercato alimentare italiano, che copre il 41% del business, Unilever è presente con alcuni tra i più noti marchi: Lipton, Knorr, Calvé, Algida, Magnum, Carte d'Or. Nel settore della cura della casa e della persona i marchi più conosciuti sono: Dove, Axe, Mentadent, Sunsilk, Clear, Cif, Coccolino, Lysoform, Svelto, Domestos.
  • 35. 35 3.2.1 La Mission Vitality e il nuovo Corporate Brand Unilever attraverso i propri brand soddisfa esigenze di nutrizione, di igiene e di cura della persona e il suo obiettivo è quello di aggiungere valore alla vita delle persone facendole sentire bene conferendole un bell'aspetto. Questa è la mission con cui l’azienda si descrive e, sensibile a temi come l’urbanizzazione, il cambiamento degli stili di vita e l’invecchiamento della popolazione è consapevole del fatto che il mondo in cui opera sta cambiando e vitality è la parola chiave di questo cambiamento perché sintetizza tutta una serie di bisogni che vanno dal praticare sani stili di vita, alla gratificazione personale, all'avere più tempo libero da poter trascorrere con la famiglia e gli amici. Per rimanere coerente con questa mission l’azienda ha modificato il suo logo che ora è composto da diversi simboli con immagini naturali finalizzate a comunicare gli obiettivi aziendali e a mantenere l’impegno della mission vitality. Nella Fig. 5 è rappresentato il logo attuale di Unilever che racchiude in sé tutta la filosofia aziendale con la descrizione di alcuni dei simboli presenti. Fig.5 – Descrizione dei pittogrammi del Logo Unilever
  • 36. 36 3.2.2 La Brand Strategy multimarca La carta vincente di Unilever risiede nel fatto di saper gestire e di saper introdurre diverse marche per soddisfare tutte le richieste che provengono dal mercato. Si pensi ad “Algida” che al suo interno ha altre marche di gelati come “Magnum”, “Cornetto” e “Solero”, o alle categorie di prodotti per la cura della casa come “Cif” e “Coccolino” , al tea “Lipton” e al brand “Dove”. Questa linea di condotta rende l’azienda molto più elastica ai cambiamenti repentini del mercato e sempre più differenziata nelle categorie di prodotto. Gli investimenti sulle multi-marche da parte di Unilever nel corso degli anni sono stati considerevoli e il numero di marchi è aumentato sempre più al punto che l’azienda ha deciso di riformulare il brand mix concentrandosi sulle marche forti e riformulando il portafoglio esistente da 1600 a 400 marchi, quaranta dei quali mondiali che l’impresa considera trainanti per portare avanti la Mission Vitality. Tra le altre strategie di brand che l’azienda propone costantemente, troviamo diverse brand extension per quel che riguarda i formati dei nuovi prodotti, ad esempio è possibile acquistare i gelati sia in confezioni da sei, sia in vaschetta o in formato mini al supermercato, sia venduti singolarmente in spiaggia, oppure un’altra strategia è quella di lanciare sul mercato un nuovo prodotto come il dentifricio “Zendium” nella categoria oral-care commercializzato nel 2015. Unilever investe molto in pubblicità sia online che offline, in promozioni nei punti vendita e, in eventi, concentrando tutti gli sforzi sulla qualità dei vari brand che nella mente del consumatore occupano uno spazio ben preciso e rappresentano, singolarmente, un mondo di valori ognuno diverso dall’altro. Il marchio preso in considerazione per il nostro co-branding con il Gruppo Peroni è Algida di proprietà Unilever.
  • 37. 37 3.2.3 Algida e il ghiacciolo “Freddolone” L'Algida fu fondata a Roma nel 1945 da Italo Barbiani, un ex lavoratore della Gelateria Fassi e da Alfred Wiesner. Nel 1974 il capitale sociale della società era di 40 milioni di lire ed fu acquisita dalla multinazionale anglo-olandese Unilever. Il primo prodotto venuto alla luce era un gelato alla panna ricoperto di cacao magro sorretto da un bastoncino di legno: si chiamava Cremino. Da allora il marchio Algida è diventato sinonimo di qualità e innovazione legandosi, di generazione in generazione, ai momenti più belli e spensierati delle nostre estati. Se all'inizio l'offerta era caratterizzata principalmente dai gelati cosiddetti da passeggio, confezionati singolarmente e venduti nei bar, successivamente la gamma Algida si e' arricchita di prodotti dedicati al consumo casalingo, come torte, vaschette e confezioni multiple di gelati da passeggio in vendita nei supermercati. In questa continua ricerca della soddisfazione dei nuovi bisogni dei consumatori, sono nati negli ultimi anni prodotti innovativi e di grande successo: dagli storici Cornetto, Cremino, Fiordifragola, Croccante, Cucciolone a prodotti piu' recenti come Magnum e Solero. E ancora la Viennetta e la ricca gamma di dessert Carte d'Or che comprende vaschette, coppe e torte. Tutto questo ha permesso ad Algida di diventare non solo il brand più amato nel mondo dei gelati ma anche uno dei marchi in assoluto più noti ed apprezzati dagli italiani. Il Freddolone è il ghiacciolo Algida per eccellenza, disponibile al limone, cola, amarena, menta e arancio, è il prodotto oggetto del nostro co-branding con la birra Peroni Chill Lemon. Fig. 6 – Logo Algida
  • 38. 38 3.3 Birra Peroni Birra Peroni nasce nel 1846 a Vigevano grazie a Francesco Peroni, un giovane imprenditore figlio di produttori di “pasta” che decise di mettersi in proprio e realizzare il suo birrificio. Il marchio si afferma nel 1864 con l’apertura del primo stabilimento romano guidato dai figli di Francesco Peroni, Giovanni e Cesare. Pur sapendo quanto fosse fiorente il mercato birrario dell’epoca, Giovanni e Cesare avevano capito che, vista la concorrenza, avrebbero dovuto tenere alta l’innovazione e migliorare le tecniche di produzione e infatti, più tardi, Cesare si trasferisce in Germania per capire tutti i segreti della produzione della birra e i suoi processi innovativi. Innovazione che rimane tutt’oggi e fa di Birra Peroni un vero e proprio leader di mercato con una produzione annua di 5 milioni di ettolitri di cui oltre un milione in sola esportazione (Archivio Storico Peroni). “Essere l’azienda a livello globale più stimata nel settore della birra” è la vision del Gruppo Peroni, ma la mission, che rappresenta la sfida più grande e gli obiettivi che si vogliono perseguire è quella di “gestire e sviluppare brand locali e internazionali che rappresentino la prima scelta del consumatore” e in qualche modo, nel tempo, ci sta riuscendo. Oggi infatti, i suoi marchi principali sono: Peroni, Nastro Azzurro e Pilsner Urquell. A questi si aggiungono altri marchi di prestigio sia nazionali che internazionali, come Miller Genuine Draft, St. Stefanus, Grolsch, Tourtel, Peroni Gran Riserva Doppio Malto, Peroni Gran Riserva Rossa, Peroni Gran Riserva Puro Malto, Peroni Forte, Peroni Senza Glutine, Peroni Chill Lemon, Peroncino, Raffo, Crystall Wuhrer e Wuhrer. Fig.8 – Logo Birra Peroni
  • 39. 39 Da un punto di vista pubblicitario la Peroni ha da sempre dato molti contributi e già dal 1967 con l’attrice tedesca Solvi Stubing che è stata la prima a pronunciare la frase "Chiamami Peroni, sarò la tua birra", dando il la alla storia pubblicitaria di Birra Peroni. L'attrice appare come protagonista in molti Caroselli con Mario Girotti - il Terence Hill dei giorni nostri - in questo frame dell'inseguimento. La Stubing infatti si fa rincorrere dal suo corteggiatore e cede alle sue avances solo quando il giovane le mostra la Birra Peroni. La pubblicità è stata curata da Armando Testa, uno dei più importanti tra pubblicitari e disegnatori italiani dell’ultimo secolo. Contestualmente al Carosello, nascono i primi manifesti della Birra Peroni come quello della Figura 9. 3.3.1 Peroni Chill Lemon e il Vertical Summer Tour “Nasce da un incontro unico, il gusto rotondo e bilanciato di Peroni e il potere dissetante del succo di limone, per regalare un’esperienza tutta nuova” questo è ciò che il gruppo Peroni esprime rispetto al mondo Chill Lemon che infatti è l’unica radler ad essere prodotta con Malto e Limoni 100% Italiani, in grado di conferirle un profumo di limoni appena colti e un gusto rinfrescante e naturale, che la rendono un prodotto di altà qualità oltre che una prima scelta nel settore delle birre radler. Il target di riferimento dell’Universo Chill è giovane, fresco, fatto di allegria, brio e spensieratezza, dove godere a pieno i momenti di relax tipici dell’estate e divertirsi in spiaggia con gli amici. Non a caso Fig.9 – Primo Manifesto pubblicitario Fig.10
  • 40. 40 il gruppo Peroni, ha organizzato l’estate scorsa il Vertical Summer Tour, un evento itinerante con il fine di portare sulla spiaggia il mondo Chill Lemon attraverso stand in cui era possibile provare e degustare prodotti e ritirare gadget brandizzati messi a disposizione dai Partner della manifestazione. Inoltre in questi stand Peroni Chill Lemon c’era una vera e propria area attrezzata per l’attività quotidiane come se fosse un villaggio turistico e quindi, calcio balilla, balli di gruppo, beach-volley, animazione e al calar del sole aperitivi e djset per tutta la sera. Eventi come questo, contribuiscono ad aumentare la Brand Equity di Birra Peroni e, a lavorare sulla costruzione della Brand Identity della marca Peroni Chill Lemon. 3.4 Case History Dal momento che l’idea di partenza è quella di realizzare un nuovo prodotto, ossia un ghiacciolo alla Birra sarebbe giusto identificare se in passato ci sono stati casi simili al nostro, in cui alcune aziende hanno collaborato alla realizzazione di un ghiacciolo o gelato alcolico. Si prenderanno in esame quindi, alcuni eventi dedicati all’utilizzo di alcolici nei prodotti come gelati e ghiaccioli piuttosto che veri e propri produttori. Ora vedremo alcuni casi selezionati e spiegati in dettaglio. 3.4.1 Ghiaccioli, Gelati e Milkshake alcolici: Il nuovo trend newyorkese A New York i bar e i club più in della Grande Mela si sono preparati ad affrontare l’estate con delle nuove e deliziose proposte come i ghiaccioli alcolici con Rum e Bourbon che sono diventati una vera e propria tendenza. L’alcol corrisponde a circa un 20% del ghiacciolo, perché il sapore deve essere forte, ma non eccessivo. Gli esperti assicurano che non è molto facile trovare il giusto equilibrio tra l’alcol e gli altri ingredienti: se è troppo poco il sapore non sarà abbastanza forte, se è troppo ci saranno invece dei problemi nel ghiacciarlo. Nel Conrad Hotel di New York servono dei gustosissimi ghiaccioli alla frutta in bicchieri di prosecco. Piacciono molto anche i milkshake
  • 41. 41 “corretti” così come i gelati. Il segreto sta anche nel loro appeal, nel loro sembrare degli snack da bambini ma con uno sprint in più. 3.4.2 Il Festival del gelato per adulti di Londra e il drink gelato di Roma Il Festival del gelato alcolico è ambientato nel parco giochi del quartiere di Hackney ed è dedicato ai ghiaccioli alcolici, ai gelati all’azoto liquido e agli yogurt ghiacciati. Oltre a questo la manifestazione prevede che il ricavato andrà a sostenere un ente no profit che si occupa di bambini con disabilità. Inoltre, la location del parco giochi offre la possibilità ai grandi golosi che si vogliono sentire piccoli almeno per un giorno di utilizzare scivoli e altalene. A Roma invece, tre ragazzi con una grande voglia di sperimentare due settori , quello del gelato e quello del mondo notturno dei cocktail bar hanno organizzato un evento nella location straordinaria e inusuale a bordo piscina di un Hotel 5 Stelle lusso al centro di Roma, al Parco dei Principi, dedicato alla presentazione di un nuovo prodotto: un gelato artigianale superalcolico proposto in sei gusti prettamente identici ai drink più bevuti. Una volta trovato il modo di stabilizzare il gelato, hanno realizzato sei gusti alcolici: Mojito, Moscow Mule, Spritz, Aviation, Caipiroska e Margarita. Questo ha permesso di capire che qualunque cocktail può essere trasformato da liquido a solido, o semisolido. Al momento i gusti più richiesti e apprezzati sono lo Spritz e il Moscow Mule, ma naturalmente anche gli altri sono molto gettonati. I cocktail gelato vanno consumati entro tre o quattro giorni dalla preparazione, non tanto perché non più buoni, ma perché perdono di gradazione alcolica. 3.4.3 Il caso del “N1CE” – Ghiacciolo Alcolico Svedese Il gelato diventato oggetto di controversia si chiama "N1CE" ed è entrato in commercio per la prima volta lo scorso anno. Solo in Svezia ne sono state vendute più di 1,5 milioni di porzioni. Ogni porzione contiene il 5% di alcol ed è disponibile ai gusti mojito, pina colada, margaritas e daiquiri. Secondo il produttore, l'alcol contenuto nel gelato serve solo a dare un sapore originale.
  • 42. 42 Dato che il gelato appartiene alla categoria dei generi alimentari, la sua vendita non richiede una licenza speciale. Ma gli acquirenti non dovrebbero essere minori di 18 anni e dovrebbero confermare la loro età esibendo al venditore un documento d'identità. Fig.11 In base alla legislazione svedese, il gelato alcolico, a differenza delle bevande, può essere venduto nei supermercati. Il più grande negozio on line di prodotti alimentari in Svezia “mathem.se” , dopo un lunga esitazione, ha inserito il gelato alcolico nel suo catalogo. La Svezia storicamente faceva parte della cosiddetta "cintura della vodka" che comprendeva Scandinavia, i Paesi Baltici, Bielorussia, Ucraina e Russia. Nel 1905, per combattere i problemi causati dall'alcol, il governo svedese ha introdotto il monopolio sulla sua vendita, fissando i prezzi più alti in Europa per prodotti alcolici. Quando la Svezia ha aderito all'Unione Europea nel 1995, il consumo di alcol è aumentato a causa della progressiva perdita dello stato di quegli strumenti che hanno influito sul prezzo e la disponibilità. Il consumo così è aumentato dagli 8 litri per persona del 1996 ai 9,9 litri del 2013. Casi simili riguardanti gelati alcolici si sono registrati anche in Danimarca, che, a differenza della Svezia, ha una politica più liberale sulla vendita degli alcolici. Non è la prima volta che un gelato alcolico accende il dissenso nei paesi nordici. Più di dieci anni fa il gelato "Vodka-Goblin" è stato ritirato dagli scaffali dei negozi di tutta la Scandinavia.
  • 43. 43 3.5 Normativa Italiana sugli alcolici e sui gelati Nel processo di co-branding tra i marchi Algida Freddolone e Peroni Chill Lemon è opportuno prendere consapevolezza delle discipline che regolano le norme di condotta sull’utilizzo di alcolici all’interno di gelati e le norme di somministrazione di bevande a minori, considerando che il pubblico giovanile prende una buona parte dei consumatori di gelato. Somministrazione di bevande alcoliche a minori o a infermi di mente: La norma prevede il divieto, da parte di un esercente di un locale pubblico, di somministrare bevande alcoliche ai minori di 16 anni o a persone che appaiono in condizioni mentali tali da pregiudicare le loro capacità di intendere e di volere. La violazione di tale norma è punita con la pena pecuniaria da €. 516,00 a €. 2.582,00 o con la pena della permanenza domiciliare da 15 a 45 giorni o quella del lavoro di pubblica utilità da 20 giorni a 6 mesi; la pena è aumentata se dal fatto deriva ubriachezza. La condanna comporta inoltre la sospensione dell'esercizio. Nel regolamento per l'esecuzione del T.U.18 giugno 1931, n. 773 delle Leggi di pubblica sicurezza (R.D. 1940 n:635), l'articolo 188 prevede inoltre che i minori di 18 anni non possano essere adibiti alla somministrazione di bevande alcoliche negli esercizi pubblici (Art.689 C.P.). Gelato alimentare: si intende una miscela che, attraverso un processo di congelamento durante la produzione, viene portata ad uno stato consistente come un impasto, come ad esempio il “Softeis”, che viene messa in commercio gelata ed è destinata ad essere consumata in tale stato; allo stato scongelato il gelato perde la sua forma e modifica la sua struttura. Il gelato viene prodotto impiegando in modo particolare il latte e i suoi derivati, uova, vari tipi di zuccheri, miele, acqua potabile, frutta, burro, grassi vegetali, aromi e/o prodotti alimentari coloranti. A seconda dei vari tipi e dei gusti di gelato, vengono impiegati anche altri ingredienti. Il gelato viene messo in commercio anche in combinazione con altri generi alimentari, per esempio con succhi di frutta, coperture, alcolici e cialde e confezionato in diverse forme come sandwich, cornetti o torte-gelato.
  • 44. 44 3.6 Confartigianato: Birra e Gelati in cima ai consumi dell’estate Per rinfrescarsi sotto la canicola d'agosto non c'è niente di meglio di un gelato o una birra. Rigorosamente artigiani. Lo sanno bene le famiglie italiane che - secondo una rilevazione della Confartigianato - spendono complessivamente per questi due prodotti, 3,1 miliardi di euro l'anno, equamente divisi tra 1.541 milioni di euro per i gelati e 1.523 milioni di euro per le birre. In media, ciascun nucleo familiare spende ogni anno 71,5 euro per i gelati e 70,7 euro per le birre. Che la qualità e la varietà di birre e gelati italiani sia sempre più apprezzata dai nostri connazionali e dai turisti stranieri lo dimostra il numero dei produttori artigiani: Confartigianato ha calcolato infatti che, per soddisfare la domanda di queste specialità, si muove un piccolo esercito di 15.969 imprese, di cui 15.702 pasticcerie e gelaterie e 267 birrifici. E negli ultimi 3 anni, i birrifici artigiani hanno registrato un vero e proprio boom, con un incremento del 61,8%, pari a una nuova impresa ogni 11 giorni. Chiariti i dubbi sulla rilevanza di prodotti come Birra e Gelato rispetto ai consumi estivi che coincidono con il picco di consumo di gelati e birra , appurato che si può utilizzare l’alcol all’interno di gelati e ghiaccioli e che, eventualmente, andrebbe venduto a maggiori di diciotto anni, non ci resta che stabilire quali potrebbero essere per Unilever e il Gruppo Peroni le condizioni per la Partnership Commerciale e il loro codice dei Business Partner. 3.7 Partnership Commerciale e Codice dei Business Partner Unilever si impegna a costruire rapporti di reciproco beneficio con fornitori, clienti e partner commerciali e si aspetta, a questo proposito, l’adesione dei partner a principi commerciali coerenti con i propri. Per soddisfare le aspettative dei consumatori, quali la qualità elevata e l'affidabilità dei prodotti, l’azienda crea strette relazioni di lavoro, spesso a lungo termine, con i business partner. Per agevolare questo approccio Unilever ha definito un Codice dei Business Partner compatibile e il Codice dei principi aziendali.
  • 45. 45 Il Codice definisce gli standard a cui dovranno aderire i business partner e contiene dieci principi che vanno dall'integrità aziendale alla responsabilità verso i dipendenti, i consumatori e l’ambiente. Nel 2004 Unilever ha introdotto il Codice in forma scritta presso tutti i fornitori diretti ("fornitori di primo livello"). L'approccio di partnership prevede la collaborazione con i collaboratori, in primo luogo, per stabilire la compatibilità degli standard e poi, ove necessario, per concordare misure e tempistica volte a conseguire i livelli di performance auspicati. Birra Peroni invece, vuole contribuire alla crescita e allo sviluppo socio- economico delle imprese che sostengono la propria catena del valore: dalla terra alla tavola. Per questo motivo cerca opportunità per creare nuove partnership e vuole impegnarsi con più partner della catena del valore. L’azienda mira ad espandere i propri programmi di sviluppo nei prossimi anni, sostenendo gli attori della propria catena del valore attraverso interventi mirati e promuovendo lo sviluppo di una filiera sempre più sostenibile, dalla terra alla tavola, dall’agricoltore che coltiva le materie prime di qualità al rivenditore dei propri prodotti. La promozione del consumo responsabile di alcol è fondamentale per Birra Peroni, che ha continuato a rafforzare negli anni, al proprio interno e all’esterno, la consapevolezza che la birra possa aggiungere piacere alla vita, solo se consumata moderatamente e in modo responsabile. Per questo, molte sono le attività e gli interventi messi in campo dall’azienda nel tempo per la sensibilizzazione verso un consumo moderato, responsabile e consapevole di alcol. La birra deve diventare la scelta naturale di chi beve con moderazione e responsabilmente.
  • 46. 46 CAPITOLO 4: IL GHIACCIOLO ALLA BIRRA 4.1 Freddolone e Peroni Chill Lemon: ipotesi di partenza L’idea di base di questa ricerca è stata quella di creare un co-branding tra il ghiacciolo Freddolone dell’Algida che, sebbene si posizioni principalmente verso un target di bambini, così come si evince dalla scheda prodotto riportata sul sito dell’Algida, resta la scelta più fresca e dissetante anche per gli adulti perché “rinfresca il palato lasciando in bocca il sapore intenso di limone”, e Peroni Chill Lemon “un universo super rinfrescante, giovane, fatto di allegria, brio e spensieratezza, dove godere a pieno i momenti di relax tipici dell’estate”. Si è pensato, seppur con qualche eccezione, che il ghiacciolo venga acquistato direttamente dal genitore, il quale, trovandosi in quella situazione, valuterebbe la possibilità di acquistarlo anche per sé. Da qui nasce l’idea di proporre un ghiacciolo per un mercato di adulti con una variante alcolica proponendo il co-branding con Peroni Chill Lemon. Un altro ipotetico buyer personas sono i nuovi adulti, giovani da poco maggiorenni e fino ai ventisei anni di età. Ci troviamo di fronte ad un co-branding che, almeno ipoteticamente, sarebbe rivolto a due diverse fette di mercato, genitori e figli. Si è pensato di realizzare un ghiacciolo con il gusto della Birra Peroni Chill Lemon cercando di mantenere invariata la gradazione alcolica di circa 2°. Inoltre, all’interno del ghiacciolo, c’è un vero e proprio cuore di birra al limone, che è possibile notare guardando il ghiacciolo a prima vista senza doverlo necessariamente mordere per vedere cosa c’è dentro. Per verificare queste ipotesi è stata usata la tecnica di indagine qualitativa del Focus Group, che sembra necessario approfondire in tutte le sue declinazioni. 4.2 Il Focus Group Il Focus Group è un intervista di gruppo o discussione di gruppo intorno ad un argomento composto da 6-10 persone attentamente selezionate in base a determinati criteri demografici, psicografici o in base ad altre variabili.
  • 47. 47 (Kotler,2007). I Focus Group inoltre sono condotti in maniera poco strutturata da un discussion leader o moderatore esperto. L’obiettivo principale è “indagare in profondità aspettative, atteggiamenti, opinioni, valutazioni, motivazioni dei consumatori-target ascoltando le loro discussioni su argomenti di interesse della ricerca”(Chirumbolo, Mannetti, 2004, pp.65). Per Krueger (1994) il Focus Group è una discussione pianificata al fine di ottenere informazioni sulla percezione dei soggetti partecipanti, rispetto ad una specifica area di interesse. Di solito la durata di un Focus Group è compresa tra una e tre ore e anche l’ambiente gioca un ruolo fondamentale, infatti non deve essere angusto e freddo bensì confortevole e accogliente. Ai partecipanti in genere viene offerto un piccolo rinfresco prima dell’inizio della discussione. Inoltre, il Focus Group prevede l’audio o videoregistrazione dietro consenso dei partecipanti e spesso la figura del moderatore si avvale di un recorder che si occupa di prendere appunti relativi alla posizione fisica dei partecipanti nello spazio, notare atteggiamenti come cambi di posizione, impressioni personali e comunicazione non verbale. Il recorder non deve inserirsi nella conduzione dell’intervista. Il Focus Group si attiva con un stimolo ben preciso da parte del moderatore che segue una traccia di conduzione o scaletta - precedentemente redatta in ogni sua parte - e procede attraverso questa, nella gestione delle interazioni tra i partecipanti. L’unità di analisi di questa tecnica qualitativa è il gruppo e ha per oggetto le sue dinamiche di interazione (Chirumbolo et al., 2004). I ricercatori comunque dovrebbero cercare di limitare le generalizzazioni dei dati e delle percezioni da parte dei partecipanti all’intervista perché i campioni sono piccoli, selezionati e poco rappresentativi della popolazione (Kotler 2007). L’ideale sarebbe, dopo una ricerca “esplorativa” tipica del Focus Group, pensare ad uno sviluppo della ricerca per mezzo di un questionario, o comunque con ulteriori metodologie e tecniche di analisi.
  • 48. 48 4.2.1 I partecipanti Una tra le cose fondamentali per un Focus Group sono i partecipanti che in genere sono selezionati attraverso un database di cui le agenzie specializzate nella ricerca qualitativa si avvalgono, per esempio cercando persone che utilizzano un dato prodotto oggetto di indagine (user) oppure ex consumatori o consumatori che non conoscono il prodotto o semplicemente lo conoscono ma non lo utilizzano. La ricerca per mezzo di database avviene anche attraverso variabili come età, genere, reddito, posizione sociale, componenti nucleo famigliare e informazioni psicografiche e comportamentali, proprio come accade nella segmentazione del mercato analizzata nel primo capitolo di questa Tesi. Il dubbio che i partecipanti vogliano dare una determinata immagine di sé in pubblico, o che avvertano il bisogno di identificarsi con altri membri del gruppo è molto forte. Questa tendenza a voler fornire risposte socialmente e culturalmente accettabili rispetto a ciò che realmente si pensa, è definita come desiderabilità sociale, costrutto ampiamente studiato e sul quale sono state costruite diverse scale di misurazione, tra cui quella di Marlowe e Crowne (1960), la MC-SDS, utilizzata per indagare questo costrutto. Poi c’è il problema del soggetto più carismatico che con le proprie posizioni limita il resto del gruppo. (Kotler, 2007). I partecipanti dovrebbero essere scelti in maniera omogenea e con l’idea che davvero possano dare un contributo all’oggetto di indagine altrimenti è facile pensare al fallimento della ricerca stessa. Tutti questi limiti possono essere arginati se ci si avvale di un moderatore esperto.
  • 49. 49 4.2.2 Il moderatore Fig.12 La conduzione di un Focus Group è forse la cosa più importante. Il moderatore gioca davvero un ruolo fondamentale e spesso viene anche definito facilitatore perché “ha il compito fondamentale di favorire e facilitare l’interazione e la comunicazione tra i partecipanti, in maniera da ottenere le informazioni necessarie” (Chirumbolo et al., 2004). La sua funzione principale è quella di moderare – e non intervistare - un Focus Group. In linea generale è possibile identificare due tipi di approcci adottati dal moderatore: un a) approccio non direttivo, in cui il ruolo del moderatore è molto marginale, propone il tema e le regole di interazione e lascia che la discussione tra i partecipanti sia spontanea e naturale e un b) approccio direttivo in cui ha un notevole controllo sul contenuto della discussione e sulle dinamiche di gruppo. Se la discussione è ferma e non trova una direzione oppure un membro del gruppo concentra l’attenzione solo su un determinato argomento impedendo agli altri partecipanti di intervenire, allora è opportuno che il moderatore intervenga. Anche lo stile del Focus Group è molto importante e ovviamente varia in base alla tipologia di indagine. Ci sono casi in cui è opportuno essere diretti e altri in cui la carta vincente è l’ascolto piuttosto che l’intrusività. E’ fondamentale eliminare credenze, pregiudizi e distorsioni delle informazioni provenienti dall’intervista di gruppo e sotto questo punto di vista è proprio il discussion leader che comunica ai partecipanti che è assolutamente normale
  • 50. 50 non avere all’inizio un’opinione sul tema proposto e formarsene una nel corso della discussione. Durante la discussione, il moderatore deve cercare di non prendere nessuna posizione riguardo il focus principale e anzi dovrebbe incoraggiare l’espressione del dissenso facendo capire ai partecipanti che è interessato ad ogni singolo punto di vista. Se le persone non sono interessate tendono ad essere passive e ad esprimersi poco rispetto al tema della discussione. E’ compito di un buon moderatore tenere vivo l’interesse per tutta la durata dell’indagine, individuando, ad esempio, una posizione forte evidenziata durante la discussione e chiedendo pareri a tutti i membri del focus group. 4.2.3 La classificazione dei Focus Group La suddivisione più diffusa di tipologia di Focus Group è quella di Calder (1977,1994) e adottata anche dalla Advertising Research Foundation (1985), che prevede tre approcci principali rispetto alla conduzione di un Focus: 1. Focus Group Fenomenologico (o esperenziale) in cui si formulano ipotesi dal punto di vista del consumatore da sottoporre a verifica nella fase di ricerca quantitativa. L’obiettivo è quello di comprendere le esperienze delle persone, il loro “microcosmo emotivo-cognitivo” rispetto all’oggetto di studio; 2. Focus Group Esplorativi, molto utili se non si conosce preliminarmente il fenomeno o prodotto oggetto di indagine perché si costruisce una base di conoscenza. Questo tipo di Focus Group sono tra i più utilizzati e spesso sono utilizzati come approccio creativo per generare e produrre nuove idee; 3. Focus Group Clinici, il cui intento è scoprire elementi del subconscio e non verbalizzati, servono per andare oltre le opinioni e capire quali sono i motivi di determinati comportamenti. Questo tipo di approccio è piuttosto soggettivo e inoltre è esposto a problemi di scarso rigore metodologico.
  • 51. 51 Il punto di forza delle analisi tradizionali dei Focus Group è “che producono report facilmente fruibili e molto apprezzati da manager e uomini d’azienda. Il punto di debolezza è il basso rigore metodologico nell’analisi dei dati” (Chirumbolo et al., 2004, p.69). In ogni caso il Focus Group rimane il modo più economico e rapido per ottenere informazioni su un’idea in poco tempo (Kotler, 2007). 4.3 Il nostro Focus Group La nostra intervista di gruppo ha preso in considerazione l’approccio che i partecipanti avevano nei confronti del prodotto “birra” e del prodotto “ghiacciolo”. In un primo momento abbiamo sondato semplicemente la valutazione della proposta attraverso l’illustrazione di un co-branding fittizio (senza i marchi coinvolti nel co-branding) per capire meglio se, a prescindere dalla conoscenza dei marchi oggetto di questa collaborazione, piacesse l’idea di avere all’interno di un ghiacciolo le caratteristiche di una birra, come il gusto, la freschezza e la gradazione alcolica. In un secondo momento dopo aver indagato le abitudini di consumo dei partecipanti rispetto alla birra e ai ghiaccioli, abbiamo presentato il co-branding ufficiale in tre varianti grafiche (descritte nel dettaglio più avanti), indagando eventuali intenzioni di acquisto e indicazioni di eventuali cambiamenti in relazione al target, al packaging, al brandname, al payoff, alla campagna pubblicitaria e alle sponsorizzazioni nel loro insieme. I partecipanti di questo Focus Group sono 5 uomini e 3 donne, tra i 24 e i 26 anni, principalmente provenienti da varie regioni del Sud Italia e studenti del corso di Laurea Magistrale in Psicologia della Comunicazione e del Marketing nella Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”. Inoltre, cinque di loro, lavorano saltuariamente oltre a studiare. L’intervista di gruppo si è tenuta all’interno dell’Aula Ponzo della Facoltà di Psicologia ed è stata videoregistrata su consenso dei partecipanti. Ha avuto una durata totale di un’ora e quaranta minuti e ai partecipanti è stato offerto un piccolo rinfresco prima di iniziare. Dopo la spiegazione del funzionamento del Focus, il consenso alla videoregistrazione e una breve presentazione di ognuno
  • 52. 52 dei partecipanti, si è entrati nel vivo dell’indagine, seguendo la scaletta con le domande preparate come traccia di conduzione del Focus Group. 4.4 Analisi dei dati In un primo momento, è stato chiesto ai partecipanti di osservare l’immagine del prodotto fittizio (Fig.13) , riprodotta su cartaceo, pensando che tipo di prodotto potesse essere, associandolo a dei marchi e immaginando dei gusti. Le risposte fornite sono state diverse: C. pone l’accento sullo stecco che, da un lato veniva visto come poco funzionale perché “ha lo stecco troppo corto e mi infastidisce perché mi sporco le mani, quindi mi da fastidio” e con una forma inusuale “il bastoncino non ha la forma classica”, dall’altro B. e D. hanno vagamente citato la somiglianza dello stecco ad una bottiglia di birra capovolta dicendo “il bastoncino sembra una bottiglia”. Il partecipante A. dice “mi sa tanto di prodotto sottomarca” mentre E. sostiene che “sembra un gelato con due gusti differenti, un gusto concentrato all’interno” e in effetti, il colore dorato centrale mette in evidenza la presenza di un ingrediente aggiunto che in qualche modo trova conferma con la nostra ipotesi di partenza. Quando è stato chiesto ai partecipanti che tipo di marca gli venisse in mente guardando questo prodotto la risposta fornita con maggiore frequenza è stata “Algida”, marchio top of mind anche se per F. “ha il colore del Solero, preciso e identico” e questo è un dato importante perché consente di immaginare quanto lavoro c’è stato dietro la costruzione dell’identità di brand di Solero, che oggi rappresenta uno dei marchi punta di Algida. Inoltre, questa considerazione ci fa riflettere su quanta penetrazione hanno i gelati confezionati rispetto al gelato artigianale nel mercato. Infatti, il consumo dei gelati è concentrato per il 50% nei 4 mesi tradizionalmente caldi. Fig.13
  • 53. 53 Ma se la ripartizione annuale è 75% di consumo di gelato confezionato e 25% di gelato sfuso, da metà maggio a metà settembre il mix vede crescere il gelato artigianale fino quasi al 50% del totale. Il 10% dei naviganti coinvolti nell’indagine sviluppata da Web-Research.it sostiene di sostituire il panino, il toast, la pizzetta, l’”insalatona” , il “piattino” che costituisce il pranzo veloce, lavorativo, dei giorni feriali con un gelato durante il periodo estivo. Nei 4 mesi caldi il 50% delle mamme che scrivono in rete i propri pareri riguardo al gelato afferma di sostituire la merenda pomeridiana dei propri figli con un gelato; nei restanti 8 mesi le stesse mamme dichiarano di comperare per i propri figli uno/ due, massimo tre gelati alla settimana. Questi dati sono piuttosto importanti rispetto al nostro lavoro perché ci fanno capire la direzione che dovrebbero prendere Unilever e Birra Peroni qualora volessero davvero collaborare alla creazione di un ghiacciolo o gelato alcolico. Sapere che il 75% del consumo annuale di gelati è di quelli confezionati ci fa ipotizzare che la direzione è giusta e che, sapendo che questa percentuale è destinata a scendere durante il periodo estivo, ci suggerisce che forse è meglio lanciare il prodotto in questione in primavera, o direttamente verso la fine della stagione estiva. A questo punto si è cercato di capire quale fosse il rapporto dei partecipanti al Focus Group con il prodotto “ghiacciolo” e mondo dei gelati e con il prodotto birra e alcolici. Per quanto riguarda il mondo dei gelati e i ghiaccioli, F. dice: “D’estate tendo a prendere ghiaccioli e gelati alla frutta mentre di inverno un po’ più golosi” e quasi tutti sono stati d’accordo con questo intervento sul fatto che sia preferibile mangiare il ghiacciolo durante l’estate mentre, l’inverno si concedono qualcosa di più goloso come un gelato artigianale. C’è anche chi è contrario a questo, come D. che invece dice “D’inverno non ho mai mangiato gelati”. Molto importante, inoltre, è la situazione d’utilizzo e di acquisto. In spiaggia, infatti, è più difficile reperire un gelato artigianale, cosa piuttosto facile in città. E su questo B. aggiunge “ il gelato confenzionato lo mangio solo nelle occasioni in cui ho difficoltà a reperire quello artigianale” e anche F. conferma questa posizione dicendo “il confenzionato lo compro in spiaggia nei bar”. Questi interventi ci suggeriscono una chiave di lettura importante per il