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In cella con l'amaca
Se non fosse una prigione, sarebbe da
fotografare. Quanto meno perché ci
darebbe una vittoria facile facile al
Guiness dei primati. Ad Açailândia, infatti,
hanno risolto il problema dello spazio
inventando le “amache a castello”. Ogni cella è
grande circa 5 metri per 5 e alcune arrivano ad
avere fino a 17 inquilini. Risultato? A ognuno
dei 117 detenuti può capitare di avere a
disposizione appena un metro quadrato e
mezzo. E così alla stanza non resta che crescere
in altezza.
Al piano terra ci stanno al massimo cinque o
sei materassi. Sovrastati da qualche piano di
amache che penzolano da tutte le pareti. E il
paesaggio è davvero di quelli assurdi, con
una miriade di letti volanti di tutti i colori
che si sfiorano e si allontanano in ogni
angolo della stanza. Sì, d’accordo,
qualunque cittadino del Nordest del
Brasile ha dormito almeno una volta in
un’amaca, soprattutto se è cresciuto in una
zona rurale. Ma un vero e proprio condominio
di questo genere forse non si era ancora visto.
L’unica a fare eccezione è la “cella di
riflessione”, come recita la scritta all’entrata.
Un modo carino per indicare l’isolamento a cui
è costretto chi ne ha combinata qualcuna o chi
ha bisogno di essere protetto dagli altri
detenuti. Si tratta di una stanza senza finestre,
con una piccolissima apertura nella porta che
consente agli addetti di consegnare il cibo a chi
sta dentro.
In questa cella – come in tutte le altre, del
resto – sembra di essere in un forno. Qui non
siamo molto lontani dall’equatore e fa un gran
caldo 365 giorni all’anno. Ma per capire questa
realtà bisogna aggiungere quell’odore di
umanità che caratterizza i luoghi ultra­affollati.
Naturalmente non siamo potuti entrare nelle
celle, ma già fuori dalle grate si sentiva arrivare
una ventata di calore.
A complicare la situazione ci si mette anche la
mancanza d’acqua. I detenuti, infatti,
raccontano da dietro le sbarre che i rubinetti
funzionano solo tre ore al giorno: una di
mattina, una dopo pranzo, una dopo cena. E
non sempre, quindi, l’acqua basta per
permettere a tutti di fare una doccia. «Una cosa
di questo genere non l’avevo mai vista, anche
se di prigioni ne ho già girate un sacco», ci dice
Luandarson.
Anche lui, come la maggior parte dei suoi
compagni di cella, ha un ventina d’anni.
Sia nella parte femminile, sia in quella
maschile, infatti, l’età media delle
persone che incontriamo è molto bassa.
Eppure sembra che qui nessuno sia
disposto a dare loro una speranza di
cambiamento. Non esiste praticamente alcun
progetto pensato per accompagnarli nel loro
percorso. Ogni tanto passa una psicologa, il
medico si vede una volta ogni due settimane e
l’infermiera tutti i giorni. Tolti loro, resta solo
la creatività dei detenuti e la collaborazione di
chi va a trovarli.
Molti dei giovani che abbiamo incontrato
hanno imparato a fare origami con il cartoncino
colorato (nella foto in alto, un cigno e un vaso
che ci ha regalato Gilson), grandi tappeti,
braccialetti, cavigliere, collane e altri oggetti. Il
gruppo della pastorale Carceraria con cui
siamo entrati nella prigione, composto da una
decina di volontari, cerca di favorire queste
Agosto 2013
Visita alla prigione di Açailândia. Gli abitanti di Rio de Janeiro a Piquiá de Baixo
117
I detenuti
nel presidio della città
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a disposizione
attività procurando tutto il materiale necessario
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questo modo, i detenuti possono raggranellare
qualche soldo per comprarsi generi di prima
necessità (come saponette e dentifricio) e
girare la parte restante alle proprie famiglie
(non possono tenere per sé più di 20 reais alla
settimana, pari a circa 8 euro).
Oltre a seguire queste attività e a visitare tutti i
lunedì le persone che si trovano in carcere, i
volontari cercano di fare rispettare i diritti
minimi dei detenuti. Proprio nel giorno in cui
siamo andati, per esempio, abbiamo
accompagnato Louciene in tribunale, dove
abbiamo scoperto che un ragazzo che avrebbe
avuto diritto agli arresti domiciliari da tre
settimane, in realtà si trovava ancora in cella.
Anche per i parenti e gli amici dei detenuti la
vita non è che sia proprio una passeggiata. Per
andare a fare una visita in prigione, infatti,
raccontano di perquisizioni estremamente
umilianti. Tanto le donne, quanto gli uomini,
vengono denudati ed esaminati
scrupolosamente per evitare che introducano
oggetti pericolosi, droga o altro.
La nostra visita è durata appena un’ora, ma è
bastata per farci uscire pieni di rabbia e
tristezza. Il sistema penitenziario sembra essere
strutturato con l’unico obiettivo di punire chi
ha sbagliato, senza dare alcuna possibilità di
riscatto e cambiamento. Insomma, nessuno
sembra credere che un ragazzo che in passato
ha fatto un errore possa riuscire a rimettere in
sesto la propria vita con un po’ di aiuto. E così
questi luoghi di “recupero” si trasformano
spesso in occasioni per affondare
definitivamente.
Dalla polvere di ferro alla pioggia d’argento
Qualche settimana fa Piquiá de Baixo ha
ricevuto la visita di alcuni abitanti di Santa
Cruz, un quartiere di Rio de Janeiro. Le due
comunità hanno deciso di incontrarsi e
scambiarsi idee ed esperienze perché entrambe
sono costrette a fare i conti con la presenza di
aziende siderurgiche che stanno distruggendo
le loro vite e l’ambiente che li circonda.
Nel corso di tre giorni, i due gruppi si sono
raccontati la realtà in cui stanno vivendo, le
modalità scelte per contrastare queste imprese
e i sogni per il futuro. Lo scorso aprile, una
rappresentanza di Piquiá era andata a Santa
Cruz per conoscere quella situazione. Questa
volta, invece, sono stati i cittadini di Rio a
visitare alcuni dei luoghi più significativi della
nostra comunità. Tra le altre cose, infatti,
hanno potuto vedere le distese di eucalipto
geneticamente modificato che hanno sostituito
la foresta nativa, le carbonaie, il deposito a
cielo aperto di detriti incandescenti che può
essere raggiunto facilmente da chiunque (in
passato è morto anche un bambino), la polvere
di ferro che si deposita continuamente nel
quartiere (a Santa Cruz, dove si produce
acciaio, si parla di “pioggia d’argento”).
Oltre a condividere le grandi sofferenze che
stanno vivendo, le due comunità si sono date
forza l’una con l’altra raccontandosi le vittorie
raggiunte finora e quelle che si iniziano a
intravedere. In particolare, è stata molto bella
la visita al terreno sul quale un giorno –
speriamo presto! – andranno ad abitare i
cittadini di Piquiá. Questo momento ha dato
anche un senso a tutte le battaglie fatte finora:
«I nostri figli non dovranno vivere i soprusi
che abbiamo subito noi».Il signor Anisio, cittadino di Piquiá de Baixo, nella distesa di eucalipto
Il terreno che un giorno ospiterà gli abitanti di Piquiá
Ricevi questa newsletter mensile perché pensiamo che tu possa essere interessato a seguire la nostra
esperienza ad Açailândia, in Brasile. Se vuoi cancellarti dalla mailing list rispondi a questa e­mail. Se altri amici
o conoscenti desiderano riceverla, mandaci una e­mail a uno di questi indirizzi: marcoratti76@yahoo.it
o valentina.caperdoni@gmail.com. I nostri contatti Skype sono: “marcoratti” o “valentina.caperdoni”.

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In cella con l'amaca

  • 1. In cella con l'amaca Se non fosse una prigione, sarebbe da fotografare. Quanto meno perché ci darebbe una vittoria facile facile al Guiness dei primati. Ad Açailândia, infatti, hanno risolto il problema dello spazio inventando le “amache a castello”. Ogni cella è grande circa 5 metri per 5 e alcune arrivano ad avere fino a 17 inquilini. Risultato? A ognuno dei 117 detenuti può capitare di avere a disposizione appena un metro quadrato e mezzo. E così alla stanza non resta che crescere in altezza. Al piano terra ci stanno al massimo cinque o sei materassi. Sovrastati da qualche piano di amache che penzolano da tutte le pareti. E il paesaggio è davvero di quelli assurdi, con una miriade di letti volanti di tutti i colori che si sfiorano e si allontanano in ogni angolo della stanza. Sì, d’accordo, qualunque cittadino del Nordest del Brasile ha dormito almeno una volta in un’amaca, soprattutto se è cresciuto in una zona rurale. Ma un vero e proprio condominio di questo genere forse non si era ancora visto. L’unica a fare eccezione è la “cella di riflessione”, come recita la scritta all’entrata. Un modo carino per indicare l’isolamento a cui è costretto chi ne ha combinata qualcuna o chi ha bisogno di essere protetto dagli altri detenuti. Si tratta di una stanza senza finestre, con una piccolissima apertura nella porta che consente agli addetti di consegnare il cibo a chi sta dentro. In questa cella – come in tutte le altre, del resto – sembra di essere in un forno. Qui non siamo molto lontani dall’equatore e fa un gran caldo 365 giorni all’anno. Ma per capire questa realtà bisogna aggiungere quell’odore di umanità che caratterizza i luoghi ultra­affollati. Naturalmente non siamo potuti entrare nelle celle, ma già fuori dalle grate si sentiva arrivare una ventata di calore. A complicare la situazione ci si mette anche la mancanza d’acqua. I detenuti, infatti, raccontano da dietro le sbarre che i rubinetti funzionano solo tre ore al giorno: una di mattina, una dopo pranzo, una dopo cena. E non sempre, quindi, l’acqua basta per permettere a tutti di fare una doccia. «Una cosa di questo genere non l’avevo mai vista, anche se di prigioni ne ho già girate un sacco», ci dice Luandarson. Anche lui, come la maggior parte dei suoi compagni di cella, ha un ventina d’anni. Sia nella parte femminile, sia in quella maschile, infatti, l’età media delle persone che incontriamo è molto bassa. Eppure sembra che qui nessuno sia disposto a dare loro una speranza di cambiamento. Non esiste praticamente alcun progetto pensato per accompagnarli nel loro percorso. Ogni tanto passa una psicologa, il medico si vede una volta ogni due settimane e l’infermiera tutti i giorni. Tolti loro, resta solo la creatività dei detenuti e la collaborazione di chi va a trovarli. Molti dei giovani che abbiamo incontrato hanno imparato a fare origami con il cartoncino colorato (nella foto in alto, un cigno e un vaso che ci ha regalato Gilson), grandi tappeti, braccialetti, cavigliere, collane e altri oggetti. Il gruppo della pastorale Carceraria con cui siamo entrati nella prigione, composto da una decina di volontari, cerca di favorire queste Agosto 2013 Visita alla prigione di Açailândia. Gli abitanti di Rio de Janeiro a Piquiá de Baixo 117 I detenuti nel presidio della città Ognuno ha 1,5 mq a disposizione
  • 2. attività procurando tutto il materiale necessario e cercando di vendere all’esterno i prodotti. In questo modo, i detenuti possono raggranellare qualche soldo per comprarsi generi di prima necessità (come saponette e dentifricio) e girare la parte restante alle proprie famiglie (non possono tenere per sé più di 20 reais alla settimana, pari a circa 8 euro). Oltre a seguire queste attività e a visitare tutti i lunedì le persone che si trovano in carcere, i volontari cercano di fare rispettare i diritti minimi dei detenuti. Proprio nel giorno in cui siamo andati, per esempio, abbiamo accompagnato Louciene in tribunale, dove abbiamo scoperto che un ragazzo che avrebbe avuto diritto agli arresti domiciliari da tre settimane, in realtà si trovava ancora in cella. Anche per i parenti e gli amici dei detenuti la vita non è che sia proprio una passeggiata. Per andare a fare una visita in prigione, infatti, raccontano di perquisizioni estremamente umilianti. Tanto le donne, quanto gli uomini, vengono denudati ed esaminati scrupolosamente per evitare che introducano oggetti pericolosi, droga o altro. La nostra visita è durata appena un’ora, ma è bastata per farci uscire pieni di rabbia e tristezza. Il sistema penitenziario sembra essere strutturato con l’unico obiettivo di punire chi ha sbagliato, senza dare alcuna possibilità di riscatto e cambiamento. Insomma, nessuno sembra credere che un ragazzo che in passato ha fatto un errore possa riuscire a rimettere in sesto la propria vita con un po’ di aiuto. E così questi luoghi di “recupero” si trasformano spesso in occasioni per affondare definitivamente. Dalla polvere di ferro alla pioggia d’argento Qualche settimana fa Piquiá de Baixo ha ricevuto la visita di alcuni abitanti di Santa Cruz, un quartiere di Rio de Janeiro. Le due comunità hanno deciso di incontrarsi e scambiarsi idee ed esperienze perché entrambe sono costrette a fare i conti con la presenza di aziende siderurgiche che stanno distruggendo le loro vite e l’ambiente che li circonda. Nel corso di tre giorni, i due gruppi si sono raccontati la realtà in cui stanno vivendo, le modalità scelte per contrastare queste imprese e i sogni per il futuro. Lo scorso aprile, una rappresentanza di Piquiá era andata a Santa Cruz per conoscere quella situazione. Questa volta, invece, sono stati i cittadini di Rio a visitare alcuni dei luoghi più significativi della nostra comunità. Tra le altre cose, infatti, hanno potuto vedere le distese di eucalipto geneticamente modificato che hanno sostituito la foresta nativa, le carbonaie, il deposito a cielo aperto di detriti incandescenti che può essere raggiunto facilmente da chiunque (in passato è morto anche un bambino), la polvere di ferro che si deposita continuamente nel quartiere (a Santa Cruz, dove si produce acciaio, si parla di “pioggia d’argento”). Oltre a condividere le grandi sofferenze che stanno vivendo, le due comunità si sono date forza l’una con l’altra raccontandosi le vittorie raggiunte finora e quelle che si iniziano a intravedere. In particolare, è stata molto bella la visita al terreno sul quale un giorno – speriamo presto! – andranno ad abitare i cittadini di Piquiá. Questo momento ha dato anche un senso a tutte le battaglie fatte finora: «I nostri figli non dovranno vivere i soprusi che abbiamo subito noi».Il signor Anisio, cittadino di Piquiá de Baixo, nella distesa di eucalipto Il terreno che un giorno ospiterà gli abitanti di Piquiá Ricevi questa newsletter mensile perché pensiamo che tu possa essere interessato a seguire la nostra esperienza ad Açailândia, in Brasile. Se vuoi cancellarti dalla mailing list rispondi a questa e­mail. Se altri amici o conoscenti desiderano riceverla, mandaci una e­mail a uno di questi indirizzi: marcoratti76@yahoo.it o valentina.caperdoni@gmail.com. I nostri contatti Skype sono: “marcoratti” o “valentina.caperdoni”.