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Ai miei genitori e a mio marito,
    perché quando vi ho detto che desideravo toccare la luna
        mi avete presa per mano, mi avete stretta forte
                 e mi avete insegnato a volare.




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6   28/03/12 20.52
Divergevano due strade in un bosco e io…
            io presi la meno battuta,
      e di qui tutta la differenza è venuta.


     – ROBERT FROST, La strada non presa




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8   28/03/12 20.52
UN O


    Sono rinchiusa da 264 giorni. A tenermi compagnia ci sono
    solo un quadernetto, una penna malridotta e i numeri che mi
    frullano nella testa. 1 finestra. 4 pareti. 15 metri quadrati di
    spazio. 26 lettere di un alfabeto di cui non mi sono mai servi-
    ta nel corso di 264 giorni d’isolamento.
       6336 ore dall’ultima volta che ho toccato un essere umano.
       «Tra poco dividerai la cella la stanza con qualcuno» han-
    no detto.
       «Speriamo che tu ci marcisca, qui dentro Una gratificazio-
    ne per la tua buona condotta» hanno detto.
       «Tra psicopatici v’intenderete Basta isolamento» hanno
    detto.
       A parlare sono stati i tirapiedi della Restaurazione. Il mo-
    vimento che in teoria avrebbe dovuto soccorrere la nostra
    società agonizzante. Le stesse persone che mi hanno trasci-
    nata fuori dalla casa dei miei genitori e mi hanno rinchiusa


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in un manicomio per colpa di qualcosa che non sono in gra-
     do di controllare. A nessuno di loro è importato che non sa-
     pessi di cos’ero capace. Che non sapessi cosa stavo facendo.
        Non ho idea di dove mi trovo.
        So solo di essere stata costretta a montare a bordo di
     un furgone bianco giunto qui dopo un viaggio di 6 ore e 37
     minuti. E so di essere stata ammanettata al sedile. So che
     c’erano anche delle cinghie, per tenermi immobile. So che i
     miei genitori non si sono presi il disturbo di dirmi addio. So
     di non aver pianto, mentre mi portavano via.
        So che il cielo crolla ogni giorno.
        Il sole cade nell’oceano e spruzza di marrone, rosso, giallo
     e arancione il mondo fuori dalla mia finestra. Un milione di
     foglie provenienti da centinaia di rami diversi si tuffano nel
     vento e fluttuano illudendosi di volare. E invece una folata
     ne cattura le ali avvizzite solo per costringerle verso il basso
     dove, dimenticate, verranno calpestate dai soldati.
        Ci sono meno alberi rispetto al passato, dicono gli scien-
     ziati. Dicono che un tempo il nostro pianeta fosse verde. Che
     le nuvole fossero bianche. Che il sole irradiasse il giusto tipo
     di luce. Ma conservo ricordi sbiaditi di quel mondo. Non
     ricordo granché di ciò che c’era. L’unica vita che conosco è
     quella che mi è stata concessa. Un’eco di ciò che è stato.
        Premo il palmo contro il piccolo vetro, e il freddo mi strin-
     ge la mano in un abbraccio familiare. Siamo entrambi soli,
     entrambi esistiamo in quanto assenza di qualcos’altro.
        Impugno la penna quasi inutilizzabile; ho imparato a
     razionarne il poco inchiostro, e la studio. Cambio idea.


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Rinuncio allo sforzo che serve per annotare le cose. In fon-
     do, avere un compagno di cella potrebbe non rivelarsi tanto
     male. Parlare con un essere in carne e ossa potrebbe sem-
     plificare le cose. Mi esercito a usare la voce, muovo le labbra
     per articolare parole familiari ma ormai sconosciute alla mia
     bocca. Faccio pratica per tutto il giorno.
        Sono stupita di vedere che ricordo ancora come si fa a
     parlare.
        Arrotolo il taccuino e lo ficco nel muro. Mi siedo sulle
     molle coperte di stoffa sopra cui sono costretta a dormire.
     Resto in attesa con la schiena diritta. Mi dondolo avanti e
     indietro, e aspetto.
        Aspetto troppo a lungo e mi addormento.


     Quando riapro gli occhi ho davanti a me un paio di labbra un
     paio di orecchie un paio di sopracciglia.
        Soffoco un urlo l’impulso di scappare il terrore paraliz-
     zante che s’impossessa degli arti.
        «Sei un r-r-r-r…»
        «E tu una ragazza.» Inarca un sopracciglio. Allontana il
     viso. Ghigna ma non sorride, e io vorrei scoppiare in lacrime
     e lancio occhiate disperate, terrorizzate, in direzione della
     porta che ho tentato di aprire non so quante volte. Mi hanno
     rinchiusa insieme a un maschio. Un maschio.
        Santo cielo.
        Vogliono uccidermi.
        L’hanno fatto apposta.
        Per torturarmi, per darmi il tormento, per impedirmi una


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volta per tutte di dormire la notte. Ha le braccia tatuate dai
     polsi fino ai gomiti. Al sopracciglio gli manca un piercing che
     devono avergli sequestrato. Occhi blu scuro capelli castano
     scuro linea del mento spigolosa corporatura forte e snella.
     Bellissimo Pericoloso. Spaventoso. Terribile.
        Lui scoppia a ridere, e io mi precipito giù dal letto e mi
     rintano in un angolo.
        Studia il cuscino sottile appoggiato sul letto singolo che
     stamattina hanno spinto a forza nella zona sgombra della
     cella, il materasso striminzito e la coperta lisa che a sten-
     to potrà coprirgli il torace. Dà un’occhiata al mio letto. Dà
     un’occhiata al suo letto.
        Li avvicina con una mano. Usando un piede sposta le due
     strutture metalliche dal suo lato della stanza. Si sdraia sui
     materassi uniti, poi afferra il mio cuscino, lo sprimaccia e se
     lo sistema dietro la testa. Comincio a tremare.
        Mi mordo le labbra e cerco di nascondermi nell’angolino
     buio. Mi ha rubato il letto la coperta il cuscino.
        Non ho altro che il pavimento.
        Non avrò altro che il pavimento.
        Non reagirò perché sono pietrificata paralizzata paranoide.
        «E così sei... pazza? Per questo ti trovi qui?»
        Non sono pazza.
        Si solleva quanto basta per guardarmi in faccia. Scoppia a
     ridere di nuovo. «Mica voglio farti del male.»
        Vorrei tanto credergli. Non gli credo.
        «Come ti chiami?» domanda.
        Non sono affari tuoi. E tu come ti chiami?


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12                                                                     28/03/12 20.52
Lo sento sbuffare seccato. Lo sento rigirarsi sul letto che
     per metà sarebbe mio. Resto sveglia tutta la notte. Le ginoc-
     chia al mento, le braccia strette attorno al mio piccolo corpo,
     i lunghi capelli castani come unica tenda che mi ripari da lui.
        Non riuscirò a dormire.
        Non posso dormire.
        Non posso ricominciare a sentire quelle urla.




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Schegge di Me - Tahereh Mafi - Cap. 1

  • 1.
  • 2. Ai miei genitori e a mio marito, perché quando vi ho detto che desideravo toccare la luna mi avete presa per mano, mi avete stretta forte e mi avete insegnato a volare. 5 28/03/12 20.52
  • 3. 6 28/03/12 20.52
  • 4. Divergevano due strade in un bosco e io… io presi la meno battuta, e di qui tutta la differenza è venuta. – ROBERT FROST, La strada non presa 7 28/03/12 20.52
  • 5. 8 28/03/12 20.52
  • 6. UN O Sono rinchiusa da 264 giorni. A tenermi compagnia ci sono solo un quadernetto, una penna malridotta e i numeri che mi frullano nella testa. 1 finestra. 4 pareti. 15 metri quadrati di spazio. 26 lettere di un alfabeto di cui non mi sono mai servi- ta nel corso di 264 giorni d’isolamento. 6336 ore dall’ultima volta che ho toccato un essere umano. «Tra poco dividerai la cella la stanza con qualcuno» han- no detto. «Speriamo che tu ci marcisca, qui dentro Una gratificazio- ne per la tua buona condotta» hanno detto. «Tra psicopatici v’intenderete Basta isolamento» hanno detto. A parlare sono stati i tirapiedi della Restaurazione. Il mo- vimento che in teoria avrebbe dovuto soccorrere la nostra società agonizzante. Le stesse persone che mi hanno trasci- nata fuori dalla casa dei miei genitori e mi hanno rinchiusa 9 9 28/03/12 20.52
  • 7. in un manicomio per colpa di qualcosa che non sono in gra- do di controllare. A nessuno di loro è importato che non sa- pessi di cos’ero capace. Che non sapessi cosa stavo facendo. Non ho idea di dove mi trovo. So solo di essere stata costretta a montare a bordo di un furgone bianco giunto qui dopo un viaggio di 6 ore e 37 minuti. E so di essere stata ammanettata al sedile. So che c’erano anche delle cinghie, per tenermi immobile. So che i miei genitori non si sono presi il disturbo di dirmi addio. So di non aver pianto, mentre mi portavano via. So che il cielo crolla ogni giorno. Il sole cade nell’oceano e spruzza di marrone, rosso, giallo e arancione il mondo fuori dalla mia finestra. Un milione di foglie provenienti da centinaia di rami diversi si tuffano nel vento e fluttuano illudendosi di volare. E invece una folata ne cattura le ali avvizzite solo per costringerle verso il basso dove, dimenticate, verranno calpestate dai soldati. Ci sono meno alberi rispetto al passato, dicono gli scien- ziati. Dicono che un tempo il nostro pianeta fosse verde. Che le nuvole fossero bianche. Che il sole irradiasse il giusto tipo di luce. Ma conservo ricordi sbiaditi di quel mondo. Non ricordo granché di ciò che c’era. L’unica vita che conosco è quella che mi è stata concessa. Un’eco di ciò che è stato. Premo il palmo contro il piccolo vetro, e il freddo mi strin- ge la mano in un abbraccio familiare. Siamo entrambi soli, entrambi esistiamo in quanto assenza di qualcos’altro. Impugno la penna quasi inutilizzabile; ho imparato a razionarne il poco inchiostro, e la studio. Cambio idea. 10 10 28/03/12 20.52
  • 8. Rinuncio allo sforzo che serve per annotare le cose. In fon- do, avere un compagno di cella potrebbe non rivelarsi tanto male. Parlare con un essere in carne e ossa potrebbe sem- plificare le cose. Mi esercito a usare la voce, muovo le labbra per articolare parole familiari ma ormai sconosciute alla mia bocca. Faccio pratica per tutto il giorno. Sono stupita di vedere che ricordo ancora come si fa a parlare. Arrotolo il taccuino e lo ficco nel muro. Mi siedo sulle molle coperte di stoffa sopra cui sono costretta a dormire. Resto in attesa con la schiena diritta. Mi dondolo avanti e indietro, e aspetto. Aspetto troppo a lungo e mi addormento. Quando riapro gli occhi ho davanti a me un paio di labbra un paio di orecchie un paio di sopracciglia. Soffoco un urlo l’impulso di scappare il terrore paraliz- zante che s’impossessa degli arti. «Sei un r-r-r-r…» «E tu una ragazza.» Inarca un sopracciglio. Allontana il viso. Ghigna ma non sorride, e io vorrei scoppiare in lacrime e lancio occhiate disperate, terrorizzate, in direzione della porta che ho tentato di aprire non so quante volte. Mi hanno rinchiusa insieme a un maschio. Un maschio. Santo cielo. Vogliono uccidermi. L’hanno fatto apposta. Per torturarmi, per darmi il tormento, per impedirmi una 11 11 28/03/12 20.52
  • 9. volta per tutte di dormire la notte. Ha le braccia tatuate dai polsi fino ai gomiti. Al sopracciglio gli manca un piercing che devono avergli sequestrato. Occhi blu scuro capelli castano scuro linea del mento spigolosa corporatura forte e snella. Bellissimo Pericoloso. Spaventoso. Terribile. Lui scoppia a ridere, e io mi precipito giù dal letto e mi rintano in un angolo. Studia il cuscino sottile appoggiato sul letto singolo che stamattina hanno spinto a forza nella zona sgombra della cella, il materasso striminzito e la coperta lisa che a sten- to potrà coprirgli il torace. Dà un’occhiata al mio letto. Dà un’occhiata al suo letto. Li avvicina con una mano. Usando un piede sposta le due strutture metalliche dal suo lato della stanza. Si sdraia sui materassi uniti, poi afferra il mio cuscino, lo sprimaccia e se lo sistema dietro la testa. Comincio a tremare. Mi mordo le labbra e cerco di nascondermi nell’angolino buio. Mi ha rubato il letto la coperta il cuscino. Non ho altro che il pavimento. Non avrò altro che il pavimento. Non reagirò perché sono pietrificata paralizzata paranoide. «E così sei... pazza? Per questo ti trovi qui?» Non sono pazza. Si solleva quanto basta per guardarmi in faccia. Scoppia a ridere di nuovo. «Mica voglio farti del male.» Vorrei tanto credergli. Non gli credo. «Come ti chiami?» domanda. Non sono affari tuoi. E tu come ti chiami? 12 12 28/03/12 20.52
  • 10. Lo sento sbuffare seccato. Lo sento rigirarsi sul letto che per metà sarebbe mio. Resto sveglia tutta la notte. Le ginoc- chia al mento, le braccia strette attorno al mio piccolo corpo, i lunghi capelli castani come unica tenda che mi ripari da lui. Non riuscirò a dormire. Non posso dormire. Non posso ricominciare a sentire quelle urla. 13 13 28/03/12 20.52