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DISTRETTI
E RETI D’IMPRESE
Prefazione

Le nuove sfide della globalizzazione e le problematiche dell’attuale crisi economica hanno
ultimamente riportato alla ribalta il tema dei distretti produttivi e delle reti d’imprese. Su tutti e tre i
livelli dell’ordinamento (locale, nazionale ed europeo), si moltiplicano gli studi e le iniziative -
legislative e non - in materia.

Le Camere di Commercio, quali rappresentanti istituzionali del sistema imprenditoriale locale, sono
molto sensibili al tema. In particolare, Unioncamere Veneto nutre uno specifico interesse per i
fenomeni distrettuali e reticolari.

Nei confronti dei primi, perché il distretto produttivo è una realtà storica e tradizionale del Veneto,
che con la L. Reg. n. 8/03 ne ha dato una disciplina esemplare, la quale attribuisce alle CCIAA
importanti ruoli sia propositivi che valutativi nel procedimento amministrativo di riconoscimento e
supporto ai distretti.

Nei confronti dei secondi, perché il tessuto economico del territorio veneto è costituito per la
stragrande maggioranza (oltre il 99%) da micro, piccole e medie imprese, rispetto alle quali il
sistema reticolare si pone al contempo come modello d’eccellenza e come scommessa per il
futuro.

In questo contesto, la presente pubblicazione di Unioncamere Veneto si configura quale strumento
divulgativo per la sensibilizzazione sul tema dei distretti e delle reti d’imprese, soprattutto nei
confronti di chi non ne sia un esperto.
Essa intende offrire un quadro esplicativo del fenomeno, ripercorrendone brevemente la storia e le
prospettive future. Viene inoltre presentato un breve excursus delle iniziative normative rilevanti,
con particolare riguardo alla Legge Regionale Veneto n. 8/03, e vengono infine proposti alcuni
spunti di riflessione, anche sulle principali iniziative europee in materia.




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DISTRETTI E RETI D’IMPRESE



                                                  INDICE

1.     Il distretto                                               pag.
1.a.   L’origine e la fortuna del distretto                       pag.
1.b.   La crisi del distretto
1.c.   Il futuro del distretto                                    pag.

2.     La normativa veneta sui distretti                          pag.
2.a    La Legge Regionale Veneto 4 aprile 2003, n. 8              pag.
2.b.   Definizioni                                                pag.
2.c.   Funzionamento                                              pag.
2.d.   Lo spirito della Legge                                     pag.

3.     La normativa nazionale sui distretti                       pag.
3.a.   La L. 5 ottobre 1991 n. 317                                pag.
3.b.   La Finanziaria 2006                                        pag.
3.c.   La Finanziaria 2007                                        pag.
3.d.   Il Disegno di Legge Bersani                                pag.
3.e.   La Manovra d’Estate                                        pag.
3.f.   Il decreto “Incentivi e Imprese”                           pag.
3.g.   Altre leggi rilevanti                                      pag.

4.     De iure condendo                                           pag.
4.a.   Dai distretti alle reti                                    pag.
4.b.   Reti e distretti oppure reti o distretti?                  pag.
4.c.   La natura giuridica e la disciplina dei rapporti di rete   pag.

5.     Conclusioni                                                pag.

6    Spunti di riflessione                                        pag.
6.a. Il capitale umano nella PMI veneta                           pag.
6.b. I distretti e le reti in Europa                              pag.




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1. IL DISTRETTO


1.a. L’origine e la fortuna del distretto

Per comprendere il fenomeno dei distretti produttivi (soprattutto veneti) ci si deve riportare ad un
momento storico (indicativamente tra il secondo dopoguerra e gli anni ‘70) in cui le imprese ed i
mercati avevano ancora dimensioni locali (prima del mercato unico europeo e prima della
“globalizzazione”) e in cui si sviluppavano le prime piccole/medie imprese, soprattutto manifatturiere
e spesso strettamente legate al territorio in cui erano localizzate (ad esempio per la presenza di
materie prime).
In questo contesto si deve inquadrare una comunità - tipicamente dotata di grande iniziativa, di
senso imprenditoriale e di spirito emulativo - i cui membri manifestano la tendenza a “fare il salto”,
ossia a decidere di mettersi in proprio, a tentar fortuna avviando un’impresa simile o connessa a
quella di cui hanno avuto conoscenza, per aver magari lavorato in essa o comunque perché
insediata nel territorio in cui vivono.
Si immagini che tale condotta si ripeta decine di volte, in alcuni casi centinaia di volte.
Qual è il risultato? Il distretto industriale: un grappolo (in inglese: cluster) di piccole e medie
imprese, tutte operanti nello stesso settore, localizzate in un territorio limitato, che occupano la
maggior parte della comunità locale.
Tale modello manifesta alcune caratteristiche tipiche che ne hanno determinato la fortuna:
   1) altissima circolazione di conoscenze (il know how è radicato nel territorio, è condiviso da tutta
       la comunità, circola tra le imprese);
   2) altissima concorrenza, con conseguente spinta all’efficienza;
   3) dimensioni ridotte delle aziende, con conseguente capacità di essere flessibili e dinamiche;
   4) possibilità per le imprese, pur mantenendo la propria autonomia, di cooperare all’occorrenza
       (facilità di comunicazione, esigenze e problematiche comuni, stretti rapporti personali…).
Il distretto quindi non è solo un fenomeno economico ma è il prodotto di una serie di particolari
condizioni storiche e sociali, una tradizione radicata nel territorio e nella comunità che si manifesta
in un sistema di piccole e medie imprese che sono tra loro competitors ma che condividono know
how, che sono autonome e indipendenti ma che all’occorrenza posso facilmente cooperare tra loro
(il prof. F. Bresolin parla di “coompetition”).
È doveroso però osservare che, accanto a queste prerogative positive, i distretti spesso presentano
un considerevole punto debole, relativo al modello di sviluppo che tutti, o quasi, hanno avuto. Infatti
i nostri distretti non si sono sviluppati per differenziazione, quanto piuttosto per emulazione. In altre
parole: molte aziende dei distretti sono state create da personale che si staccava dalla propria
azienda per mettersi a produrre in proprio lo stesso tipo di prodotto. Questo ha fatto sì che un
numero sempre maggiore di aziende producesse la medesima merce (caso oreficeria, packaging,
calzature,…) e quindi, mentre in momenti di economia positiva ciò permetteva a tutti di prosperare,
in momenti di contrazione della domanda si verificava la situazione in cui un numero sempre
crescente di aziende si trovava a spartirsi la stessa (o addirittura una più piccola) torta, con la
conseguenza che ad un certo momento la fetta di torta che toccava a ciascuna azienda non è più
risultata sufficiente ad alimentare l’impresa. In caso di produzione differenziata invece le torte da
spartire sarebbero state più di una, con conseguente riduzione di tale rischio.


1.b. La crisi del distretto

Questa realtà ha funzionato in modo eccellente in un sistema economico limitato ai confini regionali
o nazionali, ma è stata messa a dura prova con l’apertura dei mercati oltre tali confini (mercato
unico europeo) e soprattutto con la c.d. “globalizzazione”.
La concorrenza interna tra le PMI del distretto era una genuina ed efficace spinta all’efficienza
produttiva, perché si trattava di una concorrenza ad armi pari (le imprese hanno tutte le stesse
dimensioni, sono tutte soggette agli stessi vincoli normativi, devono affrontare tutte i medesimi costi
per la forza lavoro e per le materie prime). La concorrenza “globale” esterna (si pensi oggi alle


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multinazionali straniere o ai prodotti cinesi) invece non è più una concorrenza ad armi pari. Infatti le
imprese straniere:
    1) hanno dimensioni, e quindi capacità di investimento in ricerca e promozione, nemmeno
         paragonabili alle PMI italiane;
    2) sono soggette a normative meno vincolanti - e costose - di quella italiana (si pensi
         all’incidenza sui costi di produzione di normative come quelle sui trattamenti previdenziali,
         sulla sicurezza sul lavoro o sull’inquinamento, che in alcuni paesi sono pressoché
         inesistenti);
    3) affrontano costi per le materie prime e per la forza lavoro infinitamente ridotti rispetto a quelli
         sostenuti dalle PMI italiane.
È chiaro che una concorrenza di questo tipo per la PMI italiana non è uno stimolo all’efficienza ma
un cappio al collo. Dalla sfida con le imprese internazionali, la PMI italiana difficilmente esce
vincitrice: ha minore capitali da investire in R&S e quindi ha minori chance di sviluppare prodotti e
procedimenti competitivi, non ha la capacità di accettare le commesse più grandi, ha minore forza
contrattuale con i distributori, ha minori mezzi da investire in promozione del marchio o dei prodotti,
ha minore accesso ai finanziamenti pubblici, ha più difficoltà di accesso al credito…
Però… c’è un però! Tutto questo discorso vale se la sfida è tra l’impresa internazionale e la singola
PMI italiana, ma le cose cambiano se la sfida è tra l’impresa internazionale ed un distretto.


1.c. Il futuro del distretto

Immaginiamo la competizione tra una multinazionale come Ikea, operante in 44 paesi del mondo,
con 104.000 occupati e un fatturato di circa 20 miliardi di euro, e una tipica piccola impresa italiana
del legno arredo, con una decina di dipendenti e circa 2 milioni di euro di fatturato. Non serve alcun
commento.
Immaginiamo ora la competizione tra quella stessa Ikea ed il Metadistretto Veneto del Legno
Arredo: 12.000 aziende che occupano 72.000 lavoratori. Le cose cambiano, e di molto.
L’esempio è campato per aria, ma rende bene l’idea della situazione attuale. Se quelle 12.000
aziende si accordano per collaborare contro il nemico comune, per fare “massa critica”, ossia –
secondo la definizione che viene data da P. A. Nicoletti – per raggiungere “grandi fatturati, grandi
produzioni, grandi distribuzioni, grandi ricerche che portino allo sviluppo di prodotti innovativi,
brevettati e non facilmente replicabili”, allora possono, eccome, competere con le imprese
internazionali.
Ci sono le condizioni ideali perché ciò accada:
    a) le PMI del distretto possono collaborare facilmente visto sono collocate tutte nella stessa
        area geografica, parlano tutte lo stesso linguaggio, si conoscono bene…;
    b) pur collaborando, esse possono mantenere la loro indipendenza e le loro dimensioni ridotte,
        rimanendo così infinitamente più flessibili e più veloci ad adattarsi alle esigenze del mercato
        rispetto ai colossi globali;
    c) in Veneto, se decidono di collaborare e promuovono un patto di sviluppo comune, la
        Regione è disposta a finanziargliene a fondo perduto una quota fino al 40%.
Questo quindi sembra essere il futuro del distretto, nonché la via da percorrere per la
sopravvivenza del PMI italiane: la collaborazione. Come osserva F. Cafaggi: “...le debolezze tipiche
delle piccole imprese non caratterizzano i sistemi produttivi a rete o di gruppo”. Ovviamente però la
collaborazione tra imprese non si può imporre per legge, dipende dalla sensibilità e dalla
lungimiranza degli imprenditori, ma una legge come quella veneta indubbiamente costituisce un
ottimo ed efficace incentivo in questo senso.




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2. LA NORMATIVA VENETA SUI DISTRETTI


2.a. La Legge Regionale Veneto 4 aprile 2003, n. 8

Il Veneto ha emanato una delle prime e delle migliori normative in materia di distretti: la L. Reg. 4
aprile 2003 n. 8, “Disciplina delle aggregazioni di filiera, dei distretti produttivi ed interventi di
sviluppo industriale e produttivo locale”, come novellata dalla L. Reg. 16 marzo 2005 n. 6. Tale
legge definisce i distretti ed altre forme di aggregazione produttiva al fine di promuoverne lo
sviluppo mediante il cofinanziamento di progetti (c.d. “patti per lo sviluppo”) dai medesimi proposti.


2.b. Definizioni

Ai sensi della Legge veneta, il distretto è costituito da un certo numero di imprese integrate in un
sistema produttivo rilevante, e di altri soggetti istituzionali operanti nel nell’attività di sostegno
dell’economia locale, che insieme esprimono un patto per lo sviluppo comune. Gli elementi
costitutivi del distretto quindi sono:
    1) l’elemento soggettivo: alla proposizione del patto di sviluppo possono partecipare, oltre alle
        imprese, anche altri soggetti istituzionali competenti ed interessati, come gli enti locali, le
        associazioni di categoria, gli istituti universitari, le camere di commercio…
    2) l’elemento quantitativo: per l’accreditamento come distretto è necessario che il patto di
        sviluppo sia sottoscritto da almeno 100 imprese, per un numero di addetti non inferiore a
        1.000 (tuttavia la Regione, in presenza di particolari condizioni di eccellenza produttiva, può
        derogare a tali requisiti minimi);
    3) l’integrazione: le imprese partecipanti devono operare su una medesima specifica filiera
        produttiva o nel medesimo settore e devono presentare un elevato grado di integrazione
        produttiva e di servizio;
    4) la rilevanza: le imprese partecipanti devono essere ai più alti livelli del settore (capacità di
        innovazione, presenza di imprese leader, condizioni di eccellenza produttiva…);
    5) il patto per lo sviluppo: i partecipanti al distretto devono elaborare ed impegnarsi ad attuare
        un piano di sviluppo del distretto medesimo che deve avere durata triennale e che deve
        produrre risultati utili e fruibili per tutte le imprese del distretto (es: infrastrutture, ricerca
        scientifica, banche dati, attività promozionale, servizi informatici, opere di riconversione
        industriale…).
Il metadistretto è un distretto che presenta grandi dimensioni (almeno 250 imprese per un numero
di addetti non inferiore a 5.000), un’estesa diffusione sul territorio regionale e che quindi risulta uno
strumento strategico per l’intera economia regionale.
L’aggregazione di filiera è un fenomeno di dimensioni ridotte rispetto al distretto ed è data da un
insieme di imprese (almeno 10) che operano sulla medesima filiera produttiva e che esprimono un
singolo progetto comune.


2.c. Funzionamento

Il distretto, che opera attraverso un rappresentate cui viene dato mandato da tutte le imprese
partecipanti, propone alla Regione un patto per lo sviluppo, che è soggetto a valutazione di
compatibilità e fattibilità da parte della CCIAA presso la quale è iscritta la maggior parte delle
aziende sottoscrittrici (nonché della Provincia).

Se sussistono tutti questi requisiti ed il patto è ammissibile, la Regione potrà esaminare, ed
eventualmente finanziare con un contributo a fondo perduto pari al massimo al 40%, eventuali
progetti presentati da gruppi di imprese (almeno 10) sottoscrittrici il patto di sviluppo. Della parte
restante, le imprese partecipanti devono sostenere in proprio almeno un altro 40%, essendo loro
consentito di coprire con eventuali altri finanziamenti solo il 20%. Ciò al fine di costringere le
imprese ad investire di tasca propria così da ottenere la garanzia che esse abbiano interesse nel

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progetto e che il patto distrettuale non diventi solo un mezzo per intercettare finanziamenti. Allo
stesso scopo, la Regione non anticipa i costi ammessi, ma li rimborsa solo a progetto positivamente
concluso e su rendicontazione delle spese.

All’interno del distretto si distinguono le imprese attuatrici e le mere sottoscrittrici. Le prime attuano
il progetto, sostenendone i costi, le seconde si aggregano al patto permettendo al distretto di
raggiungere le dimensioni minime (e quindi consentendo alle imprese attuatrici di ottenere il
finanziamento dalla Regione), in cambio del diritto di utilizzare i risultati del progetto secondo le
modalità convenute nel patto. È vero che l’impresa gregaria non sopporta costi e beneficia dei
risultati, ma è anche vero che l’impresa attuatrice ha bisogno dell’adesione delle imprese gregarie
per ottenere il finanziamento ed ha il vantaggio di poter orientare il patto verso i risultati che le sono
più utili (pur dovendosi comunque trattare di risultati fruibili dall’intero distretto).


2.d. Lo spirito della Legge

La Legge Veneta, pur essendo la prima in materia, è molto all’avanguardia - e potrebbe quindi porsi
come modello per una futura legislazione sia nazionale che europea - per i seguenti motivi.

1) La L. Reg. 8/03 coglie la vera essenza del distretto, ossia la spontaneità dell’aggregazione delle
   PMI al fine di cooperare come “massa critica”. La precedente normativa nazionale (L. 317/91)
   attribuiva alla PA regionale il potere d’individuare d’imperio i distretti sulla base di criteri statistici
   e qualitativi astratti (approccio gerarchico “top-down”). Nel sistema veneto invece sono
   direttamente le imprese, che sentendosi parte di un distretto, si accordano per proporsi alla
   Regione come tale (approccio aggregativo “bottom-up”). Ciò garantisce che il distretto non sia
   solo un’etichetta posta dall’alto ad un insieme di aziende accumunate solo dal fatto di operare
   nello stesso settore e nello stesso territorio, ma sia un organismo vivo, composto da imprese
   che di propria iniziativa si coordinano per raggiungere un risultato utile a tutti.
   È interessante notare che, dopo l’esperienza veneta, il legislatore nazionale si è votato
   all’approccio bottom-up, sottolineando sempre la spontaneità del fenomeno distrettuale (la
   formula tipicamente usata è quella della “libera aggregazione d’imprese”). A ciò si aggiunga che
   i fabbisogni delle imprese non vengono decisi dal legislatore regionale (ancora una volta
   approccio top-down), ma vengono chiesti alle imprese stesse (approccio bottom-up), che li
   indicano attraverso la produzione di un patto di sviluppo che contiene per l’appunto le azioni
   considerate strategiche dalle imprese per il miglioramento della competitività del distretto.

2) Per la stessa ratio, l’esistenza del distretto ha una durata temporale limitata (3 anni). Si tratta di
   collaborazione per realizzare le azioni previste nel patto: quando il patto (triennale) è concluso,
   oppure fallisce, nessun ulteriore vincolo o sovrastruttura lega le imprese.

3) Il distretto è un accordo tra soggetti che mantengono la propria individualità, non costituisce una
   sovrastruttura (un’associazione, un consorzio, un ente pubblico…) che si sostituisce ai
   partecipanti, evitando così procedure e costi inutili.

4) Il concetto di distretto viene esteso fino ad includere, oltre al settore manifatturiero (distretto
   industriale), il settore dei servizi (distretto produttivo).

5) Il distretto viene svincolato dai confini amministrativi dei comuni del territorio in cui si estende,
   evitando così gli esiti inopportuni cui aveva portato la precedente normativa nazionale (L.
   317/91), basata su parametri statistici e formali.

La parola chiave per comprendere e per far funzionare la Legge veneta potrebbe essere “alleanza”,
perché tutto verte su un accordo che gli imprenditori del distretto devono riuscire a raggiungere e
mantenere: sull’individuazione dei partecipanti al distretto, sull’oggetto del patto di sviluppo, sulla
ripartizione delle spese, sulle modalità di attuazione, sulla nomina del rappresentante, sulla


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condivisione dei risultati utili… Sta agli imprenditori comprendere che per vincere i nuovi nemici
esterni devono diventare alleati dei loro vecchi nemici interni.



3. LA NORMATIVA NAZIONALE SUI DISTRETTI


La sopradescritta complessità del fenomeno distrettuale ha causato non poche difficoltà al
legislatore nazionale ogniqualvolta, per intervenire a suo sostegno, si è inevitabilmente imbattuto
nel problema di darne una definizione.


3.a. La L. 5 ottobre 1991 n. 317

Il primo tentativo rilevante può essere individuato nella L. 5 ottobre 1991 n. 317 “Interventi per
l’innovazione e lo sviluppo delle piccole e medie imprese”, che all’art. 36 indicava i distretti
industriali come “le aree territoriali locali caratterizzate da elevata concentrazione di piccole
imprese, con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e la popolazione
residente nonché alla specializzazione produttiva dell'insieme delle imprese”.
Tale norma di fatto riconosceva il fenomeno dei distretti ma non ne dava una definizione, la quale
veniva delegata ad un futuro decreto del Ministero dell’Industria. Sulla base di tale decreto poi le
Regioni, sentite le unioni regionali delle CCIAA, avrebbero dovuto individuare concretamente i
singoli distretti e promuoverne lo sviluppo mediante finanziamento di “progetti innovativi
concernenti più imprese”.
Il Decreto di attuazione (D.M 21 Aprile 1993, c.d. decreto “Guarino”) per l’individuazione delle aree
di “distretto industriale” indicava i seguenti parametri:
     1) l’area da prendere a riferimento era il “sistema locale del lavoro” individuato dall’ISTAT,
          ossia un’area composta da un raggruppamento di comuni in cui i flussi di trasferimento
          pendolare giornaliero “casa-lavoro” si svolgono all'interno dell'area stessa;
     2) l’area doveva presentare un elevato indice d'industrializzazione manifatturiera (occupazione
          industriale superiore al livello medio relativo nazionale);
     3) l’area doveva presentare un elevato indice di densità imprenditoriale, calcolato in termini di
          unità locali (manifatturiere) in rapporto alla popolazione residente;
     4) l’area doveva presentare un elevato indice di specializzazione produttiva dell'insieme delle
          imprese ivi localizzate;
     5) l’area doveva presentare un elevato indice del peso occupazionale locale dell'attività
          specializzata (una grande quota della comunità locale deve risultare occupata nello
          specifico settore).
Tale individuazione dei distretti, operata d’imperio dalla PA sulla base di criteri statistici e qualitativi
(approccio gerarchico “top-down”), non corrispondeva alla realtà concreta del fenomeno distrettuale
e difficilmente ha potuto essere applicata. Ciò non è mutato neanche quando, successivamente, la
legge n. 140 dell’11 maggio 1999, relativa alle “Norme in materia di attività produttiva”, ha
semplificato i parametri di individuazione dei distretti industriali, menzionati nel decreto “Guarino”.


3.b. La Finanziaria 2006

Più di recente, la Finanziaria 2006 del Governo Prodi (L. 266/05, commi da 366 a 372), architettata
da Giulio Tremonti, prevedeva che un decreto ministeriale avrebbe dovuto stabilire “le
caratteristiche e le modalità di individuazione dei distretti produttivi, quali libere aggregazioni di
imprese articolate sul piano territoriale e sul piano funzionale”. Ai distretti così individuati si
sarebbero dovute applicare specifiche disposizione di sostegno amministrative, fiscali, finanziarie,
di ricerca e sviluppo ivi espressamente previste, tra cui alcune di estremo interesse come l’accesso
al credito agevolato, il bilancio consolidato, il bond credito e l’obbligazioni di distretto
.

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Tale norma non è mai stata applicata perché non è intervenuto alcun decreto attuativo. Tuttavia
essa presenta due pregevoli novità rispetto alla legge sopra citata (novità peraltro già presenti nella
Legge Veneta).
In primo luogo ha esteso il concetto di distretto dal settore manifatturiero anche a quello dei servizi
(non si parla più di distretti industriali ma di distretti produttivi).
In secondo luogo, per l’individuazione del distretto, ha accolto l’approccio aggregativo “bottom-up”
a scapito di quello gerarchico “top-down” utilizzato nella legislazione precedente: ora i distretti sono
definiti come “libere aggregazioni di imprese”.


3.c. La Finanziaria 2007

Anche nella Legge Finanziaria 2007 (L. 296/2006, commi da 889 a 891), il Governo Prodi si è
occupato nuovamente dei distretti, novellando la Legge Finanziaria precedente nelle parti ad essi
relative.
In attesa del decreto attuativo della Finanziaria 2006 che avrebbe dovuto stabilire i criteri e le
procedure per l’individuazione dei distretti (mai intervenuto), la novella dispone un cofinanziamento
statale “a progetti in favore dei distretti produttivi adottati dalle regioni, per un ammontare massimo
del 50 per cento delle risorse pubbliche complessivamente impiegate in ciascun progetto”.
Si noti che, rispetto al momento in cui è stata emanata la L. 317/91, è intervenuta la riforma del
titolo V della Costituzione (L. Cost. n. 3/01) che, modificando l’art. 117 Cost., ha attribuito alla
competenza legislativa concorrente delle Regioni la materia del “sostegno all'innovazione per i
settori produttivi”, sicché nel frattempo le Regioni hanno potuto dotarsi di propri strumenti legislativi
di sostegno dei distretti produttivi (proprio come la L. Reg. Veneto 8/03), sulla base dei quali hanno
potuto finanziare i progetti cui fa riferimento la norma in esame. I progetti ammessi al
cofinanziamento sono stati individuati con decreto del Ministro dello sviluppo economico del 28
dicembre 2007.
Sostanzialmente la Finanziaria 2007 riconosce gli interventi regionali e li co-finanzia, ma non
apporta nulla di nuovo alla definizione e alla disciplina dei distretti.


3.d. Il Disegno di Legge Bersani

 Successivamente, il Disegno di legge “Bersani” sulle liberalizzazioni “Misure per il cittadino
 consumatore e per agevolare le attività produttive e commerciali, nonché interventi in settori di
 rilevanza nazionale” (Atto Senato S. 1664, Atto Camera C. 2272 bis), all’art. 24 delegava il governo
 ad adottare uno o più decreti legislativi che avrebbero dovuto:
       a) definire le forme di coordinamento stabile di natura contrattuale tra imprese aventi distinti
           centri di imputazione soggettiva, idonee a costituire in forma di gruppo paritetico o
           gerarchico una rete di imprese;
       b) definire i requisiti di stabilità, di coordinamento e di direzione necessari al fine di
           riconoscere la rete di imprese;
       c) definire le condizioni, le modalità, i limiti e le tutele che assistono l’adozione dei vincoli
           contrattuali di cui alla lettera a);
       (omissis)
Con la caduta del Governo Prodi il DDL non ha avuto seguito (attualmente risulta in corso di esame
in commissione al Senato dal 16.01.2008). Tuttavia è interessante rilevare che ormai non si parla
più di distretti produttivi, ma di reti d’imprese, e che l’attenzione non è più rivolta soltanto
all’intervento pubblico a sostegno delle PMI, ma anche alla definizione e alla disciplina dei rapporti
privatistici tra le imprese della rete.




                                                                                                       9
3.e. La Manovra d’Estate

Recentemente, il governo Berlusconi è intervenuto in materia con la c.d. “Manovra d’estate”, D.L.
25 giugno 2008, n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, convertito in
legge con la L. 6 agosto 2008, n. 133.
L’art. 6 bis stabilisce che “al fine di promuovere lo sviluppo del sistema delle imprese (…) con
decreto del Ministro dello sviluppo economico (…) sono definite le caratteristiche e le modalità di
individuazione delle reti delle imprese e delle catene di fornitura”, intese “quali libere aggregazioni
di singoli centri produttivi coesi nello sviluppo unitario di politiche industriali”.
La norma prosegue sancendo che alle reti di imprese e alla catene di fornitura così individuate,
“anche al fine di migliorare la presenza nei mercati internazionali, si applicano le disposizioni
concernenti i distretti produttivi” che erano state previste (ma mai applicate) dalla Legge Finanziaria
2006.
La “Manovra d’estate”, sostanzialmente proseguendo nel solco avviato dal DDL Bersani, presenta
interessanti novità:
    1) ancora una volta il legislatore non fa nemmeno più riferimento ai distretti, ma solo alle reti di
         imprese e alle catene di fornitura, che questa volta vengono espressamente riconosciute
         come un fenomeno diverso e distinto dai distretti (a cui estendere la disciplina di questi
         ultimi);
    2) il nuovo fenomeno delle reti d’imprese (e delle catene di fornitura), a differenza del distretto,
         non presenta nessun legame con il territorio (realtà produttive anche appartenenti a regioni
         diverse…);
    3) l’obiettivo perseguito dal legislatore viene specificato: ancora sviluppo e innovazione, ma
         finalizzate all’internazionalizzazione delle imprese italiane, si veda la rubrica dell’art. 6
         (“Sostegno all’internazionalizzazione delle imprese”) ed il riferimento nell’art. 6 bis al “fine di
         migliorare la presenza nei mercati internazionali”.
Circa un mese dopo la conversione del decreto, veniva dichiarato il fallimento della Lehman
Brothers con tutto quello che ne è conseguito, sicché il Governo ha avuto altro a cui pensare che
dare una definizione “delle reti delle imprese e delle catene di fornitura” ed i buoni propositi son
rimasti per ora lettera morta.


3.f. Il decreto “Incentivi e Imprese”

Da ultimo (10 febbraio 2009), il Governo Berlusconi ha emanato il Decreto Legge n. 5/09 "Misure
urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi", che all’art. 3 (ancora con la tecnica della novella
della finanziaria 2006) introduce la c.d. tassazione unitaria di distretto: “le imprese appartenenti a
distretti di cui al comma 366 possono congiuntamente esercitare l'opzione per la tassazione di
distretto ai fini dell'applicazione dell'IRES”.
In sostanza, si consente che tutte le imprese operanti in un distretto industriale optino
congiuntamente per una tassazione consolidata. Così facendo, i redditi che ogni impresa produce
in proprio non saranno soggetti ad autonoma tassazione, bensì confluiranno ogni anno in un unico
calderone soggetto a IRES. Tale meccanismo consente di determinarne la base imponibile del
distretto come somma algebrica delle singole basi imponibili, con il notevole vantaggio di esercitare
quindi una compensazione tra imprese in utile ed imprese in perdita. La ripartizione fra le singole
imprese degli oneri fiscali distrettuali dovrà poi avvenire sulla base di criteri di trasparenza e di
parità di trattamento e sulla base di principi di mutualità, fondati sull’attitudine alla contribuzione di
ogni impresa aderente.
Inoltre si prevede che il distretto possa concordare con l’Agenzia delle Entrate, per la durata di tre
anni, un reddito complessivo predeterminato forfettariamente, su cui pagare le imposte. Tale
opzione per la pianificazione fiscale triennale comporta inoltre una significativa copertura rispetto ai
controlli dell'Amministrazione finanziaria (a condizione che venga rispettato quanto
preventivamente pattuito), poiché è previsto che controlli siano eseguiti unicamente allo scopo di
monitoraggio, prevenzione ed elaborazione dei dati necessari per la determinazione delle future


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pianificazioni. È espressamente previsto che anche i distretti che non avranno optato per la
tassazione consolidata possano beneficiare della pianificazione fiscale concordata.
I primi commentatori a tale norma hanno sollevato le seguenti due osservazioni.
In primo luogo, in questa normativa scompare la figura della rete d’imprese, che invece si era
prepotentemente affermata nella legislazione più recente.
In secondo luogo, questo intervento legislativo non porta alcun contributo alla individuazione del
distretto, il quale – a livello nazionale – rimane indefinito. Pertanto si prevede che l’applicazione di
queste misure fiscali sarà possibile solo sulla base delle normative regionali che già definiscono e
riconoscono i distretti, mentre difficilmente potranno trovare attuazione nelle regioni che non hanno
provveduto in tal senso.


3.g. Altre leggi rilevanti

Rilevanti in materia, per i motivi che si esporranno in seguito, sono anche:
    - la L. 18.06.1998, n. 192 sulla subfornitura,
    - la L. 06.05.2004, n. 129 sul franchising,
    - il D. Lgs. 09.10.2001, n. 231 sui ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali.



4. DE IURE CONDENDO


4.a. Dai distretti alle reti

Nel precedente breve excursus storico della normativa rilevante si è registrato che di recente il
legislatore nazionale è passato dall’occuparsi dei distretti produttivi all’occuparsi delle reti
d’imprese. Non si tratta di una mera scelta lessicale.

Il fenomeno delle reti d’imprese è venuto alla ribalta nel momento in cui il sistema dei distretti ha
iniziato a scricchiolare. Tale analisi è compiuta in modo estremamente lucido dal Comitato
Nazionale Economia e Lavoro (CNEL) nel documento dell’assemblea del 18 dicembre 2008, che
predica il tramonto del sistema dei distretti e la necessità del passaggio ad un modello nuovo,
individuato nelle reti d’imprese. Secondo il CNEL, l’impatto del mercato globale sui distretti
produttivi sta portando questi ultimi ad una trasformazione che può essere riassunta come segue.

Nello scontro con la concorrenza internazionale la spuntano solo le piccole e medie imprese che,
aumentando di dimensioni, riescono ad “internazionalizzarsi e realizzare innovazioni di processo e
di prodotto”. Normalmente queste imprese evolute, che diventano leader del distretto, trovano
conveniente frammentare il processo produttivo e distributivo, commissionandone alcuni segmenti
ad altre imprese (esternalizzazione o outsourcing). Quindi le altre imprese del distretto, quelle che
non hanno saputo evolversi, o soccombono oppure adeguano la loro attività alle esigenze
dell’impresa leader, diventando suoi sub-fornitori o suoi distributori. Il CNEL osserva che “la
presenza di una o più imprese leader ha così determinato un’organizzazione di distretto
completamente diversa: un nucleo di medie imprese che gestiscono una filiera di micro e piccole
imprese sub-fornitrici”, e contestualmente “i processi di delocalizzazione in Italia e all’estero hanno
poi esteso la filiera subfornitrice dell’impresa leader anche all’esterno del territorio dell’originario
distretto”.
Pare che il distretto si sia trasformato in qualcosa di completamente diverso. Non c’è più una
miriade di imprese omogenee radicate nel territorio, che condividono conoscenze pur essendo in
concorrenza tra loro, che hanno dimensioni ridotte ma all’occorrenza possono collaborare per “fare
massa critica”. Ora c’è un’impresa, o un gruppo di imprese, leader, che si pone come hub di una
filiera o raggiera produttiva o distributiva composta da PMI, la quale non ha più un legame
particolare con il territorio in cui è localizzata (infatti la c.d. “Manovra d’estate” parla di “realtà
produttive anche appartenenti a regioni diverse”). Secondo il CNEL “si prefigura il superamento del

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distretto industriale, monosettoriale e strettamente confinato in un territorio storicamente
determinato, a favore di una rete d’impresa che dovrebbe preludere alla crescita delle dimensioni
d’impresa”.
Corrispondentemente il documento di sintesi del DDL Bersani (Industria 2015) titolava: «arriva
un’opportunità per le piccole imprese di aumentare la massa critica necessaria per muoversi al
meglio sul mercato: diventare “rete”», e poi spiega “le PMI che non vogliono fondersi e scelgono di
diventare rete acquisiscono maggiore forza contrattuale nei confronti dei terzi (quali ad esempio,
banche, fornitori, committenti e, in alcuni casi, fisco), pur non essendo controllate da un unico
soggetto”.

Allora forse non è un caso che il legislatore, esattamente negli stessi anni in cui secondo il CNEL si
verifica questo processo, abbia sentito l’esigenza di disciplinare due particolari realtà: nel 1998 la
subfornitura (L. 18.06.1998, n. 192) e nel 2004 il franchising (L. 06.05.2004, n. 129), realtà che
incarnano rispettivamente il fenomeno della filiera produttiva e della raggiera distributiva.


4.b. Reti e distretti oppure reti o distretti?

Il CNEL sembra convinto che la rete d’impresa sia l’evoluzione necessaria ed inevitabile del
distretto. Tuttavia non pare vi siano argomenti per ritenere che i due fenomeni non possano
coesistere, seppure il distretto può - eventualmente - trasformarsi in rete.
Anzi, dalle riflessioni sopra svolte pare che essi costituiscano due possibili soluzioni alternative
all’impatto della concorrenza internazionale sulle PMI italiane: la necessità, pacifica ed indiscussa,
di “fare massa critica” - ossia quella necessità di internazionalizzarsi sottolineata dalla c.d.
“Manovra d’estate” - può essere soddisfatta o con lo strumento del distretto (le PMI mantengono le
loro dimensioni ma cooperano), oppure con lo strumento della rete (un’impresa aumenta di
dimensioni e le altre le gravitano attorno).

Si tratta di due realtà diverse e distinte, che quindi presentano problemi diversi e distinti.
Un intervento pubblico di sostegno al distretto costituisce un intervento a favore di un’attività e di un
territorio, mentre un intervento pubblico di sostegno ad una rete d’imprese costituisce
indubbiamente un aiuto pubblico che favorisce talune imprese falsando la concorrenza,
assolutamente inammissibile ai sensi dei principi europei sulla concorrenza e sugli aiuti di stato (art.
87 Trattato CE).
Pertanto, in materia di distretti, gli obiettivi del legislatore devono sostanzialmente essere quelli di
operare un intervento pubblico a sostegno del sistema aggregato e di incentivare gli imprenditori a
cooperare; mentre in tema di reti d’imprese non si pone tanto il problema di fornire un intervento
pubblico di sostegno, quanto quello di capire e disciplinare i rapporti privatistici tra i vari nodi delle
imprese.
E infatti, di nuovo non è un caso che il DDL Bersani per la prima volta si soffermi sui problemi di
“definire le forme di coordinamento stabile di natura contrattuale tra imprese aventi distinti centri
di imputazione soggettiva, idonee a costituire in forma di gruppo paritetico o gerarchico una rete di
imprese”, di definire “le condizioni, le modalità, i limiti e le tutele” che assistono l’adozione di tali
vincoli contrattuali; di definire in conclusione “il regime giuridico della rete di imprese”.


4.c. La natura giuridica e la disciplina dei rapporti di rete

Quando più imprese collaborano per il perseguimento di uno scopo comune (la produzione o la
distribuzione di un prodotto finale), ciò avviene normalmente o nell’ambito di un gruppo (le diverse
imprese sono formalmente autonome ma di fatto fanno tutte capo ad un unico proprietario) oppure
nell’ambito di un vincolo societario o di un accordo comune (contratto di scopo comune).
Nel caso delle reti invece le diverse imprese indipendenti realizzano, ciascuna autonomamente,
una fase del ciclo produttivo/distributivo, contribuendo tutte a produrre, però indirettamente, il
risultato finale. Non v’è un vincolo che leghi tutte le imprese in vista del risultato finale, ma
solamente una molteplicità di rapporti contrattuali bilaterali che legano ciascuna impresa

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esclusivamente con la propria controparte per la realizzazione di una limitata fase
produttiva/distributiva. Formalmente l’attività di ciascuna impresa e tutti i singoli contratti sono
assolutamente autonomi l’uno dall’altro (principio della relatività del contratto), ma di fatto sono
legati da una forte interdipendenza (es: l’inadempimento di un subfornitore impedisce al
committente la produzione, per cui ne risentono anche i rivenditori; la cattiva promozione del
prodotto da parte di un distributore lede l’immagine del prodotto a danno di tutti, sia produttori che
distributori).

In questo sistema il risultato comune viene perseguito attraverso una serie di contratti di scambio
bilaterali (anziché un unico contratto associativo) che spesso però contengono clausole che
eccedono la funzione dello scambio e manifestano l’interdipendenza. Ad esempio, oltre al
contenuto tipico della compravendita e della fornitura, possono essere previsti obblighi ulteriori
(promuovere il prodotto in determinati modi) e diritti ulteriori (esclusiva, utilizzo segni distintivi,
assistenza tecnica, formazione personale, finanziamenti…).
La questione è che questa interdipendenza (che è l’essenza della rete) non assume rilievo
giuridico, ma solo fattuale (es: gli altri membri della filiera non hanno alcuna azione contro i soggetti
che non siano la propria controparte diretta). L’istituto dei “contratti collegati” non è applicabile,
intanto perché ha come unico effetto quello del “simul stabunt simul cadent” e poi perché riguarda
solo i contratti tra le medesime parti.

Il Legislatore nazionale è intervenuto nella materia con la L. 129/04 sul franchising, per il caso della
distribuzione a rete, e con la L. 192/98 sulla subfornitura, per il caso della produzione a rete. Tali
normative affrontano alcune problematiche specifiche, che sostanzialmente sono, per la
subfornitura, quella del rischio di abusi di dipendenza economica da parte dell’impresa leader della
filiera, e per il franchising quelle della condivisione delle conoscenze e della valutazione anticipata
del rischio d’impresa. Tuttavia si tratta di interessanti spunti di principio, ma la questione della
disciplina dei rapporti di rete e dell’interdipendenza resta completamente aperta. Infatti i modelli di
governance che di fatto risultano applicati attualmente alle reti d’imprese sono i più vari e disparati
(mere relazioni contrattuali, accordi temporanei d’impresa, consorzi, joint venture, strumenti
societari, partecipazioni incrociate, patti parasociali, interlocking directorates, codici di
comportamento…) e sicuramente richiedono una sistemazione razionale, se non legislativa,
almeno dottrinale.



5. CONCLUSIONI

Dalla breve analisi sopra svolta, pare emergere un messaggio chiaro. Il sistema delle PMI italiane
per sopravvivere nel mercato globale deve “internazionalizzarsi”, fare “massa critica”, e può farlo in
due modi: o con il distretto, non più inteso in senso statico come aggregazione di imprese
omogenee stanziate in un territorio limitato, ma in senso dinamico come organismo composto da
imprese indipendenti che cooperano per il bene comune; oppure con la rete di imprese, intesa
come aggregazione di PMI gravanti attorno ad un’impresa o ad un gruppo di imprese di spessore
internazionale.
Per i distretti, il compito del legislatore è quello di provvedere ad interventi di sostegno del sistema
aggregato (sul modello della Legge regionale del Veneto).
Per le reti di imprese, il compito pare essere quello di definire i rapporti tra i nodi in modo da evitare
abusi dei soggetti dominanti.




                                                                                                      13
6. SPUNTI DI APPROFONDIMENTO


6.a. Il capitale umano nella PMI veneta

Un punto critico del modello veneto dei distretti può essere individuato nella gestione del capitale
umano.
Tipicamente l’imprenditore veneto presenta una concezione strettamente padronale della sua
attività, che potrebbe essere riassunta in questo pensiero “l’azienda me la son costruita io ed è
proprietà mia e della mia famiglia”. Questo pensiero, assolutamente giusto e sacrosanto, spesso
però prosegue così “l’azienda me la son costruita io ed è mia e della mia famiglia… quindi io sono il
padrone e tutti quelli che ci lavorano sono dipendenti sostituibili”. Egli, per quelle stesse qualità di
individualismo e di dedizione al lavoro che hanno fatto la fortuna del modello distrettuale veneto, è
portato ad identificare l’impresa nella sua persona ed a vedere nei suoi lavoratori dei meri
dipendenti subordinati, giammai possibili collaboratori in grado di contribuire alla sviluppo della sua
azienda. In termine pratici ciò cosa significa?
Significa che per “il padrone”, chi lavora nella sua azienda - per quanto titolato sia, per quante
lingue parli, per quante competenze e per quanta voglia di lavorare abbia (nb: non solo il padrone,
ma anche nelle vene del dipendente scorre sangue veneto…) - è e sarà sempre solo un dipendente
da 1.200 euro al mese che deve semplicemente eseguire, e se così non gli sta bene: alzi i tacchi e
se ne vada. Le possibili conseguenze di ciò sono due. O che il (giovane) dipendente di una PMI
veneta perde gli stimoli, è frustrato, la sua produttività si abbassa, il suo interesse scema, la voglia
di lavorare passa, oppure che decide di andarsene a cercar fortuna in un’altra realtà che non sia
fatta di piccole e medie imprese padronali, non importa dove (Londra, New York, ma anche Milano
basta) e non importa a fare cosa (magari alla faccia della sua tesi di laurea sperimentale, del suo
dottorato o del suo master).
In termini economici ciò cosa significa?
Significa capitale umano che viene bruciato o che vola via dal Veneto.
È un problema che evidentemente non può essere risolto con una legge. È un problema di
sensibilità e lungimiranza degli imprenditori veneti, esattamente come quello della comprensione
della necessità di cooperare e fare “massa critica” per la sopravvivenza del distretto. Se
quest’ultimo problema inizia ad essere compreso, grazie anche alla L. Reg. 3/08, il problema del
capitale umano invece non pare affacciarsi alla mente degli imprenditori veneti. Per dipingere la
sensibilità ed il livello di comprensione verso il problema dell’imprenditoria veneta, si può riportare
la risposta data ad un giovane dipendente neolaureato che esponeva le sue perplessità al titolare:
“Se non vi va bene così, vendo tutto e vado a giocare a golf”.


6.b. I distretti e le reti in Europa

Quello dei cluster è ormai un argomento di gran voga anche a livello europeo: sono molteplici gli
interventi (seppure ancora non normativi) della Commissione e del Parlamento e si moltiplicano i
progetti. Può essere opportuno pertanto presentare un quadro sintetico delle principali iniziative in
materia.

Nella Comunicazione COM (2008) 652 del 17.1008 “Towards world-class clusters in the European
Union: implementig the broad-based innovation strategy”, la Commissione sottolinea la grande
importanza del fenomeno dei distretti d’imprese per lo sviluppo dell’economia europea ed indica
quali sono i principali interventi ed attività a livello europeo in materia di clusters.

Pro Inno Europe è un’iniziativa della Commissione, Direzione Generale Industria e Imprese, volta a
promuovere e sostenere l’innovazione, l’apprendimento e lo sviluppo in Europa. Nell’ambito di Pro
Inno è stata istituita la European Cluster Alliance, che mira a diventare l’unico strumento europeo
in materia di cluster.
I membri della Alliance collaborano in 4 campi:
    1) misurazione dell’impatto economico della politica e dei programmi sui cluster

                                                                                                    14
2) identificazione delle risorse per supportare la politica sui cluster
     3) implementazione delle infrastrutture per i cluster
     4) identificazione delle principali attività dei programmi sui cluster, con particolare riferimento
         all’internazionalizzazione.
Nell’ambito della Alliance sono attivi quattro progetti triennali a partire dal settembre 2006:
     1) BSR InnoNet - The Baltic Sea Region Innovation Network
     2) CEE-ClusterNetwork - Central and Eastern European Cluster and Network Area (cui, tra gli
         altri partners, partecipa il Sudtirolo attraverso il TIS Innovation Park)
     3) CLUNET - Cluster Network (cui, tra gli altri partners, partecipano la Toscana, attraverso
         Etruria Innovazione, ed il Lazio, con la Filas)
     4) INNET - Networking of national/regional funding and innovation organisations for the
         involvement of SMEs in technology-based innovation clusters in Europe (cui, tra gli altri
         partners, partecipano il Veneto con Veneto Innovazione e la Toscana con Sviluppo Italia
         Toscana).
Possono partecipare alla Alliance (a proprie spese) tutti i soggetti che:
     1) abbiano sede in uno stato partecipante al CIP - Competitiveness and Innovation
         Programme
     2) abbiano natura pubblica o semi-pubblica
     3) si occupino dello sviluppo o dell’amministrazione di politiche o programmi sui cluster per
         conto della PA.
I membri dell’Alliance hanno i seguenti diritti: a) partecipare ai lavori di Pro Inno, b) essere invitati
agli eventi dell’organizzazione, c) avere pieno accesso al sito della Alliance, d) usare e diffondere i
risultati ottenuti dall’Alliance; ed i seguenti obblighi: a) supportare le iniziative della Alliance, b)
invitare gli altri membri della Alliance agli eventi che organizzano, c) informare Pro Innova delle
attività svolte in materia al fine della pubblicazione online, d) auto-finanziarsi i costi di
partecipazione.

Europe Innova è un’iniziativa del 2006 della Commissione, Direzione Generale Industria e Imprese,
nell’ambito del CIP - Competitiveness and Innovation Programme, che si propone come laboratorio
per lo sviluppo ed il test di nuovi strumenti per l’innovazione, tra i quali i clusters.
Nell’ambito di questa iniziativa si sono effettuate due operazioni di mappatura dei cluster esistenti.
La prima, iniziata nel 2004 e conclusa nel 2006, ha riguardato 10 stati membri ed ha individuato
367 clusters. La seconda, iniziata nel 2006, riguarda 15 stati membri, 3 stati candidati (Turchia,
Romania e Bulgaria – le ultime due ora sono membri), nonché Islanda, Israele, Norvegia e
Svizzera.
Sulla base dei dati raccolti con questa mappatura è stato istituito l’European Cluster Observatory,
gestito dal Center for Strategy and Competitiveness (CSC) della Stockholm School of Economics,
finanziato dalla Commissione Europea, che è strutturato in 4 sezioni:
    1) Cluster mapping: per la prosecuzione dell’attività di mappatura dei clusters secondo le 38
        categorie individuate;
    2) Cluster organisations: per un’elencazione degli enti pubblici e privati attivi nella promozione
        dei distretti;
    3) Cluster policy: per un quadro delle politiche nazionali e regionali in tema di clusters;
    4) Cluster library: per un archivio di documenti e studi in materia di clusters.
Nell’ambito di Europe Innova inoltre è stato istituito l’High Level Advisory Group, composto da
esperti in materia, che ha redatto l’European Cluster memorandum ed un agenda di azioni comuni
per la cooperazione tra le autorità locali competenti nella politica sui cluster. A questo gruppo ha
partecipato anche Sandro Sandri, attualmente Assessore Veneto alla Sanità.
Nel 2009 verranno lanciate nuove azioni sui seguenti tre punti: a) transnational cluster cooperation,
2) knowledge-intensive services and 3) eco-innovation.

Da ultimo la Commissione, sempre nell’ambito del CIP, ha istituito l’European Cluster Policy
Group, un gruppo composto da alti esperti in materia di innovazione/competizione e distretti,
avente la funzione di supportarla nello sviluppo delle politiche a sostegno dei distretti. La call for
applications si è chiusa nel novembre 2008.
                                                                                  - Mattia Esposito -
                                                                                                      15

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Distretti Reti Imprese Veneto Europa

  • 2. Prefazione Le nuove sfide della globalizzazione e le problematiche dell’attuale crisi economica hanno ultimamente riportato alla ribalta il tema dei distretti produttivi e delle reti d’imprese. Su tutti e tre i livelli dell’ordinamento (locale, nazionale ed europeo), si moltiplicano gli studi e le iniziative - legislative e non - in materia. Le Camere di Commercio, quali rappresentanti istituzionali del sistema imprenditoriale locale, sono molto sensibili al tema. In particolare, Unioncamere Veneto nutre uno specifico interesse per i fenomeni distrettuali e reticolari. Nei confronti dei primi, perché il distretto produttivo è una realtà storica e tradizionale del Veneto, che con la L. Reg. n. 8/03 ne ha dato una disciplina esemplare, la quale attribuisce alle CCIAA importanti ruoli sia propositivi che valutativi nel procedimento amministrativo di riconoscimento e supporto ai distretti. Nei confronti dei secondi, perché il tessuto economico del territorio veneto è costituito per la stragrande maggioranza (oltre il 99%) da micro, piccole e medie imprese, rispetto alle quali il sistema reticolare si pone al contempo come modello d’eccellenza e come scommessa per il futuro. In questo contesto, la presente pubblicazione di Unioncamere Veneto si configura quale strumento divulgativo per la sensibilizzazione sul tema dei distretti e delle reti d’imprese, soprattutto nei confronti di chi non ne sia un esperto. Essa intende offrire un quadro esplicativo del fenomeno, ripercorrendone brevemente la storia e le prospettive future. Viene inoltre presentato un breve excursus delle iniziative normative rilevanti, con particolare riguardo alla Legge Regionale Veneto n. 8/03, e vengono infine proposti alcuni spunti di riflessione, anche sulle principali iniziative europee in materia. 2
  • 3. DISTRETTI E RETI D’IMPRESE INDICE 1. Il distretto pag. 1.a. L’origine e la fortuna del distretto pag. 1.b. La crisi del distretto 1.c. Il futuro del distretto pag. 2. La normativa veneta sui distretti pag. 2.a La Legge Regionale Veneto 4 aprile 2003, n. 8 pag. 2.b. Definizioni pag. 2.c. Funzionamento pag. 2.d. Lo spirito della Legge pag. 3. La normativa nazionale sui distretti pag. 3.a. La L. 5 ottobre 1991 n. 317 pag. 3.b. La Finanziaria 2006 pag. 3.c. La Finanziaria 2007 pag. 3.d. Il Disegno di Legge Bersani pag. 3.e. La Manovra d’Estate pag. 3.f. Il decreto “Incentivi e Imprese” pag. 3.g. Altre leggi rilevanti pag. 4. De iure condendo pag. 4.a. Dai distretti alle reti pag. 4.b. Reti e distretti oppure reti o distretti? pag. 4.c. La natura giuridica e la disciplina dei rapporti di rete pag. 5. Conclusioni pag. 6 Spunti di riflessione pag. 6.a. Il capitale umano nella PMI veneta pag. 6.b. I distretti e le reti in Europa pag. 3
  • 4. 1. IL DISTRETTO 1.a. L’origine e la fortuna del distretto Per comprendere il fenomeno dei distretti produttivi (soprattutto veneti) ci si deve riportare ad un momento storico (indicativamente tra il secondo dopoguerra e gli anni ‘70) in cui le imprese ed i mercati avevano ancora dimensioni locali (prima del mercato unico europeo e prima della “globalizzazione”) e in cui si sviluppavano le prime piccole/medie imprese, soprattutto manifatturiere e spesso strettamente legate al territorio in cui erano localizzate (ad esempio per la presenza di materie prime). In questo contesto si deve inquadrare una comunità - tipicamente dotata di grande iniziativa, di senso imprenditoriale e di spirito emulativo - i cui membri manifestano la tendenza a “fare il salto”, ossia a decidere di mettersi in proprio, a tentar fortuna avviando un’impresa simile o connessa a quella di cui hanno avuto conoscenza, per aver magari lavorato in essa o comunque perché insediata nel territorio in cui vivono. Si immagini che tale condotta si ripeta decine di volte, in alcuni casi centinaia di volte. Qual è il risultato? Il distretto industriale: un grappolo (in inglese: cluster) di piccole e medie imprese, tutte operanti nello stesso settore, localizzate in un territorio limitato, che occupano la maggior parte della comunità locale. Tale modello manifesta alcune caratteristiche tipiche che ne hanno determinato la fortuna: 1) altissima circolazione di conoscenze (il know how è radicato nel territorio, è condiviso da tutta la comunità, circola tra le imprese); 2) altissima concorrenza, con conseguente spinta all’efficienza; 3) dimensioni ridotte delle aziende, con conseguente capacità di essere flessibili e dinamiche; 4) possibilità per le imprese, pur mantenendo la propria autonomia, di cooperare all’occorrenza (facilità di comunicazione, esigenze e problematiche comuni, stretti rapporti personali…). Il distretto quindi non è solo un fenomeno economico ma è il prodotto di una serie di particolari condizioni storiche e sociali, una tradizione radicata nel territorio e nella comunità che si manifesta in un sistema di piccole e medie imprese che sono tra loro competitors ma che condividono know how, che sono autonome e indipendenti ma che all’occorrenza posso facilmente cooperare tra loro (il prof. F. Bresolin parla di “coompetition”). È doveroso però osservare che, accanto a queste prerogative positive, i distretti spesso presentano un considerevole punto debole, relativo al modello di sviluppo che tutti, o quasi, hanno avuto. Infatti i nostri distretti non si sono sviluppati per differenziazione, quanto piuttosto per emulazione. In altre parole: molte aziende dei distretti sono state create da personale che si staccava dalla propria azienda per mettersi a produrre in proprio lo stesso tipo di prodotto. Questo ha fatto sì che un numero sempre maggiore di aziende producesse la medesima merce (caso oreficeria, packaging, calzature,…) e quindi, mentre in momenti di economia positiva ciò permetteva a tutti di prosperare, in momenti di contrazione della domanda si verificava la situazione in cui un numero sempre crescente di aziende si trovava a spartirsi la stessa (o addirittura una più piccola) torta, con la conseguenza che ad un certo momento la fetta di torta che toccava a ciascuna azienda non è più risultata sufficiente ad alimentare l’impresa. In caso di produzione differenziata invece le torte da spartire sarebbero state più di una, con conseguente riduzione di tale rischio. 1.b. La crisi del distretto Questa realtà ha funzionato in modo eccellente in un sistema economico limitato ai confini regionali o nazionali, ma è stata messa a dura prova con l’apertura dei mercati oltre tali confini (mercato unico europeo) e soprattutto con la c.d. “globalizzazione”. La concorrenza interna tra le PMI del distretto era una genuina ed efficace spinta all’efficienza produttiva, perché si trattava di una concorrenza ad armi pari (le imprese hanno tutte le stesse dimensioni, sono tutte soggette agli stessi vincoli normativi, devono affrontare tutte i medesimi costi per la forza lavoro e per le materie prime). La concorrenza “globale” esterna (si pensi oggi alle 4
  • 5. multinazionali straniere o ai prodotti cinesi) invece non è più una concorrenza ad armi pari. Infatti le imprese straniere: 1) hanno dimensioni, e quindi capacità di investimento in ricerca e promozione, nemmeno paragonabili alle PMI italiane; 2) sono soggette a normative meno vincolanti - e costose - di quella italiana (si pensi all’incidenza sui costi di produzione di normative come quelle sui trattamenti previdenziali, sulla sicurezza sul lavoro o sull’inquinamento, che in alcuni paesi sono pressoché inesistenti); 3) affrontano costi per le materie prime e per la forza lavoro infinitamente ridotti rispetto a quelli sostenuti dalle PMI italiane. È chiaro che una concorrenza di questo tipo per la PMI italiana non è uno stimolo all’efficienza ma un cappio al collo. Dalla sfida con le imprese internazionali, la PMI italiana difficilmente esce vincitrice: ha minore capitali da investire in R&S e quindi ha minori chance di sviluppare prodotti e procedimenti competitivi, non ha la capacità di accettare le commesse più grandi, ha minore forza contrattuale con i distributori, ha minori mezzi da investire in promozione del marchio o dei prodotti, ha minore accesso ai finanziamenti pubblici, ha più difficoltà di accesso al credito… Però… c’è un però! Tutto questo discorso vale se la sfida è tra l’impresa internazionale e la singola PMI italiana, ma le cose cambiano se la sfida è tra l’impresa internazionale ed un distretto. 1.c. Il futuro del distretto Immaginiamo la competizione tra una multinazionale come Ikea, operante in 44 paesi del mondo, con 104.000 occupati e un fatturato di circa 20 miliardi di euro, e una tipica piccola impresa italiana del legno arredo, con una decina di dipendenti e circa 2 milioni di euro di fatturato. Non serve alcun commento. Immaginiamo ora la competizione tra quella stessa Ikea ed il Metadistretto Veneto del Legno Arredo: 12.000 aziende che occupano 72.000 lavoratori. Le cose cambiano, e di molto. L’esempio è campato per aria, ma rende bene l’idea della situazione attuale. Se quelle 12.000 aziende si accordano per collaborare contro il nemico comune, per fare “massa critica”, ossia – secondo la definizione che viene data da P. A. Nicoletti – per raggiungere “grandi fatturati, grandi produzioni, grandi distribuzioni, grandi ricerche che portino allo sviluppo di prodotti innovativi, brevettati e non facilmente replicabili”, allora possono, eccome, competere con le imprese internazionali. Ci sono le condizioni ideali perché ciò accada: a) le PMI del distretto possono collaborare facilmente visto sono collocate tutte nella stessa area geografica, parlano tutte lo stesso linguaggio, si conoscono bene…; b) pur collaborando, esse possono mantenere la loro indipendenza e le loro dimensioni ridotte, rimanendo così infinitamente più flessibili e più veloci ad adattarsi alle esigenze del mercato rispetto ai colossi globali; c) in Veneto, se decidono di collaborare e promuovono un patto di sviluppo comune, la Regione è disposta a finanziargliene a fondo perduto una quota fino al 40%. Questo quindi sembra essere il futuro del distretto, nonché la via da percorrere per la sopravvivenza del PMI italiane: la collaborazione. Come osserva F. Cafaggi: “...le debolezze tipiche delle piccole imprese non caratterizzano i sistemi produttivi a rete o di gruppo”. Ovviamente però la collaborazione tra imprese non si può imporre per legge, dipende dalla sensibilità e dalla lungimiranza degli imprenditori, ma una legge come quella veneta indubbiamente costituisce un ottimo ed efficace incentivo in questo senso. 5
  • 6. 2. LA NORMATIVA VENETA SUI DISTRETTI 2.a. La Legge Regionale Veneto 4 aprile 2003, n. 8 Il Veneto ha emanato una delle prime e delle migliori normative in materia di distretti: la L. Reg. 4 aprile 2003 n. 8, “Disciplina delle aggregazioni di filiera, dei distretti produttivi ed interventi di sviluppo industriale e produttivo locale”, come novellata dalla L. Reg. 16 marzo 2005 n. 6. Tale legge definisce i distretti ed altre forme di aggregazione produttiva al fine di promuoverne lo sviluppo mediante il cofinanziamento di progetti (c.d. “patti per lo sviluppo”) dai medesimi proposti. 2.b. Definizioni Ai sensi della Legge veneta, il distretto è costituito da un certo numero di imprese integrate in un sistema produttivo rilevante, e di altri soggetti istituzionali operanti nel nell’attività di sostegno dell’economia locale, che insieme esprimono un patto per lo sviluppo comune. Gli elementi costitutivi del distretto quindi sono: 1) l’elemento soggettivo: alla proposizione del patto di sviluppo possono partecipare, oltre alle imprese, anche altri soggetti istituzionali competenti ed interessati, come gli enti locali, le associazioni di categoria, gli istituti universitari, le camere di commercio… 2) l’elemento quantitativo: per l’accreditamento come distretto è necessario che il patto di sviluppo sia sottoscritto da almeno 100 imprese, per un numero di addetti non inferiore a 1.000 (tuttavia la Regione, in presenza di particolari condizioni di eccellenza produttiva, può derogare a tali requisiti minimi); 3) l’integrazione: le imprese partecipanti devono operare su una medesima specifica filiera produttiva o nel medesimo settore e devono presentare un elevato grado di integrazione produttiva e di servizio; 4) la rilevanza: le imprese partecipanti devono essere ai più alti livelli del settore (capacità di innovazione, presenza di imprese leader, condizioni di eccellenza produttiva…); 5) il patto per lo sviluppo: i partecipanti al distretto devono elaborare ed impegnarsi ad attuare un piano di sviluppo del distretto medesimo che deve avere durata triennale e che deve produrre risultati utili e fruibili per tutte le imprese del distretto (es: infrastrutture, ricerca scientifica, banche dati, attività promozionale, servizi informatici, opere di riconversione industriale…). Il metadistretto è un distretto che presenta grandi dimensioni (almeno 250 imprese per un numero di addetti non inferiore a 5.000), un’estesa diffusione sul territorio regionale e che quindi risulta uno strumento strategico per l’intera economia regionale. L’aggregazione di filiera è un fenomeno di dimensioni ridotte rispetto al distretto ed è data da un insieme di imprese (almeno 10) che operano sulla medesima filiera produttiva e che esprimono un singolo progetto comune. 2.c. Funzionamento Il distretto, che opera attraverso un rappresentate cui viene dato mandato da tutte le imprese partecipanti, propone alla Regione un patto per lo sviluppo, che è soggetto a valutazione di compatibilità e fattibilità da parte della CCIAA presso la quale è iscritta la maggior parte delle aziende sottoscrittrici (nonché della Provincia). Se sussistono tutti questi requisiti ed il patto è ammissibile, la Regione potrà esaminare, ed eventualmente finanziare con un contributo a fondo perduto pari al massimo al 40%, eventuali progetti presentati da gruppi di imprese (almeno 10) sottoscrittrici il patto di sviluppo. Della parte restante, le imprese partecipanti devono sostenere in proprio almeno un altro 40%, essendo loro consentito di coprire con eventuali altri finanziamenti solo il 20%. Ciò al fine di costringere le imprese ad investire di tasca propria così da ottenere la garanzia che esse abbiano interesse nel 6
  • 7. progetto e che il patto distrettuale non diventi solo un mezzo per intercettare finanziamenti. Allo stesso scopo, la Regione non anticipa i costi ammessi, ma li rimborsa solo a progetto positivamente concluso e su rendicontazione delle spese. All’interno del distretto si distinguono le imprese attuatrici e le mere sottoscrittrici. Le prime attuano il progetto, sostenendone i costi, le seconde si aggregano al patto permettendo al distretto di raggiungere le dimensioni minime (e quindi consentendo alle imprese attuatrici di ottenere il finanziamento dalla Regione), in cambio del diritto di utilizzare i risultati del progetto secondo le modalità convenute nel patto. È vero che l’impresa gregaria non sopporta costi e beneficia dei risultati, ma è anche vero che l’impresa attuatrice ha bisogno dell’adesione delle imprese gregarie per ottenere il finanziamento ed ha il vantaggio di poter orientare il patto verso i risultati che le sono più utili (pur dovendosi comunque trattare di risultati fruibili dall’intero distretto). 2.d. Lo spirito della Legge La Legge Veneta, pur essendo la prima in materia, è molto all’avanguardia - e potrebbe quindi porsi come modello per una futura legislazione sia nazionale che europea - per i seguenti motivi. 1) La L. Reg. 8/03 coglie la vera essenza del distretto, ossia la spontaneità dell’aggregazione delle PMI al fine di cooperare come “massa critica”. La precedente normativa nazionale (L. 317/91) attribuiva alla PA regionale il potere d’individuare d’imperio i distretti sulla base di criteri statistici e qualitativi astratti (approccio gerarchico “top-down”). Nel sistema veneto invece sono direttamente le imprese, che sentendosi parte di un distretto, si accordano per proporsi alla Regione come tale (approccio aggregativo “bottom-up”). Ciò garantisce che il distretto non sia solo un’etichetta posta dall’alto ad un insieme di aziende accumunate solo dal fatto di operare nello stesso settore e nello stesso territorio, ma sia un organismo vivo, composto da imprese che di propria iniziativa si coordinano per raggiungere un risultato utile a tutti. È interessante notare che, dopo l’esperienza veneta, il legislatore nazionale si è votato all’approccio bottom-up, sottolineando sempre la spontaneità del fenomeno distrettuale (la formula tipicamente usata è quella della “libera aggregazione d’imprese”). A ciò si aggiunga che i fabbisogni delle imprese non vengono decisi dal legislatore regionale (ancora una volta approccio top-down), ma vengono chiesti alle imprese stesse (approccio bottom-up), che li indicano attraverso la produzione di un patto di sviluppo che contiene per l’appunto le azioni considerate strategiche dalle imprese per il miglioramento della competitività del distretto. 2) Per la stessa ratio, l’esistenza del distretto ha una durata temporale limitata (3 anni). Si tratta di collaborazione per realizzare le azioni previste nel patto: quando il patto (triennale) è concluso, oppure fallisce, nessun ulteriore vincolo o sovrastruttura lega le imprese. 3) Il distretto è un accordo tra soggetti che mantengono la propria individualità, non costituisce una sovrastruttura (un’associazione, un consorzio, un ente pubblico…) che si sostituisce ai partecipanti, evitando così procedure e costi inutili. 4) Il concetto di distretto viene esteso fino ad includere, oltre al settore manifatturiero (distretto industriale), il settore dei servizi (distretto produttivo). 5) Il distretto viene svincolato dai confini amministrativi dei comuni del territorio in cui si estende, evitando così gli esiti inopportuni cui aveva portato la precedente normativa nazionale (L. 317/91), basata su parametri statistici e formali. La parola chiave per comprendere e per far funzionare la Legge veneta potrebbe essere “alleanza”, perché tutto verte su un accordo che gli imprenditori del distretto devono riuscire a raggiungere e mantenere: sull’individuazione dei partecipanti al distretto, sull’oggetto del patto di sviluppo, sulla ripartizione delle spese, sulle modalità di attuazione, sulla nomina del rappresentante, sulla 7
  • 8. condivisione dei risultati utili… Sta agli imprenditori comprendere che per vincere i nuovi nemici esterni devono diventare alleati dei loro vecchi nemici interni. 3. LA NORMATIVA NAZIONALE SUI DISTRETTI La sopradescritta complessità del fenomeno distrettuale ha causato non poche difficoltà al legislatore nazionale ogniqualvolta, per intervenire a suo sostegno, si è inevitabilmente imbattuto nel problema di darne una definizione. 3.a. La L. 5 ottobre 1991 n. 317 Il primo tentativo rilevante può essere individuato nella L. 5 ottobre 1991 n. 317 “Interventi per l’innovazione e lo sviluppo delle piccole e medie imprese”, che all’art. 36 indicava i distretti industriali come “le aree territoriali locali caratterizzate da elevata concentrazione di piccole imprese, con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e la popolazione residente nonché alla specializzazione produttiva dell'insieme delle imprese”. Tale norma di fatto riconosceva il fenomeno dei distretti ma non ne dava una definizione, la quale veniva delegata ad un futuro decreto del Ministero dell’Industria. Sulla base di tale decreto poi le Regioni, sentite le unioni regionali delle CCIAA, avrebbero dovuto individuare concretamente i singoli distretti e promuoverne lo sviluppo mediante finanziamento di “progetti innovativi concernenti più imprese”. Il Decreto di attuazione (D.M 21 Aprile 1993, c.d. decreto “Guarino”) per l’individuazione delle aree di “distretto industriale” indicava i seguenti parametri: 1) l’area da prendere a riferimento era il “sistema locale del lavoro” individuato dall’ISTAT, ossia un’area composta da un raggruppamento di comuni in cui i flussi di trasferimento pendolare giornaliero “casa-lavoro” si svolgono all'interno dell'area stessa; 2) l’area doveva presentare un elevato indice d'industrializzazione manifatturiera (occupazione industriale superiore al livello medio relativo nazionale); 3) l’area doveva presentare un elevato indice di densità imprenditoriale, calcolato in termini di unità locali (manifatturiere) in rapporto alla popolazione residente; 4) l’area doveva presentare un elevato indice di specializzazione produttiva dell'insieme delle imprese ivi localizzate; 5) l’area doveva presentare un elevato indice del peso occupazionale locale dell'attività specializzata (una grande quota della comunità locale deve risultare occupata nello specifico settore). Tale individuazione dei distretti, operata d’imperio dalla PA sulla base di criteri statistici e qualitativi (approccio gerarchico “top-down”), non corrispondeva alla realtà concreta del fenomeno distrettuale e difficilmente ha potuto essere applicata. Ciò non è mutato neanche quando, successivamente, la legge n. 140 dell’11 maggio 1999, relativa alle “Norme in materia di attività produttiva”, ha semplificato i parametri di individuazione dei distretti industriali, menzionati nel decreto “Guarino”. 3.b. La Finanziaria 2006 Più di recente, la Finanziaria 2006 del Governo Prodi (L. 266/05, commi da 366 a 372), architettata da Giulio Tremonti, prevedeva che un decreto ministeriale avrebbe dovuto stabilire “le caratteristiche e le modalità di individuazione dei distretti produttivi, quali libere aggregazioni di imprese articolate sul piano territoriale e sul piano funzionale”. Ai distretti così individuati si sarebbero dovute applicare specifiche disposizione di sostegno amministrative, fiscali, finanziarie, di ricerca e sviluppo ivi espressamente previste, tra cui alcune di estremo interesse come l’accesso al credito agevolato, il bilancio consolidato, il bond credito e l’obbligazioni di distretto . 8
  • 9. Tale norma non è mai stata applicata perché non è intervenuto alcun decreto attuativo. Tuttavia essa presenta due pregevoli novità rispetto alla legge sopra citata (novità peraltro già presenti nella Legge Veneta). In primo luogo ha esteso il concetto di distretto dal settore manifatturiero anche a quello dei servizi (non si parla più di distretti industriali ma di distretti produttivi). In secondo luogo, per l’individuazione del distretto, ha accolto l’approccio aggregativo “bottom-up” a scapito di quello gerarchico “top-down” utilizzato nella legislazione precedente: ora i distretti sono definiti come “libere aggregazioni di imprese”. 3.c. La Finanziaria 2007 Anche nella Legge Finanziaria 2007 (L. 296/2006, commi da 889 a 891), il Governo Prodi si è occupato nuovamente dei distretti, novellando la Legge Finanziaria precedente nelle parti ad essi relative. In attesa del decreto attuativo della Finanziaria 2006 che avrebbe dovuto stabilire i criteri e le procedure per l’individuazione dei distretti (mai intervenuto), la novella dispone un cofinanziamento statale “a progetti in favore dei distretti produttivi adottati dalle regioni, per un ammontare massimo del 50 per cento delle risorse pubbliche complessivamente impiegate in ciascun progetto”. Si noti che, rispetto al momento in cui è stata emanata la L. 317/91, è intervenuta la riforma del titolo V della Costituzione (L. Cost. n. 3/01) che, modificando l’art. 117 Cost., ha attribuito alla competenza legislativa concorrente delle Regioni la materia del “sostegno all'innovazione per i settori produttivi”, sicché nel frattempo le Regioni hanno potuto dotarsi di propri strumenti legislativi di sostegno dei distretti produttivi (proprio come la L. Reg. Veneto 8/03), sulla base dei quali hanno potuto finanziare i progetti cui fa riferimento la norma in esame. I progetti ammessi al cofinanziamento sono stati individuati con decreto del Ministro dello sviluppo economico del 28 dicembre 2007. Sostanzialmente la Finanziaria 2007 riconosce gli interventi regionali e li co-finanzia, ma non apporta nulla di nuovo alla definizione e alla disciplina dei distretti. 3.d. Il Disegno di Legge Bersani Successivamente, il Disegno di legge “Bersani” sulle liberalizzazioni “Misure per il cittadino consumatore e per agevolare le attività produttive e commerciali, nonché interventi in settori di rilevanza nazionale” (Atto Senato S. 1664, Atto Camera C. 2272 bis), all’art. 24 delegava il governo ad adottare uno o più decreti legislativi che avrebbero dovuto: a) definire le forme di coordinamento stabile di natura contrattuale tra imprese aventi distinti centri di imputazione soggettiva, idonee a costituire in forma di gruppo paritetico o gerarchico una rete di imprese; b) definire i requisiti di stabilità, di coordinamento e di direzione necessari al fine di riconoscere la rete di imprese; c) definire le condizioni, le modalità, i limiti e le tutele che assistono l’adozione dei vincoli contrattuali di cui alla lettera a); (omissis) Con la caduta del Governo Prodi il DDL non ha avuto seguito (attualmente risulta in corso di esame in commissione al Senato dal 16.01.2008). Tuttavia è interessante rilevare che ormai non si parla più di distretti produttivi, ma di reti d’imprese, e che l’attenzione non è più rivolta soltanto all’intervento pubblico a sostegno delle PMI, ma anche alla definizione e alla disciplina dei rapporti privatistici tra le imprese della rete. 9
  • 10. 3.e. La Manovra d’Estate Recentemente, il governo Berlusconi è intervenuto in materia con la c.d. “Manovra d’estate”, D.L. 25 giugno 2008, n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, convertito in legge con la L. 6 agosto 2008, n. 133. L’art. 6 bis stabilisce che “al fine di promuovere lo sviluppo del sistema delle imprese (…) con decreto del Ministro dello sviluppo economico (…) sono definite le caratteristiche e le modalità di individuazione delle reti delle imprese e delle catene di fornitura”, intese “quali libere aggregazioni di singoli centri produttivi coesi nello sviluppo unitario di politiche industriali”. La norma prosegue sancendo che alle reti di imprese e alla catene di fornitura così individuate, “anche al fine di migliorare la presenza nei mercati internazionali, si applicano le disposizioni concernenti i distretti produttivi” che erano state previste (ma mai applicate) dalla Legge Finanziaria 2006. La “Manovra d’estate”, sostanzialmente proseguendo nel solco avviato dal DDL Bersani, presenta interessanti novità: 1) ancora una volta il legislatore non fa nemmeno più riferimento ai distretti, ma solo alle reti di imprese e alle catene di fornitura, che questa volta vengono espressamente riconosciute come un fenomeno diverso e distinto dai distretti (a cui estendere la disciplina di questi ultimi); 2) il nuovo fenomeno delle reti d’imprese (e delle catene di fornitura), a differenza del distretto, non presenta nessun legame con il territorio (realtà produttive anche appartenenti a regioni diverse…); 3) l’obiettivo perseguito dal legislatore viene specificato: ancora sviluppo e innovazione, ma finalizzate all’internazionalizzazione delle imprese italiane, si veda la rubrica dell’art. 6 (“Sostegno all’internazionalizzazione delle imprese”) ed il riferimento nell’art. 6 bis al “fine di migliorare la presenza nei mercati internazionali”. Circa un mese dopo la conversione del decreto, veniva dichiarato il fallimento della Lehman Brothers con tutto quello che ne è conseguito, sicché il Governo ha avuto altro a cui pensare che dare una definizione “delle reti delle imprese e delle catene di fornitura” ed i buoni propositi son rimasti per ora lettera morta. 3.f. Il decreto “Incentivi e Imprese” Da ultimo (10 febbraio 2009), il Governo Berlusconi ha emanato il Decreto Legge n. 5/09 "Misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi", che all’art. 3 (ancora con la tecnica della novella della finanziaria 2006) introduce la c.d. tassazione unitaria di distretto: “le imprese appartenenti a distretti di cui al comma 366 possono congiuntamente esercitare l'opzione per la tassazione di distretto ai fini dell'applicazione dell'IRES”. In sostanza, si consente che tutte le imprese operanti in un distretto industriale optino congiuntamente per una tassazione consolidata. Così facendo, i redditi che ogni impresa produce in proprio non saranno soggetti ad autonoma tassazione, bensì confluiranno ogni anno in un unico calderone soggetto a IRES. Tale meccanismo consente di determinarne la base imponibile del distretto come somma algebrica delle singole basi imponibili, con il notevole vantaggio di esercitare quindi una compensazione tra imprese in utile ed imprese in perdita. La ripartizione fra le singole imprese degli oneri fiscali distrettuali dovrà poi avvenire sulla base di criteri di trasparenza e di parità di trattamento e sulla base di principi di mutualità, fondati sull’attitudine alla contribuzione di ogni impresa aderente. Inoltre si prevede che il distretto possa concordare con l’Agenzia delle Entrate, per la durata di tre anni, un reddito complessivo predeterminato forfettariamente, su cui pagare le imposte. Tale opzione per la pianificazione fiscale triennale comporta inoltre una significativa copertura rispetto ai controlli dell'Amministrazione finanziaria (a condizione che venga rispettato quanto preventivamente pattuito), poiché è previsto che controlli siano eseguiti unicamente allo scopo di monitoraggio, prevenzione ed elaborazione dei dati necessari per la determinazione delle future 10
  • 11. pianificazioni. È espressamente previsto che anche i distretti che non avranno optato per la tassazione consolidata possano beneficiare della pianificazione fiscale concordata. I primi commentatori a tale norma hanno sollevato le seguenti due osservazioni. In primo luogo, in questa normativa scompare la figura della rete d’imprese, che invece si era prepotentemente affermata nella legislazione più recente. In secondo luogo, questo intervento legislativo non porta alcun contributo alla individuazione del distretto, il quale – a livello nazionale – rimane indefinito. Pertanto si prevede che l’applicazione di queste misure fiscali sarà possibile solo sulla base delle normative regionali che già definiscono e riconoscono i distretti, mentre difficilmente potranno trovare attuazione nelle regioni che non hanno provveduto in tal senso. 3.g. Altre leggi rilevanti Rilevanti in materia, per i motivi che si esporranno in seguito, sono anche: - la L. 18.06.1998, n. 192 sulla subfornitura, - la L. 06.05.2004, n. 129 sul franchising, - il D. Lgs. 09.10.2001, n. 231 sui ritardi nei pagamenti nelle transazioni commerciali. 4. DE IURE CONDENDO 4.a. Dai distretti alle reti Nel precedente breve excursus storico della normativa rilevante si è registrato che di recente il legislatore nazionale è passato dall’occuparsi dei distretti produttivi all’occuparsi delle reti d’imprese. Non si tratta di una mera scelta lessicale. Il fenomeno delle reti d’imprese è venuto alla ribalta nel momento in cui il sistema dei distretti ha iniziato a scricchiolare. Tale analisi è compiuta in modo estremamente lucido dal Comitato Nazionale Economia e Lavoro (CNEL) nel documento dell’assemblea del 18 dicembre 2008, che predica il tramonto del sistema dei distretti e la necessità del passaggio ad un modello nuovo, individuato nelle reti d’imprese. Secondo il CNEL, l’impatto del mercato globale sui distretti produttivi sta portando questi ultimi ad una trasformazione che può essere riassunta come segue. Nello scontro con la concorrenza internazionale la spuntano solo le piccole e medie imprese che, aumentando di dimensioni, riescono ad “internazionalizzarsi e realizzare innovazioni di processo e di prodotto”. Normalmente queste imprese evolute, che diventano leader del distretto, trovano conveniente frammentare il processo produttivo e distributivo, commissionandone alcuni segmenti ad altre imprese (esternalizzazione o outsourcing). Quindi le altre imprese del distretto, quelle che non hanno saputo evolversi, o soccombono oppure adeguano la loro attività alle esigenze dell’impresa leader, diventando suoi sub-fornitori o suoi distributori. Il CNEL osserva che “la presenza di una o più imprese leader ha così determinato un’organizzazione di distretto completamente diversa: un nucleo di medie imprese che gestiscono una filiera di micro e piccole imprese sub-fornitrici”, e contestualmente “i processi di delocalizzazione in Italia e all’estero hanno poi esteso la filiera subfornitrice dell’impresa leader anche all’esterno del territorio dell’originario distretto”. Pare che il distretto si sia trasformato in qualcosa di completamente diverso. Non c’è più una miriade di imprese omogenee radicate nel territorio, che condividono conoscenze pur essendo in concorrenza tra loro, che hanno dimensioni ridotte ma all’occorrenza possono collaborare per “fare massa critica”. Ora c’è un’impresa, o un gruppo di imprese, leader, che si pone come hub di una filiera o raggiera produttiva o distributiva composta da PMI, la quale non ha più un legame particolare con il territorio in cui è localizzata (infatti la c.d. “Manovra d’estate” parla di “realtà produttive anche appartenenti a regioni diverse”). Secondo il CNEL “si prefigura il superamento del 11
  • 12. distretto industriale, monosettoriale e strettamente confinato in un territorio storicamente determinato, a favore di una rete d’impresa che dovrebbe preludere alla crescita delle dimensioni d’impresa”. Corrispondentemente il documento di sintesi del DDL Bersani (Industria 2015) titolava: «arriva un’opportunità per le piccole imprese di aumentare la massa critica necessaria per muoversi al meglio sul mercato: diventare “rete”», e poi spiega “le PMI che non vogliono fondersi e scelgono di diventare rete acquisiscono maggiore forza contrattuale nei confronti dei terzi (quali ad esempio, banche, fornitori, committenti e, in alcuni casi, fisco), pur non essendo controllate da un unico soggetto”. Allora forse non è un caso che il legislatore, esattamente negli stessi anni in cui secondo il CNEL si verifica questo processo, abbia sentito l’esigenza di disciplinare due particolari realtà: nel 1998 la subfornitura (L. 18.06.1998, n. 192) e nel 2004 il franchising (L. 06.05.2004, n. 129), realtà che incarnano rispettivamente il fenomeno della filiera produttiva e della raggiera distributiva. 4.b. Reti e distretti oppure reti o distretti? Il CNEL sembra convinto che la rete d’impresa sia l’evoluzione necessaria ed inevitabile del distretto. Tuttavia non pare vi siano argomenti per ritenere che i due fenomeni non possano coesistere, seppure il distretto può - eventualmente - trasformarsi in rete. Anzi, dalle riflessioni sopra svolte pare che essi costituiscano due possibili soluzioni alternative all’impatto della concorrenza internazionale sulle PMI italiane: la necessità, pacifica ed indiscussa, di “fare massa critica” - ossia quella necessità di internazionalizzarsi sottolineata dalla c.d. “Manovra d’estate” - può essere soddisfatta o con lo strumento del distretto (le PMI mantengono le loro dimensioni ma cooperano), oppure con lo strumento della rete (un’impresa aumenta di dimensioni e le altre le gravitano attorno). Si tratta di due realtà diverse e distinte, che quindi presentano problemi diversi e distinti. Un intervento pubblico di sostegno al distretto costituisce un intervento a favore di un’attività e di un territorio, mentre un intervento pubblico di sostegno ad una rete d’imprese costituisce indubbiamente un aiuto pubblico che favorisce talune imprese falsando la concorrenza, assolutamente inammissibile ai sensi dei principi europei sulla concorrenza e sugli aiuti di stato (art. 87 Trattato CE). Pertanto, in materia di distretti, gli obiettivi del legislatore devono sostanzialmente essere quelli di operare un intervento pubblico a sostegno del sistema aggregato e di incentivare gli imprenditori a cooperare; mentre in tema di reti d’imprese non si pone tanto il problema di fornire un intervento pubblico di sostegno, quanto quello di capire e disciplinare i rapporti privatistici tra i vari nodi delle imprese. E infatti, di nuovo non è un caso che il DDL Bersani per la prima volta si soffermi sui problemi di “definire le forme di coordinamento stabile di natura contrattuale tra imprese aventi distinti centri di imputazione soggettiva, idonee a costituire in forma di gruppo paritetico o gerarchico una rete di imprese”, di definire “le condizioni, le modalità, i limiti e le tutele” che assistono l’adozione di tali vincoli contrattuali; di definire in conclusione “il regime giuridico della rete di imprese”. 4.c. La natura giuridica e la disciplina dei rapporti di rete Quando più imprese collaborano per il perseguimento di uno scopo comune (la produzione o la distribuzione di un prodotto finale), ciò avviene normalmente o nell’ambito di un gruppo (le diverse imprese sono formalmente autonome ma di fatto fanno tutte capo ad un unico proprietario) oppure nell’ambito di un vincolo societario o di un accordo comune (contratto di scopo comune). Nel caso delle reti invece le diverse imprese indipendenti realizzano, ciascuna autonomamente, una fase del ciclo produttivo/distributivo, contribuendo tutte a produrre, però indirettamente, il risultato finale. Non v’è un vincolo che leghi tutte le imprese in vista del risultato finale, ma solamente una molteplicità di rapporti contrattuali bilaterali che legano ciascuna impresa 12
  • 13. esclusivamente con la propria controparte per la realizzazione di una limitata fase produttiva/distributiva. Formalmente l’attività di ciascuna impresa e tutti i singoli contratti sono assolutamente autonomi l’uno dall’altro (principio della relatività del contratto), ma di fatto sono legati da una forte interdipendenza (es: l’inadempimento di un subfornitore impedisce al committente la produzione, per cui ne risentono anche i rivenditori; la cattiva promozione del prodotto da parte di un distributore lede l’immagine del prodotto a danno di tutti, sia produttori che distributori). In questo sistema il risultato comune viene perseguito attraverso una serie di contratti di scambio bilaterali (anziché un unico contratto associativo) che spesso però contengono clausole che eccedono la funzione dello scambio e manifestano l’interdipendenza. Ad esempio, oltre al contenuto tipico della compravendita e della fornitura, possono essere previsti obblighi ulteriori (promuovere il prodotto in determinati modi) e diritti ulteriori (esclusiva, utilizzo segni distintivi, assistenza tecnica, formazione personale, finanziamenti…). La questione è che questa interdipendenza (che è l’essenza della rete) non assume rilievo giuridico, ma solo fattuale (es: gli altri membri della filiera non hanno alcuna azione contro i soggetti che non siano la propria controparte diretta). L’istituto dei “contratti collegati” non è applicabile, intanto perché ha come unico effetto quello del “simul stabunt simul cadent” e poi perché riguarda solo i contratti tra le medesime parti. Il Legislatore nazionale è intervenuto nella materia con la L. 129/04 sul franchising, per il caso della distribuzione a rete, e con la L. 192/98 sulla subfornitura, per il caso della produzione a rete. Tali normative affrontano alcune problematiche specifiche, che sostanzialmente sono, per la subfornitura, quella del rischio di abusi di dipendenza economica da parte dell’impresa leader della filiera, e per il franchising quelle della condivisione delle conoscenze e della valutazione anticipata del rischio d’impresa. Tuttavia si tratta di interessanti spunti di principio, ma la questione della disciplina dei rapporti di rete e dell’interdipendenza resta completamente aperta. Infatti i modelli di governance che di fatto risultano applicati attualmente alle reti d’imprese sono i più vari e disparati (mere relazioni contrattuali, accordi temporanei d’impresa, consorzi, joint venture, strumenti societari, partecipazioni incrociate, patti parasociali, interlocking directorates, codici di comportamento…) e sicuramente richiedono una sistemazione razionale, se non legislativa, almeno dottrinale. 5. CONCLUSIONI Dalla breve analisi sopra svolta, pare emergere un messaggio chiaro. Il sistema delle PMI italiane per sopravvivere nel mercato globale deve “internazionalizzarsi”, fare “massa critica”, e può farlo in due modi: o con il distretto, non più inteso in senso statico come aggregazione di imprese omogenee stanziate in un territorio limitato, ma in senso dinamico come organismo composto da imprese indipendenti che cooperano per il bene comune; oppure con la rete di imprese, intesa come aggregazione di PMI gravanti attorno ad un’impresa o ad un gruppo di imprese di spessore internazionale. Per i distretti, il compito del legislatore è quello di provvedere ad interventi di sostegno del sistema aggregato (sul modello della Legge regionale del Veneto). Per le reti di imprese, il compito pare essere quello di definire i rapporti tra i nodi in modo da evitare abusi dei soggetti dominanti. 13
  • 14. 6. SPUNTI DI APPROFONDIMENTO 6.a. Il capitale umano nella PMI veneta Un punto critico del modello veneto dei distretti può essere individuato nella gestione del capitale umano. Tipicamente l’imprenditore veneto presenta una concezione strettamente padronale della sua attività, che potrebbe essere riassunta in questo pensiero “l’azienda me la son costruita io ed è proprietà mia e della mia famiglia”. Questo pensiero, assolutamente giusto e sacrosanto, spesso però prosegue così “l’azienda me la son costruita io ed è mia e della mia famiglia… quindi io sono il padrone e tutti quelli che ci lavorano sono dipendenti sostituibili”. Egli, per quelle stesse qualità di individualismo e di dedizione al lavoro che hanno fatto la fortuna del modello distrettuale veneto, è portato ad identificare l’impresa nella sua persona ed a vedere nei suoi lavoratori dei meri dipendenti subordinati, giammai possibili collaboratori in grado di contribuire alla sviluppo della sua azienda. In termine pratici ciò cosa significa? Significa che per “il padrone”, chi lavora nella sua azienda - per quanto titolato sia, per quante lingue parli, per quante competenze e per quanta voglia di lavorare abbia (nb: non solo il padrone, ma anche nelle vene del dipendente scorre sangue veneto…) - è e sarà sempre solo un dipendente da 1.200 euro al mese che deve semplicemente eseguire, e se così non gli sta bene: alzi i tacchi e se ne vada. Le possibili conseguenze di ciò sono due. O che il (giovane) dipendente di una PMI veneta perde gli stimoli, è frustrato, la sua produttività si abbassa, il suo interesse scema, la voglia di lavorare passa, oppure che decide di andarsene a cercar fortuna in un’altra realtà che non sia fatta di piccole e medie imprese padronali, non importa dove (Londra, New York, ma anche Milano basta) e non importa a fare cosa (magari alla faccia della sua tesi di laurea sperimentale, del suo dottorato o del suo master). In termini economici ciò cosa significa? Significa capitale umano che viene bruciato o che vola via dal Veneto. È un problema che evidentemente non può essere risolto con una legge. È un problema di sensibilità e lungimiranza degli imprenditori veneti, esattamente come quello della comprensione della necessità di cooperare e fare “massa critica” per la sopravvivenza del distretto. Se quest’ultimo problema inizia ad essere compreso, grazie anche alla L. Reg. 3/08, il problema del capitale umano invece non pare affacciarsi alla mente degli imprenditori veneti. Per dipingere la sensibilità ed il livello di comprensione verso il problema dell’imprenditoria veneta, si può riportare la risposta data ad un giovane dipendente neolaureato che esponeva le sue perplessità al titolare: “Se non vi va bene così, vendo tutto e vado a giocare a golf”. 6.b. I distretti e le reti in Europa Quello dei cluster è ormai un argomento di gran voga anche a livello europeo: sono molteplici gli interventi (seppure ancora non normativi) della Commissione e del Parlamento e si moltiplicano i progetti. Può essere opportuno pertanto presentare un quadro sintetico delle principali iniziative in materia. Nella Comunicazione COM (2008) 652 del 17.1008 “Towards world-class clusters in the European Union: implementig the broad-based innovation strategy”, la Commissione sottolinea la grande importanza del fenomeno dei distretti d’imprese per lo sviluppo dell’economia europea ed indica quali sono i principali interventi ed attività a livello europeo in materia di clusters. Pro Inno Europe è un’iniziativa della Commissione, Direzione Generale Industria e Imprese, volta a promuovere e sostenere l’innovazione, l’apprendimento e lo sviluppo in Europa. Nell’ambito di Pro Inno è stata istituita la European Cluster Alliance, che mira a diventare l’unico strumento europeo in materia di cluster. I membri della Alliance collaborano in 4 campi: 1) misurazione dell’impatto economico della politica e dei programmi sui cluster 14
  • 15. 2) identificazione delle risorse per supportare la politica sui cluster 3) implementazione delle infrastrutture per i cluster 4) identificazione delle principali attività dei programmi sui cluster, con particolare riferimento all’internazionalizzazione. Nell’ambito della Alliance sono attivi quattro progetti triennali a partire dal settembre 2006: 1) BSR InnoNet - The Baltic Sea Region Innovation Network 2) CEE-ClusterNetwork - Central and Eastern European Cluster and Network Area (cui, tra gli altri partners, partecipa il Sudtirolo attraverso il TIS Innovation Park) 3) CLUNET - Cluster Network (cui, tra gli altri partners, partecipano la Toscana, attraverso Etruria Innovazione, ed il Lazio, con la Filas) 4) INNET - Networking of national/regional funding and innovation organisations for the involvement of SMEs in technology-based innovation clusters in Europe (cui, tra gli altri partners, partecipano il Veneto con Veneto Innovazione e la Toscana con Sviluppo Italia Toscana). Possono partecipare alla Alliance (a proprie spese) tutti i soggetti che: 1) abbiano sede in uno stato partecipante al CIP - Competitiveness and Innovation Programme 2) abbiano natura pubblica o semi-pubblica 3) si occupino dello sviluppo o dell’amministrazione di politiche o programmi sui cluster per conto della PA. I membri dell’Alliance hanno i seguenti diritti: a) partecipare ai lavori di Pro Inno, b) essere invitati agli eventi dell’organizzazione, c) avere pieno accesso al sito della Alliance, d) usare e diffondere i risultati ottenuti dall’Alliance; ed i seguenti obblighi: a) supportare le iniziative della Alliance, b) invitare gli altri membri della Alliance agli eventi che organizzano, c) informare Pro Innova delle attività svolte in materia al fine della pubblicazione online, d) auto-finanziarsi i costi di partecipazione. Europe Innova è un’iniziativa del 2006 della Commissione, Direzione Generale Industria e Imprese, nell’ambito del CIP - Competitiveness and Innovation Programme, che si propone come laboratorio per lo sviluppo ed il test di nuovi strumenti per l’innovazione, tra i quali i clusters. Nell’ambito di questa iniziativa si sono effettuate due operazioni di mappatura dei cluster esistenti. La prima, iniziata nel 2004 e conclusa nel 2006, ha riguardato 10 stati membri ed ha individuato 367 clusters. La seconda, iniziata nel 2006, riguarda 15 stati membri, 3 stati candidati (Turchia, Romania e Bulgaria – le ultime due ora sono membri), nonché Islanda, Israele, Norvegia e Svizzera. Sulla base dei dati raccolti con questa mappatura è stato istituito l’European Cluster Observatory, gestito dal Center for Strategy and Competitiveness (CSC) della Stockholm School of Economics, finanziato dalla Commissione Europea, che è strutturato in 4 sezioni: 1) Cluster mapping: per la prosecuzione dell’attività di mappatura dei clusters secondo le 38 categorie individuate; 2) Cluster organisations: per un’elencazione degli enti pubblici e privati attivi nella promozione dei distretti; 3) Cluster policy: per un quadro delle politiche nazionali e regionali in tema di clusters; 4) Cluster library: per un archivio di documenti e studi in materia di clusters. Nell’ambito di Europe Innova inoltre è stato istituito l’High Level Advisory Group, composto da esperti in materia, che ha redatto l’European Cluster memorandum ed un agenda di azioni comuni per la cooperazione tra le autorità locali competenti nella politica sui cluster. A questo gruppo ha partecipato anche Sandro Sandri, attualmente Assessore Veneto alla Sanità. Nel 2009 verranno lanciate nuove azioni sui seguenti tre punti: a) transnational cluster cooperation, 2) knowledge-intensive services and 3) eco-innovation. Da ultimo la Commissione, sempre nell’ambito del CIP, ha istituito l’European Cluster Policy Group, un gruppo composto da alti esperti in materia di innovazione/competizione e distretti, avente la funzione di supportarla nello sviluppo delle politiche a sostegno dei distretti. La call for applications si è chiusa nel novembre 2008. - Mattia Esposito - 15