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Jan Fabre - Spiritual Guards. Alchimista del nuovo millennio.
Articolo di Vanessa Maggi
Piazza della Signoria e Palazzo Vecchio :dal 15 aprile al 2 ottobre 2016
Forte di Belvedere: dal 2 maggio al 2 ottobre 2016
Dove: Palazzo Vecchio, Forte del Belvedere, Piazza Signoria Firenze.
url foto http://janfabre.be/angelos/_images/exhibitions_spiritual-guards.jpg
url sito :www. janfabre.be
___________________________________________________
La ricerca di Jan Fabre è rivolta alla scrupolosa osservazione del corpo, nella sua fragilità e nella sua difesa,
domandandosi sul destino futuro dell’uomo. Uomo e animale interagiscono continuamente nella sua opera,
e questo induce alla trasmutazione di corpi che resistono al deterioramento naturale e alla morte. La sua arte
è “una resistenza poetica in nome della bellezza…un esercizio nella morte e nella vita come preparazione alla
morte” (www.janfabre.be).
L’esposizione di Jan Fabre a Firenze, solleva non poche questioni, sulla natura umana, il suo bisogno di
comprensione, e il rapporto dialettico dell’uomo col mondo animale. Come in uno specchio, le opere di Fabre
riflettono le paure più recondite dell’uomo moderno, il quale oggi, forse plagiato dal mondo consumistico e
globalizzato, spesso non s’interroga più sul proprio destino, e sulle manipolazioni scientifiche, genetiche,
mediatiche, e politiche, che lo investono, e dalle quali è soggiogato continuamente, in modo disarmato.
Eppure, curiosamente, reagisce alla produzione artistica di Jan Fabre. Il mondo delle polemiche non sempre
ha tuttavia vita lunga, soprattutto se non ha radici coerenti, o se giudica l’arte senza conoscerla, e Jan Fabre
non è interessato a polemiche fini a se stesse, semmai, a diffondere un messaggio coerente. Da anni utilizza
infatti animali impagliati nelle performance e nelle arti figurative, destando scalpore per la violenza delle
immagini, che mostrano spesso bestiole infilzate o “ricomposte,” all’interno di nuove raffigurazioni. Nulla da
eccepire nei confronti dei deboli di cuore, o di chi non apprezza presentazioni brutali come queste.
Nondimeno, bisogna approfondire il mondo sconosciuto prima di delimitarlo.
Varcando le sedi dell’esposizione fiorentina, si percepisce un’intima relazione, significativa e simbiotica, con
le opere del passato storico, racchiuso gelosamente tra le mura del mondo mediceo. Jan Fabre ha avuto
certamente un passato di “dissezione”, quando, interessato ai meccanismi della metamorfosi animale, fu
ispirato dall’entomologo omonimo (Jean-Henri Fabre 1823–1915), e trasportato nei meandri
dell’interrogazione sulla vita e sulla morte, nei processi trasformativi e di decomposizione dei corpi animali,
e quindi umani. Ciò che muove il suo infinto interesse, non consiste quindi soltanto nel mondo animale, ma
nella incessante interazione tra quello e l’umano. Nelle molteplici e differenziate espressioni performative,
condotte in un arco temporale piuttosto lungo sin dagli anni settanta, ha spesso utilizzato animali vivi con
risultati non sempre del tutto convincenti, e attualmente, già morti e imbalsamati, tentando di diffondere
complessi messaggi esistenziali. Procurando uno shock emotivo immediato, figlio delle azioni performative
brutali sul corpo (già dai settanta), adopera animali in modo provocatorio, per smuovere la morale comune,
che spesso si rivela inspiegabilmente inerte poi, nei confronti delle continue persecuzioni che gli animali oggi
subiscono. L’interesse verte soprattutto sul regno degli insetti, i loro principi di metamorfosi, nonché
l’ingegno, che eleva, per intrinseca intelligenza di gruppo, ma anche sulla relazione del mondo felino del
gatto, in fusione dualistica con la figura dell’artista, negletto e incompreso per secoli. A livello estetico,
l’ammasso plurimo e variegato di coleotteri, scarabei, teschi che s’imboccano di scoiattoli, nei contrasti
variopinti di verde smeraldo e pelame, che rivestono spade, corazze, forme antropomorfe, oggetti,
rimandano distintamente alle investigazioni alchemiche che Francesco I realizzava all’interno dello studiolo
di Palazzo Vecchio, o di quando, celato al mondo, custodiva gelosamente i “segreti”, nei propri camerini di
Pratolino. Jan Fabre, come un novello alchimista calato nel mondo antico, si rivolge però all’uomo
contemporaneo, non celato, ripercorrendo l’analisi minuziosa dell’eredità fiamminga. Indagando
attentamente il mondo animale, lo rielabora e ricompone in nuove e inusitate forme. Adotta il sapere
scientifico dell’uomo rinascimentale, nell’investigare, sezionando e adattando (Leonardo e Michelangelo),
quelle forme animali e umane, e giocando con le espressioni, negli autoritratti antropomorfi di cera. La ricerca
si manifesta in maniera visibile come nuova vanitas del tempo che scorre, nell’ineluttabile caducità della vita
e della morte, indagando la trasmutazione fisica, nell’intento di eludere questa volta, il naturale corso del
deterioramento. Se gli artisti del Seicento con i memento mori traevano lezioni etiche per l’osservatore,
l’artista moderno non dà lezioni, ma intenta un dialogo. I diavoli, gli animaletti grotteschi reinventati, le
deformazioni corporee e le antropomorfizzazioni, trovano riscontri in precedenti arcimboldeschi, nei
monstra delle Wunderkammern, e in Hieronymus Bosch. Insomma, un universo infinto e mutevole, colto,
che ha già fagocitato il passato storico, in cui l’uomo si fa insetto, carnefice, manipolatore. Ma anche dove
l’artista parla all’uomo, attraverso i suoi atti performativi, in cui ad esempio batte più volte le mani sulla
corazza della finzione e della falsità. Nella meticolosa, maniacale considerazione del corpo fisico e delle sue
inevitabili trasformazioni, risiede la domanda sul futuro dell’esistenza umana. Se certamente le invasioni
bronzee del belga stridano un poco con la bellezza estetica e morale di Donatello, Cellini, Giambologna, o
Michelangelo, creando nella cittadinanza fiorentina un certo dissenso (come lo crearono d’altronde, le
orrende rotondità di Botero, ma anche le deformità di Bandinelli e Ammannati), tuttavia; osservate
all’interno del circuito del Belvedere e del Palazzo Vecchio, esprimono tutto il loro contenuto intrinseco, e il
chiaro dialogo con quelle. Le sculture in piazza Signoria infatti, si incastrano nel tessuto scultoreo museale
storico e storicizzato, in un primo momento in modo invadente, eppure a veder bene, il carapace allude a
Cosimo I, e la vasca che lo contiene sembra esserci sempre stata. Nel rapporto dialettico col classico, in
maestose opere bronzee, l’artista ritrae se stesso all’opera, per concettualizzare il desiderio di organizzare il
mondo in modo innovato, in assoluta libertà, giocando pure con gli elementi, non senza una buona dose di
autoironia. Sebbene si possano non amare gli autoritratti bronzei, si dovrebbe apprezzare nondimeno il senso
ludico e concettuale. Il disseminato campo di battaglia al Belvedere, svela brandelli di armature dorate,
residui di una battaglia tra animali fantastici, ibridi e l’uomo, che all’interno delle performance, è esso stesso
animale ibridato, rivestendo la medesima corazza. Spiritual guards investe gli esseri umani della nomina di
“guardiani spirituali”, con il compito di lottare per la difesa della bellezza e dell’immaginazione, e poco
importa se questa battaglia si affronti armati, o in modo pacifico. L’importanza risiede nel vivere una vita in
modo eroico ed avventuroso.
Come animalista vegetariana, non mi schiero a favore di chi oltraggia gli animali, ma in questo caso, con una
buona dose di umanità e di umiltà (come storica dell’arte, spettatrice e pittrice), debbo spezzare una lancia
in favore dell’artista. Sebbene restino senza attrattiva oggettivamente gli animali morti trafitti, o gettati dai
davanzali, credo fermamente nel bisogno smisurato di estrinsecazione artistica, anche attraverso l’uso di
animali impagliati (purché morti da tempo, come accertato, e possibilmente per cause naturali). Considero
stupefacenti difatti, le realizzazioni create con miriadi di coleotteri o bestiole addentate da teschi umani,
sebbene riponga fiducia nella sconfinata creatività e maestria di un artista come Fabre, il quale può
raggiungere inevitabilmente i medesimi esiti, studiando effetti con elementi costitutivi fittizi, quali la cera, la
ceramica, le pelli, i legni, i metalli, la plastica, o quant’altro. Che poi, la stima dell’intrinseca bellezza di
un’immagine apparentemente noir, incrocio tra grottesco e aulico, come le corazze, le spade, i globi, i teschi,
va fatta risalire all’atavica memoria umana. Le radici nell’arte e nella storia dell’uomo sono plurime: dai teschi
inca, alle vanitas seicentesche, agli scalpi di popolazioni tribali incastonati di madreperla, alle strabilianti e
inquietanti dissezioni umane realizzate in cera da Vesalio, o di quelle custodite nella non lontana Specola
fiorentina. In onore e in nome della scienza, sin troppi animali sono stati impagliati e si osservavano con
sgomento nelle teche settecentesche degli antichi studioli di molti entomologi europei. Eppure, il tempo e la
storia hanno portato all’assuefazione, e all’accettazione. In nome della scienza e della scoperta, ogni anno si
perpetuano strane mutilazioni, ibridi, modificazioni genetiche su animali ed esseri umani, ma se è un artista
a rispondere con i medesimi mezzi, ecco sollevarsi un vortice di inutili baruffe, dettate dalla cattiva
informazione, che è sempre figlia della paura del nuovo, e dell’attaccamento al vetusto. Occorre schiudersi
al nuovo, penetrandolo giustamente, poiché come in questo caso, reca un dispaccio saturo di speranza e
fiducia nell’uomo, svelando una chiara sensibilità umana nell’artista. Parola di medievista- contemporaneista.
Vanessa Maggi
Storica dell’arte
artdevelopment.vm@gmail.com
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Nascita tragedia
 

RECENSIONE JAN FABRE FIRENZE_Vanessa Maggi 016

  • 1. Jan Fabre - Spiritual Guards. Alchimista del nuovo millennio. Articolo di Vanessa Maggi Piazza della Signoria e Palazzo Vecchio :dal 15 aprile al 2 ottobre 2016 Forte di Belvedere: dal 2 maggio al 2 ottobre 2016 Dove: Palazzo Vecchio, Forte del Belvedere, Piazza Signoria Firenze. url foto http://janfabre.be/angelos/_images/exhibitions_spiritual-guards.jpg url sito :www. janfabre.be ___________________________________________________ La ricerca di Jan Fabre è rivolta alla scrupolosa osservazione del corpo, nella sua fragilità e nella sua difesa, domandandosi sul destino futuro dell’uomo. Uomo e animale interagiscono continuamente nella sua opera, e questo induce alla trasmutazione di corpi che resistono al deterioramento naturale e alla morte. La sua arte è “una resistenza poetica in nome della bellezza…un esercizio nella morte e nella vita come preparazione alla morte” (www.janfabre.be). L’esposizione di Jan Fabre a Firenze, solleva non poche questioni, sulla natura umana, il suo bisogno di comprensione, e il rapporto dialettico dell’uomo col mondo animale. Come in uno specchio, le opere di Fabre riflettono le paure più recondite dell’uomo moderno, il quale oggi, forse plagiato dal mondo consumistico e globalizzato, spesso non s’interroga più sul proprio destino, e sulle manipolazioni scientifiche, genetiche, mediatiche, e politiche, che lo investono, e dalle quali è soggiogato continuamente, in modo disarmato. Eppure, curiosamente, reagisce alla produzione artistica di Jan Fabre. Il mondo delle polemiche non sempre ha tuttavia vita lunga, soprattutto se non ha radici coerenti, o se giudica l’arte senza conoscerla, e Jan Fabre non è interessato a polemiche fini a se stesse, semmai, a diffondere un messaggio coerente. Da anni utilizza infatti animali impagliati nelle performance e nelle arti figurative, destando scalpore per la violenza delle immagini, che mostrano spesso bestiole infilzate o “ricomposte,” all’interno di nuove raffigurazioni. Nulla da eccepire nei confronti dei deboli di cuore, o di chi non apprezza presentazioni brutali come queste. Nondimeno, bisogna approfondire il mondo sconosciuto prima di delimitarlo. Varcando le sedi dell’esposizione fiorentina, si percepisce un’intima relazione, significativa e simbiotica, con le opere del passato storico, racchiuso gelosamente tra le mura del mondo mediceo. Jan Fabre ha avuto certamente un passato di “dissezione”, quando, interessato ai meccanismi della metamorfosi animale, fu ispirato dall’entomologo omonimo (Jean-Henri Fabre 1823–1915), e trasportato nei meandri dell’interrogazione sulla vita e sulla morte, nei processi trasformativi e di decomposizione dei corpi animali, e quindi umani. Ciò che muove il suo infinto interesse, non consiste quindi soltanto nel mondo animale, ma nella incessante interazione tra quello e l’umano. Nelle molteplici e differenziate espressioni performative, condotte in un arco temporale piuttosto lungo sin dagli anni settanta, ha spesso utilizzato animali vivi con risultati non sempre del tutto convincenti, e attualmente, già morti e imbalsamati, tentando di diffondere complessi messaggi esistenziali. Procurando uno shock emotivo immediato, figlio delle azioni performative brutali sul corpo (già dai settanta), adopera animali in modo provocatorio, per smuovere la morale comune, che spesso si rivela inspiegabilmente inerte poi, nei confronti delle continue persecuzioni che gli animali oggi subiscono. L’interesse verte soprattutto sul regno degli insetti, i loro principi di metamorfosi, nonché l’ingegno, che eleva, per intrinseca intelligenza di gruppo, ma anche sulla relazione del mondo felino del gatto, in fusione dualistica con la figura dell’artista, negletto e incompreso per secoli. A livello estetico,
  • 2. l’ammasso plurimo e variegato di coleotteri, scarabei, teschi che s’imboccano di scoiattoli, nei contrasti variopinti di verde smeraldo e pelame, che rivestono spade, corazze, forme antropomorfe, oggetti, rimandano distintamente alle investigazioni alchemiche che Francesco I realizzava all’interno dello studiolo di Palazzo Vecchio, o di quando, celato al mondo, custodiva gelosamente i “segreti”, nei propri camerini di Pratolino. Jan Fabre, come un novello alchimista calato nel mondo antico, si rivolge però all’uomo contemporaneo, non celato, ripercorrendo l’analisi minuziosa dell’eredità fiamminga. Indagando attentamente il mondo animale, lo rielabora e ricompone in nuove e inusitate forme. Adotta il sapere scientifico dell’uomo rinascimentale, nell’investigare, sezionando e adattando (Leonardo e Michelangelo), quelle forme animali e umane, e giocando con le espressioni, negli autoritratti antropomorfi di cera. La ricerca si manifesta in maniera visibile come nuova vanitas del tempo che scorre, nell’ineluttabile caducità della vita e della morte, indagando la trasmutazione fisica, nell’intento di eludere questa volta, il naturale corso del deterioramento. Se gli artisti del Seicento con i memento mori traevano lezioni etiche per l’osservatore, l’artista moderno non dà lezioni, ma intenta un dialogo. I diavoli, gli animaletti grotteschi reinventati, le deformazioni corporee e le antropomorfizzazioni, trovano riscontri in precedenti arcimboldeschi, nei monstra delle Wunderkammern, e in Hieronymus Bosch. Insomma, un universo infinto e mutevole, colto, che ha già fagocitato il passato storico, in cui l’uomo si fa insetto, carnefice, manipolatore. Ma anche dove l’artista parla all’uomo, attraverso i suoi atti performativi, in cui ad esempio batte più volte le mani sulla corazza della finzione e della falsità. Nella meticolosa, maniacale considerazione del corpo fisico e delle sue inevitabili trasformazioni, risiede la domanda sul futuro dell’esistenza umana. Se certamente le invasioni bronzee del belga stridano un poco con la bellezza estetica e morale di Donatello, Cellini, Giambologna, o Michelangelo, creando nella cittadinanza fiorentina un certo dissenso (come lo crearono d’altronde, le orrende rotondità di Botero, ma anche le deformità di Bandinelli e Ammannati), tuttavia; osservate all’interno del circuito del Belvedere e del Palazzo Vecchio, esprimono tutto il loro contenuto intrinseco, e il chiaro dialogo con quelle. Le sculture in piazza Signoria infatti, si incastrano nel tessuto scultoreo museale storico e storicizzato, in un primo momento in modo invadente, eppure a veder bene, il carapace allude a Cosimo I, e la vasca che lo contiene sembra esserci sempre stata. Nel rapporto dialettico col classico, in maestose opere bronzee, l’artista ritrae se stesso all’opera, per concettualizzare il desiderio di organizzare il mondo in modo innovato, in assoluta libertà, giocando pure con gli elementi, non senza una buona dose di autoironia. Sebbene si possano non amare gli autoritratti bronzei, si dovrebbe apprezzare nondimeno il senso ludico e concettuale. Il disseminato campo di battaglia al Belvedere, svela brandelli di armature dorate, residui di una battaglia tra animali fantastici, ibridi e l’uomo, che all’interno delle performance, è esso stesso animale ibridato, rivestendo la medesima corazza. Spiritual guards investe gli esseri umani della nomina di “guardiani spirituali”, con il compito di lottare per la difesa della bellezza e dell’immaginazione, e poco importa se questa battaglia si affronti armati, o in modo pacifico. L’importanza risiede nel vivere una vita in modo eroico ed avventuroso. Come animalista vegetariana, non mi schiero a favore di chi oltraggia gli animali, ma in questo caso, con una buona dose di umanità e di umiltà (come storica dell’arte, spettatrice e pittrice), debbo spezzare una lancia in favore dell’artista. Sebbene restino senza attrattiva oggettivamente gli animali morti trafitti, o gettati dai davanzali, credo fermamente nel bisogno smisurato di estrinsecazione artistica, anche attraverso l’uso di animali impagliati (purché morti da tempo, come accertato, e possibilmente per cause naturali). Considero stupefacenti difatti, le realizzazioni create con miriadi di coleotteri o bestiole addentate da teschi umani, sebbene riponga fiducia nella sconfinata creatività e maestria di un artista come Fabre, il quale può raggiungere inevitabilmente i medesimi esiti, studiando effetti con elementi costitutivi fittizi, quali la cera, la ceramica, le pelli, i legni, i metalli, la plastica, o quant’altro. Che poi, la stima dell’intrinseca bellezza di un’immagine apparentemente noir, incrocio tra grottesco e aulico, come le corazze, le spade, i globi, i teschi, va fatta risalire all’atavica memoria umana. Le radici nell’arte e nella storia dell’uomo sono plurime: dai teschi inca, alle vanitas seicentesche, agli scalpi di popolazioni tribali incastonati di madreperla, alle strabilianti e inquietanti dissezioni umane realizzate in cera da Vesalio, o di quelle custodite nella non lontana Specola
  • 3. fiorentina. In onore e in nome della scienza, sin troppi animali sono stati impagliati e si osservavano con sgomento nelle teche settecentesche degli antichi studioli di molti entomologi europei. Eppure, il tempo e la storia hanno portato all’assuefazione, e all’accettazione. In nome della scienza e della scoperta, ogni anno si perpetuano strane mutilazioni, ibridi, modificazioni genetiche su animali ed esseri umani, ma se è un artista a rispondere con i medesimi mezzi, ecco sollevarsi un vortice di inutili baruffe, dettate dalla cattiva informazione, che è sempre figlia della paura del nuovo, e dell’attaccamento al vetusto. Occorre schiudersi al nuovo, penetrandolo giustamente, poiché come in questo caso, reca un dispaccio saturo di speranza e fiducia nell’uomo, svelando una chiara sensibilità umana nell’artista. Parola di medievista- contemporaneista. Vanessa Maggi Storica dell’arte artdevelopment.vm@gmail.com vanessamaggi.okarte@gmail.com