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Proteste per la sentenza dall'Aja, sit-in dei bosniaci a Sarajevo
Le madri delle vittime tagliano gli alberi dedicati agli uccisi nel '95



Srebrenica, le radici dell'odio
"La vendetta si avvicina"
Rabbia dopo l'assoluzione dei serbi: "Traditi dall'Europa"
dal nostro inviato GIAMPAOLO VISETTI




La protesta delle donne musulmane bosniache davanti al parlamento di Sarajevo

SARAJEVO - Alle madri di Srebrenica, dodici anni dopo, non è rimasta che l'accetta. Nadija Alic,
rifugiata a Tuzla, questa mattina ha raggiunto la foresta dei figli bruciati dalla guerra. Abeti,
betulle, larici, un albero per ogni vittima del "genocidio senza colpevoli". Le donne speravano di
seguire almeno la crescita delle piante, battezzate con i nomi degli scomparsi.


Dopo lo schiaffo dell'Aja, hanno deciso di abbattere anche i simboli di chi è stato loro rubato.
"Mentre fucilavano mio marito e i nostri tre ragazzi - dice - sono stata stuprata da un ufficiale
dell'esercito di Belgrado. La comunità internazionale ha deciso che è colpa mia". I suoi quattro
alberi sono caduti poco dopo mezzogiorno. I primi: la cataste di tronchi, accanto ad altre vecchie
silenziose e infagottate, ora sono già alte.
La sentenza della Corte internazionale di giustizia, che ha assolto la Serbia dall'accusa di genocidio
per il massacro del 1995, spacca la Bosnia-Herzegovina e riappicca l'incendio nei Balcani.


Per protestare contro il verdetto-scandalo, studenti e professori chiudono oggi l'università di
Sarajevo. "Siamo tramortiti - dice il rettore Faruk Caklovica - dubitiamo della salute mentale dei
giudici". Martedì, nella capitale, hanno sfilato oltre 5 mila persone. La più grande manifestazione
dalla fine del conflitto. Sui cartelli c'era scritto: "Sono stati i marziani" e "Occidente, l'ennesimo
tradimento". Musulmani e croati contro serbo-bosniaci. Il vaso dell'odio nazionalista e delle
vendette etniche è di nuovo senza coperchio.


L'11 marzo, a Tuzla, si annuncia la protesta-choc che spaventa i contingenti militari internazionali.
Da dieci anni, ogni mese, le sopravvissute di Srebrenica espongono nell'indifferenza generale i
drappi con i nomi delle 8 mila vittime. Mentre a Vienna si deciderà l'indipendenza del Kosovo, le
madri bosniache bruceranno le loro stoffe-reliquia per denunciare davanti al mondo la "cinica
ipocrisia della Serbia e dell'Onu". Mai, dopo l'accordo di Dayton, pace e rinascita nei Balcani sono
parse così lontane. Nei tribunali ormai si fermano anche i processi contro i crimini di guerra.


Naza oggi è arrivata a Sarajevo in autostop per testimoniare le sevizie subite. Non aveva i soldi per
tornare a Visegrad. La preghiera di una colletta, in tribunale, non le ha risparmiato di riavviarsi a
piedi verso casa. Sono queste umiliazioni, il senso di abbandono e di disperato isolamento, di
ingiustizia, a riportare indietro la storia. "La prospettiva di una riesplosione della violenza - dice
Zlatko Dizdarevic, direttore del quotidiano Oslobodjenje durante i tre anni di assedio della capitale
- diventa ogni giorno più concreta". La verità negata apre ferite antiche e scava pericolosi solchi
nuovi.


"In Europa i musulmani - dice Resid Hafizovic, docente di scienze islamiche a Sarajevo - non
possono aspettarsi che la loro vita sia protetta come quella degli altri". Un modo prudente per
introdurre la domanda collettiva che sta sconvolgendo la Bosnia: se a Srebrenica fossero stati
massacrati 8 mila cristiani, la sentenza dell'Aja contro i musulmani sarebbe stata la stessa?
"Questo verdetto - risponde il cardinale Puljic Vinco - rispecchia semplicemente interessi politici. E
offende tante vittime innocenti". Per questo la Bosnia ha deciso di dare all'Occidente una risposta
politica.


"Se il problema è la mancanza di prove contro la Serbia - dice il presidente del comitato per la
ricerca dei dispersi, Amor Masovc - ne porteremo di nuove e chiederemo la riapertura del
processo". Il parlamento bosniaco, a maggioranza bosgnacco-croata, si appresta così a votare la
riforma della costituzione. Si chiede di cancellare la Republika Srpska, "ormai ufficialmente fondata
sul genocidio", e di punire chi lo nega. Una bomba, nell'ex Jugoslavia. Oggi a Banja Luka il
presidente serbo - bosniaco Milorad Dodik riceve Carlo d'Inghilterra e la moglie Camilla, in visita
al contingente britannico.


"Siamo pronti a scusarci per crimini di guerra contro i non serbi - concede rifiutando di
riconoscere il genocidio sancito dall'Aja e attaccando la Ue - ma tutti i gruppi etnici devono
chiedere scusa per i massacri commessi tra il 1992 e il 1995". Il messaggio ultranazionalista è
chiaro: guai a chi tocca la Republika Srpska, pronta a indire un incostituzionale referendum per
l'indipendenza e a chiedere l'annessione alla Serbia. Un incubo, nonostante le "pulizie" belliche.


La minaccia di secessione dei serbo-bosniaci, sostenuti da Belgrado e Mosca, risponde
all'offensiva dei musulmani di Bosnia: l'obiettivo però è congelare l'indipendenza del Kosovo,
destabilizzando i Balcani. "Altro che Unione europea - dice Haris Silajdzic, rappresentante islamico
della mostruosa presidenza tricefala della federazione bosniaca - basta una scintilla perché il rogo
torni a divampare.
Cosa accadrà a Sarajevo e a Banja Luka, se a Pristina gli albanesi cacceranno i serbi"?


A dodici anni dalla fine dei combattimenti, un Paese spaccato secondo l'assurda linea dei fronti
bellici affonda nel rancore, nella miseria, nell'isolamento e nell'assenza di prospettive. La metà del
bilancio statale serve per pagare la burocrazia, 187 ministri si contendono le tangenti degli
stranieri, la disoccupazione sfiora il 50%, solo quattro edifici su dieci sono stati ricostruiti. Le
strade restano interrotte dalle voragini delle cannonate, nei villaggi si sopravvive con due euro al
giorno. Nelle scuole, separate secondo l'appartenenza etnica, ai bambini si insegnano storie
opposte: il seme per l'odio di domani.
Un bilancio desolante, per la comunità internazionale.
Al punto che ieri Bruxelles ha deciso di prorogare la permanenza dell'alto rappresentante Ue, che
doveva smobilitare a giugno. Dimezzate invece le forze di pace, ormai troppo costose. "Ma nelle
case e sotto terra - avverte a Sarajevo un diplomatico europeo - restano arsenali impressionanti.
Una guerra civile è tecnicamente affrontabile, mentre un colossale contrabbando di armi è già
realtà".


L'alternativa all'Europa, secondo la stampa bosniaca, resta "un buco nero". "Se i Balcani dovessero
fare i conti solo con se stessi - dice l'analista Tahir Belkic - un'altra Srebrenica sarebbe possibile".
Basta guardare le vecchie paralizzate davanti alle tombe dei cimitero di Potocari. Per non
abbandonare morti e dispersi, vivono di carità, accerchiate dai loro carnefici della Srpska.
L'esistenza si risolve nell'attesa del ritrovamento di nuove fossi comuni. Finora sono 6 mila i
cadaveri riesumati, 4 mila quelli identificati grazie al Dna, 2 mila i dispersi.


Ventimila, nell'intera Bosnia decapitata di 100 mila vite. "Ogni mese - dice Bakira Hasecic, leader
delle donne vittime della guerra - si riapre una fossa. Stiamo per giorni nel fango, a cercare i resti
dei nostri cari. Poi si scopre che le ruspe hanno devastato gli ossari: una tibia riemerge in un
campo a sud, il cranio magari è duecento chilometri a ovest. Oppure si trova il corpo di uno a cui è
già stato fatto il funerale". C'è chi impazzisce, aspettando invano una tomba su cui pregare.


"Per questo - dice Hatidza Mehmedovic, portavoce della madri di Srebrenica - non possiamo
accettare la volgarità del giudizio dell'Aja. Mladic e Karadzic erano stipendiati e agli ordini di
Milosevic, celebrato poi come statista a Dayton. Ma siccome l'Occidente ha ancora bisogno della
Serbia, contro la Russia di Putin, Belgrado può evitare di pagare il conto".


Una metastasi fatale, ignorata da un'Europa distratta. Come se la prospettiva della Ue, in assenza
di verità e giustizia, potesse da sola risanare i Balcani. "La verità - dice Liljana Smajlovic, politologa
serbo-bosniaca - è che cresce un rancore nuovo, anti - occidentale. Si sogna Bruxelles per abolire
i visti e divorare i finanziamenti: ma dodici anni di beffe ci hanno riportato sull'orlo del precipizio e
nessuno crede più nella democrazia europea".


E' sera quando un pullman croato scarica cinquanta rifugiati bosgnacchi tra le macerie di
Srebrenica. Erano fuggiti da bambini, sotto le raffiche delle esecuzioni. Vengono a portare un fiore
sui tumuli di padri e fratelli maggiori, a vendere la casa. "Adesso ogni giorno - dicono - avvicina
quello della vendetta". Ripartono subito. Vivono negli Stati Uniti: qui non torneranno più".


(2 marzo 2007)
SREBRENICA, 14 ANNI DOPO
Comincia oggi la settimana che si concluderà, sabato 11 luglio, con il ricordo del
genocidio di Srebrenica, consumatosi l’11 luglio 1995 davanti agli occhi dei caschi blu
dell’Onu e di una comunità internazionale del tutto assente e disinteressata



Regaliamo oggi ai nostri lettori uno dei capitoli, l’ottavo, del libro di Luca Leone,
“Srebrenica. I giorni della vergogna”, giunto alla seconda edizione e in traduzione
in serbo-croato (sarà pubblicato in Bosnia il prossimo autunno). Quello di
Srebrenica è stato l’unico genocidio consumatosi in Europa dopo quelli perpetrati
dal nazifascismo ai danni di ebrei e rom. Quello di Leone è l’unico libro aggiornato
interamente dedicato all’argomento in distribuzione in Italia e i primo libro di un
autore italiano a essere tradotto in serbo-croato e a essere immesso nel mercato
balcanico.



Un giornalista a Srebrenica
Tratto da Srebrenica. I giorni della vergogna
Infinito edizioni, seconda ristampa, 2007

Il sole è basso dietro le case di Srebrenica, nonostante sia solo l’ora di pranzo. Il cielo è di nuovo velato di
qualche lieve strato di nuvole; un vento frizzante sferza le gote, scompiglia capelli e fa alzare buffi mulinelli di
polvere che ricadono confondendosi con la sporcizia e il grigio del cemento schiaffeggiato qua e là da qualche
cazzuola per chiudere alla meglio i buchi delle granate. Sadik Salimović se ne sta fermo in un giubbotto
marrone chiaro un po’ consunto accanto alla sua vecchia Volkswagen Polo rossa, parcheggiata con una certa
fantasia una decina di metri più in là rispetto all’irta scalinata del palazzo comunale, non lontano da una
catasta di legna da ardere che qualcuno ha già ordinato diligentemente per l’inverno incipiente sull’asfalto
rabberciato, proprio sotto un palazzo dalla facciata bianca. L’uomo è incuriosito dalla presenza di forestieri e
non lo nasconde. Si avvicina a Malkić, gli chiede qualcosa. Il sindaco ci presenta questo personaggio di mezza
età, dal fisico leggermente appesantito e lo sguardo penetrante dietro gli spessi occhiali, come il giornalista di
Srebrenica.
È una sorta di istituzione, Salimović: tutti lo conoscono, quasi tutti lo salutano, in molti probabilmente lo
temono. E lui teme loro, a giudicare dalla circospezione con cui cammina sui marciapiedi rattoppati schivando i
segni delle granate sull’asfalto consunto. Ha scritto un libro sulla sua città, dalla fondazione alle lacrime
disperate delle donne di Srebrenica che piangono i loro cari. Non ha editore e per stamparne 3.000 copie si è
indebitato per gli anni a venire. Ma ha fatto le cose in grande: copertina pesante con fondo argentato: che
cosa c’è di meglio per la città dell’argento? Sono stato a Tuzla per otto anni, durante e dopo la guerra. Ho
avuto varie opportunità per andare via dalla Bosnia ma non ho voluto, non ho potuto. Ho sempre cercato di
tornare a casa, qui a Srebrenica, e l’ho fatto due anni e mezzo fa: non me ne sono pentito racconta una volta
arrivati in cima alla salita che porta nel cuore della città. Gli spieghiamo che dobbiamo incontrarci con Hatidja
Mehmedović, fondatrice e direttrice dell’associazione civica delle Madri di Srebrenica e Žepa, che si occupa di
dare assistenza economica alle persone che decidono di rientrare nell’ex enclave. Sgrana gli occhi piccoli: la
conosce, molto bene. Si offre di accompagnarci da lei.
Torniamo dal povero Eldin e lo ritroviamo pallido, a stomaco vuoto come noi – nonostante ci fossimo lasciati
con lui intenzionato «a cercare un posto dove mangiare un sandwich» – e con un uomo grande e grosso dalla
faccia squadrata che lo tallona zoppicando visibilmente e caracollando da un paio di metri d’altezza: Dice che è
un serbo di Bratunac. Che fa il tipografo e vuole un passaggio per tornare in città. Dice che non è riuscito «a
scrollarselo di dosso traduce un’allibita Emira mentre il tassista guarda da un’altra parte.
Dopo che a fatica Eldin ha riavviato il suo bianco mulo stanco seguiamo la Polo di Salimović fino a una strada
sterrata fuori città, dove lasciamo il tassista, decisamente preoccupato, e il suo nuovo “amico” di Bratunac, un
uomo decisamente impaziente.
Ci inerpichiamo con Emira e Sadik fino a raggiungere la vetta della collina. Ci sono case distrutte, altre
edificate a metà, altre ancora quasi finite. Quella di Hatidja appartiene a quest’ultima categoria. Anzi, ci
spiegherà poi, grazie ai soldi che un’amica austriaca le ha donato ha potuto avviare la costruzione di alcuni
muretti in cemento armato per contenere la terra che, durante le frequenti piogge, tendeva a franare contro le
pareti della sua casa, costruita in basso, in pendenza rispetto alla vetta della collina.
Lì fuori vivono una parte dei ricordi più dolci e tragici di Hatidja: lì cresce l’albero piantato dal maggiore dei
suoi due figli, entrambi uccisi dai serbo-bosniaci nel genocidio di Srebrenica; lì, sul cemento ruvido del piccolo
spiazzo che si apre davanti alla sua casetta, fredda all’interno come la morte che avremmo conosciuto per
nome e cognome il giorno dopo, a Tuzla, giace l’impronta di una piccola mano: Ricordo ancora quando mio
figlio minore la lasciò, premendo la manina sul cemento fresco. Volevano cancellarla, ma gliel’ho impedito:
quest’impronta e quest’albero sono tutta la mia vita, spiega la donna, passando poi a raccontarci del serpente
che proprio quella mattina le è entrato in casa e alla caccia intrapresa per espellere l’indesiderato e velenoso
rettile da sotto i modesti ma ordinati mobili. Perché è così difficile trattenere le lacrime, a volte?
È nel salotto al primo piano, l’unica camera lievemente riscaldata da una stufa a legna di ghisa nera, che
Sadik, consumando un caffè preparato da Ha¬tidja, che si limita a guardarci poiché sta osservando il
Ramadan, ci racconta non senza resistenze della “sua” Srebrenica, prima di salutarci titubando un po’ davanti
alla richiesta di poter citare il suo nome nell’intervista e lasciarci con l’universo immensamente complesso e
tragico della donna che ci ospita, e che di tanto in tanto approfitta delle nostre chiacchiere per andarsi a
mettere la camicia buona, tirare su la crocchia dei capelli ingrigiti dal dolore o infilare un ciocco di legna nella
bocca di ghisa della stufa.
Sono poche domande, quelle che viene spontaneo fare a Salimović, le cui risposte fotografano una realtà
difficile da capire, per chi viene da lontano.

Immagino che avrai avuto modo, in questi anni, grazie al tuo lavoro, di monitorare Srebrenica su
tutta la stampa bosniaca: come se ne parla?
Srebrenica ha un’attenzione dei media molto particolare; qualche volta viene presentata in cattiva luce, ma
per lo più sotto aspetti positivi. Credo che in città ci siano stati notevoli progressi in questi ultimi due anni.
Penso ad esempio alla vita pratica. Srebrenica prima della guerra era stata completamente illuminata, anche
nelle zone rurali; dopo la guerra c’era corrente elettrica solo in città. Ora, con l’aiuto americano, l’elettricità
copre il 95% del territorio.



Il sindaco ha detto che tutta l’area rurale è di nuovo illuminata.
Lui fa il politico, io il giornalista. So per certo che ne manca ancora in alcune zone, ma che si sta lavorando a
questa come ad altre urgenze. Si stanno ricostruendo le strade, ad esempio, per poter raggiungere tutti i posti
abitati; ai rientrati viene dato un aiuto, nei limiti delle possibilità. Percepiamo ancora assistenza umanitaria,
dall’America e dai Paesi europei, perché qui la gente vive solo d’agricoltura, non c’è lavoro. Prima della guerra
avevamo in città 10.000 impiegati; ora siamo in tutto 10.000 abitanti...e le persone che lavora¬no saranno al
massimo 500. Tanti sfollati dei tempi della guerra non tornano perché qui non c’è lavoro; ma è altrettanto
vero che queste stesse persone non hanno un’occupazione neanche a Tuzla, così magari alla fine qualcuno di
loro decide di ritornare alle sue vecchie proprietà per occuparsi d’agricoltura e allevamento. Io personalmente
ho lavorato per 7 anni alla televisione di Tuzla; ero impiegato a tempo indeterminato ma sono tornato benché
fossi consapevole del fatto che qui non avrei mai trovato un posto fisso. Ora lavoro solo quando ci sono
progetti dedicati a Srebrenica. Ma sono felice della scelta che ho fatto.

Dopo 10 anni, a tuo avviso, il genocidio di Srebrenica comincia a essere rivisitato? In sostanza, il
negazionismo sta riuscendo a guadagnare strada oppure no?
Vedi, le nostre ferite non potranno mai guarire, perché qui è successo qual¬cosa di particolare. Non lo
possiamo dimenticare: dobbiamo vivere con que¬sto ricordo, soprattutto per quello che è successo l’11 luglio
1995, e non ho paura di dire che tutti coloro che fin qui hanno avuto il coraggio di ritornare sono degli eroi.
Nel 1992 molti cittadini di Srebrenica, serbi e musulmani, sono dovuti fuggire, anche se ancora non si sapeva
esattamente a che cosa saremmo andati incontro, in particolare per le decine di migliaia di persone che
rimasero. Ora siamo tornati, pur sapendo quello che è accaduto. Credo che non ci sia nessuno capace di
spiegare quale e quanta sia questa forza che ci spinge a rientrare nelle nostre case. Gran parte della gente che
torna lo fa perché ha un grande orgoglio. Mi chiedevi del revisionismo, del negazionismo… Beh, non possiamo
nascondere che soprattutto all’inizio, da parte serba, si sia manifestata una certa resistenza, poiché la maggior
parte di loro tendeva a ne¬gare il crimine. Però ufficialmente lo stesso presidente della Rs, Dragan Cavić, ha
riconosciuto che a Srebrenica è stato compiuto un crimine atroce. È vero: persino i serbi di Srebrenica
inizialmente hanno negato che il genocidio fosse stato commesso, ma ora lo riconoscono, sebbene non
abbiano le idee chiare su che cosa sia successo esattamente qui, perché anche molti di loro sono stati rifugiati
altrove. Inizialmente le autorità serbo-bosniache hanno fatto di tutto per nascondere i crimini, a cominciare dai
militari, che negavano tutto. Ma una tragedia di queste dimensioni, con 7.500, forse 8.500, forse 10.000 e più
morti, non può essere tenuta nascosta per sempre, è impossibile.

La stampa nazionale come ha accolto il terzo rapporto della Commissione della Rs, di cui accennavi
poco fa?
Attualmente tutta la stampa riporta i fatti in maniera oggettiva. Ora non si tace più su questi argomenti. Per
fortuna, è questa la verità.
La depenalizzazione del reato di diffamazione a mezzo stampa è stato un evento celebrato da tutti i giornalisti
bosniaci come una grande conquista; ciò nonostante, è aumentata la pratica di chiedere ingenti risarcimenti in
denaro ai giornalisti e alle testate, bloccando di fatto la libertà di stampa nelle aule dei tri¬bunali. Oltre a
questo, esistono pericoli per un giornalista bosniaco nello svolgere la sua professione in maniera oggettiva?
Non c’è nessun pericolo. Lavoro per un giornale di cui sono caporedattore, insieme a sei giornalisti, e
scriviamo di tutto in modo oggettivo, di qualsiasi tematica si tratti: dalle cerimonie che si svolgono al
memoriale di Potočari all’apertura di nuove fosse comuni, nelle quali a volte vengono ritrovati i resti di
musulmani, altre di serbi. Non sento, da parte dei colleghi giornalisti serbi, l’intenzione di coprire la verità.
Scriviamo oggettivamente e la popolazione lo accetta. Non abbiamo avuto critiche sui nostri pezzi da parte di
nessuno, nonostante abbiamo trattato anche temi delicati. Tre anni fa non avrei mai pensato che sarei tornato
qui: avevo davvero paura di rientrare. Ora svolgo una professione “abbastanza pericolosa”, costantemente
sotto i riflettori della critica, ma finora non ho avuto problemi. Oggi è molto più facile fare i giornalisti in ogni
zona della Federazione rispetto agli anni immediatamente successivi alla fine della guerra; ma certo, qui non
siamo nella Federazione, e a Srebrenica è tutto più difficile, perché questo è il terreno più sensibile...
Deve andare. Finisce il caffè, saluta ed esce dopo aver abbracciato Hatidja. Dalla finestra lo vediamo risalire il
viottolo di cemento fino alle scalette che portano alla strada sterrata. Il bavero alzato, le mani in tasca, la
testa bassa: un giornalista a Srebrenica.




                                                                                               redazione ilcassetto.it
                                                                                                        06/07/2009




Da La Repubblica del 26/02/2007


Per la Corte internazionale dell'Aja il massacro di 8000 musulmani non può essere attribuito
direttamente agli organi di governo di Belgrado
Onu: "A Srebrenica fu genocidio ma la Serbia non è responsabile"
Respinta la denuncia della Bosnia: Milosevic e i suoi colpevoli soltanto di non aver impedito la
strage
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Il mondo in guerra: ieri, oggi, domani → Ieri → 1998. La polveriera dei Balcani

L'AJA - Il massacro di Srebrenica fu genocidio, ma la responsabilità non può essere attribuito
allo Stato serbo. E' quanto sostiene, in uno dei passaggi del lungo testo, la sentenza emessa
oggi dalla Corte internazionale di giustizia dell'Aja, secondo la quale Belgrado ha violato gli
obblighi di impedire il genocidio, ma lo Stato in quanto tale non può esserne ritenuto
imputabile. Il Tribunale internazionale è andato per la prima volta oltre la definizione di
"massacro" data fino ad ora all'uccisione nel luglio del 1995 di circa 8000 musulmani bosniaci
nell'enclave che avrebbe dovuto essere protetta dal contingente Onu.

"Il tribunale non crede che il genocidio compiuto a Srebrenica possa essere attribuito alle
autorità serbe" ha detto il presidente della Corte, Rosalyn Higgins, secondo la quale non può
neppure essere stabilito se Belgrado sia da considerare complice per aver fornito aiuti alle
milizie serbo-bosniache di Ratko Mladic. Tuttavia, ha aggiunto, è da considerare responsabile
di omissione per non aver impedito il genocidio.

Un punto, questo, contestato dalle autorità serbe. "Che la Serbia non abbia fatto tutto quello
che poteva per evitare il genocidio è per noi la parte del verdetto più difficile da accettare", ha
spiegato il presidente serbo Boris Tadic, che comunque ha richiesto al parlamento di
condannare il massacro di musulmani compiuto dai Serbo-Bosniaci a Srebrenica. "E'
importante una chiara dichiarazione di condanna di quello che è successo - ha aggiunto -.
Servirà ad aprire una fase nuova nei nostri rapporti con la Bosnia".

Era stata infatti proprio la Bosnia a presentare alla Corte di giustizia internazionale la denuncia
contro la Serbia, accusata di genocidio per "uccisioni, saccheggi, violenze, torture, sequestri,
detenzione illegale e sterminio", commessi durante la guerra dei Balcani. I giudici, nella loro
sentenza, la cui lettura è durata oltre due ore, hanno respinto le accuse bosniache, rilevando
però che Belgrado ha la colpa di non aver impedito la strage ad opera dei serbi di Bosnia: "La
Serbia non ha fatto nulla per rispettare i suoi obblighi di prevenire e punire il genocidio di
Srebrenica" e "ha fallito nel cooperare pienamente con il Tribunale penale internazionale per la
ex Jugoslavia, che ha incriminato i responsabili".

All'epoca della presentazione della denuncia da parte di Sarajevo, l'eccidio di Srebrenica non
era ancora avvenuto ma la Bosnia era sotto assedio e le immagini delle condizioni dei detenuti
nei campi di prigionia serbi erano già tristemente note all'opinione pubblica internazionale.

I giudici dell'Aja hanno, evidentemente, ampliato il periodo preso in esame per emettere il loro
verdetto e non escludere quello che è considerato il più grave massacro avvenuto in Europa
dopo la seconda guerra mondiale. Per evitare una sentenza di condanna la Serbia, nel maggio
scorso, aveva chiesto alla Corte di respingere la causa intentata dalla Bosnia, dopo che in più
occasioni politici serbo-bosniaci avevano contestato anche la legalità e la legittimità della
denuncia, poi invece confermata dalla stessa Corte dell'Aja.




a La Repubblica del 19/06/1999


Le idee
Aguzzini sotto le bombe
di Adriano Sofri

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Il mondo in guerra: ieri, oggi, domani → Ieri → 1998. La polveriera dei Balcani

CI SONO porte destinate a non aprirsi. Scantinati senza finestre. Luoghi riservati. Letti di
contenzione, sedie per slogare. E' raro che vengano alla luce: per un terremoto, per
un'eruzione vulcanica. E' raro che se ne parli: gli ospitati non ne escono vivi. E' più facile che
ne parlino i gestori: si resiste difficilmente alle vanterie, anche quando possono costare. Nel
Kosovo riaperto si sapeva - purché lo si volesse sapere - che si sarebbero trovati forni e fosse
comuni. Non era facile immaginare lo scantinato della tortura. Gira in questi anni una -
detestabile - mostra sugli strumenti di tortura: la vergine di Norimberga, le ruote dentate,
genere che ha i suoi amatori. Il repertorio interrato che da Pristina è arrivato sui nostri
teleschermi è tecnologicamente grossolano, ma moralmente scelto: i pugni di ferro, i
coltellacci, i mazzi di preservativi, il bastone spaccato in due (ne sarà stato orgoglioso, o
seccato, quello che ha dato il colpo?), la rinfusa di documenti personali dei torturati e dei
giornaletti zozzi dei torturatori. Eloquente repertorio: museo già pronto per le scolaresche.

Resistono stupidi pregiudizi sul conto della tortura, di cui i torturatori sarebbero i primi a farsi
beffe. Che serva a qualcosa, a far parlare... Ma no. La tortura è un'arte, è un piacere, è
gratuita. Deve far male dentro il corpo dell'altro, dell'altra. Quello scantinato è altra cosa
dall'assassinio di strada e dallo stupro compiuto a cielo aperto, al caso dell'agguato e della
furia improvvisa. Quello scantinato è la sala operatoria di una chirurgia d'eccezione, in cui la
potenza dell'odio si è presa un ufficio, e lavora con metodo. Il paziente è di preferenza una
giovane donna, e se no un uomo su cui si compiano atti di effeminazione oltraggiosa. Il
torturatore è un uomo: lo diventa davvero lì dentro. E' un luogo di iniziazione completa: dal
giornaletto porno alla precauzione del preservativo, dal corpo spogliato e legato alla carne
incisa, alle ossa frantumate, al sangue scolato in un recipiente lurido.

Nella camera della tortura ogni movente mostra la propria fuorviante superfluità. Non importa
più la divergenza nazionale e religiosa, neanche quella spinta all'assassinio di massa o allo
stupro di massa. C'è il rapporto di potere nella sua essenza: il corpo a corpo fra il gruppo di
armati e l'inerme denudato. Sempre la tortura prende la mano ai suoi apprendisti, dovunque,
nelle caserme di polizia, nelle celle di punizione, nelle stanze private in cui uomini piccoli e
impazziti si vendicano della propria paura. Succede molto, molto largamente. Ieri era anche
uscito il benemerito rapporto annuale di Amnesty, impressionante: eppure succede ancora più
largamente. L'omertà e la paura tengono ancora chiuse molte cantine. Possiamo fingere di non
saperlo. La mia generazione ebbe fra le prime letture civili il saggio sulla tortura di Henri Alleg:
era il 1958, l'Algeria. A nessuna generazione è mancato il suo addestramento. Ora i bambini
vedono al telegiornale - i bambini vedono tutto, infatti - quel pavimento disseminato di ferri e
mazze, in uno strano disordine; ci si aspetterebbe una cura diversa, da uomini d'ordine per
eccellenza come sono i torturatori.

Non so se si solleveranno dubbi, sull'"autenticità" di questo scantinato. Se le cose stanno così -
mi pare di sì - vorrà forse dire che gli aguzzini si sono lasciati prendere di sorpresa; ma anche
che è costato loro caro staccarsi da quel laboratorio professionale. Si dice che un'antica dama
implorasse graziosamente: "Ancora un minuto, signor boia". Qui, forse, era il boia a chiedere
per sè ancora un minuto. Chi ha percorso in questi anni la Jugoslavia conosce la scena infinita
delle Pompei dei vivi, delle case abbandonate senza il tempo di afferrare un oggetto, di dare
un'ultima occhiata. A Spalato un soldato appena reduce dalla "pulizia" della Krajna di Knin,
bevendo birra un po' per festeggiare un po' per tristezza, mi disse: "Si entra nelle case e si
trova la vita normale, due bicchieri di plastica colorata da bambini, ho visto un orsacchiotto
posato sullo schienale di un divano esattamente come ce n'è uno a casa mia... Questa è la
cosa più dolorosa. Poi ho finito anch' io col prendermi una targa d' auto, come hanno fatto
tutti". Un altro mi volle regalare una bomba a mano serba, declinai, e accettai una banconota
datata Knin 1992. Neanche i soldi avevano fatto in tempo a portarsi via.

Nella cantina di Pristina non hanno fatto in tempo a raccogliere i machete, né i preservativi.
Bisogna tener ferme le distinzioni. Riconoscere, dietro la fisionomia comune della violenza
fisica, della violazione corporale, della tortura, i tratti speciali di ogni nuova impresa. Pristina è
Pristina: non solo un altro nome da aggiungere alla mappa della tortura nel mondo. A Pristina
la "polizia" serbista ha dovuto fuggire all'improvviso, questo ci dicono le immagini
dell'ispezione imprevista. Ma ci dicono anche che avevano avuto molto tempo. Per 78 giorni lo
scantinato è stato un quieto riparo antiaereo, nel quale fare il lavoro. Per 78 giorni noi abbiamo
fissato un buco nero che si chiamava Kosovo, senza vederne se non i bordi, persone schizzate
fuori a suon di minacce botte sparatorie e bombe. Abbiamo gremito il cielo, e perso di vista la
terra. Ci siamo chiesti che cosa stesse succedendo, per terra, sotto la terra. Si lavorava, nella
cantina di Pristina.

E' doloroso, oggi, guardare il corteo vilipeso o esasperato di serbi che abbandonano a loro
volta il Kosovo: era diventato fatale. Ma è commovente vedere il corteo di ritorno dei kosovari
albanesi cacciati fuori dai confini. Mai, che mi ricordi, una popolazione deportata ha fatto
ritorno alle sue case - alle sue macerie: si possono amare le proprie macerie - per effetto del
soccorso dei potenti. Non certo dopo la Seconda guerra, e tanto meno per i suoi scampati
ebrei. Bisogna esultare per questo rientro, ed esserne grati. Bisogna dire che l'incriminazione
di Milosevic e i suoi all'Aia non ha affatto dilazionato la resa, ma l'ha accelerata: e sarebbe
stata comunque giusta. Bisogna riconoscere in sé il rischio orribile del negazionismo e della
minimizzazione di fronte alla misura e alla profondità di una persecuzione, in nome di
diffidenze e di partiti presi.

Bisogna congratularsi che la nostra parte di mondo, a differenza che per la Bosnia, non si sia
lasciata piegare dall' antipatia per l'anagrafe musulmana della maggioranza della gente
kosovaro-albanese. Tuttavia, si deve tornare all'inizio della questione. Perché una ottusità
politica indusse a chiedersi se si dovesse o no intervenire a difesa dei kosovari, piuttosto che
come intervenire. Anche dopo l'inizio dell'intervento, quando le milizie serbiste hanno risposto
con l'inaudita deportazione di centinaia di migliaia di persone, e nessuno avrebbe dovuto più
esitare ad affrontare quella tragedia, qualunque giudizio si desse sulla sua origine. Oggi ci si
congratula dello scampato maggior pericolo, e si rischia di barattare la "vittoria" -com'era
possibile che una "vittoria" non arrivasse? - con la rassegnazione al modo in cui è stata
ottenuta. Credo che non dovrebbe succedere. Né per questa volta, né per le prossime, che
purtroppo ci saranno. Non si può lasciare per tanto tempo una gente indifesa in balia degli
scannatori. Non si può tenersi il cielo, e abbandonare loro il suolo e gli scantinati. Risparmiare
le "nostre" vite è un proposito lodevole, purché non manchi il soccorso. Non è con quel
proposito che agiscono le forze di polizia, o i vigili del fuoco: perché dev'essere altrimenti per
la strapotenza militare del soccorso internazionale?

Qualunque conclusione si raggiunga sull' efficacia di interventi militari nel corso della seconda
guerra mondiale, resta imperdonabile l'omissione, vile o rassegnata, di qualunque tentativo per
anni, mentre si sapeva dello sterminio, dei suoi modi, dei suoi luoghi. Altri paragoni troppo
ravvicinati sono impropri, ma questo confronto è difficile da eludere. Chi di noi non ha ceduto
al sarcasmo nei confronti delle armi "intelligenti", e degli imbecilli che le hanno chiamate così?
Ma è un fatto che una delle obiezioni - non la peggiore - all'invocazione di bombardare
Auschwitz- Birkenau durante la guerra riguardava l'imprecisione delle armi.

L'obiezione principale fu che nessuna energia andava distolta dalla vittoria nella guerra, e che
quella sarebbe coincisa con il salvataggio delle vittime. Col Kosovo, non poteva essere ripetuta.
Bisognava soccorrere le vittime, non "vincere la guerra". Mi dispiace del fraintendimento che
mi procurerò, ma voglio fare un altro paragone. I nazisti si servirono della guerra, che aveva i
suoi propri fini, per spingersi alla soluzione finale del problema ebraico - per sterminare gli
ebrei. Anche per questo la posizione degli Alleati - vincere la guerra per salvare le vittime dello
sterminio - era fuori luogo. In un certo senso, questo spostamento si è ripetuto nella vicenda
del Kosovo: la Nato ha trattato come una guerra il suo intervento, e ha affidato alla ripetizione
della strategia aerea la "vittoria". Il regime serbo ha usato della "guerra" come dell'occasione
per liquidare il problema kosovaro: cioè decimare con gli assassinii la popolazione maschile,
deportare quanta più gente possibile, e ridurre un popolo in gran maggioranza numerica e in
forte crescita demografica a una proporzione "accettabile": la metà.

I deportati che non torneranno, gli uccisi che riempiono le fosse comuni o i pozzi di miniera,
sono un risultato acquisito. L'intervento della Nato non l'ha impedito, l'ha in parte
involontariamente favorito. E la scoperta del sotterraneo della tortura ha divaricato fino al
paradosso la distanza fra il pilota cui era interdetto scendere sotto i 5000 metri, e il
perseguitato nel sottosuolo. La camera della tortura di Pristina è un di più, un lusso che la
pulizia etnica si è regalata, nei suoi attori più scelti. Come ogni impresa gratuita, ha rivelato a
perfezione il fondo della contesa. L'attaccamento all'odio, al potere, al sangue versato,
all'abiezione inflitta in gruppo a ciascuno degli altri. La morte del nemico, nella tortura, diventa
un' appendice, un effetto finale, se non addirittura un infortunio: la cosa sta nella
sottomissione e nell'agonia protratta, nel dolore distillato, nello spettacolo offerto dal
suppliziato al macellaio. Le vittime sono comunque inermi: alla tortura ci si addestra
tormentando una lucertola, sbatacchiando furiosamente un neonato che piange.

Alla vista del locale e dei suoi utensili abbandonati, non riesco a vedere né a sentire le vittime,
perché non voglio. Da quella cantina non si sentiva il rombo dei bombardieri della Nato:
figurarsi se si potessero sentire dal nostro cielo le urla e i gemiti dei tormentati. Mute, le
vittime. Quella camera improvvisamente spalancata non deve mostrar loro, né farle
immaginare con paura o con raccapriccio. Deve far vedere gli aguzzini, il loro spalleggiarsi, le
loro risate ubriache, i loro giornaletti e le loro tre dita levate. Restituire i jingle politici - la
nazione serba, la battaglia sacra di Lazar, i monasteri magnifici e la fraternità panslava - alla
loro dimensione personale, alla libertà senza confini di mettere alla prova se stessi sul corpo
dell'altro. Sono scappati a gambe levate, quegli artigiani efferati: lungo la strada avranno
alzato le tre dita, incrociando i carri russi, o le telecamere di ogni parte. A Belgrado, o in
un'altra loro città, in un'osteria o in una caserma, non resisteranno al piacere di raccontare che
cos'hanno fatto a Pristina. Troveranno altri come loro cui le cose si possono dire. Il bello di
essere poliziotti - o paramilitari, è lo stesso, anzi meglio: parastatali della brutalità - in tempo
di guerra patriottica è che si può fare tutto per una causa superiore. Sarebbe la dimostrazione
finale del fatto che il male è più forte del bene, fra gli animali umani, se non si ricevesse ogni
volta di nuovo la prova che resta nei torturatori e nei massacratori il fondo di una paura e una
vergogna, la foga di cancellare le tracce. Qualcuno di noi l'aveva temuto: i serbisti tiravano per
le lunghe solo per avere il tempo di cancellare le tracce. La stessa cosa era successa ai nazisti.
Quando lo sterminio passò dalle fucilazioni di massa alle camere a gas, fu anche per smaltire le
scorie nei forni. I nazisti (e tanti altri) seppellirono e riesumarono tante loro vittime per
riseppellirle o bruciarle: come hanno appena fatto bande serbe. Dicevano, gli altruisti carnefici
nazisti: il mondo non è ancora preparato a capire. Non si può lavorare alla luce del sole. Anche
i serbisti devono aver pensato così. Il mondo non è ancora preparato, e anzi ha incaricato un
tribunale di occuparsene: benché non lo prenda ancora abbastanza sul serio.

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Proteste Per La Sentenza Dall

  • 1. Proteste per la sentenza dall'Aja, sit-in dei bosniaci a Sarajevo Le madri delle vittime tagliano gli alberi dedicati agli uccisi nel '95 Srebrenica, le radici dell'odio "La vendetta si avvicina" Rabbia dopo l'assoluzione dei serbi: "Traditi dall'Europa" dal nostro inviato GIAMPAOLO VISETTI La protesta delle donne musulmane bosniache davanti al parlamento di Sarajevo SARAJEVO - Alle madri di Srebrenica, dodici anni dopo, non è rimasta che l'accetta. Nadija Alic, rifugiata a Tuzla, questa mattina ha raggiunto la foresta dei figli bruciati dalla guerra. Abeti, betulle, larici, un albero per ogni vittima del "genocidio senza colpevoli". Le donne speravano di seguire almeno la crescita delle piante, battezzate con i nomi degli scomparsi. Dopo lo schiaffo dell'Aja, hanno deciso di abbattere anche i simboli di chi è stato loro rubato. "Mentre fucilavano mio marito e i nostri tre ragazzi - dice - sono stata stuprata da un ufficiale dell'esercito di Belgrado. La comunità internazionale ha deciso che è colpa mia". I suoi quattro alberi sono caduti poco dopo mezzogiorno. I primi: la cataste di tronchi, accanto ad altre vecchie silenziose e infagottate, ora sono già alte. La sentenza della Corte internazionale di giustizia, che ha assolto la Serbia dall'accusa di genocidio per il massacro del 1995, spacca la Bosnia-Herzegovina e riappicca l'incendio nei Balcani. Per protestare contro il verdetto-scandalo, studenti e professori chiudono oggi l'università di Sarajevo. "Siamo tramortiti - dice il rettore Faruk Caklovica - dubitiamo della salute mentale dei giudici". Martedì, nella capitale, hanno sfilato oltre 5 mila persone. La più grande manifestazione dalla fine del conflitto. Sui cartelli c'era scritto: "Sono stati i marziani" e "Occidente, l'ennesimo tradimento". Musulmani e croati contro serbo-bosniaci. Il vaso dell'odio nazionalista e delle vendette etniche è di nuovo senza coperchio. L'11 marzo, a Tuzla, si annuncia la protesta-choc che spaventa i contingenti militari internazionali. Da dieci anni, ogni mese, le sopravvissute di Srebrenica espongono nell'indifferenza generale i drappi con i nomi delle 8 mila vittime. Mentre a Vienna si deciderà l'indipendenza del Kosovo, le madri bosniache bruceranno le loro stoffe-reliquia per denunciare davanti al mondo la "cinica ipocrisia della Serbia e dell'Onu". Mai, dopo l'accordo di Dayton, pace e rinascita nei Balcani sono
  • 2. parse così lontane. Nei tribunali ormai si fermano anche i processi contro i crimini di guerra. Naza oggi è arrivata a Sarajevo in autostop per testimoniare le sevizie subite. Non aveva i soldi per tornare a Visegrad. La preghiera di una colletta, in tribunale, non le ha risparmiato di riavviarsi a piedi verso casa. Sono queste umiliazioni, il senso di abbandono e di disperato isolamento, di ingiustizia, a riportare indietro la storia. "La prospettiva di una riesplosione della violenza - dice Zlatko Dizdarevic, direttore del quotidiano Oslobodjenje durante i tre anni di assedio della capitale - diventa ogni giorno più concreta". La verità negata apre ferite antiche e scava pericolosi solchi nuovi. "In Europa i musulmani - dice Resid Hafizovic, docente di scienze islamiche a Sarajevo - non possono aspettarsi che la loro vita sia protetta come quella degli altri". Un modo prudente per introdurre la domanda collettiva che sta sconvolgendo la Bosnia: se a Srebrenica fossero stati massacrati 8 mila cristiani, la sentenza dell'Aja contro i musulmani sarebbe stata la stessa? "Questo verdetto - risponde il cardinale Puljic Vinco - rispecchia semplicemente interessi politici. E offende tante vittime innocenti". Per questo la Bosnia ha deciso di dare all'Occidente una risposta politica. "Se il problema è la mancanza di prove contro la Serbia - dice il presidente del comitato per la ricerca dei dispersi, Amor Masovc - ne porteremo di nuove e chiederemo la riapertura del processo". Il parlamento bosniaco, a maggioranza bosgnacco-croata, si appresta così a votare la riforma della costituzione. Si chiede di cancellare la Republika Srpska, "ormai ufficialmente fondata sul genocidio", e di punire chi lo nega. Una bomba, nell'ex Jugoslavia. Oggi a Banja Luka il presidente serbo - bosniaco Milorad Dodik riceve Carlo d'Inghilterra e la moglie Camilla, in visita al contingente britannico. "Siamo pronti a scusarci per crimini di guerra contro i non serbi - concede rifiutando di riconoscere il genocidio sancito dall'Aja e attaccando la Ue - ma tutti i gruppi etnici devono chiedere scusa per i massacri commessi tra il 1992 e il 1995". Il messaggio ultranazionalista è chiaro: guai a chi tocca la Republika Srpska, pronta a indire un incostituzionale referendum per l'indipendenza e a chiedere l'annessione alla Serbia. Un incubo, nonostante le "pulizie" belliche. La minaccia di secessione dei serbo-bosniaci, sostenuti da Belgrado e Mosca, risponde all'offensiva dei musulmani di Bosnia: l'obiettivo però è congelare l'indipendenza del Kosovo, destabilizzando i Balcani. "Altro che Unione europea - dice Haris Silajdzic, rappresentante islamico della mostruosa presidenza tricefala della federazione bosniaca - basta una scintilla perché il rogo torni a divampare. Cosa accadrà a Sarajevo e a Banja Luka, se a Pristina gli albanesi cacceranno i serbi"? A dodici anni dalla fine dei combattimenti, un Paese spaccato secondo l'assurda linea dei fronti bellici affonda nel rancore, nella miseria, nell'isolamento e nell'assenza di prospettive. La metà del bilancio statale serve per pagare la burocrazia, 187 ministri si contendono le tangenti degli stranieri, la disoccupazione sfiora il 50%, solo quattro edifici su dieci sono stati ricostruiti. Le strade restano interrotte dalle voragini delle cannonate, nei villaggi si sopravvive con due euro al giorno. Nelle scuole, separate secondo l'appartenenza etnica, ai bambini si insegnano storie opposte: il seme per l'odio di domani.
  • 3. Un bilancio desolante, per la comunità internazionale. Al punto che ieri Bruxelles ha deciso di prorogare la permanenza dell'alto rappresentante Ue, che doveva smobilitare a giugno. Dimezzate invece le forze di pace, ormai troppo costose. "Ma nelle case e sotto terra - avverte a Sarajevo un diplomatico europeo - restano arsenali impressionanti. Una guerra civile è tecnicamente affrontabile, mentre un colossale contrabbando di armi è già realtà". L'alternativa all'Europa, secondo la stampa bosniaca, resta "un buco nero". "Se i Balcani dovessero fare i conti solo con se stessi - dice l'analista Tahir Belkic - un'altra Srebrenica sarebbe possibile". Basta guardare le vecchie paralizzate davanti alle tombe dei cimitero di Potocari. Per non abbandonare morti e dispersi, vivono di carità, accerchiate dai loro carnefici della Srpska. L'esistenza si risolve nell'attesa del ritrovamento di nuove fossi comuni. Finora sono 6 mila i cadaveri riesumati, 4 mila quelli identificati grazie al Dna, 2 mila i dispersi. Ventimila, nell'intera Bosnia decapitata di 100 mila vite. "Ogni mese - dice Bakira Hasecic, leader delle donne vittime della guerra - si riapre una fossa. Stiamo per giorni nel fango, a cercare i resti dei nostri cari. Poi si scopre che le ruspe hanno devastato gli ossari: una tibia riemerge in un campo a sud, il cranio magari è duecento chilometri a ovest. Oppure si trova il corpo di uno a cui è già stato fatto il funerale". C'è chi impazzisce, aspettando invano una tomba su cui pregare. "Per questo - dice Hatidza Mehmedovic, portavoce della madri di Srebrenica - non possiamo accettare la volgarità del giudizio dell'Aja. Mladic e Karadzic erano stipendiati e agli ordini di Milosevic, celebrato poi come statista a Dayton. Ma siccome l'Occidente ha ancora bisogno della Serbia, contro la Russia di Putin, Belgrado può evitare di pagare il conto". Una metastasi fatale, ignorata da un'Europa distratta. Come se la prospettiva della Ue, in assenza di verità e giustizia, potesse da sola risanare i Balcani. "La verità - dice Liljana Smajlovic, politologa serbo-bosniaca - è che cresce un rancore nuovo, anti - occidentale. Si sogna Bruxelles per abolire i visti e divorare i finanziamenti: ma dodici anni di beffe ci hanno riportato sull'orlo del precipizio e nessuno crede più nella democrazia europea". E' sera quando un pullman croato scarica cinquanta rifugiati bosgnacchi tra le macerie di Srebrenica. Erano fuggiti da bambini, sotto le raffiche delle esecuzioni. Vengono a portare un fiore sui tumuli di padri e fratelli maggiori, a vendere la casa. "Adesso ogni giorno - dicono - avvicina quello della vendetta". Ripartono subito. Vivono negli Stati Uniti: qui non torneranno più". (2 marzo 2007)
  • 4. SREBRENICA, 14 ANNI DOPO Comincia oggi la settimana che si concluderà, sabato 11 luglio, con il ricordo del genocidio di Srebrenica, consumatosi l’11 luglio 1995 davanti agli occhi dei caschi blu dell’Onu e di una comunità internazionale del tutto assente e disinteressata Regaliamo oggi ai nostri lettori uno dei capitoli, l’ottavo, del libro di Luca Leone, “Srebrenica. I giorni della vergogna”, giunto alla seconda edizione e in traduzione in serbo-croato (sarà pubblicato in Bosnia il prossimo autunno). Quello di Srebrenica è stato l’unico genocidio consumatosi in Europa dopo quelli perpetrati dal nazifascismo ai danni di ebrei e rom. Quello di Leone è l’unico libro aggiornato interamente dedicato all’argomento in distribuzione in Italia e i primo libro di un autore italiano a essere tradotto in serbo-croato e a essere immesso nel mercato balcanico. Un giornalista a Srebrenica Tratto da Srebrenica. I giorni della vergogna Infinito edizioni, seconda ristampa, 2007 Il sole è basso dietro le case di Srebrenica, nonostante sia solo l’ora di pranzo. Il cielo è di nuovo velato di qualche lieve strato di nuvole; un vento frizzante sferza le gote, scompiglia capelli e fa alzare buffi mulinelli di polvere che ricadono confondendosi con la sporcizia e il grigio del cemento schiaffeggiato qua e là da qualche cazzuola per chiudere alla meglio i buchi delle granate. Sadik Salimović se ne sta fermo in un giubbotto marrone chiaro un po’ consunto accanto alla sua vecchia Volkswagen Polo rossa, parcheggiata con una certa fantasia una decina di metri più in là rispetto all’irta scalinata del palazzo comunale, non lontano da una catasta di legna da ardere che qualcuno ha già ordinato diligentemente per l’inverno incipiente sull’asfalto rabberciato, proprio sotto un palazzo dalla facciata bianca. L’uomo è incuriosito dalla presenza di forestieri e non lo nasconde. Si avvicina a Malkić, gli chiede qualcosa. Il sindaco ci presenta questo personaggio di mezza età, dal fisico leggermente appesantito e lo sguardo penetrante dietro gli spessi occhiali, come il giornalista di Srebrenica. È una sorta di istituzione, Salimović: tutti lo conoscono, quasi tutti lo salutano, in molti probabilmente lo temono. E lui teme loro, a giudicare dalla circospezione con cui cammina sui marciapiedi rattoppati schivando i segni delle granate sull’asfalto consunto. Ha scritto un libro sulla sua città, dalla fondazione alle lacrime disperate delle donne di Srebrenica che piangono i loro cari. Non ha editore e per stamparne 3.000 copie si è indebitato per gli anni a venire. Ma ha fatto le cose in grande: copertina pesante con fondo argentato: che cosa c’è di meglio per la città dell’argento? Sono stato a Tuzla per otto anni, durante e dopo la guerra. Ho avuto varie opportunità per andare via dalla Bosnia ma non ho voluto, non ho potuto. Ho sempre cercato di tornare a casa, qui a Srebrenica, e l’ho fatto due anni e mezzo fa: non me ne sono pentito racconta una volta arrivati in cima alla salita che porta nel cuore della città. Gli spieghiamo che dobbiamo incontrarci con Hatidja Mehmedović, fondatrice e direttrice dell’associazione civica delle Madri di Srebrenica e Žepa, che si occupa di dare assistenza economica alle persone che decidono di rientrare nell’ex enclave. Sgrana gli occhi piccoli: la conosce, molto bene. Si offre di accompagnarci da lei. Torniamo dal povero Eldin e lo ritroviamo pallido, a stomaco vuoto come noi – nonostante ci fossimo lasciati con lui intenzionato «a cercare un posto dove mangiare un sandwich» – e con un uomo grande e grosso dalla faccia squadrata che lo tallona zoppicando visibilmente e caracollando da un paio di metri d’altezza: Dice che è un serbo di Bratunac. Che fa il tipografo e vuole un passaggio per tornare in città. Dice che non è riuscito «a scrollarselo di dosso traduce un’allibita Emira mentre il tassista guarda da un’altra parte. Dopo che a fatica Eldin ha riavviato il suo bianco mulo stanco seguiamo la Polo di Salimović fino a una strada sterrata fuori città, dove lasciamo il tassista, decisamente preoccupato, e il suo nuovo “amico” di Bratunac, un uomo decisamente impaziente. Ci inerpichiamo con Emira e Sadik fino a raggiungere la vetta della collina. Ci sono case distrutte, altre edificate a metà, altre ancora quasi finite. Quella di Hatidja appartiene a quest’ultima categoria. Anzi, ci spiegherà poi, grazie ai soldi che un’amica austriaca le ha donato ha potuto avviare la costruzione di alcuni muretti in cemento armato per contenere la terra che, durante le frequenti piogge, tendeva a franare contro le pareti della sua casa, costruita in basso, in pendenza rispetto alla vetta della collina. Lì fuori vivono una parte dei ricordi più dolci e tragici di Hatidja: lì cresce l’albero piantato dal maggiore dei suoi due figli, entrambi uccisi dai serbo-bosniaci nel genocidio di Srebrenica; lì, sul cemento ruvido del piccolo spiazzo che si apre davanti alla sua casetta, fredda all’interno come la morte che avremmo conosciuto per nome e cognome il giorno dopo, a Tuzla, giace l’impronta di una piccola mano: Ricordo ancora quando mio figlio minore la lasciò, premendo la manina sul cemento fresco. Volevano cancellarla, ma gliel’ho impedito: quest’impronta e quest’albero sono tutta la mia vita, spiega la donna, passando poi a raccontarci del serpente che proprio quella mattina le è entrato in casa e alla caccia intrapresa per espellere l’indesiderato e velenoso
  • 5. rettile da sotto i modesti ma ordinati mobili. Perché è così difficile trattenere le lacrime, a volte? È nel salotto al primo piano, l’unica camera lievemente riscaldata da una stufa a legna di ghisa nera, che Sadik, consumando un caffè preparato da Ha¬tidja, che si limita a guardarci poiché sta osservando il Ramadan, ci racconta non senza resistenze della “sua” Srebrenica, prima di salutarci titubando un po’ davanti alla richiesta di poter citare il suo nome nell’intervista e lasciarci con l’universo immensamente complesso e tragico della donna che ci ospita, e che di tanto in tanto approfitta delle nostre chiacchiere per andarsi a mettere la camicia buona, tirare su la crocchia dei capelli ingrigiti dal dolore o infilare un ciocco di legna nella bocca di ghisa della stufa. Sono poche domande, quelle che viene spontaneo fare a Salimović, le cui risposte fotografano una realtà difficile da capire, per chi viene da lontano. Immagino che avrai avuto modo, in questi anni, grazie al tuo lavoro, di monitorare Srebrenica su tutta la stampa bosniaca: come se ne parla? Srebrenica ha un’attenzione dei media molto particolare; qualche volta viene presentata in cattiva luce, ma per lo più sotto aspetti positivi. Credo che in città ci siano stati notevoli progressi in questi ultimi due anni. Penso ad esempio alla vita pratica. Srebrenica prima della guerra era stata completamente illuminata, anche nelle zone rurali; dopo la guerra c’era corrente elettrica solo in città. Ora, con l’aiuto americano, l’elettricità copre il 95% del territorio. Il sindaco ha detto che tutta l’area rurale è di nuovo illuminata. Lui fa il politico, io il giornalista. So per certo che ne manca ancora in alcune zone, ma che si sta lavorando a questa come ad altre urgenze. Si stanno ricostruendo le strade, ad esempio, per poter raggiungere tutti i posti abitati; ai rientrati viene dato un aiuto, nei limiti delle possibilità. Percepiamo ancora assistenza umanitaria, dall’America e dai Paesi europei, perché qui la gente vive solo d’agricoltura, non c’è lavoro. Prima della guerra avevamo in città 10.000 impiegati; ora siamo in tutto 10.000 abitanti...e le persone che lavora¬no saranno al massimo 500. Tanti sfollati dei tempi della guerra non tornano perché qui non c’è lavoro; ma è altrettanto vero che queste stesse persone non hanno un’occupazione neanche a Tuzla, così magari alla fine qualcuno di loro decide di ritornare alle sue vecchie proprietà per occuparsi d’agricoltura e allevamento. Io personalmente ho lavorato per 7 anni alla televisione di Tuzla; ero impiegato a tempo indeterminato ma sono tornato benché fossi consapevole del fatto che qui non avrei mai trovato un posto fisso. Ora lavoro solo quando ci sono progetti dedicati a Srebrenica. Ma sono felice della scelta che ho fatto. Dopo 10 anni, a tuo avviso, il genocidio di Srebrenica comincia a essere rivisitato? In sostanza, il negazionismo sta riuscendo a guadagnare strada oppure no? Vedi, le nostre ferite non potranno mai guarire, perché qui è successo qual¬cosa di particolare. Non lo possiamo dimenticare: dobbiamo vivere con que¬sto ricordo, soprattutto per quello che è successo l’11 luglio 1995, e non ho paura di dire che tutti coloro che fin qui hanno avuto il coraggio di ritornare sono degli eroi. Nel 1992 molti cittadini di Srebrenica, serbi e musulmani, sono dovuti fuggire, anche se ancora non si sapeva esattamente a che cosa saremmo andati incontro, in particolare per le decine di migliaia di persone che rimasero. Ora siamo tornati, pur sapendo quello che è accaduto. Credo che non ci sia nessuno capace di spiegare quale e quanta sia questa forza che ci spinge a rientrare nelle nostre case. Gran parte della gente che torna lo fa perché ha un grande orgoglio. Mi chiedevi del revisionismo, del negazionismo… Beh, non possiamo nascondere che soprattutto all’inizio, da parte serba, si sia manifestata una certa resistenza, poiché la maggior parte di loro tendeva a ne¬gare il crimine. Però ufficialmente lo stesso presidente della Rs, Dragan Cavić, ha riconosciuto che a Srebrenica è stato compiuto un crimine atroce. È vero: persino i serbi di Srebrenica inizialmente hanno negato che il genocidio fosse stato commesso, ma ora lo riconoscono, sebbene non abbiano le idee chiare su che cosa sia successo esattamente qui, perché anche molti di loro sono stati rifugiati altrove. Inizialmente le autorità serbo-bosniache hanno fatto di tutto per nascondere i crimini, a cominciare dai militari, che negavano tutto. Ma una tragedia di queste dimensioni, con 7.500, forse 8.500, forse 10.000 e più morti, non può essere tenuta nascosta per sempre, è impossibile. La stampa nazionale come ha accolto il terzo rapporto della Commissione della Rs, di cui accennavi poco fa? Attualmente tutta la stampa riporta i fatti in maniera oggettiva. Ora non si tace più su questi argomenti. Per fortuna, è questa la verità. La depenalizzazione del reato di diffamazione a mezzo stampa è stato un evento celebrato da tutti i giornalisti bosniaci come una grande conquista; ciò nonostante, è aumentata la pratica di chiedere ingenti risarcimenti in denaro ai giornalisti e alle testate, bloccando di fatto la libertà di stampa nelle aule dei tri¬bunali. Oltre a questo, esistono pericoli per un giornalista bosniaco nello svolgere la sua professione in maniera oggettiva? Non c’è nessun pericolo. Lavoro per un giornale di cui sono caporedattore, insieme a sei giornalisti, e scriviamo di tutto in modo oggettivo, di qualsiasi tematica si tratti: dalle cerimonie che si svolgono al memoriale di Potočari all’apertura di nuove fosse comuni, nelle quali a volte vengono ritrovati i resti di musulmani, altre di serbi. Non sento, da parte dei colleghi giornalisti serbi, l’intenzione di coprire la verità. Scriviamo oggettivamente e la popolazione lo accetta. Non abbiamo avuto critiche sui nostri pezzi da parte di nessuno, nonostante abbiamo trattato anche temi delicati. Tre anni fa non avrei mai pensato che sarei tornato
  • 6. qui: avevo davvero paura di rientrare. Ora svolgo una professione “abbastanza pericolosa”, costantemente sotto i riflettori della critica, ma finora non ho avuto problemi. Oggi è molto più facile fare i giornalisti in ogni zona della Federazione rispetto agli anni immediatamente successivi alla fine della guerra; ma certo, qui non siamo nella Federazione, e a Srebrenica è tutto più difficile, perché questo è il terreno più sensibile... Deve andare. Finisce il caffè, saluta ed esce dopo aver abbracciato Hatidja. Dalla finestra lo vediamo risalire il viottolo di cemento fino alle scalette che portano alla strada sterrata. Il bavero alzato, le mani in tasca, la testa bassa: un giornalista a Srebrenica. redazione ilcassetto.it 06/07/2009 Da La Repubblica del 26/02/2007 Per la Corte internazionale dell'Aja il massacro di 8000 musulmani non può essere attribuito direttamente agli organi di governo di Belgrado Onu: "A Srebrenica fu genocidio ma la Serbia non è responsabile" Respinta la denuncia della Bosnia: Milosevic e i suoi colpevoli soltanto di non aver impedito la strage News presente nelle categorie: Il mondo in guerra: ieri, oggi, domani → Ieri → 1998. La polveriera dei Balcani L'AJA - Il massacro di Srebrenica fu genocidio, ma la responsabilità non può essere attribuito allo Stato serbo. E' quanto sostiene, in uno dei passaggi del lungo testo, la sentenza emessa oggi dalla Corte internazionale di giustizia dell'Aja, secondo la quale Belgrado ha violato gli obblighi di impedire il genocidio, ma lo Stato in quanto tale non può esserne ritenuto imputabile. Il Tribunale internazionale è andato per la prima volta oltre la definizione di "massacro" data fino ad ora all'uccisione nel luglio del 1995 di circa 8000 musulmani bosniaci nell'enclave che avrebbe dovuto essere protetta dal contingente Onu. "Il tribunale non crede che il genocidio compiuto a Srebrenica possa essere attribuito alle autorità serbe" ha detto il presidente della Corte, Rosalyn Higgins, secondo la quale non può neppure essere stabilito se Belgrado sia da considerare complice per aver fornito aiuti alle milizie serbo-bosniache di Ratko Mladic. Tuttavia, ha aggiunto, è da considerare responsabile di omissione per non aver impedito il genocidio. Un punto, questo, contestato dalle autorità serbe. "Che la Serbia non abbia fatto tutto quello che poteva per evitare il genocidio è per noi la parte del verdetto più difficile da accettare", ha spiegato il presidente serbo Boris Tadic, che comunque ha richiesto al parlamento di condannare il massacro di musulmani compiuto dai Serbo-Bosniaci a Srebrenica. "E' importante una chiara dichiarazione di condanna di quello che è successo - ha aggiunto -. Servirà ad aprire una fase nuova nei nostri rapporti con la Bosnia". Era stata infatti proprio la Bosnia a presentare alla Corte di giustizia internazionale la denuncia contro la Serbia, accusata di genocidio per "uccisioni, saccheggi, violenze, torture, sequestri, detenzione illegale e sterminio", commessi durante la guerra dei Balcani. I giudici, nella loro
  • 7. sentenza, la cui lettura è durata oltre due ore, hanno respinto le accuse bosniache, rilevando però che Belgrado ha la colpa di non aver impedito la strage ad opera dei serbi di Bosnia: "La Serbia non ha fatto nulla per rispettare i suoi obblighi di prevenire e punire il genocidio di Srebrenica" e "ha fallito nel cooperare pienamente con il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, che ha incriminato i responsabili". All'epoca della presentazione della denuncia da parte di Sarajevo, l'eccidio di Srebrenica non era ancora avvenuto ma la Bosnia era sotto assedio e le immagini delle condizioni dei detenuti nei campi di prigionia serbi erano già tristemente note all'opinione pubblica internazionale. I giudici dell'Aja hanno, evidentemente, ampliato il periodo preso in esame per emettere il loro verdetto e non escludere quello che è considerato il più grave massacro avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Per evitare una sentenza di condanna la Serbia, nel maggio scorso, aveva chiesto alla Corte di respingere la causa intentata dalla Bosnia, dopo che in più occasioni politici serbo-bosniaci avevano contestato anche la legalità e la legittimità della denuncia, poi invece confermata dalla stessa Corte dell'Aja. a La Repubblica del 19/06/1999 Le idee Aguzzini sotto le bombe di Adriano Sofri Articolo presente nelle categorie: Il mondo in guerra: ieri, oggi, domani → Ieri → 1998. La polveriera dei Balcani CI SONO porte destinate a non aprirsi. Scantinati senza finestre. Luoghi riservati. Letti di contenzione, sedie per slogare. E' raro che vengano alla luce: per un terremoto, per un'eruzione vulcanica. E' raro che se ne parli: gli ospitati non ne escono vivi. E' più facile che ne parlino i gestori: si resiste difficilmente alle vanterie, anche quando possono costare. Nel Kosovo riaperto si sapeva - purché lo si volesse sapere - che si sarebbero trovati forni e fosse comuni. Non era facile immaginare lo scantinato della tortura. Gira in questi anni una - detestabile - mostra sugli strumenti di tortura: la vergine di Norimberga, le ruote dentate, genere che ha i suoi amatori. Il repertorio interrato che da Pristina è arrivato sui nostri teleschermi è tecnologicamente grossolano, ma moralmente scelto: i pugni di ferro, i coltellacci, i mazzi di preservativi, il bastone spaccato in due (ne sarà stato orgoglioso, o seccato, quello che ha dato il colpo?), la rinfusa di documenti personali dei torturati e dei giornaletti zozzi dei torturatori. Eloquente repertorio: museo già pronto per le scolaresche. Resistono stupidi pregiudizi sul conto della tortura, di cui i torturatori sarebbero i primi a farsi beffe. Che serva a qualcosa, a far parlare... Ma no. La tortura è un'arte, è un piacere, è gratuita. Deve far male dentro il corpo dell'altro, dell'altra. Quello scantinato è altra cosa dall'assassinio di strada e dallo stupro compiuto a cielo aperto, al caso dell'agguato e della furia improvvisa. Quello scantinato è la sala operatoria di una chirurgia d'eccezione, in cui la
  • 8. potenza dell'odio si è presa un ufficio, e lavora con metodo. Il paziente è di preferenza una giovane donna, e se no un uomo su cui si compiano atti di effeminazione oltraggiosa. Il torturatore è un uomo: lo diventa davvero lì dentro. E' un luogo di iniziazione completa: dal giornaletto porno alla precauzione del preservativo, dal corpo spogliato e legato alla carne incisa, alle ossa frantumate, al sangue scolato in un recipiente lurido. Nella camera della tortura ogni movente mostra la propria fuorviante superfluità. Non importa più la divergenza nazionale e religiosa, neanche quella spinta all'assassinio di massa o allo stupro di massa. C'è il rapporto di potere nella sua essenza: il corpo a corpo fra il gruppo di armati e l'inerme denudato. Sempre la tortura prende la mano ai suoi apprendisti, dovunque, nelle caserme di polizia, nelle celle di punizione, nelle stanze private in cui uomini piccoli e impazziti si vendicano della propria paura. Succede molto, molto largamente. Ieri era anche uscito il benemerito rapporto annuale di Amnesty, impressionante: eppure succede ancora più largamente. L'omertà e la paura tengono ancora chiuse molte cantine. Possiamo fingere di non saperlo. La mia generazione ebbe fra le prime letture civili il saggio sulla tortura di Henri Alleg: era il 1958, l'Algeria. A nessuna generazione è mancato il suo addestramento. Ora i bambini vedono al telegiornale - i bambini vedono tutto, infatti - quel pavimento disseminato di ferri e mazze, in uno strano disordine; ci si aspetterebbe una cura diversa, da uomini d'ordine per eccellenza come sono i torturatori. Non so se si solleveranno dubbi, sull'"autenticità" di questo scantinato. Se le cose stanno così - mi pare di sì - vorrà forse dire che gli aguzzini si sono lasciati prendere di sorpresa; ma anche che è costato loro caro staccarsi da quel laboratorio professionale. Si dice che un'antica dama implorasse graziosamente: "Ancora un minuto, signor boia". Qui, forse, era il boia a chiedere per sè ancora un minuto. Chi ha percorso in questi anni la Jugoslavia conosce la scena infinita delle Pompei dei vivi, delle case abbandonate senza il tempo di afferrare un oggetto, di dare un'ultima occhiata. A Spalato un soldato appena reduce dalla "pulizia" della Krajna di Knin, bevendo birra un po' per festeggiare un po' per tristezza, mi disse: "Si entra nelle case e si trova la vita normale, due bicchieri di plastica colorata da bambini, ho visto un orsacchiotto posato sullo schienale di un divano esattamente come ce n'è uno a casa mia... Questa è la cosa più dolorosa. Poi ho finito anch' io col prendermi una targa d' auto, come hanno fatto tutti". Un altro mi volle regalare una bomba a mano serba, declinai, e accettai una banconota datata Knin 1992. Neanche i soldi avevano fatto in tempo a portarsi via. Nella cantina di Pristina non hanno fatto in tempo a raccogliere i machete, né i preservativi. Bisogna tener ferme le distinzioni. Riconoscere, dietro la fisionomia comune della violenza fisica, della violazione corporale, della tortura, i tratti speciali di ogni nuova impresa. Pristina è Pristina: non solo un altro nome da aggiungere alla mappa della tortura nel mondo. A Pristina la "polizia" serbista ha dovuto fuggire all'improvviso, questo ci dicono le immagini dell'ispezione imprevista. Ma ci dicono anche che avevano avuto molto tempo. Per 78 giorni lo scantinato è stato un quieto riparo antiaereo, nel quale fare il lavoro. Per 78 giorni noi abbiamo fissato un buco nero che si chiamava Kosovo, senza vederne se non i bordi, persone schizzate fuori a suon di minacce botte sparatorie e bombe. Abbiamo gremito il cielo, e perso di vista la terra. Ci siamo chiesti che cosa stesse succedendo, per terra, sotto la terra. Si lavorava, nella cantina di Pristina. E' doloroso, oggi, guardare il corteo vilipeso o esasperato di serbi che abbandonano a loro volta il Kosovo: era diventato fatale. Ma è commovente vedere il corteo di ritorno dei kosovari albanesi cacciati fuori dai confini. Mai, che mi ricordi, una popolazione deportata ha fatto ritorno alle sue case - alle sue macerie: si possono amare le proprie macerie - per effetto del soccorso dei potenti. Non certo dopo la Seconda guerra, e tanto meno per i suoi scampati
  • 9. ebrei. Bisogna esultare per questo rientro, ed esserne grati. Bisogna dire che l'incriminazione di Milosevic e i suoi all'Aia non ha affatto dilazionato la resa, ma l'ha accelerata: e sarebbe stata comunque giusta. Bisogna riconoscere in sé il rischio orribile del negazionismo e della minimizzazione di fronte alla misura e alla profondità di una persecuzione, in nome di diffidenze e di partiti presi. Bisogna congratularsi che la nostra parte di mondo, a differenza che per la Bosnia, non si sia lasciata piegare dall' antipatia per l'anagrafe musulmana della maggioranza della gente kosovaro-albanese. Tuttavia, si deve tornare all'inizio della questione. Perché una ottusità politica indusse a chiedersi se si dovesse o no intervenire a difesa dei kosovari, piuttosto che come intervenire. Anche dopo l'inizio dell'intervento, quando le milizie serbiste hanno risposto con l'inaudita deportazione di centinaia di migliaia di persone, e nessuno avrebbe dovuto più esitare ad affrontare quella tragedia, qualunque giudizio si desse sulla sua origine. Oggi ci si congratula dello scampato maggior pericolo, e si rischia di barattare la "vittoria" -com'era possibile che una "vittoria" non arrivasse? - con la rassegnazione al modo in cui è stata ottenuta. Credo che non dovrebbe succedere. Né per questa volta, né per le prossime, che purtroppo ci saranno. Non si può lasciare per tanto tempo una gente indifesa in balia degli scannatori. Non si può tenersi il cielo, e abbandonare loro il suolo e gli scantinati. Risparmiare le "nostre" vite è un proposito lodevole, purché non manchi il soccorso. Non è con quel proposito che agiscono le forze di polizia, o i vigili del fuoco: perché dev'essere altrimenti per la strapotenza militare del soccorso internazionale? Qualunque conclusione si raggiunga sull' efficacia di interventi militari nel corso della seconda guerra mondiale, resta imperdonabile l'omissione, vile o rassegnata, di qualunque tentativo per anni, mentre si sapeva dello sterminio, dei suoi modi, dei suoi luoghi. Altri paragoni troppo ravvicinati sono impropri, ma questo confronto è difficile da eludere. Chi di noi non ha ceduto al sarcasmo nei confronti delle armi "intelligenti", e degli imbecilli che le hanno chiamate così? Ma è un fatto che una delle obiezioni - non la peggiore - all'invocazione di bombardare Auschwitz- Birkenau durante la guerra riguardava l'imprecisione delle armi. L'obiezione principale fu che nessuna energia andava distolta dalla vittoria nella guerra, e che quella sarebbe coincisa con il salvataggio delle vittime. Col Kosovo, non poteva essere ripetuta. Bisognava soccorrere le vittime, non "vincere la guerra". Mi dispiace del fraintendimento che mi procurerò, ma voglio fare un altro paragone. I nazisti si servirono della guerra, che aveva i suoi propri fini, per spingersi alla soluzione finale del problema ebraico - per sterminare gli ebrei. Anche per questo la posizione degli Alleati - vincere la guerra per salvare le vittime dello sterminio - era fuori luogo. In un certo senso, questo spostamento si è ripetuto nella vicenda del Kosovo: la Nato ha trattato come una guerra il suo intervento, e ha affidato alla ripetizione della strategia aerea la "vittoria". Il regime serbo ha usato della "guerra" come dell'occasione per liquidare il problema kosovaro: cioè decimare con gli assassinii la popolazione maschile, deportare quanta più gente possibile, e ridurre un popolo in gran maggioranza numerica e in forte crescita demografica a una proporzione "accettabile": la metà. I deportati che non torneranno, gli uccisi che riempiono le fosse comuni o i pozzi di miniera, sono un risultato acquisito. L'intervento della Nato non l'ha impedito, l'ha in parte involontariamente favorito. E la scoperta del sotterraneo della tortura ha divaricato fino al paradosso la distanza fra il pilota cui era interdetto scendere sotto i 5000 metri, e il perseguitato nel sottosuolo. La camera della tortura di Pristina è un di più, un lusso che la pulizia etnica si è regalata, nei suoi attori più scelti. Come ogni impresa gratuita, ha rivelato a perfezione il fondo della contesa. L'attaccamento all'odio, al potere, al sangue versato, all'abiezione inflitta in gruppo a ciascuno degli altri. La morte del nemico, nella tortura, diventa
  • 10. un' appendice, un effetto finale, se non addirittura un infortunio: la cosa sta nella sottomissione e nell'agonia protratta, nel dolore distillato, nello spettacolo offerto dal suppliziato al macellaio. Le vittime sono comunque inermi: alla tortura ci si addestra tormentando una lucertola, sbatacchiando furiosamente un neonato che piange. Alla vista del locale e dei suoi utensili abbandonati, non riesco a vedere né a sentire le vittime, perché non voglio. Da quella cantina non si sentiva il rombo dei bombardieri della Nato: figurarsi se si potessero sentire dal nostro cielo le urla e i gemiti dei tormentati. Mute, le vittime. Quella camera improvvisamente spalancata non deve mostrar loro, né farle immaginare con paura o con raccapriccio. Deve far vedere gli aguzzini, il loro spalleggiarsi, le loro risate ubriache, i loro giornaletti e le loro tre dita levate. Restituire i jingle politici - la nazione serba, la battaglia sacra di Lazar, i monasteri magnifici e la fraternità panslava - alla loro dimensione personale, alla libertà senza confini di mettere alla prova se stessi sul corpo dell'altro. Sono scappati a gambe levate, quegli artigiani efferati: lungo la strada avranno alzato le tre dita, incrociando i carri russi, o le telecamere di ogni parte. A Belgrado, o in un'altra loro città, in un'osteria o in una caserma, non resisteranno al piacere di raccontare che cos'hanno fatto a Pristina. Troveranno altri come loro cui le cose si possono dire. Il bello di essere poliziotti - o paramilitari, è lo stesso, anzi meglio: parastatali della brutalità - in tempo di guerra patriottica è che si può fare tutto per una causa superiore. Sarebbe la dimostrazione finale del fatto che il male è più forte del bene, fra gli animali umani, se non si ricevesse ogni volta di nuovo la prova che resta nei torturatori e nei massacratori il fondo di una paura e una vergogna, la foga di cancellare le tracce. Qualcuno di noi l'aveva temuto: i serbisti tiravano per le lunghe solo per avere il tempo di cancellare le tracce. La stessa cosa era successa ai nazisti. Quando lo sterminio passò dalle fucilazioni di massa alle camere a gas, fu anche per smaltire le scorie nei forni. I nazisti (e tanti altri) seppellirono e riesumarono tante loro vittime per riseppellirle o bruciarle: come hanno appena fatto bande serbe. Dicevano, gli altruisti carnefici nazisti: il mondo non è ancora preparato a capire. Non si può lavorare alla luce del sole. Anche i serbisti devono aver pensato così. Il mondo non è ancora preparato, e anzi ha incaricato un tribunale di occuparsene: benché non lo prenda ancora abbastanza sul serio.