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Massimario di Giurisprudenza del Lavoro

GIURISPRUDENZA

IL SOLE 24 ORE

RAPPORTO DI LAVORO

in contratto a tempo indeterminato sia preceduta da una
conversione soggettiva del rapporto. La norma richiede
solo che si sia in presenza di uno dei «casi di conversione
del contratto a tempo determinato».
38. Né rileva che il vizio che determina il meccanismo
sanzionatorio possa riguardare anche il contratto di
fornitura, cioé il contratto commerciale che sta a monte
del contratto di lavoro. Anche questo elemento, come
si è visto, non esclude che l’esito sia la conversione del
rapporto di lavoro a tempo determinato in contratto di
lavoro a tempo indeterminato.
39. L’espressione «casi di conversione del contratto di
lavoro a tempo determinato», senza ulteriori precisazioni, non esclude, in conclusione, che il fenomeno di conversione possa avvenire nei confronti dell’utilizzatore
effettivo della prestazione, né che possa essere l’effetto
sanzionatorio di un vizio concernente il contratto di
fornitura.
40. Deve, infine, ricordarsi che, per giurisprudenza costante di questa Corte, la legge n. 183 del 2010, art. 32 si
applica anche ai processi in corso, compresi i giudizi di
legittimità, sempre che sul relativo capo della decisione
di secondo, o già di primo grado, non si sia formato il
giudicato (Cass. 3 gennaio 2011 n. 65; 4 gennaio 2011
n. 80; 2 febbraio 2011 n. 2452 e molte altre successive
sempre nel medesimo senso).
41. Il motivo pertanto deve essere accolto, sebbene in
parte, perché, contrariamente a quanto assume l’impresa
ricorrente, l’indennità prevista dalla legge n. 183 del

2010, art. 32, co. 5, non è compatibile con la detrazione
delle somme percepite a titolo di aliunde perceptum
dal lavoratore (cfr. sul punto, in particolare, Cass. 7
settembre 2012, n. 14996). Nel condannare la società al
pagamento della indennità, il giudice di rinvio non dovrà
pertanto disporre la sottrazione di tali somme.
42. L’accoglimento del motivo concernente l’indennità
ex art. 32 comporta, come si è anticipato, l’assorbimento
del motivo relativo alla messa in mora. Anche questo
profilo, diventa irrilevante una volta ritenuta applicabile
l’indennità ex art. 32, che prescinde dalla messa in mora
(cfr. ancora, per tutte, Cass. 14996/2012, cit.).
43. In conclusione: il primo motivo di ricorso è inammissibile; il secondo, il terzo ed il quarto sono infondati; il
quinto rimane assorbito. Il sesto deve essere accolto, nei
limiti di quanto specificato, in base al seguente principio
di diritto: «L’indennità prevista dalla legge 4 novembre
2010, n. 183, art. 32 si applica anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subìto
dal lavoratore a causa dell’illegittimità di un contratto
per prestazioni di lavoro temporaneo a tempo determinato, ai sensi della legge 24 giugno 1997, n. 196, art. 3, co.
1, lett. a) convertito in contratto a tempo indeterminato
tra lavoratore e utilizzatore della prestazione».
44. L’accoglimento parziale del sesto motivo comporta
la cassazione della sentenza in ordine al motivo accolto
ed il rinvio alla Corte d’appello di Milano in diversa
composizione, anche per la decisione in ordine alle spese
del giudizio di legittimità. (Omissis)

NOTA

Somministrazione e regole del termine nella recente
giurisprudenza
1. - Premessa. — Le sentenze della
Corte di giustizia Europea dell’11
aprile 2013 n. c-290/2012, sezione
ottava e della Corte di cassazione
17 gennaio 2013 n. 1148 (nonché
la sentenza del 29 maggio 2013 n.
13404) costituiscono una occasione
per riflettere sui rapporti tra il contratto a termine e contratto di somministrazione.
Apparentemente la Corte di giustizia
e la Corte di cassazione pervengono
a conclusioni opposte, ma ciò è

772

Sommario: 1. - Premessa. — 2. - La
sentenza della Corte di giustizia. — 3.
- Il rapporto tra contratto a termine e
somministrazione nella legislazione italiana. — 4. - Le conseguenze
dell’illegittimità del contratto a termine. — 5. - Le conseguenze dell’illegittimità del contratto di somministrazione e le sentenze della Cassazione
17 gennaio 2013, n. 1148 e 29 maggio
2013, n. 13404. — 6. - Considerazioni
sulle pronunce della Cassazione.

frutto prevalentemente di un diverso
sistema normativo: mentre, infatti,
nell’ordinamento italiano si assiste
ad un tentativo di assimilazione,
quantomeno sotto il profilo normativo, tra contratto a termine e somministrazione, il legislatore europeo
ha mantenuto più netta la distinzione
tra le due fattispecie.
2. - La sentenza della Corte di giustizia. — La sentenza trae origine
da un rinvio pregiudiziale operato

Novembre 2013 • n. 11
Massimario di Giurisprudenza del Lavoro

GIURISPRUDENZA

IL SOLE 24 ORE

dal Tribunale di Napoli, il quale,
premesso che il d.lgs n. 276 del 2003
non pone alcuna limitazione alla
reiterazione dei contratti a termine
stipulati con le agenzie di lavoro
interinale, a differenza di quanto avvenga rispetto ai contratti a termine
stipulati ai sensi del d.lgs n. 368 del
2001, ha sollevato la questione della
compatibilità dell’art. 22 del d.lgs
n. 276 del 2003 con la clausola n. 5
dell’accordo quadro sul contratto a
tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/Ce che prevede che
«Per prevenire gli abusi derivanti
dall’utilizzo di una successione di
contratti o rapporti di lavoro a tempo
determinato, gli Stati membri, previa
consultazione delle parti sociali a
norma delle leggi, dei contratti collettivi e delle prassi nazionali, e/o le
parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi
e in un modo che tenga conto delle
esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure
relative a: a) ragioni obiettive per la
giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata
massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato
successivi; c) il numero dei rinnovi
dei suddetti contratti o rapporti».
La Corte di giustizia non è neppure
entrata nel merito della questione,
limitandosi ad affermare che ai contratti a termine stipulati nell’ambito
di un contratto di somministrazione
non si applicano le disposizioni di
cui all’accordo allegato alla direttiva
1999/70/Ce.
Il ragionamento della Corte è ineccepibile e trova diretto fondamento
nelle stesse disposizioni di cui alla
direttiva indicata, nonché in altre
disposizioni normative.
Sotto questo profilo il co. 4 del preambolo dell’accordo quadro risulta
chiarissimo: «Il presente accordo
si applica ai lavoratori a tempo
determinato, ad eccezione di quelli

Novembre 2013 • n. 11

RAPPORTO DI LAVORO

messi a disposizione di una azienda
utilizzatrice da parte dell’agenzia di
lavoro interinale». Peraltro, la norma
aggiunge che «è intenzione delle
parti considerare la necessità di un
analogo accordo relativo al lavoro
interinale».
Dunque, alla non applicazione della direttiva ai contratti a termine
stipulati nell’ambito di un rapporto
di lavoro somministrato si perviene
non già in via interpretativa, ma a
seguito di una espressa deroga imposta dalla direttiva medesima, la
quale, peraltro, rinvia a successivi
interventi normativi la disciplina del
rapporto di lavoro interinale (e dunque anche degli eventuali contratti
a termine stipulati nell’ambito del
lavoro somministrato).
Inoltre, la direttiva 1999/70/Ce si
applica esclusivamente ai lavoratori
a tempo determinato (clausola n. 2
dell’accordo quadro) ove per lavoratori a tempo determinato si indicano
quei lavoratori il cui rapporto sia
stato stipulato «direttamente» con
il datore di lavoro (clausola n. 3
dell’accordo quadro) ove l’avverbio
«direttamente» esclude che possano
intendersi lavoratori a tempo determinato i dipendenti di una agenzia di
lavoro interinale ove, per definizione, manca un rapporto diretto.
Così la materia del contratto di lavoro tramite agenzia interinale trova
la propria disciplina a livello comunitario nella direttiva 2008/104/Ce,
senza che sia applicabile, nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro tra
lavoratore e agenzia interinale sia a
termine, la direttiva del 1999.
Nell’affermare l’inapplicabilità della
direttiva n. 70 del 1999 ai rapporti di
lavoro interinali la Corte di giustizia
precisa che tale esclusione riguarda
il lavoratore interinale in quanto tale
e non l’uno o l’altro dei suoi rapporti
di lavoro, con la conseguenza che
tanto il suo rapporto di lavoro con
l’agenzia di lavoro interinale quanto
quello sorto con l’azienda utilizzatri-

ce esulano dall’ambito di applicazione dell’accordo quadro.
È vero che normalmente il rapporto
di lavoro somministrato tra prestatore e agenzia di lavoro interinale
viene stipulato a termine, ma il fenomeno della somministrazione risulta essere più complesso in quanto
in una struttura trilaterale riguarda
due contratti che, seppure tra loro
distinti, sono strettamente connessi.
Conclude la Corte di giustizia che
nella direttiva 1999/70/Ce non vi è
alcuna considerazione di tale aspetto specifico, per cui in ogni caso
la mera sussistenza di un contratto
a termine non potrebbe portare a
ritenere applicabili le disposizioni
della direttiva.
3. - Il rapporto tra contratto a termine e somministrazione nella legislazione italiana. — Mentre a
livello comunitario la distinzione tra
contratto a tempo determinato e contratto di somministrazione a termine
risulta netta, senza alcuna possibilità
di commistione, il legislatore nazionale è andato in senso del tutto opposto, creando sempre più commistioni
nell’ipotesi, per nulla residuale, in
cui il contratto di lavoro somministrato venga stipulato a termine.
Così l’art. 22, co. 2, del d.lgs. n. 276
del 2003 ha espressamente previsto
che in caso di somministrazione a
tempo determinato il rapporto di
lavoro tra prestatore e agenzia sia disciplinato dal d.lgs. n. 368 del 2001,
per quanto compatibili e, in ogni caso, con l’esclusione delle disposizioni di cui all’art. 5, co. 3 e seguenti in
materia di successione di contratti a
termine e di termine complessivo di
durata della prestazione lavorativa.
Gli artt. 20 e 21 del d.lgs. n. 276
del 2003 pur non rinviando espressamente al d.lgs. n 368 del 2001
fanno integrale applicazione delle
sue disposizioni nella parte in cui
prevedono che il contratto di somministrazione possa essere stipulato

773
Massimario di Giurisprudenza del Lavoro

GIURISPRUDENZA

IL SOLE 24 ORE

RAPPORTO DI LAVORO

solo per ragioni di carattere tecnico
o produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore (1), che
il contratto debba avere la forma
scritta ad substantiam, che le ragioni del ricorso alla somministrazione
debbano essere indicate nel contratto, che i contratti collettivi nazionali
di lavoro possano prevedere l’individuazione di limiti quantitativi di
utilizzazione della somministrazione a tempo determinato.
Coerentemente con tale impostazione che vede una sovrapponibilità tra
la disciplina del contratto a tempo
determinato e la disciplina del contratto a termine, l’art. 1, co. 9, lett.
b) della legge 28 giugno 2012 n. 92
nell’introdurre all’art. 1 del d.lgs. n.
368 del 2001 un co. 1 bis prevede
che il requisito del co. 1 (cioè che
un contratto a termine per essere
legittimo debba essere stipulato per
una specifica ragione di carattere
tecnico, produttivo, organizzativo o
sostitutivo) non sia richiesto nell’ipotesi di un primo rapporto a tempo
determinato di durata non superiore
a dodici mesi, ha espressamente
esteso l’applicazione di tale disposizione anche, con gli stessi limiti
temporali, alla prima missione di
un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo
determinato ai sensi dell’art. 20, co.
4, del d.lgs. 276 del 2003 (2).
Inoltre, è noto che l’art. 5, co. 4 bis
del d.lgs. n. 368 del 2001 introduce
una norma di chiusura prevedendo
che in ogni caso la durata complessiva dei contratti a termine non possa
superare i trentasei mesi: qualora
per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di
mansioni equivalenti il rapporto di

lavoro fra lo stesso datore di lavoro
e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi
comprensivi di proroghe e rinnovi,
indipendentemente dai periodi di
interruzione che intercorrono tra
un contratto e l’altro, il rapporto di
lavoro si considera a tempo indeterminato a decorrere dal maturare di
tale termine.
La lett. i) del co. 9 dell’art. 1 della
legge n. 92 del 2012 dispone che
concorrono al computo del limite
massimo dei trentasei mesi anche
i periodi lavorativi che uno stesso
lavoratore abbia svolto nell’ambito
di un contratto di somministrazione
presso lo stesso utilizzatore, assimilando così, come già fatto in
relazione al contratto disciplinato
dal nuovo co. 1 bis dell’art. 1 del
d.lgs. n. 368 del 2001, la prestazione
lavorativa resa con contratto a termine presso un determinato datore
di lavoro a quella resa nell’ambito di
un contratto di somministrazione in
favore dello stesso soggetto.
Si deve precisare che per come è
formulata la norma non sembra
introdurre un termine massimo di
durata della somministrazione (ovviamente a tempo determinato), ma
intende dire unicamente che nel termine di durata massima di 36 mesi,
previsto per i soli contratti a termine,
si tiene conto anche dei contratti di
somministrazione, così che il divieto
opererebbe soltanto quando uno o
più contratti di somministrazione si
sommino ad uno o più contratti a
termine.
Nel complesso emerge una disciplina piuttosto omogenea tra contratto a termine e somministrazione
(ovviamente limitatamente ai casi
in cui il rapporto di lavoro som-

ministrato venga stipulato a termine), ove le principali differenze
dipendono dalla diversa struttura del
rapporto e dall’esclusione dell’applicazione delle disposizioni di cui
all’art. 5, commi terzo e seguenti del
d.lgs. n. 368 del 2001 in materia di
successioni di contratti.
4. - Le conseguenze dell’illegittimità del contratto a termine. — L’aspetto più problematico è quello
connesso alla sanzione applicabile
all’ipotesi di contratto di somministrazione stipulato in violazione
dei presupposti di legge. L’art. 27
del d.lgs. n. 276 del 2003 prevede
che quando la somministrazione di
lavoro avvenga al di fuori dei limiti
e delle condizioni di cui agli artt.
20 e 21 di tale d.lgs., il lavoratore
può chiedere la costituzione di un
rapporto di lavoro alle dipendenze
dell’utilizzatore, con effetto dall’inizio della somministrazione.
La sentenza del giudice che accerta
l’illegittimità della somministrazione, pertanto, costituisce il rapporto
di lavoro nei confronti dell’utilizzatore sin dalla data di inizio del
rapporto di lavoro e condanna l’utilizzatore al risarcimento del danno
corrispondente, normalmente, alle
retribuzioni non percepite dalla data
in cui il lavoratore avesse messo in
mora l’imprenditore fino alla data
della pronuncia della sentenza.
4.1. - Il contratto a termine illegittimo prima dell’art. 32, co. 5,
del «collegato lavoro». — Quello appena descritto era il sistema
sanzionatorio prima dell’entrata in
vigore dell’art. 32, co. 5, della legge
4 novembre 2010 n. 183 in caso di
violazione delle disposizioni previ-

(1) L’inciso «anche se riferibili all’ordinaria attività» non era presente nella originaria formulazione dell’art. 1, co. 1 del d.lgs. n. 368/2001,
ma risultava inserito nell’originaria formulazione dell’art. 20, co. 4, del d.lgs. n. 276/2003: l’art. 21 del d.l. 25 giugno 2008 n. 112, convertito
in legge 6 agosto 2008, n. 133 ha aggiunto la frase anche all’art. 1, co. 1, del d.lgs. n. 368/2001, armonizzando così le due discipline.
(2) Ai sensi dell’art. 2, lett. a) bis del d.lgs. n. 276/2003, come modificato dall’art. 2 del d.lgs. 2 marzo 2012 n. 24 per «missione» si
intende il periodo durante il quale, nell’ambito di un contratto di somministrazione di lavoro, il lavoratore dipendente da un’agenzia di
somministrazione è messo a disposizione di un utilizzatore e opera sotto il controllo e la direzione dello stesso.

774

Novembre 2013 • n. 11
Massimario di Giurisprudenza del Lavoro

GIURISPRUDENZA

IL SOLE 24 ORE

ste dal d.lgs. n. 368 del 2001: pur in
assenza di una norma che sanzioni
espressamente la conseguenza della
violazione delle disposizioni della
norma citata, in base ai principi generali in materia di nullità parziale
del contratto e di eterointegrazione
della disciplina contrattuale, nonché alla stregua dell’interpretazione
dello stesso art. 1 del d.lgs. citato
nel quadro delineato dalla direttiva
comunitaria 1999/70/Ce e nel sistema generale dei profili sanzionatori
nel rapporto di lavoro subordinato,
all’illegittimità del termine ed alla
nullità della clausola di apposizione
dello stesso consegue l’invalidità
parziale relativa alla sola clausola e
l’instaurarsi di un rapporto di lavoro
a tempo indeterminato (3).
Tale sistema sanzionatorio è stato
confermato dal legislatore con interventi normativi volti ad integrare la
disciplina di cui al d.lgs. n. 368 del
2001: l’art. 1, co. 39, della legge 24
dicembre 2007 n. 247 ha aggiunto
un comma all’art. 1 del d.lgs. n.
368 del 2001 affermando il principio secondo il quale «il contratto
di lavoro subordinato è stipulato di
regola a tempo indeterminato» riproducendo così la stessa norma che
caratterizzava il sistema previgente;
ne consegue che le argomentazioni
che permettevano con il vigore della
legge n. 230 del 1962 di affermare
la conversione del contratto a tempo
determinato illegittimo in contratto a
tempo indeterminato, sulla base della sostituzione della clausola nulla,
possono essere integralmente riproposte con la disciplina introdotta dal
d.lgs. n. 368 del 2001.
Con sentenza del 14 luglio 2009 n.
214 la Corte costituzionale ha affermato espressamente che la conversione del rapporto in rapporto a tempo
indeterminato e il risarcimento del

RAPPORTO DI LAVORO

danno costituiscono «diritto vivente»,
per cui l’effetto non può che essere
la dichiarazione dell’esistenza di un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato con conseguente ripristino
del rapporto e con il risarcimento del
danno dalla messa in mora.
4.2. - Il contratto a termine nell’ambito dell’art. 32, co. 5, del «collegato
lavoro». — In tale contesto il co.
5 dell’art. 32 nella parte in cui fa
riferimento «ai casi di conversione
del contratto a tempo determinato»
ha introdotto in via generalizzata
la previsione della conversione del
contratto a termine illegittimo in
contratto a tempo indeterminato,
effetto che, fino al Collegato lavoro,
è sempre stato unicamente di derivazione giurisprudenziale.
Pertanto, la norma, pur non specificandolo espressamente, dà implicitamente per presupposto il «diritto
vivente» secondo il quale in presenza di un contratto a tempo determinato illegittimo la sanzione debba
essere quella della conversione del
contratto in rapporto di lavoro a
tempo indeterminato.
Questo, presumibilmente, spiega il
motivo per il quale il riferimento
alla conversione del contratto sembri
quasi casuale, in quanto il legislatore
più che introdurre una disciplina
innovativa non ha fatto altro che
fare una ricognizione di quello che
fino a quel momento era ritenuto
«diritto vivente»: tuttavia, questo
non elimina il carattere innovativo
della norma, in quanto prima la trasformazione del contratto costituiva
un effetto di una, seppure costante,
interpretazione giurisprudenziale,
mentre adesso è imposto dalla legge.
Le conseguenze dell’illegittima apposizione del termine alla luce delle
disposizioni introdotte dal co. 5

dell’art. 32 della legge n. 183 del
2010, espressamente applicabile anche ai giudizi pendenti, non possono
che essere quelle della dichiarazione
della sussistenza tra le parti di un
contratto a tempo indeterminato in
luogo del contratto a termine viziato.
In riferimento alle conseguenze patrimoniali derivanti dall’illegittima
apposizione del termine il già citato
co. 5 dell’art. 32 della legge n. 183
del 2010 prevede la condanna del
datore di lavoro «... al risarcimento
del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura
compresa tra un minimo di 2,5 e un
massimo di 12 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto, avuto
riguardo ai criteri indicati nell’art. 8
della legge 15 luglio 1966, n. 604».
Ovviamente, come reso esplicito
dalla norma che fa riferimento al termine «onnicomprensivo», l’indennità in questione assorbe ogni ulteriore
profilo risarcitorio conseguente alla
illegittima apposizione del termine e
non si aggiunge ad esso.
La questione se, dopo l’entrata in
vigore dell’art. 32, co. 5, della legge
n. 183 del 2010 l’indennizzo in esso
previsto copra ogni possibile conseguenza derivante dall’illegittimità
dell’apposizione del termine, ovvero
se possa residuare il risarcimento del
danno consistente nelle retribuzioni
maturate dalla cessazione del rapporto
ovvero dalla messa in mora, è stata
risolta ormai pacificamente in favore
della tesi secondo cui l’indennizzo di
cui all’art. 32, co. 5, citato sia onnicomprensivo, cioè escluda la possibilità di un ulteriore risarcimento danno.
Questa interpretazione, condivisa
dalla costante giurisprudenza della
Corte di cassazione (4) e della Corte
costituzionale (5) risulta fatta propria dal legislatore il quale con l’art.
1, co. 13, della legge 28 giugno 2012

(3) Corte di cassazione sentenza n. 12985 del 21 maggio 2008.
(4) Vedi le sentenze 7 settembre 2012, n. 14996, 5 giugno 2012, n. 9023 e 29 febbraio 2012 n. 3056.
(5) Sentenza 11 novembre 2011, n. 303.

Novembre 2013 • n. 11

775
Massimario di Giurisprudenza del Lavoro

GIURISPRUDENZA

IL SOLE 24 ORE

RAPPORTO DI LAVORO

n. 92 ha fornito una interpretazione
autentica dell’art. 32, co. 5, prevedendo che la norma si interpreta «nel
senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subìto
dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive
relative al periodo compreso fra la
scadenza del termine e la pronuncia
del provvedimento con il quale il
giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro».
La norma interpretativa, in realtà,
pone non pochi problemi. Dal punto
di vista della interpretazione di altra
norma l’intervento del legislatore
effettivamente chiarisce un punto
(quello se l’indennizzo copra tutto
ovvero possano residuare ulteriori conseguenze risarcitorie, punto
che a parere dello scrivente era in
realtà chiaro) che aveva portato a
contrastanti pronunce dei giudizi di
merito (6): dopo l’intervento interpretativo, a prescindere dall’inquadramento concettuale del fenomeno
della «conversione», non vi può
essere dubbio che sotto il profilo
patrimoniale le conseguenze dell’illegittima apposizione del termine
non potranno che essere limitate
alla condanna al pagamento dell’indennizzo.
La questione, che il legislatore non
ha mai voluto risolvere lasciando
così il compito di ricostruire l’istituto alla dottrina e alla giurisprudenza,
è se la pronuncia del giudice che
«converte» il rapporto di lavoro a
tempo determinato in contratto di

lavoro a tempo indeterminato abbia
effetti ex tunc, cioè il rapporto di
lavoro si considera a tempo indeterminato sin dalla stipula del contratto
a termine illegittimo come se lo
stesso non fosse mai cessato e fosse
medio tempore proseguito, ovvero
ex nunc, cioè che il rapporto di lavoro si costituisce dalla sentenza con
conseguente soluzione di continuità
rispetto al precedente.
La norma interpretativa, nel momento in cui afferma che con la
sentenza di condanna del datore di
lavoro alla conversione del rapporto
il giudice ordina la «ricostituzione
del rapporto», sembra optare per
questa seconda soluzione, peraltro,
maggiormente coerente con l’istituto
dell’indennizzo.
Sembra così che si possa affermare
che il legislatore abbia voluto ricostruire la «conversione» in termini
non già di una pronuncia dichiarativa della sussistenza di un contratto
di lavoro a tempo indeterminato sin
dall’origine, ma alla stregua di una
pronuncia costitutiva che opera a livello esclusivamente sanzionatorio.
Il contratto a termine illegittimo
allora non verrebbe più considerato
un contratto sin dall’origine a tempo indeterminato, ma sarebbe un
contratto cessato che ha esaurito gli
effetti con successiva costituzione,
quale sanzione, di un nuovo rapporto
di lavoro che decorre dalla data della
pronuncia della sentenza.
5. - Le conseguenze dell’illegittimi-

tà del contratto di somministrazione
e le sentenze della Cassazione 17
gennaio 2013, n. 1148 e 29 maggio
2013, n. 13404. — Generalmente la
giurisprudenza di merito ha applicato le conseguenze sanzionatorie
previste dall’art. 32 co. 5 della legge
n. 183 del 2010 ai soli contratti a
tempo determinato ma non anche al
contratto di somministrazione irregolare, in relazione al quale ha trovato applicazione la disciplina ordinaria sopra descritta (dichiarazione
della sussistenza di un rapporto di
lavoro a tempo indeterminato alle
dipendenze dell’utilizzatore dalla
data di costituzione del rapporto di
lavoro somministrato considerato
illegittimo e risarcimento del danno
dalla messa in mora fino alla sentenza, detratto l’eventuale aliunde
perceptum.
La Suprema Corte, invece, con la
sentenza 17 gennaio 2013 n. 1148
«in sede nomofilattica» (7) ha ritenuto che il co. 5 dell’art. 32 cit.
riguardi anche il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo previsto
dall’art. 3, co. 1, lett. a) della legge
24 giugno 1997, n. 196 (8) (e dunque
anche il contratto di somministrazione di cui al d.lgs. n. 276 del 2003).
La Cassazione è pervenuta a tale
conclusione sulla base delle seguenti
argomentazioni:
— il co. 5 dell’art. 32 non richiama
la disciplina del lavoro a termine,
richiamo che, al contrario, il legislatore compie nel comma precedente
(il quarto) in cui si parla di «con-

(6) Le tesi che erano state avanzate erano essenzialmente tre: a) l’indennizzo copre ogni conseguenza risarcitoria dalla data di scadenza del
contratto fino alla pronuncia della sentenza; b) l’indennizzo non incide sui principi generali in materia di risarcimento del danno, per cui
esso si aggiunge al risarcimento del danno qualora il lavoratore abbia subìto un pregiudizio a seguito dell’illegittima stipula di un contratto a
termine; c) una tesi intermedia che, partendo dal principio secondo cui la durata del processo non possa andare a svantaggio del soggetto che
ha ragione, riteneva che l’indennizzo coprisse ogni conseguenza risarcitoria fino alla data del deposito del ricorso, per cui, oltre all’indennizzo, il lavoratore potesse ottenere anche la condanna al risarcimento del danno quantificato dalla data del deposito del ricorso alla sentenza.
(7) Al punto 27 della sentenza si legge: «In sede nomofilattica deve ritenersi che il quinto comma dell’art. 32 cit. riguardi anche il contratto
per prestazioni di lavoro temporaneo previsto dall’art. 3, primo comma, lett. a) della legge 24 giugno 1997, n. 196».
(8) Sia la sentenza n. 1148/2013 sia la sentenza n. 13404/2013 fanno riferimento a contratti di lavoro temporaneo stipulati nell’ambito della legge 196/1997, ma le argomentazioni utilizzate dalla Suprema Corte risultano del tutto sovrapponibili ai contratti di somministrazione
stipulati nell’ambito del d.lgs. n. 276/2003, per cui si può ritenere che l’intento nomofillatico perseguito dalla Cassazione sia riferito anche
ai contratti di somministrazione. Le stessa sentenza n. 1148/2013 al punto n. 42 fa espresso riferimento alla somministrazione irregolare
di cui all’art. 27 del d.lgs. n. 276/2003.

776

Novembre 2013 • n. 11
Massimario di Giurisprudenza del Lavoro

GIURISPRUDENZA

IL SOLE 24 ORE

tratti di lavoro a termine stipulati
ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs.
6 settembre 2001, n. 368» (lett. a))
e dei contratti di lavoro a termine
stipulati in base a leggi previgenti
rispetto a quel d.lgs. (lett. b)), oltre che di «ogni altro caso in cui,
compresa l’ipotesi prevista dall’art.
27 del d.lgs. 10 settembre 2003,
n. 276, si chieda la costituzione o
l’accertamento di un rapporto di
lavoro in capo a un soggetto diverso
dal titolare del contratto» (lett. d)).
Nel co. 4, pertanto, il legislatore
è analitico e indica, per ciascuna
ipotesi, la disciplina di riferimento,
mentre, al contrario il co. 5 contiene
una formulazione unitaria, indistinta e generale. Si parla di «casi» di
«conversione del contratto a tempo
determinato» senza indicare normative di riferimento, né aggiungere
ulteriori elementi selettivi;
— la legge prevede due categorie
di contratti per prestazioni di lavoro
temporaneo: a tempo determinato e
a tempo indeterminato. Il contratto
di lavoro temporaneo della prima
categoria è espressamente qualificato dal legislatore come una forma
di contratto di lavoro a tempo determinato;
— l’espressione «conversione», in
materia di contratti a tempo determinato, viene utilizzata in dottrina
e giurisprudenza per descrivere
il meccanismo in base al quale la
nullità della clausola di apposizione
del termine, non comporta la nullità dell’intero contratto, ma la sua
elisione, secondo il meccanismo
delineato dall’art. 1419, co. 2 c.c.
con conseguente trasformazione
del rapporto di lavoro a tempo
determinato in rapporto a tempo indeterminato. L’operatività di questo
meccanismo in alcuni casi si ricava
dal sistema normativo generale e da
quanto disposto dal codice civile,
in altri è previsto espressamente
dalla legge. È ciò che accade, nella
legge 196 del 1997, il cui art. 10,

Novembre 2013 • n. 11

RAPPORTO DI LAVORO

prevede varie ipotesi, compresa
quella ricorrente nel caso in esame,
in cui il contratto di prestazioni di
lavoro temporaneo, in presenza di
una ragione di nullità della clausola
termine, «si considera a tempo indeterminato». Pertanto, anche con
riferimento al contratto di prestazioni di lavoro temporaneo a tempo
determinato, in presenza delle ipotesi su indicate, si ha un fenomeno
di «conversione»;
— l’espressione «casi di conversione del contratto di lavoro a tempo
determinato», senza ulteriori precisazioni, non esclude, in conclusione,
che il fenomeno di conversione
possa avvenire nei confronti dell’utilizzatore effettivo della prestazione,
né che possa essere l’effetto sanzionatorio di un vizio concernente il
contratto di fornitura.
La Cassazione sul presupposto che
la norma interpretativa dell’art. 32,
co. 5 della legge n. 183 del 2010
introdotta dal co. 13 dell’art. 1 della legge 28 giugno 2012 n. 92, fa
riferimento all’ordine del giudice
di «ricostituzione del rapporto di
lavoro», afferma che l’utilizzazione
del termine ricostituzione vuole probabilmente indicare che il concetto
di conversione comprende non solo
provvedimenti di natura dichiarativa, ma anche di natura costitutiva,
quale potrebbe essere considerato
quello previsto dall’art. 27 del d.lgs.
276 del 2003, con riferimento alla
somministrazione irregolare.
L’orientamento espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 1148
del 2013 è stato ribadito, sulla base
del medesimo iter argomentativo,
anche dalla sentenza del 29 maggio
2013, n. 13404. Quest’ultima pronuncia contiene, diversamente dalla
precedente, un riferimento alla citata pronuncia della Corte di giustizia
Europea dell’11 aprile 2013: il punto 33 dispone che la citata sentenza
della Corte di giustizia «ha escluso
che la direttiva 1999/70/Ce relativa

all’accordo quadro CES, UNICE e
CEEP sul lavoro a tempo determinato si applichi al contratto a tempo
determinato che si accompagni ad
un contratto interinale per una ragione esegetica di fondo, costituita
dal fatto che le parti stipulanti l’accordo quadro hanno espressamente
previsto che esso «si applica ai
lavoratori a tempo determinato, ad
eccezione di quelli messi a disposizione di un’azienda utilizzatrice da
parte di un’agenzia di lavoro interinale». Da tale previsione si ricava
che, anche per l’accordo quadro,
e quindi per la direttiva che lo ha
recepito, il contratto a termine che
si accompagna ad un contratto di lavoro interinale rientra nella categoria del contratto a tempo determinato, tanto che il legislatore europeo,
avendo intenzione di dedicare al
lavoro interinale una regolamentazione specifica, ha ritenuto di dover
operare una esclusione espressa,
prevedendo quella che definisce
una eccezione, in mancanza della
quale l’accordo avrebbe coperto
tale area. Se il legislatore europeo
non avesse precisato «ad eccezione
di quelli messi a disposizione di
un’azienda utilizzatrice da parte di
un’agenzia di lavoro interinale», la
disciplina del contratto a tempo determinato sarebbe stata applicabile
al contratto di lavoro a tempo determinato collegato ad un contratto
di fornitura di lavoro interinale. «A
contrario» deve ritenersi che, quando il legislatore non prevede tale
esclusione, la stessa non opera. È
quanto è accaduto con l’art. 32, co.
5, della legge 183 del 2010, che ha
fatto indistintamente riferimento a
contratti a tempo determinato, senza escludere i contratti a tempo determinato che si accompagnino ad
un contratto di lavoro interinale».
6. - Considerazioni sulle pronunce
della Cassazione. — A parere dello scrivente le due pronunce della

777
Massimario di Giurisprudenza del Lavoro

GIURISPRUDENZA

IL SOLE 24 ORE

RAPPORTO DI LAVORO

Suprema Corte, pur partendo da
presupposti condivisibili, destano
qualche perplessità.
Non può ritenersi che sia casuale
nell’art. 32 della legge n. 183 del
2010 l’utilizzo di una terminologia
differente per indicare i contratti a
termine: nei commi terzo e quarto
mediante il riferimento ai contratti
stipulati ai sensi del d.lgs. n. 368
del 2001 e nel co. 5 attraverso il
richiamo ai contratti «a tempo determinato».
È, pertanto, certamente condivisibile
l’argomentazione secondo cui il co.
5 dell’art. 32 non trovi applicazione
esclusivamente ai contratti a tempo
determinato stipulati nell’ambito del
d.lgs. n. 368 del 2001, ma a tutti
i contratti a tempo determinato, a
prescindere dalla normativa di riferimento (per esempio un contratto di
apprendistato stipulato anteriormente
al d.lgs. 14 settembre 2011, n. 167).
Qualche dubbio, invece, viene
nell’assimilare il sistema sanzionatorio previsto dal co. 1 dell’art. 27 del
d.lgs. n. 276 del 2003 («costituzione
di un rapporto di lavoro alle dipendenze» dell’utilizzatore «con effetto
dall’inizio della somministrazione»)
ad un caso di «conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato»
di cui al co. 5 dell’art. 32 della legge
n. 183 del 2010.
Nel caso della somministrazione, infatti, il fenomeno appare del tutto diverso e presuppone una distinzione.
Qualora il lavoratore agisca contro
il datore di lavoro-agenzia di lavoro
interinale (ipotesi che si verifica
frequentemente in via subordinata
rispetto alla domanda principale
proposta nei confronti dell’utilizzatore ai sensi dell’art. 27 del d.lgs.
n. 276 del 2003) per fare valere
vizi specifici del contratto a termine stipulato tra lavoratore e datore
di lavoro, certamente si rientra nei
casi di «conversione del rapporto di
lavoro a tempo determinato», per cui
in tale ipotesi non avrei dubbi circa

778

l’applicabilità della sanzione prevista dall’art. 32, co. 5, citato.
Qualora, invece, il lavoratore contesti la legittimità del contratto di somministrazione per violazione delle
disposizioni di cui all’art. 20 o 21,
co. 1 lett. a), b), c), d) ed e) del d.lgs.
n. 276 del 2003 e chieda la costituzione di un rapporto di lavoro alle
dirette dipendenze dell’utilizzatore
il fenomeno appare del tutto diverso
e non meramente sovrapponibile al
concetto di conversione del contratto
a tempo determinato.
In tal caso, infatti, non si ha un fenomeno di «conversione» del contratto
a tempo determinato, ma la costituzione di un rapporto di lavoro con un
soggetto terzo.
Peraltro, mentre alla luce della norma interpretativa contenuta nella
legge n. 92 del 2012 sembra di
potere affermare che la conversione
operi ex nunc mediante la «ricostituzione» di un nuovo rapporto di lavoro (principio che rende coerente la
previsione di un indennizzo in luogo
del risarcimento del danno), nel caso
della somministrazione la costituzione del rapporto di lavoro alle dirette
dipendenze dell’utilizzatore avviene
certamente ex tunc, considerato che
l’art. 27, co. 1, del d.lgs. n. 276 del
2003 espressamente prevede che la
costituzione del rapporto alle dipendenze dell’utilizzatore ha effetto sin
dall’inizio della somministrazione.
Si potrebbe obiettare che la situazione del lavoratore somministrato che
ottenga la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore non sia da un punto di vista
sostanziale e di esigenze di tutela
diversa dalla posizione del lavoratore assunto con contratto a termine
che ottenga la «conversione» del
rapporto di lavoro: anzi sotto questo
profilo appare certamente iniquo ed
illogico trattare diversamente due
situazioni che, seppure non giuridicamente simili, esprimono identiche
esigenze di tutela.

Questa considerazione, tuttavia,
non può portare ad una dilatazione
dell’applicazione dell’art. 32, co. 5,
della legge n. 183 del 2010 ad ipotesi chiaramente ad essa non riconducibili, ma può unicamente esprimere
una esigenza, de iure condendo, che
il legislatore intervenga nel dettare
una disciplina comune applicabile
alle diverse fattispecie di ripristino
giudiziale (qualunque sia la terminologia utilizzata dal legislatore) di
un rapporto di lavoro diverso dal
licenziamento illegittimo.
Non appare, invero, neppure corretto
il riferimento contenuto nella sentenza n. 13404 del 2013 al punto n.
33 alla sentenza della Corte di giustizia Europea dell’11 aprile 2013.
Infatti, secondo la Cassazione tale
pronuncia avrebbe sostanzialmente
affermato che il lavoro interinale
rientra nella categoria del contratto
a tempo determinato e che la disciplina di cui alla direttiva 1999/70/Ce
non è applicabile al lavoro interinale
solo in quanto vi è una espressa deroga da parte della direttiva medesima, in assenza della quale sarebbe
certamente applicabile.
In realtà non sembra che la Corte
di giustizia abbia ricostruito nella
sentenza dell’11 aprile 2013 il lavoro interinale nei termini sopra
descritti assimilandolo al contratto a
tempo determinato: anzi la Corte di
giustizia afferma che anche a livello
di definizione una cosa è il concetto
di lavoro a tempo determinato, altra
cosa il concetto di lavoro interinale.
Come emerge chiaramente dal punto
37 della sentenza, il lavoro interinale è un fenomeno che non può che
essere visto nella sua globalità, per
cui non risulta in alcun modo possibile assimilarlo sic et simpliciter al
contratto a tempo determinato, che
tutt’al più costituisce solo una parte
della fattispecie.
In conclusione appare difficile ipotizzare che, nonostante l’espresso intento di nomofilachia, l’intervento della

Novembre 2013 • n. 11
Massimario di Giurisprudenza del Lavoro

GIURISPRUDENZA

IL SOLE 24 ORE

RAPPORTO DI LAVORO

Cassazione porta ritenersi definitivo
e possa portare ad uno stabile e costante orientamento giurisprudenziale in merito alla applicabilità dell’art.
32, co. 5, della legge n. 183 del 2010
al lavoro interinale illegittimo (9).

Peraltro, l’orientamento espresso
dalle sentenze n. 1148 del 2013 e
13404 del 2013 potrebbe, coerentemente, portare a ritenere applicabile l’art. 32, co. 5, della legge n.
183/2010 a fattispecie del tutto di-

stinte dal contratto a tempo determinato, ma che presentino una identità
di ratio (10).
Giovanni Mimmo
Giudice del Tribunale di Roma

(9) Tra le numerose sentenze di merito che sono andate in senso contrario all’orientamento della Suprema Corte, vedi Corte appello Roma
del 29 gennaio 2013 (R.G. 2194/2011) e del 5 febbraio 2013 (R.G. 4441/2010).
(10) Si segnala in tal senso una interessante pronuncia del Tribunale di Palermo dell’11 luglio 2013 giudice L. Cavallaro (R.G. 4482/2011)
che ha ritenuto applicabile, sulla scorta delle argomentazioni sviluppate dalla Corte di Cassazione, l’art. 32, co. 5, legge n. 183/2010 anche
alle ipotesi di cui all’art. 69 d.lgs. n. 276/2003: «[…] dal momento che l’operatività di detto meccanismo può ravvisarsi in tutti i casi nei
quali il legislatore ricorre alla locuzione secondo cui il rapporto intercorso tra le parti “si considera [rapporto di lavoro subordinato] a tempo
indeterminato” (cfr. in termini Cass. n. 1148 del 2013, cit., § 35), pare al giudicante che lasciarne fuori le ipotesi di conversione invocate
in ricorso e previste dall’art. 69 d.lgs. n. 276/2003 condurrebbe ad una disparità di trattamento del tutto ingiustificata sul piano letterale
e logico-sistematico: sul piano letterale, perché anche la mancanza di progetto di cui al co. 1 o l’alterazione funzionale della causa della
collaborazione prevista al co. 2 fanno sì che detti rapporti “sono considerati a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto” ovvero “si trasforma[no] in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti”,
tant’è che di “conversione del contratto” parla per l’appunto la rubrica dell’art. 69 cit.; sul piano logico-sistematico, perché se è vero che
l’ampiezza della formula legislativa rende irrilevante che in taluni casi la conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo
indeterminato sia preceduta da una conversione soggettiva del rapporto (cfr. in tal senso Cass. n. 1148 del 2013, cit.), allo stesso modo deve
concludersi anche quando — come nel caso dei contratti a progetto oggetto del presente giudizio — la conversione del contratto si debba
in ipotesi considerare preceduta da una conversione di carattere oggettivo, quale quella di cui all’invocato art. 69, co. 1, d.lgs. n. 276/2003».

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Novembre 2013 • n. 11

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Somministrazione di lavoro e regole del termine

  • 1. Massimario di Giurisprudenza del Lavoro GIURISPRUDENZA IL SOLE 24 ORE RAPPORTO DI LAVORO in contratto a tempo indeterminato sia preceduta da una conversione soggettiva del rapporto. La norma richiede solo che si sia in presenza di uno dei «casi di conversione del contratto a tempo determinato». 38. Né rileva che il vizio che determina il meccanismo sanzionatorio possa riguardare anche il contratto di fornitura, cioé il contratto commerciale che sta a monte del contratto di lavoro. Anche questo elemento, come si è visto, non esclude che l’esito sia la conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato. 39. L’espressione «casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato», senza ulteriori precisazioni, non esclude, in conclusione, che il fenomeno di conversione possa avvenire nei confronti dell’utilizzatore effettivo della prestazione, né che possa essere l’effetto sanzionatorio di un vizio concernente il contratto di fornitura. 40. Deve, infine, ricordarsi che, per giurisprudenza costante di questa Corte, la legge n. 183 del 2010, art. 32 si applica anche ai processi in corso, compresi i giudizi di legittimità, sempre che sul relativo capo della decisione di secondo, o già di primo grado, non si sia formato il giudicato (Cass. 3 gennaio 2011 n. 65; 4 gennaio 2011 n. 80; 2 febbraio 2011 n. 2452 e molte altre successive sempre nel medesimo senso). 41. Il motivo pertanto deve essere accolto, sebbene in parte, perché, contrariamente a quanto assume l’impresa ricorrente, l’indennità prevista dalla legge n. 183 del 2010, art. 32, co. 5, non è compatibile con la detrazione delle somme percepite a titolo di aliunde perceptum dal lavoratore (cfr. sul punto, in particolare, Cass. 7 settembre 2012, n. 14996). Nel condannare la società al pagamento della indennità, il giudice di rinvio non dovrà pertanto disporre la sottrazione di tali somme. 42. L’accoglimento del motivo concernente l’indennità ex art. 32 comporta, come si è anticipato, l’assorbimento del motivo relativo alla messa in mora. Anche questo profilo, diventa irrilevante una volta ritenuta applicabile l’indennità ex art. 32, che prescinde dalla messa in mora (cfr. ancora, per tutte, Cass. 14996/2012, cit.). 43. In conclusione: il primo motivo di ricorso è inammissibile; il secondo, il terzo ed il quarto sono infondati; il quinto rimane assorbito. Il sesto deve essere accolto, nei limiti di quanto specificato, in base al seguente principio di diritto: «L’indennità prevista dalla legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32 si applica anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subìto dal lavoratore a causa dell’illegittimità di un contratto per prestazioni di lavoro temporaneo a tempo determinato, ai sensi della legge 24 giugno 1997, n. 196, art. 3, co. 1, lett. a) convertito in contratto a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore della prestazione». 44. L’accoglimento parziale del sesto motivo comporta la cassazione della sentenza in ordine al motivo accolto ed il rinvio alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione, anche per la decisione in ordine alle spese del giudizio di legittimità. (Omissis) NOTA Somministrazione e regole del termine nella recente giurisprudenza 1. - Premessa. — Le sentenze della Corte di giustizia Europea dell’11 aprile 2013 n. c-290/2012, sezione ottava e della Corte di cassazione 17 gennaio 2013 n. 1148 (nonché la sentenza del 29 maggio 2013 n. 13404) costituiscono una occasione per riflettere sui rapporti tra il contratto a termine e contratto di somministrazione. Apparentemente la Corte di giustizia e la Corte di cassazione pervengono a conclusioni opposte, ma ciò è 772 Sommario: 1. - Premessa. — 2. - La sentenza della Corte di giustizia. — 3. - Il rapporto tra contratto a termine e somministrazione nella legislazione italiana. — 4. - Le conseguenze dell’illegittimità del contratto a termine. — 5. - Le conseguenze dell’illegittimità del contratto di somministrazione e le sentenze della Cassazione 17 gennaio 2013, n. 1148 e 29 maggio 2013, n. 13404. — 6. - Considerazioni sulle pronunce della Cassazione. frutto prevalentemente di un diverso sistema normativo: mentre, infatti, nell’ordinamento italiano si assiste ad un tentativo di assimilazione, quantomeno sotto il profilo normativo, tra contratto a termine e somministrazione, il legislatore europeo ha mantenuto più netta la distinzione tra le due fattispecie. 2. - La sentenza della Corte di giustizia. — La sentenza trae origine da un rinvio pregiudiziale operato Novembre 2013 • n. 11
  • 2. Massimario di Giurisprudenza del Lavoro GIURISPRUDENZA IL SOLE 24 ORE dal Tribunale di Napoli, il quale, premesso che il d.lgs n. 276 del 2003 non pone alcuna limitazione alla reiterazione dei contratti a termine stipulati con le agenzie di lavoro interinale, a differenza di quanto avvenga rispetto ai contratti a termine stipulati ai sensi del d.lgs n. 368 del 2001, ha sollevato la questione della compatibilità dell’art. 22 del d.lgs n. 276 del 2003 con la clausola n. 5 dell’accordo quadro sul contratto a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/Ce che prevede che «Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e delle prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti». La Corte di giustizia non è neppure entrata nel merito della questione, limitandosi ad affermare che ai contratti a termine stipulati nell’ambito di un contratto di somministrazione non si applicano le disposizioni di cui all’accordo allegato alla direttiva 1999/70/Ce. Il ragionamento della Corte è ineccepibile e trova diretto fondamento nelle stesse disposizioni di cui alla direttiva indicata, nonché in altre disposizioni normative. Sotto questo profilo il co. 4 del preambolo dell’accordo quadro risulta chiarissimo: «Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato, ad eccezione di quelli Novembre 2013 • n. 11 RAPPORTO DI LAVORO messi a disposizione di una azienda utilizzatrice da parte dell’agenzia di lavoro interinale». Peraltro, la norma aggiunge che «è intenzione delle parti considerare la necessità di un analogo accordo relativo al lavoro interinale». Dunque, alla non applicazione della direttiva ai contratti a termine stipulati nell’ambito di un rapporto di lavoro somministrato si perviene non già in via interpretativa, ma a seguito di una espressa deroga imposta dalla direttiva medesima, la quale, peraltro, rinvia a successivi interventi normativi la disciplina del rapporto di lavoro interinale (e dunque anche degli eventuali contratti a termine stipulati nell’ambito del lavoro somministrato). Inoltre, la direttiva 1999/70/Ce si applica esclusivamente ai lavoratori a tempo determinato (clausola n. 2 dell’accordo quadro) ove per lavoratori a tempo determinato si indicano quei lavoratori il cui rapporto sia stato stipulato «direttamente» con il datore di lavoro (clausola n. 3 dell’accordo quadro) ove l’avverbio «direttamente» esclude che possano intendersi lavoratori a tempo determinato i dipendenti di una agenzia di lavoro interinale ove, per definizione, manca un rapporto diretto. Così la materia del contratto di lavoro tramite agenzia interinale trova la propria disciplina a livello comunitario nella direttiva 2008/104/Ce, senza che sia applicabile, nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro tra lavoratore e agenzia interinale sia a termine, la direttiva del 1999. Nell’affermare l’inapplicabilità della direttiva n. 70 del 1999 ai rapporti di lavoro interinali la Corte di giustizia precisa che tale esclusione riguarda il lavoratore interinale in quanto tale e non l’uno o l’altro dei suoi rapporti di lavoro, con la conseguenza che tanto il suo rapporto di lavoro con l’agenzia di lavoro interinale quanto quello sorto con l’azienda utilizzatri- ce esulano dall’ambito di applicazione dell’accordo quadro. È vero che normalmente il rapporto di lavoro somministrato tra prestatore e agenzia di lavoro interinale viene stipulato a termine, ma il fenomeno della somministrazione risulta essere più complesso in quanto in una struttura trilaterale riguarda due contratti che, seppure tra loro distinti, sono strettamente connessi. Conclude la Corte di giustizia che nella direttiva 1999/70/Ce non vi è alcuna considerazione di tale aspetto specifico, per cui in ogni caso la mera sussistenza di un contratto a termine non potrebbe portare a ritenere applicabili le disposizioni della direttiva. 3. - Il rapporto tra contratto a termine e somministrazione nella legislazione italiana. — Mentre a livello comunitario la distinzione tra contratto a tempo determinato e contratto di somministrazione a termine risulta netta, senza alcuna possibilità di commistione, il legislatore nazionale è andato in senso del tutto opposto, creando sempre più commistioni nell’ipotesi, per nulla residuale, in cui il contratto di lavoro somministrato venga stipulato a termine. Così l’art. 22, co. 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 ha espressamente previsto che in caso di somministrazione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra prestatore e agenzia sia disciplinato dal d.lgs. n. 368 del 2001, per quanto compatibili e, in ogni caso, con l’esclusione delle disposizioni di cui all’art. 5, co. 3 e seguenti in materia di successione di contratti a termine e di termine complessivo di durata della prestazione lavorativa. Gli artt. 20 e 21 del d.lgs. n. 276 del 2003 pur non rinviando espressamente al d.lgs. n 368 del 2001 fanno integrale applicazione delle sue disposizioni nella parte in cui prevedono che il contratto di somministrazione possa essere stipulato 773
  • 3. Massimario di Giurisprudenza del Lavoro GIURISPRUDENZA IL SOLE 24 ORE RAPPORTO DI LAVORO solo per ragioni di carattere tecnico o produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore (1), che il contratto debba avere la forma scritta ad substantiam, che le ragioni del ricorso alla somministrazione debbano essere indicate nel contratto, che i contratti collettivi nazionali di lavoro possano prevedere l’individuazione di limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato. Coerentemente con tale impostazione che vede una sovrapponibilità tra la disciplina del contratto a tempo determinato e la disciplina del contratto a termine, l’art. 1, co. 9, lett. b) della legge 28 giugno 2012 n. 92 nell’introdurre all’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 un co. 1 bis prevede che il requisito del co. 1 (cioè che un contratto a termine per essere legittimo debba essere stipulato per una specifica ragione di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo) non sia richiesto nell’ipotesi di un primo rapporto a tempo determinato di durata non superiore a dodici mesi, ha espressamente esteso l’applicazione di tale disposizione anche, con gli stessi limiti temporali, alla prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi dell’art. 20, co. 4, del d.lgs. 276 del 2003 (2). Inoltre, è noto che l’art. 5, co. 4 bis del d.lgs. n. 368 del 2001 introduce una norma di chiusura prevedendo che in ogni caso la durata complessiva dei contratti a termine non possa superare i trentasei mesi: qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato a decorrere dal maturare di tale termine. La lett. i) del co. 9 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 dispone che concorrono al computo del limite massimo dei trentasei mesi anche i periodi lavorativi che uno stesso lavoratore abbia svolto nell’ambito di un contratto di somministrazione presso lo stesso utilizzatore, assimilando così, come già fatto in relazione al contratto disciplinato dal nuovo co. 1 bis dell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, la prestazione lavorativa resa con contratto a termine presso un determinato datore di lavoro a quella resa nell’ambito di un contratto di somministrazione in favore dello stesso soggetto. Si deve precisare che per come è formulata la norma non sembra introdurre un termine massimo di durata della somministrazione (ovviamente a tempo determinato), ma intende dire unicamente che nel termine di durata massima di 36 mesi, previsto per i soli contratti a termine, si tiene conto anche dei contratti di somministrazione, così che il divieto opererebbe soltanto quando uno o più contratti di somministrazione si sommino ad uno o più contratti a termine. Nel complesso emerge una disciplina piuttosto omogenea tra contratto a termine e somministrazione (ovviamente limitatamente ai casi in cui il rapporto di lavoro som- ministrato venga stipulato a termine), ove le principali differenze dipendono dalla diversa struttura del rapporto e dall’esclusione dell’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 5, commi terzo e seguenti del d.lgs. n. 368 del 2001 in materia di successioni di contratti. 4. - Le conseguenze dell’illegittimità del contratto a termine. — L’aspetto più problematico è quello connesso alla sanzione applicabile all’ipotesi di contratto di somministrazione stipulato in violazione dei presupposti di legge. L’art. 27 del d.lgs. n. 276 del 2003 prevede che quando la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli artt. 20 e 21 di tale d.lgs., il lavoratore può chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore, con effetto dall’inizio della somministrazione. La sentenza del giudice che accerta l’illegittimità della somministrazione, pertanto, costituisce il rapporto di lavoro nei confronti dell’utilizzatore sin dalla data di inizio del rapporto di lavoro e condanna l’utilizzatore al risarcimento del danno corrispondente, normalmente, alle retribuzioni non percepite dalla data in cui il lavoratore avesse messo in mora l’imprenditore fino alla data della pronuncia della sentenza. 4.1. - Il contratto a termine illegittimo prima dell’art. 32, co. 5, del «collegato lavoro». — Quello appena descritto era il sistema sanzionatorio prima dell’entrata in vigore dell’art. 32, co. 5, della legge 4 novembre 2010 n. 183 in caso di violazione delle disposizioni previ- (1) L’inciso «anche se riferibili all’ordinaria attività» non era presente nella originaria formulazione dell’art. 1, co. 1 del d.lgs. n. 368/2001, ma risultava inserito nell’originaria formulazione dell’art. 20, co. 4, del d.lgs. n. 276/2003: l’art. 21 del d.l. 25 giugno 2008 n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133 ha aggiunto la frase anche all’art. 1, co. 1, del d.lgs. n. 368/2001, armonizzando così le due discipline. (2) Ai sensi dell’art. 2, lett. a) bis del d.lgs. n. 276/2003, come modificato dall’art. 2 del d.lgs. 2 marzo 2012 n. 24 per «missione» si intende il periodo durante il quale, nell’ambito di un contratto di somministrazione di lavoro, il lavoratore dipendente da un’agenzia di somministrazione è messo a disposizione di un utilizzatore e opera sotto il controllo e la direzione dello stesso. 774 Novembre 2013 • n. 11
  • 4. Massimario di Giurisprudenza del Lavoro GIURISPRUDENZA IL SOLE 24 ORE ste dal d.lgs. n. 368 del 2001: pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la conseguenza della violazione delle disposizioni della norma citata, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonché alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 del d.lgs. citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/Ce e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (3). Tale sistema sanzionatorio è stato confermato dal legislatore con interventi normativi volti ad integrare la disciplina di cui al d.lgs. n. 368 del 2001: l’art. 1, co. 39, della legge 24 dicembre 2007 n. 247 ha aggiunto un comma all’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 affermando il principio secondo il quale «il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato» riproducendo così la stessa norma che caratterizzava il sistema previgente; ne consegue che le argomentazioni che permettevano con il vigore della legge n. 230 del 1962 di affermare la conversione del contratto a tempo determinato illegittimo in contratto a tempo indeterminato, sulla base della sostituzione della clausola nulla, possono essere integralmente riproposte con la disciplina introdotta dal d.lgs. n. 368 del 2001. Con sentenza del 14 luglio 2009 n. 214 la Corte costituzionale ha affermato espressamente che la conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato e il risarcimento del RAPPORTO DI LAVORO danno costituiscono «diritto vivente», per cui l’effetto non può che essere la dichiarazione dell’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con conseguente ripristino del rapporto e con il risarcimento del danno dalla messa in mora. 4.2. - Il contratto a termine nell’ambito dell’art. 32, co. 5, del «collegato lavoro». — In tale contesto il co. 5 dell’art. 32 nella parte in cui fa riferimento «ai casi di conversione del contratto a tempo determinato» ha introdotto in via generalizzata la previsione della conversione del contratto a termine illegittimo in contratto a tempo indeterminato, effetto che, fino al Collegato lavoro, è sempre stato unicamente di derivazione giurisprudenziale. Pertanto, la norma, pur non specificandolo espressamente, dà implicitamente per presupposto il «diritto vivente» secondo il quale in presenza di un contratto a tempo determinato illegittimo la sanzione debba essere quella della conversione del contratto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Questo, presumibilmente, spiega il motivo per il quale il riferimento alla conversione del contratto sembri quasi casuale, in quanto il legislatore più che introdurre una disciplina innovativa non ha fatto altro che fare una ricognizione di quello che fino a quel momento era ritenuto «diritto vivente»: tuttavia, questo non elimina il carattere innovativo della norma, in quanto prima la trasformazione del contratto costituiva un effetto di una, seppure costante, interpretazione giurisprudenziale, mentre adesso è imposto dalla legge. Le conseguenze dell’illegittima apposizione del termine alla luce delle disposizioni introdotte dal co. 5 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, espressamente applicabile anche ai giudizi pendenti, non possono che essere quelle della dichiarazione della sussistenza tra le parti di un contratto a tempo indeterminato in luogo del contratto a termine viziato. In riferimento alle conseguenze patrimoniali derivanti dall’illegittima apposizione del termine il già citato co. 5 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 prevede la condanna del datore di lavoro «... al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604». Ovviamente, come reso esplicito dalla norma che fa riferimento al termine «onnicomprensivo», l’indennità in questione assorbe ogni ulteriore profilo risarcitorio conseguente alla illegittima apposizione del termine e non si aggiunge ad esso. La questione se, dopo l’entrata in vigore dell’art. 32, co. 5, della legge n. 183 del 2010 l’indennizzo in esso previsto copra ogni possibile conseguenza derivante dall’illegittimità dell’apposizione del termine, ovvero se possa residuare il risarcimento del danno consistente nelle retribuzioni maturate dalla cessazione del rapporto ovvero dalla messa in mora, è stata risolta ormai pacificamente in favore della tesi secondo cui l’indennizzo di cui all’art. 32, co. 5, citato sia onnicomprensivo, cioè escluda la possibilità di un ulteriore risarcimento danno. Questa interpretazione, condivisa dalla costante giurisprudenza della Corte di cassazione (4) e della Corte costituzionale (5) risulta fatta propria dal legislatore il quale con l’art. 1, co. 13, della legge 28 giugno 2012 (3) Corte di cassazione sentenza n. 12985 del 21 maggio 2008. (4) Vedi le sentenze 7 settembre 2012, n. 14996, 5 giugno 2012, n. 9023 e 29 febbraio 2012 n. 3056. (5) Sentenza 11 novembre 2011, n. 303. Novembre 2013 • n. 11 775
  • 5. Massimario di Giurisprudenza del Lavoro GIURISPRUDENZA IL SOLE 24 ORE RAPPORTO DI LAVORO n. 92 ha fornito una interpretazione autentica dell’art. 32, co. 5, prevedendo che la norma si interpreta «nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subìto dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro». La norma interpretativa, in realtà, pone non pochi problemi. Dal punto di vista della interpretazione di altra norma l’intervento del legislatore effettivamente chiarisce un punto (quello se l’indennizzo copra tutto ovvero possano residuare ulteriori conseguenze risarcitorie, punto che a parere dello scrivente era in realtà chiaro) che aveva portato a contrastanti pronunce dei giudizi di merito (6): dopo l’intervento interpretativo, a prescindere dall’inquadramento concettuale del fenomeno della «conversione», non vi può essere dubbio che sotto il profilo patrimoniale le conseguenze dell’illegittima apposizione del termine non potranno che essere limitate alla condanna al pagamento dell’indennizzo. La questione, che il legislatore non ha mai voluto risolvere lasciando così il compito di ricostruire l’istituto alla dottrina e alla giurisprudenza, è se la pronuncia del giudice che «converte» il rapporto di lavoro a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato abbia effetti ex tunc, cioè il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato sin dalla stipula del contratto a termine illegittimo come se lo stesso non fosse mai cessato e fosse medio tempore proseguito, ovvero ex nunc, cioè che il rapporto di lavoro si costituisce dalla sentenza con conseguente soluzione di continuità rispetto al precedente. La norma interpretativa, nel momento in cui afferma che con la sentenza di condanna del datore di lavoro alla conversione del rapporto il giudice ordina la «ricostituzione del rapporto», sembra optare per questa seconda soluzione, peraltro, maggiormente coerente con l’istituto dell’indennizzo. Sembra così che si possa affermare che il legislatore abbia voluto ricostruire la «conversione» in termini non già di una pronuncia dichiarativa della sussistenza di un contratto di lavoro a tempo indeterminato sin dall’origine, ma alla stregua di una pronuncia costitutiva che opera a livello esclusivamente sanzionatorio. Il contratto a termine illegittimo allora non verrebbe più considerato un contratto sin dall’origine a tempo indeterminato, ma sarebbe un contratto cessato che ha esaurito gli effetti con successiva costituzione, quale sanzione, di un nuovo rapporto di lavoro che decorre dalla data della pronuncia della sentenza. 5. - Le conseguenze dell’illegittimi- tà del contratto di somministrazione e le sentenze della Cassazione 17 gennaio 2013, n. 1148 e 29 maggio 2013, n. 13404. — Generalmente la giurisprudenza di merito ha applicato le conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 32 co. 5 della legge n. 183 del 2010 ai soli contratti a tempo determinato ma non anche al contratto di somministrazione irregolare, in relazione al quale ha trovato applicazione la disciplina ordinaria sopra descritta (dichiarazione della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze dell’utilizzatore dalla data di costituzione del rapporto di lavoro somministrato considerato illegittimo e risarcimento del danno dalla messa in mora fino alla sentenza, detratto l’eventuale aliunde perceptum. La Suprema Corte, invece, con la sentenza 17 gennaio 2013 n. 1148 «in sede nomofilattica» (7) ha ritenuto che il co. 5 dell’art. 32 cit. riguardi anche il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo previsto dall’art. 3, co. 1, lett. a) della legge 24 giugno 1997, n. 196 (8) (e dunque anche il contratto di somministrazione di cui al d.lgs. n. 276 del 2003). La Cassazione è pervenuta a tale conclusione sulla base delle seguenti argomentazioni: — il co. 5 dell’art. 32 non richiama la disciplina del lavoro a termine, richiamo che, al contrario, il legislatore compie nel comma precedente (il quarto) in cui si parla di «con- (6) Le tesi che erano state avanzate erano essenzialmente tre: a) l’indennizzo copre ogni conseguenza risarcitoria dalla data di scadenza del contratto fino alla pronuncia della sentenza; b) l’indennizzo non incide sui principi generali in materia di risarcimento del danno, per cui esso si aggiunge al risarcimento del danno qualora il lavoratore abbia subìto un pregiudizio a seguito dell’illegittima stipula di un contratto a termine; c) una tesi intermedia che, partendo dal principio secondo cui la durata del processo non possa andare a svantaggio del soggetto che ha ragione, riteneva che l’indennizzo coprisse ogni conseguenza risarcitoria fino alla data del deposito del ricorso, per cui, oltre all’indennizzo, il lavoratore potesse ottenere anche la condanna al risarcimento del danno quantificato dalla data del deposito del ricorso alla sentenza. (7) Al punto 27 della sentenza si legge: «In sede nomofilattica deve ritenersi che il quinto comma dell’art. 32 cit. riguardi anche il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo previsto dall’art. 3, primo comma, lett. a) della legge 24 giugno 1997, n. 196». (8) Sia la sentenza n. 1148/2013 sia la sentenza n. 13404/2013 fanno riferimento a contratti di lavoro temporaneo stipulati nell’ambito della legge 196/1997, ma le argomentazioni utilizzate dalla Suprema Corte risultano del tutto sovrapponibili ai contratti di somministrazione stipulati nell’ambito del d.lgs. n. 276/2003, per cui si può ritenere che l’intento nomofillatico perseguito dalla Cassazione sia riferito anche ai contratti di somministrazione. Le stessa sentenza n. 1148/2013 al punto n. 42 fa espresso riferimento alla somministrazione irregolare di cui all’art. 27 del d.lgs. n. 276/2003. 776 Novembre 2013 • n. 11
  • 6. Massimario di Giurisprudenza del Lavoro GIURISPRUDENZA IL SOLE 24 ORE tratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368» (lett. a)) e dei contratti di lavoro a termine stipulati in base a leggi previgenti rispetto a quel d.lgs. (lett. b)), oltre che di «ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’art. 27 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto» (lett. d)). Nel co. 4, pertanto, il legislatore è analitico e indica, per ciascuna ipotesi, la disciplina di riferimento, mentre, al contrario il co. 5 contiene una formulazione unitaria, indistinta e generale. Si parla di «casi» di «conversione del contratto a tempo determinato» senza indicare normative di riferimento, né aggiungere ulteriori elementi selettivi; — la legge prevede due categorie di contratti per prestazioni di lavoro temporaneo: a tempo determinato e a tempo indeterminato. Il contratto di lavoro temporaneo della prima categoria è espressamente qualificato dal legislatore come una forma di contratto di lavoro a tempo determinato; — l’espressione «conversione», in materia di contratti a tempo determinato, viene utilizzata in dottrina e giurisprudenza per descrivere il meccanismo in base al quale la nullità della clausola di apposizione del termine, non comporta la nullità dell’intero contratto, ma la sua elisione, secondo il meccanismo delineato dall’art. 1419, co. 2 c.c. con conseguente trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato. L’operatività di questo meccanismo in alcuni casi si ricava dal sistema normativo generale e da quanto disposto dal codice civile, in altri è previsto espressamente dalla legge. È ciò che accade, nella legge 196 del 1997, il cui art. 10, Novembre 2013 • n. 11 RAPPORTO DI LAVORO prevede varie ipotesi, compresa quella ricorrente nel caso in esame, in cui il contratto di prestazioni di lavoro temporaneo, in presenza di una ragione di nullità della clausola termine, «si considera a tempo indeterminato». Pertanto, anche con riferimento al contratto di prestazioni di lavoro temporaneo a tempo determinato, in presenza delle ipotesi su indicate, si ha un fenomeno di «conversione»; — l’espressione «casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato», senza ulteriori precisazioni, non esclude, in conclusione, che il fenomeno di conversione possa avvenire nei confronti dell’utilizzatore effettivo della prestazione, né che possa essere l’effetto sanzionatorio di un vizio concernente il contratto di fornitura. La Cassazione sul presupposto che la norma interpretativa dell’art. 32, co. 5 della legge n. 183 del 2010 introdotta dal co. 13 dell’art. 1 della legge 28 giugno 2012 n. 92, fa riferimento all’ordine del giudice di «ricostituzione del rapporto di lavoro», afferma che l’utilizzazione del termine ricostituzione vuole probabilmente indicare che il concetto di conversione comprende non solo provvedimenti di natura dichiarativa, ma anche di natura costitutiva, quale potrebbe essere considerato quello previsto dall’art. 27 del d.lgs. 276 del 2003, con riferimento alla somministrazione irregolare. L’orientamento espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 1148 del 2013 è stato ribadito, sulla base del medesimo iter argomentativo, anche dalla sentenza del 29 maggio 2013, n. 13404. Quest’ultima pronuncia contiene, diversamente dalla precedente, un riferimento alla citata pronuncia della Corte di giustizia Europea dell’11 aprile 2013: il punto 33 dispone che la citata sentenza della Corte di giustizia «ha escluso che la direttiva 1999/70/Ce relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato si applichi al contratto a tempo determinato che si accompagni ad un contratto interinale per una ragione esegetica di fondo, costituita dal fatto che le parti stipulanti l’accordo quadro hanno espressamente previsto che esso «si applica ai lavoratori a tempo determinato, ad eccezione di quelli messi a disposizione di un’azienda utilizzatrice da parte di un’agenzia di lavoro interinale». Da tale previsione si ricava che, anche per l’accordo quadro, e quindi per la direttiva che lo ha recepito, il contratto a termine che si accompagna ad un contratto di lavoro interinale rientra nella categoria del contratto a tempo determinato, tanto che il legislatore europeo, avendo intenzione di dedicare al lavoro interinale una regolamentazione specifica, ha ritenuto di dover operare una esclusione espressa, prevedendo quella che definisce una eccezione, in mancanza della quale l’accordo avrebbe coperto tale area. Se il legislatore europeo non avesse precisato «ad eccezione di quelli messi a disposizione di un’azienda utilizzatrice da parte di un’agenzia di lavoro interinale», la disciplina del contratto a tempo determinato sarebbe stata applicabile al contratto di lavoro a tempo determinato collegato ad un contratto di fornitura di lavoro interinale. «A contrario» deve ritenersi che, quando il legislatore non prevede tale esclusione, la stessa non opera. È quanto è accaduto con l’art. 32, co. 5, della legge 183 del 2010, che ha fatto indistintamente riferimento a contratti a tempo determinato, senza escludere i contratti a tempo determinato che si accompagnino ad un contratto di lavoro interinale». 6. - Considerazioni sulle pronunce della Cassazione. — A parere dello scrivente le due pronunce della 777
  • 7. Massimario di Giurisprudenza del Lavoro GIURISPRUDENZA IL SOLE 24 ORE RAPPORTO DI LAVORO Suprema Corte, pur partendo da presupposti condivisibili, destano qualche perplessità. Non può ritenersi che sia casuale nell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 l’utilizzo di una terminologia differente per indicare i contratti a termine: nei commi terzo e quarto mediante il riferimento ai contratti stipulati ai sensi del d.lgs. n. 368 del 2001 e nel co. 5 attraverso il richiamo ai contratti «a tempo determinato». È, pertanto, certamente condivisibile l’argomentazione secondo cui il co. 5 dell’art. 32 non trovi applicazione esclusivamente ai contratti a tempo determinato stipulati nell’ambito del d.lgs. n. 368 del 2001, ma a tutti i contratti a tempo determinato, a prescindere dalla normativa di riferimento (per esempio un contratto di apprendistato stipulato anteriormente al d.lgs. 14 settembre 2011, n. 167). Qualche dubbio, invece, viene nell’assimilare il sistema sanzionatorio previsto dal co. 1 dell’art. 27 del d.lgs. n. 276 del 2003 («costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze» dell’utilizzatore «con effetto dall’inizio della somministrazione») ad un caso di «conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato» di cui al co. 5 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010. Nel caso della somministrazione, infatti, il fenomeno appare del tutto diverso e presuppone una distinzione. Qualora il lavoratore agisca contro il datore di lavoro-agenzia di lavoro interinale (ipotesi che si verifica frequentemente in via subordinata rispetto alla domanda principale proposta nei confronti dell’utilizzatore ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. n. 276 del 2003) per fare valere vizi specifici del contratto a termine stipulato tra lavoratore e datore di lavoro, certamente si rientra nei casi di «conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato», per cui in tale ipotesi non avrei dubbi circa 778 l’applicabilità della sanzione prevista dall’art. 32, co. 5, citato. Qualora, invece, il lavoratore contesti la legittimità del contratto di somministrazione per violazione delle disposizioni di cui all’art. 20 o 21, co. 1 lett. a), b), c), d) ed e) del d.lgs. n. 276 del 2003 e chieda la costituzione di un rapporto di lavoro alle dirette dipendenze dell’utilizzatore il fenomeno appare del tutto diverso e non meramente sovrapponibile al concetto di conversione del contratto a tempo determinato. In tal caso, infatti, non si ha un fenomeno di «conversione» del contratto a tempo determinato, ma la costituzione di un rapporto di lavoro con un soggetto terzo. Peraltro, mentre alla luce della norma interpretativa contenuta nella legge n. 92 del 2012 sembra di potere affermare che la conversione operi ex nunc mediante la «ricostituzione» di un nuovo rapporto di lavoro (principio che rende coerente la previsione di un indennizzo in luogo del risarcimento del danno), nel caso della somministrazione la costituzione del rapporto di lavoro alle dirette dipendenze dell’utilizzatore avviene certamente ex tunc, considerato che l’art. 27, co. 1, del d.lgs. n. 276 del 2003 espressamente prevede che la costituzione del rapporto alle dipendenze dell’utilizzatore ha effetto sin dall’inizio della somministrazione. Si potrebbe obiettare che la situazione del lavoratore somministrato che ottenga la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore non sia da un punto di vista sostanziale e di esigenze di tutela diversa dalla posizione del lavoratore assunto con contratto a termine che ottenga la «conversione» del rapporto di lavoro: anzi sotto questo profilo appare certamente iniquo ed illogico trattare diversamente due situazioni che, seppure non giuridicamente simili, esprimono identiche esigenze di tutela. Questa considerazione, tuttavia, non può portare ad una dilatazione dell’applicazione dell’art. 32, co. 5, della legge n. 183 del 2010 ad ipotesi chiaramente ad essa non riconducibili, ma può unicamente esprimere una esigenza, de iure condendo, che il legislatore intervenga nel dettare una disciplina comune applicabile alle diverse fattispecie di ripristino giudiziale (qualunque sia la terminologia utilizzata dal legislatore) di un rapporto di lavoro diverso dal licenziamento illegittimo. Non appare, invero, neppure corretto il riferimento contenuto nella sentenza n. 13404 del 2013 al punto n. 33 alla sentenza della Corte di giustizia Europea dell’11 aprile 2013. Infatti, secondo la Cassazione tale pronuncia avrebbe sostanzialmente affermato che il lavoro interinale rientra nella categoria del contratto a tempo determinato e che la disciplina di cui alla direttiva 1999/70/Ce non è applicabile al lavoro interinale solo in quanto vi è una espressa deroga da parte della direttiva medesima, in assenza della quale sarebbe certamente applicabile. In realtà non sembra che la Corte di giustizia abbia ricostruito nella sentenza dell’11 aprile 2013 il lavoro interinale nei termini sopra descritti assimilandolo al contratto a tempo determinato: anzi la Corte di giustizia afferma che anche a livello di definizione una cosa è il concetto di lavoro a tempo determinato, altra cosa il concetto di lavoro interinale. Come emerge chiaramente dal punto 37 della sentenza, il lavoro interinale è un fenomeno che non può che essere visto nella sua globalità, per cui non risulta in alcun modo possibile assimilarlo sic et simpliciter al contratto a tempo determinato, che tutt’al più costituisce solo una parte della fattispecie. In conclusione appare difficile ipotizzare che, nonostante l’espresso intento di nomofilachia, l’intervento della Novembre 2013 • n. 11
  • 8. Massimario di Giurisprudenza del Lavoro GIURISPRUDENZA IL SOLE 24 ORE RAPPORTO DI LAVORO Cassazione porta ritenersi definitivo e possa portare ad uno stabile e costante orientamento giurisprudenziale in merito alla applicabilità dell’art. 32, co. 5, della legge n. 183 del 2010 al lavoro interinale illegittimo (9). Peraltro, l’orientamento espresso dalle sentenze n. 1148 del 2013 e 13404 del 2013 potrebbe, coerentemente, portare a ritenere applicabile l’art. 32, co. 5, della legge n. 183/2010 a fattispecie del tutto di- stinte dal contratto a tempo determinato, ma che presentino una identità di ratio (10). Giovanni Mimmo Giudice del Tribunale di Roma (9) Tra le numerose sentenze di merito che sono andate in senso contrario all’orientamento della Suprema Corte, vedi Corte appello Roma del 29 gennaio 2013 (R.G. 2194/2011) e del 5 febbraio 2013 (R.G. 4441/2010). (10) Si segnala in tal senso una interessante pronuncia del Tribunale di Palermo dell’11 luglio 2013 giudice L. Cavallaro (R.G. 4482/2011) che ha ritenuto applicabile, sulla scorta delle argomentazioni sviluppate dalla Corte di Cassazione, l’art. 32, co. 5, legge n. 183/2010 anche alle ipotesi di cui all’art. 69 d.lgs. n. 276/2003: «[…] dal momento che l’operatività di detto meccanismo può ravvisarsi in tutti i casi nei quali il legislatore ricorre alla locuzione secondo cui il rapporto intercorso tra le parti “si considera [rapporto di lavoro subordinato] a tempo indeterminato” (cfr. in termini Cass. n. 1148 del 2013, cit., § 35), pare al giudicante che lasciarne fuori le ipotesi di conversione invocate in ricorso e previste dall’art. 69 d.lgs. n. 276/2003 condurrebbe ad una disparità di trattamento del tutto ingiustificata sul piano letterale e logico-sistematico: sul piano letterale, perché anche la mancanza di progetto di cui al co. 1 o l’alterazione funzionale della causa della collaborazione prevista al co. 2 fanno sì che detti rapporti “sono considerati a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto” ovvero “si trasforma[no] in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti”, tant’è che di “conversione del contratto” parla per l’appunto la rubrica dell’art. 69 cit.; sul piano logico-sistematico, perché se è vero che l’ampiezza della formula legislativa rende irrilevante che in taluni casi la conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato sia preceduta da una conversione soggettiva del rapporto (cfr. in tal senso Cass. n. 1148 del 2013, cit.), allo stesso modo deve concludersi anche quando — come nel caso dei contratti a progetto oggetto del presente giudizio — la conversione del contratto si debba in ipotesi considerare preceduta da una conversione di carattere oggettivo, quale quella di cui all’invocato art. 69, co. 1, d.lgs. n. 276/2003». LE GUIDE PRATICHE DE IL SOLE 24 ORE GUIDA PRATICA APPALTO E RAPPORTO DI LAVORO di Francesco Natalini Tra le numerosissime regole che nel corso degli ultimi anni hanno ridisegnato il mondo del lavoro quelle relative al contratto di appalto sono sicuramente da annoverare tra le norme che più compiutamente hanno risposto alle necessità di conciliare le esigenze delle imprese di organizzare la propria attività produttiva secondo modelli più flessibili ed efficienti con le esigenze di tutela dei rapporti di lavoro. Dal rapporto con gli altri istituti lavoristici affini (somministrazione, contratto d’opera, distacco, cooperative, consorzi, ecc.) ai vari regimi di solidarietà tra appaltante e appaltatore e fino alla responsabilità solidale per l’effettuazione e il versamento delle ritenute fiscali sui redditi da lavoro dipendente e per il versamento dei contributi previdenziali e assicurativi, il volume – con taglio estremamente pratico e operativo – analizza fin nel minimo dettaglio ogni singola ricaduta dell’appalto sull’intero sistema degli obblighi del datore di lavoro e delle tutele che il legislatore ha voluto approntare per il lavoratore. Pagg. 240 – € 42,00 Il prodotto è disponibile anche nelle librerie professionali. Trova quella più vicina all’indirizzo www.librerie.ilsole24ore.com Novembre 2013 • n. 11 779