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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II “
FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA
Corso di Laurea in Tecniche della Prevenzione
nell’Ambiente e nei Luoghi di Lavoro
ECOLOGIA I
Docente: Dott. Geol. Giuseppe CIGLIANO
Presidente: Prof.ssa Maria TRIASSI
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Indice
Il rischio del patrimonio “ambiente” e “cultura”
- Incidenti rilevanti per l’ ambiente
- Cernobyl
- Aurul
- Seveso
- La direttiva Seveso
- Sicurezza del museo
Inquinamento da amianto
- Amianto negli edifici
- Amianto negli edifici e negli impianti aspetti gestionali e problemi di bonifica
- Meccanismi fondamentali di rilascio e dispersione delle fibre all'interno di un edificio
- Le tecniche d’intervento per i possibili provvedimenti
- Le tecniche d'intervento per i materiali contenenti amianto in matrice compatta
- Le tecniche d'intervento per i materiali contenenti amianto in matrice friabile
Inquinamento da gas Radon
- Generalità
- Come entra negli edifici
- Metodi tecnici per l’eliminazione del Radon dalle abitazioni
- Il Radon in galleria
- Il Radon e gli stabilimenti termali
- Il Radon in edilizia e nei materiali da costruzione
Inquinamento da elettrosmog
- Campo elettromagnetico
- Spettro elettromagnetico
- Le fonti dei campi elettromagnetici
- Campi elettromagnetici e radiazione di fondo
- Campi elettromagnetici e effetti sulla salute
Valutazione dell’esposizione professionale alle radiazioni non ionizzanti
Richiami normative
Inquinamento indoor
- Materiali da costruzione e inquinamento interno
- Prodotti chimici e inquinamento interno
- Monossido di carbonio
- Biossido di Azoto
- VOC – Composti Organici Volatili
- Formaldeide
- Benzene
- Idrocarburi Policiclici Aromatici
- Ozono
- Particolato Aerodisperso
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- Fumo di Tabacco ambientale
- Pesticidi
- Legionella
Le cause di degrado per l’ambiente e dei beni culturali
- La contaminazione chimica, fisica e biologica
- Le principali fonti di inquinamento
- Definizione degli inquinanti in relazione ai diversi comparti ambientali
- Effetti degli inquinanti chimici per l’ambiente e per i beni culturali
- Aspetti fisici del deterioramento ambiente e beni culturali
- Cenni sulle cause biologiche di degrado
- Indagini sperimentali in aree urbane
- Deposizioni secche e umide
- Problemi ambientali fondamentali
Monitoraggio micro- e macro-ambientale
- Il sistema “manufatto-ambiente
- Il controllo degli ambienti: qualità dell’aria, parametri termoigrometrici, illuminazione
- Monitoraggio microclimatico in ambiente confinato
- Il rilevamento degli inquinanti atmosferici
- La prevenzione
- Forme di prevenzione
- Sistemi di contenimento
- Le problematiche ambientali prioritarie
- Cambiamenti climatici ed effetto serra
- Distruzione dell’ozono stratosferico
- Biodiversità
Fondamenti di ecologia delle acque interne
- Limnologia
- Acque artificiali e minori
- Consigli per la sicurezza
Introduzione
- Sinistrosità
- Tutela delle acque
- Costruzioni e pericoli
- Cantieri
Misure protettive
- Principi d'arredo e di sicurezza
- Acque artificiali e biotopi grandi
- Realizzazione terrazzata
- Sollevare il fondo
- Recinzione
- Strato di coltura
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- Costruzione con rete
- Superfici d'acqua gelate
Esempi di acque sicure
- Introduzione
- Rinaturalizzazione / rivitalizzazione nel quartiere
- Vasca di filtrazione e ritenzione
- Stagno per nuotare nel giardino
- Piscina nel giardino
- Biotopi e stagni
- Botti
- Parchi giochi con acque naturali o artificiali
- Fontane
- Acquedotti per acque correnti
- Vasca o conca di infiltrazione
Aspetti giuridici
- Progettazione, pianificazione e realizzazione
- Conseguenze civili e penali
- Superfici ghiacciate
Scheda di sicurezza per acque naturali e artificiali
Contaminazione acqua freatica
Fonti di inquinamento dell'acqua freatica
Contaminanti dell'acqua freatica
Intrusioni di acqua marina in acqua freatica
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IL RISCHIO DEL PATRIMONIO “AMBIENTE” E “CULTURA”
Una delle problematiche fondamentali della attuale società è certamente la questione tecnologica..
Immagini pubblicitarie cariche di tecnologia e le cosiddette nuove tecnologie hanno profondamente
modificato lo stile di vita della gente, fin dall’infanzia. Allo stesso tempo, assistiamo a disastri tecnologici
quali: inquinamenti delle acque e dei suoli, fughe di gas, intossicazioni per veleni sintetici, contaminazioni
radioattive. Questa società, che ha basato tutta la sua fiducia sulla speranza tecnologica si ritrova spesso
vittima, come una sorta di boomerang, di effetti negativi spesso non previsti.. Proprio a seguito dell’intervento
della tecnologia come conseguenza del crescente “trend” dei bisogni della società e del corrispondente
impatto con l’ambiente, si sono verificati, negli ultimi decenni, rilevanti disastri ecologici.
Fra i tanti, sembra qui opportuno fare brevemente cenno ad alcuni di essi avvenuti in Europa,
esempi emblematici non tanto e non solo in riferimento alla sconvolgente entità del disastro conseguente al
fatto in sé, quanto anche alla capacità voluta o inconsapevole (confine alcune volte non del tutto netto e
chiaro) da parte dell’uomo di causare tali disastri.
Cernobyl
Il 25 aprile del 1986 esplode il reattore
numero 4 della centrale nucleare di
Cernobyl, in Ucraina. Una vasta area
geografica rimane contaminata. Le
conseguenze della nube radioattiva si
fanno sentire in tutta Europa (esempio
tangibile dei processi di avvezione, cioè di
spostamenti orizzontali di masse
d’aria e, quindi, di inquinanti aerodispersi).
Attorno a Cernobyl gli effetti delle radiazioni
hanno causato, fino ad oggi, la morte di
8.000 persone.
La centrale prima dell’ incidente
Modalità dell'incidente
Il 25 aprile 1986 era programmato lo spegnimento del reattore numero 4 per normali operazioni di
manutenzione. Senza scendere in particolari tecnici, questo tipo di reattore ha un’antipatica particolarità: in
caso di fusione del nocciolo, cioè se la temperatura sale in modo incontrollato, la grafite inizia reagire con
l'acqua di raffreddamento, aggiungendo danno a danno. Si approfittò della recente fermata per
manutenzione del reattore per eseguire il test sulla capacità delle turbine di generare elettricità sufficiente
per alimentare i sistemi di sicurezza (in particolare le pompe dell'acqua refrigerante) nel caso in cui non
fossero alimentati dall'esterno. I reattori come quello di Černobyl' avevano due generatori diesel di
emergenza, ma non erano attivabili istantaneamente. Quindi si voleva sfruttare il momento d'inerzia residuo
nelle turbine ancora in rotazione, ma disconnesse dal reattore, per garantire, in caso di emergenza,
l'erogazione di energia elettrica durante l'intervallo necessario a far partire i generatori diesel di soccorso per
alimentare le pompe a regime poi alimentate dai generatori diesel di soccorso.. Il test era già stato condotto
su un altro reattore (ma con tutti i sistemi di sicurezza attivi) ed aveva dato esito negativo (cioè l'energia
elettrica prodotta dall'inerzia delle turbine era insufficiente ad alimentare le pompe), ma erano state
apportate delle migliorie alle turbine, che richiedevano un nuovo test di verifica. La potenza del reattore
numero 4 doveva essere ridotta dai normali 3200 MW termici a 1000 MW termici per condurre il test in
sicurezza. Tuttavia l'inizio del test fu ritardato di 9 ore, Per realizzare il test il reattore si sarebbe dovuto
stabilizzare a circa 1000 MW termici prima di fermarlo ma, a seguito di un errore procedurale (dovuto
probabilmente a cattiva taratura degli strumenti), le barre di controllo scesero più del previsto e la potenza
del reattore precipitò a circa 30 MW termici, dove l'instabilità diventa dominante In questo momento la
turbina era a minima potenza e forniva intorno ai 10 MW elettrici, quantità insufficiente per far funzionare le
pompe del sistema di refrigerazione (due, ciascuna delle quali richiedeva una potenza di 5,5 MW elettrici). A
questo punto si sarebbe dovuta sospendere la prova e rimettere in funzione i dispositivi di emergenza. Gli
operatori confidarono però di poter elevare la potenza a 700 - 1000 MW termici chiudendo i regolatori
automatici e passando tutte le barre di controllo ad operazioni manuali (per evitare i sistemi automatici che lo
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avrebbero impedito). Solo verso l'una del 26 aprile si riuscì a stabilizzare il reattore a circa 200 MW termici e
non c'era verso di aumentare questa potenza a seguito dello Xenon che mangiava neutroni. Questa potenza
era insufficiente per realizzare l'esperimento. Benché ci fosse una direttiva che richiedeva un minimo di 30
barre di controllo per garantire la sicurezza del reattore, per realizzare il test, si passò ai comandi manuali e
furono alzate altre barre di controllo, lasciandone solo 6-8 dentro il nocciolo. Ciò significa che se ci fosse
stato un innalzamento di potenza, sarebbero occorsi circa 20 secondi per abbassare tutte le barre di
controllo e spegnere il reattore. Nonostante ciò si decise di continuare il test programmato e, per farlo, fu
aumentato il flusso di refrigerante (da 56000 a 58000 tonnellate l'ora) mettendo in funzione la pompa
principale collegata alla rete elettrica principale (era l'una e 7 minuti), fatto (vietato dalle normative di
sicurezza) che provocò una caduta della pressione del vapore e cambi in altri parametri del reattore. Il
disinnesto automatico che avrebbe dovuto spegnere il reattore quando fosse scesa la pressione del vapore,
risultava escluso. Per aumentare la potenza gli operatori estrassero quasi tutte le barre di controllo che
restavano. Il reattore diventò molto instabile e gli operatori tentarono di fare aggiustamenti ogni 5 secondi
cercando di mantenere costante la potenza. All'incirca in questo momento gli operatori ridussero il flusso
dell'alimentazione di acqua, presumibilmente al fine di mantenere la pressione del vapore. Simultaneamente
le pompe che erano alimentate dalla turbina che andava più lenta fornivano meno acqua di raffreddamento
al reattore. Si era ora nelle condizioni di fare il test, era l'una 22 minuti e mezzo.
Ogni indicazione da manuale indicava che il reattore doveva essere spento immediatamente.
Iniziò il test.
La potenza del reattore si trovava ad un 12% del valore approssimativamente necessario a portare alla
massima velocità di rotazione il turbogeneratore ed eravamo in queste condizioni a seguito della caduta di
pressione cui accennavo. All'una 23 minuti e 4 secondi vennero chiuse le valvole regolatrici di emergenza
del turbogeneratore numero 8, con ciò scollegando la turbina dal vapore. Il piano della prova prevedeva a
questo punto che quattro pompe restassero in funzione con il turbogeneratore in rallentamento. E' però
difficile capire come si fosse pensata una cosa del genere. Se ogni pompa necessita 5,5 MW (e come
minimo 4,3 MW) e se erano in funzione altre due pompe in totale sarebbero occorsi almeno una trentina di
megawatt ed il turbogenratore stava fornendo circa 60 MW elettrici (e non i circa 250 previsti nel progetto
originale della prova che avrebbero permesso il funzionamento delle pompe per almeno 50 secondi).
Una volta iniziata la prova il turbogeneratore iniziò a decelerare. Anche il suo rendimento elettrico iniziò a
scendere notevolmente. Quando il flusso di vapore cessò di arrivare alla turbina in un momento di tale
instabilità (nel medesimo tempo in cui diminuiva il flusso dell'acqua in circolo), lo stesso vapore restò nel
nucleo e formò rapidamente delle bolle dentro di esso. La potenza del reattore cominciò a crescere piano
piano. Le bolle di vapore non sono refrigeranti di modo che gli elementi di combustibile iniziarono a
surriscaldarsi. Crebbero le bolle e con esse la temperatura del nocciolo e la pressione del vapore. Diminuiva
il flusso totale dell'acqua di refrigerazione perché 4 delle 8 pompe che la facevano circolare erano, come
accennato, sottoalimentate a seguito della decelerazione del turbogeneratore. Ma la diminuzione dell'acqua
di raffreddamento aumentò la condizione di instabilità del reattore aumentando la produzione di vapore nei
canali di raffreddamento. Quando la potenza iniziò ad aumentare visibilmente, gli operatori si resero conto
che era iniziata l'emergenza. All'una 23 minuti e 40 secondi iniziarono a suonare le sirene di allarme per
emergenza grave al reattore. Solo 36 secondi dall'inizio della prova ... già troppo tardi. Tutte le barre di
controllo si trovavano alzate ed il segnale di allarme avrebbe dovuto farle abbassare automaticamente,
anche se la lentezza, alla quale ho già accennato, nel moto di esse avrebbe potuto abbassare la potenza di
un 5% al secondo. Non bastava! Ci si rese in seguito conto di un grave errore nel progetto delle barre di
controllo, errore probabilmente alla base della prima esplosione. Le barre di controllo di boro terminavano
con cilindri di alluminio di 4, 5 metri di lunghezza, pieni di grafite incorporata. I cilindri di grafite giocavano un
doppio ruolo: aiutavano i blocchi di grafite del reattore, attuando come ulteriori moderatori, e deviavano
l'acqua dei canali di controllo quando si facevano discendere le barre. Il disegno era tale (cilindri troppo corti
e situati nella sezione centrale del nucleo del reattore) che, appena dato il comando di discesa delle barre, si
aveva un aumento iniziale della reattività nella parte inferiore del nucleo del reattore per i primi 4 secondi ed
in quel frangente questi 4 secondi furono probabilmente fatali. Nella situazione instabile in cui ci si trovava e
considerando le elevatissime temperature che si stavano producendo, i terminali di grafite, nel discendere,
fusero gli elementi di combustibile che si trovavano nella parte inferiore del nucleo, provocando la distruzione
locale di ogni geometria. La potenza continuò ad aumentare spettacolarmente: in soli 3 secondi era arrivata
a 530 MW. Gli operatori non furono in grado di prevenire questo eccezionale aumento, stimato in 100 volte
la potenza nominale di uscita nei 4 secondi successivi (01:23:44). Le barre in discesa si bloccarono a metà
strada, dopo che si udirono una serie di colpi. L'operatore si rese conto che si erano bloccate a metà
cammino e tolse la corrente al servomeccanismo, in modo che le barre potessero cadere per gravità. Niente.
Il disegno sbagliato, la forte pressione e l'elevatissima temperatura avevano distrutto i canali nei quali
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scivolavano le barre. La reazione a catena andava avanti senza essere moderata o refrigerata con la
conseguenza che la temperatura del nucleo e la pressione del vapore continuavano ad aumentare insieme
alla distruzione di ogni geometria fondamentale per i controlli. Una ricostruzione al computer dell'incidente
dice che a questo punto gli elementi di
combustibile si andavano rompendo
provocando un aumento rapido della
pressione del vapore nei canali che
contenevano il combustibile stesso con la
conseguente distruzione dei medesimi. A
questo punto l'acqua di refrigerazione
non aveva più dove circolare liberamente
ma solo attraverso pezzi di combustibile
rotti e surriscaldati. Piccole parti di
combustibile ad alta temperatura,
reagendo con l'acqua, provocarono una
potente esplosione del vapore che
distrusse il nocciolo della centrale. Era
l'una e 24 secondi, 20 secondi dopo
l'inizio dell'emergenza. L'esplosione
danneggiò il tetto e fece sollevare il
coperchio monoblocco di acciaio della
centrale, del peso di circa 2000
tonnellate. Per maggiore disgrazia, nel
ricadere, questo coperchio si adagiò di
fianco incastrandosi tra le opere murarie
e nei suoi violenti spostamenti strappò
cavi e varie tubature provocando
svariati danni, ormai a catena.
Passarono solo 2 o 3 secondi e seguì
una seconda esplosione, molto più violenta. Questa volta era l'idrogeno il responsabile, idrogeno prodotto
dalla reazione ad alta temperatura tra vapore e zirconio (il materiale che faceva da camicia ai tubi che
contenevano le barre) e tra vapore e grafite incandescente (che produce idrogeno ed ossigeno). Tale
idrogeno si era probabilmente accumulato localmente negli spazi del nocciolo liberi o liberati. Testimoni
all'esterno della centrale hanno visto scagliati all'aria pezzi in fiamme che, nel ricadere, estendevano
l'incendio al corpo della centrale stessa. Circa il 25% dei blocchi di grafite fu sparato all'aria in fiamme.
Furono scagliati lontano anche pezzi di elementi di combustibile, parti del nocciolo e delle strutture portanti.
Le spaccature nel tetto fecero da effetto camino con l'estensione ulteriore dell'incendio. Questo fu l'inizio
della catastrofe. Il pennacchio di fumi, contenenti isotopi radioattivi, si alzò per oltre un chilometro sopra la
centrale. I componenti pesanti di questi fumi ricaddero più o meno nelle vicinanze della centrale, ma i
componenti leggeri, i gas, iniziarono la loro marcia per l'Europa iniziando dal Nord-Est della centrale, dove i
venti prevalenti spingevano . Sparito il refrigerante, sparito ogni controllo, finita la geometria del reattore, in
qualche parte proseguiva la reazione a catena perché vi era Uranio 235 ed un moderatore (grafite) ancora
efficienti (la cosa non sarebbe accaduta in un VVER o PWR perché la perdita del refrigerante avrebbe
coinciso con la perdita del moderatore). Saliva la temperatura ed il nocciolo stava fondendo in una massa
unica nella quale proseguiva e sarebbe proseguita per molto tempo la reazione a catena. Il nocciolo intanto
penetrava nel suolo per oltre 4 metri. Ormai c'era solo da tentare qualche operazione che alleviasse il
completo disastro. Oltre cento incendi erano scoppiati nelle adiacenze della centrale. Occorreva fermarli,
spegnere la grafite. Non si dimentichi che, a lato dell'Unità 4 vi erano altri 3 reattori funzionanti e che una
estensione del disastro sarebbe stata un'apocalisse. Inoltre tutti sapevano che non si aveva a che fare con
semplici esplosioni di natura chimica: ora ad esse si sarebbe accompagnata una radioattività incontrollabile
e disastrosa. Negli elementi di combustibile dei 4 reattori vi erano oltre 3000 Kg di plutonio e 700 tonnellate
di Uranio ed una infinita di isotopi radioattivi ottenuti come prodotti di fissione delle successive reazioni
nucleari. Nessuno sapeva bene come impedire o arginare la catastrofe.
Centinaia di pompieri intervenuti dalla vicina Pripyat si sacrificarono, essendo esposti per primi ad enormi
dosi di radioattività, per tentare lo spegnimento degli incendi (tra l'altro questi uomini intervennero con
attrezzature del tutto inadeguate: non avevano vestiti speciali che li coprissero completamente, non avevano
maschere con filtri efficienti, non avevano dosimetri adeguati, ...).
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Pripyat: oggi è una città fantasma
cronologia degli eventi che causarono l'incidente.
25 aprile, ore 01,00 - La potenza del reattore viene diminuita per consentire un esperimento.
25 aprile, ore 14,00 - Il sistema di raffreddamento del nocciolo di emergenza viene disinnestato, violando
così i principi di sicurezza.
25 aprile, ore 23,00 - La potenza del reattore scende a 700 mw.
26 aprile, ore 00,28 - Un errore dell'operatore fa scendere troppo la potenza, fino a 30 mw. Il reattore si
trova in condizione di instabilità.
26 aprile, ore 01,23,04 - L'operatore chiude la valvola di emergenza verso la turbina, l'ultimo sistema di
emergenza che altrimenti avrebbe salvato il reattore.
26 aprile, ore 01,23,31 - La reattività del nocciolo comincia a crescere. Le barre di controllo non riescono più
a bilanciarne l'aumento.
26 aprile, ore 01,23,43 - La temperatura del nocciolo aumenta in maniera irreversibile.
26 aprile, ore 01,23,44 - In 40 secondi la potenza del reattore è cresciuta da 200 a 100.000 mw. Il reattore
esplode.
26 aprile, ore 01,23,45 - L'esplosione distrugge la parte alta delle pareti e il tetto dell'edificio.
.
La centrale dopo dell’ incidente
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Considerazioni
C'è da tener conto bene delle date: il 25 aprile era venerdì e l'1 e 2 maggio sono feste nazionali. Con un paio
di giorni da giocare è possibile fare un ponte lungo e certamente varie persone lo hanno fatto e
probabilmente quelle più elevate in grado e quindi più esperte. Vi è da osservare che l'esperimento andava
ad iniziare con 10 ore di ritardo rispetto a quanto programmato, con turno di lavoro di personale differente
da quanto in programmazione e quindi con tecnici impreparati ad affrontare eventuali problemi;
Questo per un una sperimentazione da effettuare con i sistemi automatici di sicurezza esclusi e
quindi con reattore da condurre solo in maniera manuale
Aurul
Nella notte fra il 30 e il 31 gennaio 2000, da una breccia apertasi nel rilevato arginale del bacino per sterili,
deputato a raccogliere il cianuro usato per separare oro e argento dalle scorie di altri materiali,della miniera
Aurul, presso la città di Baia Mare (distretto di Maramures), causò il riversamento di circa 100.000 metri cubi
di acqua e fanghi ricchi di cianuro nel sistema fluviale circostante. Si è valutato che un quantitativo di 50-100
tonnellate di cianuro di sodio si sia diffuso nei fiumi Somes, Tibisco e Danubio per poi raggiungere il Mar
Nero.
La società Aurul S.A. è una compagnia per azioni di proprietà congiunta dell'australiana "Esmeralda
Exploration Ltd." e della romena "Compania Nationala a Metalelor Pretiosasi si Neferoase", fondata nel
1992. Questa compagnia tratta sterili solidi provenienti da precedenti processi minerari per recuperare
metalli preziosi, in particolare oro e argento. Nel 1997, dopo avere ricevuto l'autorizzazione necessaria da
parte del Ministero dell'Ambiente, si diede inizio alla costruzione di un nuovo impianto che fu completato nel
1999 presso Baia Mare. Nello stesso anno, in seguito alla presentazione di una valutazione di impatto
ambientale, venne messo al servizio del nuovo impianto di trattamento minerario un vecchio bacino di
decantazione per sterili di miniera costruito 30 anni prima (bacino di Meda) in prossimità di un'area
residenziale.
L'incidente fu descritto dalla stessa Aurul S.A. nel modo seguente: in seguito a condizioni meteorologiche
estreme (ghiaccio e neve sulla superficie dell'invaso, elevate precipitazioni di 36 litri/m2), gli sterili che
costituivano l'argine interno del rilevato si impregnarono d'acqua, compromettendo la stabilità dello stesso
argine. In un primo tempo si verificò la tracimazione della parte sommitale del rilevato che, in breve, portò
all'apertura di una vera e propria falla lunga circa 23 m. Attraverso questa breccia oltre 100.000 metri cubi di
acque ricche di cianuro fuoriuscirono dall'invaso prima che si potesse intervenire.
LE FASI DELL'INCIDENTE
• Rottura della sommità dell'argine in seguito a tracimazione causata da piogge torrenziali e
scioglimento di neve;
• Fuoriuscita di circa 100.000 metri cubi di acque e fanghi altamente contaminati da cianuro e metalli
pesanti;
• Grave inquinamento dei fiumi Somes e Tibisco;
• Contaminazione dell'acqua potabile in 24 località diverse e fermo dell'erogazione per 2,5 milioni di
persone;
• Massiccia moria di pesci e distruzione di diverse specie acquatiche in tutto il bacino del Tibisco;
• Gravissimo impatto sulla biodiversità, gli ecosistemi fluviali, l'erogazione di acqua potabile e le
condizioni socioeconomiche della popolazione;
• Elevati costi degli interventi di decontaminazione.
Tentativi di contenimento dell'ondata inquinante in Romania.
10
POSSIBILI CAUSE DEL DISASTRO
La falla nell'argine del bacino fu probabilmente causata da una combinazione di inadeguatezze intrinseche
nel progetto e nella realizzazione dell'opera, di condizioni operative non previste e di una situazione
meteorologica particolarmente avversa.
I bacini di decantazione al servizio di miniere attive sono in continuo accrescimento man mano che nuovo
materiale solido di scarto si rende disponibile per l'innalzamento dell'invaso, che deve ospitare volumi
sempre crescenti di acqua e di fanghi oltre gli afflussi diretti delle precipitazioni. A parte i doverosi controlli
riguardanti il livello dell'acqua nell'invaso durante precipitazioni intense, la sicurezza degli argini dipende dal
costante equilibrio fra l'altezza del rilevato e il livello dell'acqua nell'invaso.
Nel caso del bacino di Aurul a Baia Mare, gli argini crescevano invece più lentamente del progressivo
aumento del livello dell'acqua per cui si è determinata una condizione di "acqua alta", molto pericolosa per la
stabilità di queste strutture geotecniche.
Mancavano inoltre le comuni attrezzature di cantiere - quali pompe - per fare fronte a imprevisti afflussi di
acqua nel bacino.
Le sfavorevoli condizioni climatiche hanno ulteriormente aggravato la situazione determinando un aumento
incontrollato dell'afflusso di acqua e, infine, la sua tracimazione al di sopra dell'argine.
La compagnia fece fronte all'incidente riparando la falla con materiali inerti disponibili in zona e immettendo
ipoclorito di sodio all'interno del bacino e nell'area interessata dalla tracimazione per neutralizzare il cianuro.
Ciò nonostante, una gran quantità di effluenti altamente contaminati riuscì a fuoriuscire prima che la falla
potesse essere riparata.
Secondo le norme del Ministero romeno dei Lavori Pubblici riguardanti gli standard costruttivi, l'impianto e
l'annesso invaso erano classificati di "importanza normale", vale a dire non richiedevano l'obbligo di
effettuare specifiche attività di sorveglianza e monitoraggio.
Pertanto, dal punto di vista delle autorità competenti, l'impianto aveva ricevuto tutte le autorizzazioni
necessarie per essere pienamente operativo. L'analisi dei dati raccolti e delle perizie post-disastro inducono
a ritenere che questo incidente sia stato causato da una serie di fattori, fra i quali:
• inadeguatezze del progetto dell'intero sistema (condizioni di stabilità degli invasi per sterili e processi
di trattamento del cianuro) della miniera Aurul, specialmente per quanto concerne le misure di
sicurezza in caso di condizioni operative anomale;
• termini di concessione dell'impianto incompleti e inappropriati, sistemi di monitoraggio e di ispezione
inadeguati;
• carenze manutentive nella gestione dell'impianto, soprattutto contro i rischi di straripamento e
riversamento, e in termini di risposta efficiente in caso di emergenza.
Considerazioni
L’incidente sarebbe stato probabilmente di entità molto più ridotta se fossero state costruite le cosidette
“Overflow Pons”, vasche appositamente progettate per accogliere le soluzioni in caso di drenaggio molto
spinto da parte delle acque meteoriche.
Sono disastri questi che colpiscono irrimediabilmente anche tenendo presente i conseguenti effetti
che possono riscontrarsi nel corso del tempo impoverendo l’umanità ed il patrimonio ambientale.
- Seveso
Poiché la temperatura interna dell’impianto supera i
350, la fuoriuscita dalle valvole di sicurezza è non
soltanto di triclorofenolo, con la sua quota inquinante
“normale” di tetraclorodibenzodiossina, ma anche di una
quantità di TCDD di molto superiore a quella che si
sarebbe prodotta a temperatura inferiore ai 350°. L a
nube, sospinta dal vento, si sparge sui terreni vicini per
un’estensione di 18 milioni di m
2
, coinvolgendo una
popolazione di 22.000 persone. La città di Seveso, e
alcuni paesi limitrofi della Brianza, furono contaminati da
una nube di diossina sollevatasi dopo l’esplosione dello
stabilimento chimico. Simbolo di quell’incidente
(segnato dall’evacuazione della popolazione, da lunghe
e costose operazioni di bonifica dei terreni e da effetti
sulla salute ancora oggi in fase di studio) fu l’immagine
11
di bambini con il volto deturpato dalla cloracne (formazione di pustole di difficile cicatrizzazione.
Direttiva Seveso
Il "caso Seveso" ha portato la Comunità Europea ad
emanare nel 1982 una specifica direttiva denominata
Direttiva Seveso (Direttiva 82/501).
L'Italia recepì tale emendamento con il DPR 175/88.
Naturalmente, periodicamente ci sono aggiornamenti e
perfezionamenti di questo emendamento attraverso
successivi decreti ministeriali attuativi, alcuni decreti legge, la
Legge n. 137/97.
Infine, c’è da sottolineare che il Consiglio dell’UE ha
recentemente sostituito la Direttiva Seveso con una nuova
direttiva, la 96/82/CE, o "Seveso 2", che ha aggiornato la
82/501.
Alcuni aspetti sono anche coperti dal D.Lgs. 626/94.
La direttiva stabilisce inoltre che in presenza di molte
industrie a rischio incidente, l’analisi del rischio ed il piano di
intervento debba essere complessivo e, per la prima volta, si prende in esame anche il rischio di un effetto
domino.
Proprio questa considerazione ha fatto sì che si decidesse che stabilimenti prossimi tra loro dovranno
consorziarsi in merito ai piani di emergenza, con grande considerazione per l'urbanizzazione nei pressi dei
centri industriali.
Come già detto in precedenza, oggi è molto più difficile, soprattutto in Paesi industrializzati come il nostro,
che avvengano nuovi incidenti così gravi e drammatici (con una nota polemica, si può dire anche a causa del
progressivo declino della grande industria chimica italiana avvenuta negli ultimi anni per vari e svariati
motivi).
Oggi, le aziende hanno tutto l'interesse ha tutelarsi e controllare le loro azioni in materia di sicurezza.
Parallelamente, si può dire che si è sviluppata una nuova industria, quella che comprende i vari Enti Pubblici
e/o Privati, Agenzie Nazionali (ANPA) o locali (ARPA) che sono preposte e sempre più specializzate nel
monitorare e controllare le emissioni e l'attività delle Aziende considerate a rischio (ovvero aziende che
manipolano sostanze tossiche e/o pericolose in generale).
Disposizioni della direttiva
• il censimento degli stabilimenti a rischio, con identificazione delle sostanze pericolose
• l'esistenza in ogni stabilimento a rischio di un piano di prevenzione e di un piano di emergenza
• la cooperazione tra i gestori per limitare l'effetto domino
• il controllo dell'urbanizzazione attorno ai siti a rischio
• l'informazione degli abitanti delle zone limitrofe
• l'esistenza di un'autorità preposta all'ispezione dei siti a rischio
Gli elementi caratterizzanti un’industria a rischio di incidente rilevante ai sensi della direttiva sono:
l’uso di sostanze pericolose, in quantità tale da superare determinate soglie,quali:
sostanze tossiche (composti chimici che provocano danni all’organismo umano quando sono inalati, ingeriti
o assorbiti per via cutanea);
• sostanze infiammabili (possono liberare grandi quantità di energia termica);
• sostanze esplosive (possono liberare grandi quantità di energia dinamica);
• sostanze comburenti (hanno reazione fortemente esotermica a contatto con
altre sostanze, in particolare con sostanze infiammabili);
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la possibilità di evoluzione non controllata di un’attività industriale con conseguente
pericolo grave, immediato o differito sia per l’uomo all’interno o all’esterno dello stabilimento sia per
l’ambiente circostante a causa di:
• emissione di sostanze tossiche;
• incendio;
• esplosione.
La direttiva Seveso è stata recepita in Italia sei anni dopo la sua emanazione, con il decreto del Presidente
della Repubblica del 17 maggio 1988, n. 175 “Attuazione della direttiva CEE n.501 del 24 giugno 1982
relativa ai rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attività industriali”, in seguito modificato e
integrato da diverse disposizioni normative e di carattere tecnico applicativo fino alla Legge n.137 del 19
maggio 1997 “Sanatoria dei decreti legge recanti modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 17
maggio 1988 n.175, relativo ai rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attività industriali”.
Il D.P.R. 175/88 distingueva gli impianti a rischio in due tipologie in base al grado di pericolosità: stabilimenti
sottoposti a notifica (art. 4) ed a dichiarazione (art 6).
La situazione attuale: la direttiva Seveso bis
La direttiva Seveso, dopo quattordici anni di esperienze maturate anche alla luce dei diversi recepimenti
degli stati membri della Comunità Europea, si è evoluta nella direttiva 96/82/CEE detta “Seveso bis”, tesa ad
integrare la normativa sui grandi rischi con le più moderne conoscenze tecniche del settore.
In Italia la direttiva Seveso bis è stata recepita con il D.Lgs 334/99, che è divenuta la nuova legge quadro in
materia di rischio industriale, e che introduce dei sostanziali cambiamenti rispetto la legislazione precedente:
• lo stabilimento è controllato nel suo complesso, anziché con riferimento ad ogni singolo
impianto/deposito, in relazione alla possibile presenza di quantitativi massimi di sostanze classificate
come pericolose, uguali e superiori alle quantità di soglia indicate negli specifici allegati del decreto, a
prescindere dalla loro eventuale ripartizione in impianti produttori o utilizzatori, nonché in unità di
deposito o stoccaggio;
• la creazione di un sistema teso alla realizzazione/applicazione di un’efficace politica di prevenzione degli
incidenti rilevanti. A tal fine il decreto prevede che il gestore dello stabilimento provveda ad organizzare,
realizzare e rispettare un sistema di gestione della sicurezza che, integrato nella gestione generale
dell’azienda, faccia sì che ogni possibile evento incidentale che si configuri all’interno dello stabilimento
possa essere affrontato, gestito e quindi posto efficacemente sotto controllo;
• il decreto sottolinea la necessità di considerare la prevenzione degli incidenti rilevanti durante
la pianificazione della destinazione e dell’utilizzo dei suoli e della loro urbanizzazione, sia a breve sia a
lungo termine, con uno specifico riguardo per quei territori particolarmente sensibili, prevedendo linee di
sviluppo che concilino le esigenze degli stabilimenti già esistenti con lo sviluppo industriale e urbano dei
territori circostanti;
• nell’ottica di una maggior integrazione della matrice industriale con il territorio circostante, il decreto
indica una serie di informazioni minime di cui il cittadino debba essere messo al corrente per poter poi
esprimere un parere che apporti un costruttivo contributo nell’elaborazione di progetti finalizzati;
• il decreto prevede altresì che il gestore possa esercitare il proprio diritto al segreto industriale o alla
tutela delle informazioni di carattere commerciale, personale o che si riferiscano alla pubblica sicurezza,
ma deve comunque fornire alla popolazione informazioni organizzate e messe a disposizione del
pubblico previo controllo delle autorità competenti, in una forma ridotta ma che consenta tuttavia la
conoscenza delle eventuali problematiche.
Il D.Lgs 334/99 prevede 3 differenti tipologie di adempimenti cui le aziende possono essere soggette:
Relazione semplice: prevista dall’art. 5 comma 3 del D.lgs. 334/99, è un documento contenente le
informazioni relative al processo produttivo, alle sostanze pericolose presenti, alla valutazione dei rischi di
incidente rilevante all’adozione di misure di sicurezza appropriate, all’informazione, formazione,
addestramento ed equipaggiamento dei lavoratori.
Notifica: prevista dall’art. 6 del D.lgs. 334/99 è un documento sottoscritto nelle forme dell’autocertificazione
contenente informazioni amministrative riguardo allo stabilimento e il gestore, notizie che consentono di
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individuare le sostanze pericolose, la loro quantità e la loro forma fisica, notizie riguardo all’ambiente
circostante lo stabilimento e in particolare elementi che potrebbero causare un incidente rilevante o
aggravarne le conseguenze.
Rapporto di sicurezza: prevista dall’art. 8 del D.lgs. 334/99 è un documento che deve contenere notizie
riguardo all’adozione del Sistema di Gestione della Sicurezza, i pericoli di incidente rilevante, le misure
necessarie a prevenirli e a limitarne le conseguenze per l’uomo e per l’ambiente, la progettazione, la
costruzione, l’esercizio e la manutenzione di qualsiasi impianto, i piani di emergenze interni e gli elementi
utili per l’elaborazione del piano di emergenza esterno.
SICUREZZA DEL MUSEO
Fonte: MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI
Atto di indirizzo sui criteri tecnico –scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei
musei ( art 150 comma 6 D.L. n. 112/1998 ) AMBITO V
Premessa
Nell’ambito dei beni culturali sono presenti diverse problematiche inerenti la salvaguardia degli
edifici e del loro contenuto, ma anche la sicurezza degli occupanti (frequentatori ed addetti), in
buona sostanza ciò che usualmente è individuato con i termini inglesi di security e di safety.
Tali problematiche assumono di volta in volta la denominazione di conservazione, tutela, restauro,
sicurezza sul lavoro, sicurezza antincendio, ecc., coinvolgendo aspetti di ordine ambientale,
strutturale, di uso, anticrimine e antincendio.
Si tratta di materie molto complesse ed anche tra loro molto diverse che rischiano talvolta di entrare
in rotta di collisione, se non affrontate in maniera coordinata ed organica.
Inoltre, quando si considerano insediamenti ed edifici realizzati in un arco temporale misurabile in
secoli, non modificabili con interventi strutturali ed impiantistici invasivi, non si possono
prescrivere soluzioni deterministico–prescrittive valide per tutte le situazioni.
Un approccio culturale, prima ancora che regolamentare, è quello che riguarda la sicurezza, nella
più ampia eccezione del termine. È un approccio pragmatico integrato che, fissati gli irrinunciabili
requisiti essenziali che i contenitori museali devono garantire e gli obiettivi che, a fronte di ciascun
requisito, devono essere soddisfatti, si basa su una analisi del rischio mirata ed una conseguente
strategia di sicurezza che comprende misure preventive, protettive ed organizzative capaci di
perseguire quegli obiettivi, anche in occasione delle emergenze correlate alle situazioni di rischio
considerate.
L’analisi del rischio parte dalla raccolta organica ed uniforme di tutti i dati relativi ai singoli
pericoli, alle corrispondenti vulnerabilità ed anche ai relativi fattori di esposizione che concorrono
in stretta sinergia alla determinazione dei singoli rischi in termini sia qualitativi che quantitativi.
La definizione della strategia di sicurezza parte dalla conoscenza di tali dati e delle singole realtà
costruite, poiché solo attraverso una corretta e coerente rappresentazione dell’oggetto dell’analisi
possono essere progettati in modo mirato misure preventive, di compensazione e di mitigazione dei
rischi.
Con tale approccio l’acritica cultura dell’adempimento viene sostituita da una cultura basata sugli
obiettivi da raggiungere in concreto, caso per caso e, in conformità con le più recenti Direttive
comunitarie ed i Disposti legislativi di recepimento nazionali riguardanti materie riconducibili alla
sicurezza, le linee di responsabilità nei confronti del rischio all’interno delle realtà nelle quali esso è
presente non si affidano a prescrizioni che provengono dall’esterno, ma vengono bensì ricondotte
non solo e non tanto in capo a singole figure giuridiche, ma anche e soprattutto alla organizzazione
nel suo insieme ed alle sue regole strategiche ed operative per il perseguimento degli obiettivi di
sicurezza.
Si tratta di un approccio che non esclude il rischio, sempre connesso con qualsivoglia attività
umana, ma tende a renderlo minimo nella sua residualità, compatibile con la vulnerabilità del
“contenitore” e del “contenuto”, in grado di garantire una accettabile sicurezza anche in condizioni
di emergenza.
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Il museo deve garantire
la sicurezza ambientale,
la sicurezza strutturale,
la sicurezza nell’uso,
la sicurezza anticrimine
la sicurezza in caso di incendio,
e considerando i problemi della sicurezza in modo mirato ed integrato.
Il museo deve tendere a:
• mitigare le azioni che l’ecosistema territoriale può provocare, attraverso interventi di analisi,
monitoraggio e bonifica
• tutelare, conservare e consolidare il contenitore delle collezioni nei confronti delle suddette
azioni
• tutelare e conservare le sue collezioni, anche in condizioni di emergenza
• garantire la sicurezza del personale e dei visitatori, anche in condizioni di emergenza
• garantire la sicurezza dei soccorritori in condizioni di emergenza
Il museo è tenuto ad assicurare che le strutture siano conformi alle disposizioni di carattere cogente
(standard legislativi), ad attuare interventi finalizzati a rendere le strutture atte a soddisfare i
requisiti essenziali (standard normativi) ed a prevedere tutte le misure preventive, di protezione
attiva e passiva e organizzative per dare adeguata confidenza sul mantenimento nel tempo delle
condizioni di sicurezza (strategia di sicurezza). Allo scopo esso è tenuto ad effettuare una analisi dei
rischi atta a commisurare la strategia di sicurezza alla specifica realtà, anche attraverso il ricorso a
misure di sicurezza equivalenti.
Ambito V
SICUREZZA DEL MUSEO
1. Le finalità di un sistema di sicurezza
Le finalità primarie che ogni intervento finalizzato alla sicurezza deve prendere a riferimento in
modo mirato e soprattutto integrato sono:
– Mitigazione delle “azioni” presenti nel contesto dell’ecosistema territoriale nel quale si trovano
gli insediamenti e gli edifici, anche attraverso interventi di analisi, monitoraggio e bonifica;
– Tutela, conservazione, consolidamento degli insediamenti e degli edifici (“contenitori”) anche nei
confronti delle “azioni” di cui al punto precedente;
– Tutela, conservazione del “contenuto” degli insediamenti e degli edifici anche in condizioni di
emergenza;
– Sicurezza degli “occupanti” (frequentatori ed addetti) anche in condizioni di emergenza;
– Sicurezza dei soccorritori in condizioni di emergenza.
2. I requisiti essenziali di un insediamento
I requisiti essenziali che gli insediamenti e gli edifici, contenitori di “beni e attività culturali”
devono garantire, possono utilmente essere così schematizzati:
– Sicurezza ambientale
– Sicurezza strutturale
– Sicurezza nell’uso
– Sicurezza anticrimine
– Sicurezza in caso d’incendio
2.1. Sicurezza ambientale
Nell’ambito della sicurezza ambientale si considerano le “azioni” che l’ecosistema può esercitare
sull’insediamento, sugli edifici e sulle sovrastrutture del sistema considerato.
Tra queste si segnalano:
– Sismicità
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– Subsidenza
– Vulcanesimo
– Bradisismo
– Dissesti idrogeologici
– Presenza di falde superficiali
– Agenti meteo–marini
– Ceraunicità [densità di fulminazione al suolo (Ground flash density - Ng) ]
– Inquinamento atmosferico
– Inquinamento elettromagnetico
– Degrado urbanistico
– Effetti “domino” dovuti a insediamenti e infrastrutture al contorno
– Traffico
– Altri.
A fronte dei suddetti pericoli, occorrerà verificare l’adeguatezza dell’insediamento e delle strutture
ad esso connesse e, ove necessario, predisporre adeguati piani di intervento per la messa in
sicurezza, il consolidamento, la protezione, ecc.
In ogni caso occorrerà che per ognuna delle “azioni” prese in considerazione sia garantita
l’esistenza di un capitolo dedicato alla pianificazione delle emergenze per la messa in sicurezza dei
beni culturali mobili presenti nell’insediamento anche in condizioni di emergenza.
2.2. Sicurezza strutturale
Con l’espressione sicurezza strutturale si vuole intendere la stabilità degli edifici e delle strutture nei
confronti di qualsivoglia “azione” comprese quelle ambientali di cui al precedente punto.
Tra queste si segnalano:
– Vetustà
– Deficienze strutturali
– Deficienze nella manutenzione
– Azioni conseguenti al sisma
– Azioni conseguenti a dissesti idrogeologici
– Azioni conseguenti a dissesti meteorologici
– Sovraccarichi statici e dinamici
– Cantieri, sbancamenti e simili
– Vibrazioni
– Altri.
A fronte delle suddette azioni, occorrerà verificare l’idoneità statica delle strutture e, ove necessario,
predisporre un progetto di adeguamento e/o miglioramento.
2.3. Sicurezza nell’uso
Si tratta delle numerose problematiche connesse con la destinazione d’uso e le connesse modalità
di fruizione degli insediamenti e degli immobili.
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E’ questo il requisito essenziale che investe tutti quegli aspetti della sicurezza che sono in genere
regolamentati da Direttive europee e da disposizioni legislative nazionali di più o meno recente
emanazione e che non sempre trovano facile composizione per via della natura degli insediamenti e
degli edifici, ma che in ogni caso devono essere rispettate.
Le problematiche emergenti sono:
– Compatibilità delle destinazione d’uso generale e specifica
– Fruibilità da parte di grandi masse (affollamento, gestione dei flussi, etc.)
– Barriere architettoniche
– Infortuni sul lavoro e malattie professionali
– Agenti nocivi (fisici, chimici, biologici)
– Microclima
– Illuminazione
– Rumore
– Contenimento energetico
– Impianti tecnologici di servizio: impianti elettrici impianti termici impianti per la movimentazione
interna (elevatori, etc.) impianti distribuzione gas combustibili e gas tecnici impianti
condizionamento impianti idrico – sanitari
– Impianti e sistemi di protezione attiva
– Impianti per le comunicazioni interne
– Impianti e sistemi bus *
– Macchine, apparecchiature, attrezzature
– Lavorazioni
– Cantieri
– Servizi aggiuntivi: cucine ristoranti bar bookshop guardaroba nursery altri
– Manifestazioni occasionali
– Aree a rischio specifico
– Rifiuti solidi urbani e tossico–nocivi
– Inquinamento acqua, aria, suolo
– Altre.
Particolare attenzione andrà rivolta all’eliminazione delle barriere architettoniche, oltre che per ovvi
motivi di fruibilità, anche per l’importante aspetto legato alla eventuale evacuazione in caso di
emergenza.
*sistemi bus
La tecnologia che oggi permette la realizzazione di un sistema
domotico completo è costituita dai "sistemi bus".
Per bus si intende una linea dati che collega i diversi dispositivi
del sistema domotico e che trasmette tutte le informazioni di
controllo. Possiamo pensare al sistema domotico come ad una
rete di computer: i diversi dispositivi presenti nella casa sono
come i nodi (i computer) della rete, il bus è il cavo che li collega
e che permette la circolazione dell'informazione nel sistema.
Nei sistemi bus il comando di attivazione di un componente, ad
esempio l'accensione della luce (v. fig.1), non avviene in modo
diretto, attraverso un filo elettrico che collega l'interruttore con la
lampada, ma è controllato dal bus: il dispositivo di input
(l'interruttore) invia un segnale nella rete, cioè nella linea dati del
bus, che lo ritrasmette al dispositivo di output (la lampada).
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Solo a prima vista il risultato non cambia: "premo l'interruttore e la lampada si accende". La differenza fondamentale,
però, è legata al fatto che in questo modo il sistema domotico è informato di tutto quello che avviene nella casa e può
comandare i diversi dispositivi.
L'informatica - ovvero una gestione di tipo software - si inserisce all'interno degli impianti e, come sappiamo, grazie
alla versatilità e la flessibilità della programmazione è possibile potenziare le possibilità di controllo e di gestione di
tutti i dispositivi che vengono installati nell'alloggio e che sono connessi al bus.
2.4. Sicurezza anticrimine
Con l’espressione sicurezza anticrimine si vuole intendere la tutela del patrimonio culturale con
particolare riguardo ai beni mobili nei confronti di “azioni” dolose.
Tra queste si segnalano:
– Effrazione
– Intrusione
– Vandalismi
– Taccheggi
– Furti
– Rapine
– Attentati
Gli strumenti disponibili sul piano tecnico per poter perseguire gli obiettivi di sicurezza sono
essenzialmente:
– Sbarramenti alla azione dolosa: si tratta delle barriere di protezione passiva (sbarramenti fisici) e
ad uomo presente (vigilanza) tra loro integrate;
– Contrasto alla azione dolosa: è questo lo strumento che si affida ai sistemi di protezione attiva ba-
sati sulla tecnologia e a tempestivi interventi di repressione ad uomo presente tra loro sinergici.
2.5. Sicurezza in caso di incendio
Gli obiettivi della sicurezza in caso di incendio, da prendere a riferimento in modo mirato e
soprattutto integrato, in ambito dei beni culturali sono:
– Sicurezza degli insediamenti e degli edifici anche in caso di incendio;
– Sicurezza del “contenuto” anche in caso di incendio;
– Sicurezza degli “occupanti” (frequentatori ed addetti) anche in caso di incendio;
– Sicurezza dei soccorritori.
Con l’espressione “sicurezza in caso d’incendio” si vuole intendere, in adesione alla ratio del nuovo
approccio, qualcosa di più rispetto alla sicurezza antincendio, volendo con ciò sottolineare la
convinzione che la sicurezza deve essere garantita anche in caso ed in occasione di un incendio
che non si è saputo o potuto evitare.
È proprio questo il caso al quale meglio si attaglia l’obbligo della gestione del rischio residuo,
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postulato dalla filosofia sottesa al nuovo approccio.
Infatti in caso di incendio la necessità di garantire la sicurezza
degli occupanti, dei beni mobili e di quelli immobili richiede
una strategia di sicurezza complessa e a tutto campo. È quindi
necessario un “progetto sicurezza” che deve fare riferimento
ad un percorso costituito da più e diversi momenti, tra i quali
si segnalano:
– definire l’incendio (focolaio) di progetto che si vuole
affrontare e risolvere;
– provvedere al suo rilevamento tempestivo;
– provvedere all’invio di allarmi mirati;
– provvedere al controllo e/o allo spegnimento con sostanze
idonee;
– provvedere all’intervento ad uomo presente per verifiche e/o azioni mirate.
È quasi inutile aggiungere che i singoli momenti in questione sono tra loro fortemente dipendenti.
3. La strategia di sicurezza
Per strategia di sicurezza si intende il novero delle misure preventive, di protezione attiva e passiva
e quelle organizzative cui il progettista della sicurezza può, e talvolta deve, fare riferimento nel
proprio lavoro.
Le misure preventive sono quelle misure che interagiscono con la frequenza di accadimento degli
eventi riducendo le occasioni di rischio.
Si tratta di una categoria di misure di primaria importanza che risolve i problemi evitandoli.
Le misure di protezione passiva per il solo fatto di esistere, mitigano le conseguenze di una azione
e/o di un evento dannosi che non abbiamo potuto o saputo evitare.
Appartengono a questa categoria di misure:
– le recinzioni
– le chiusure d’ambito esterno
– la resistenza al fuoco delle strutture e delle sovrastrutture
– la reazione al fuoco dei materiali e degli arredi
– le compartimentazioni
– le vie di esodo.
Le misure di protezione attiva riguardano in buona sostanza i sistemi di protezione attiva integrati
(tecnologia e vigilanza ad uomo presente).
L’uomo e la tecnologia sono infatti deputati a garantire l’efficacia della protezione attiva in diver-
sa misura, ma in modo sinergico.
Poiché è in ogni caso richiesta una indispensabile integrazione uomo–sistemi, va da sé che l’intera
gestione delle misure di protezione attiva richiede una attenzione particolare.
I lati dell’ipotetico triangolo rappresentano
I tre elementi necessari per la combustione:
Combustibile (materiale infiammabile )
Comburente ( usualmente ossigeno)
Fonte di innesco ( apporto di calore )
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Infatti per quanto riguarda i sistemi di protezione attiva, questi dovranno essere integrati nei rispetti-
vi “progetti di sicurezza” e soddisfare il requisito della “affidabilità” intendendo con questo termine
che siano soddisfatte le seguenti condizioni:
Idoneità: il sistema non deve creare danni aggiuntivi a quelli dell’evento dal quale ci si vuol pro-
teggere sia con riguardo alla sicurezza delle persone che a quella degli edifici e del loro contenuto;
Tempestività: il sistema deve consentire il rilevamento precoce dell’evento e l’intervento
immediato;
Efficacia: il sistema deve garantire il raggiungimento dell’obiettivo di progetto, talché esso deve
essere mirato e compatibile con l’evento che si progetta di dover affrontare; al riguardo si deve
segnalare la odierna disponibilità di una ampia modellistica di riferimento per gli eventi di che trat-
tasi che consente di superare le approssimazioni empiriche che fino ad oggi hanno guidato la
progettazione in materia; Disponibilità: il sistema deve essere in grado di intervenire quando ciò sia
richiesto;
Protezione contro il sabotaggio: i sistemi di protezione attiva devono essere protetti contro il
sabotaggio;
Grado di automazione: si deve in ogni caso sottolineare che i sistemi di protezione attiva si
diversificano anche per il loro grado di automazione. Infatti l’uomo e la tecnologia possono essere
deputati al loro funzionamento in diversa misura. Occorre pertanto tenere presente che per gestire
un elevato grado di automazione, occorre essere certi di una buona ingegneria di progetto, di una
accurata costruzione, di una competente installazione ed infine di una costante e scrupolosa ma-
nutenzione programmabile fin dalla fase di progetto, e che per poter contare sull’uomo si deve aver
cura della sua selezione, formazione ed addestramento;
Falsi allarmi: il sistema deve essere esente o comunque deve ridurre al minimo la possibilità di falsi
allarmi;
Facilità di manutenzione: il sistema deve essere facilmente “testabile” per una diagnosi precoce dei
guasti che in ogni caso devono essere del tipo “fail–safe” (devono mettere in sicurezza i luoghi e/o
quantomeno autosegnalarsi); ogni guasto deve poter essere riparato in tempo breve e sul posto.
Le misure organizzative per la gestione della sicurezza afferiscono alla gestione del rischio in ogni
sua fase (risk management). Il risk management riguarda infatti primariamente l’organizzazione che
ciascuna struttura si deve dare per la sicurezza, intendendo con ciò, in buona sostanza, gli
adempimenti progettuali ed organizzativi necessari per il perseguimento degli obiettivi prefissati, la
predisposizione di risorse, il controllo sistematico, le azioni correttive, la formazione e
l’addestramento degli addetti, ma anche dei gestori delle emergenze. Infatti se da una parte il
moderno approccio alla sicurezza non escludendo il rischio, sempre presente in qualsivoglia attività
umana, suggerisce di guardare alla complessa e non facile problematica con razionalità e con
realismo pragmatico, dall’altra non deve essere interpretato come foriero di comode
deresponsabilizzazioni perché semmai aggiunge un dovere in più, cioè quello che detto rischio
residuo deve essere gestito riconducendo all’interno della attività stessa la responsabilità prima di
detta gestione. La responsabilità in questione non deve essere interpretata soltanto nella
individuazione del soggetto giuridico cui fare riferimento, soprattutto in sede penale, ma piuttosto
nella necessità cogente di costituire un compiuto sistema organizzativo deputato alla sicurezza.
Infatti il risk management riguarda anche la pianificazione e la gestione di quelle emergenze che
non abbiamo saputo o potuto prevenire, controllandone primariamente l’evoluzione con l’obiettivo
di minimizzarne le conseguenze. Pianificare l’emergenza significa, in ultima analisi, formulare un
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piano operativo per la sua gestione. Il piano di emergenza si deve qualificare per il dettaglio della
progettazione organizzativa. Compito della pianificazione della emergenza è anche quello di
sviluppare nei gestori della stessa le abilità necessarie per riconoscere e fronteggiare gli eventi
attesi. Occorre pertanto dare ai gestori una formazione capace di sviluppare le abilità tecnico–
professionali di mestiere necessarie per interpretare i sintomi della emergenza al suo nascere e
soprattutto una capacità di sintesi che consenta loro di mettere a fuoco i problemi selezionando la
gamma delle informazioni deducibili dai segnali premonitori. La rilevazione dei segnali premonitori
della emergenza da parte di coloro che sono deputati alla gestione dipende infatti dalla loro
formazione specifica all’analisi del rischio, dipende cioè dal grado di conoscenza dei pericoli e delle
loro caratteristiche intrinseche, dal saperne riconoscere la minacciosa presenza, ma anche nel saper
correlare tali pericoli alla contingente vulnerabilità ambientale. In mancanza si rischia la
sottovalutazione dei fenomeni e risposte all’evento tardive e inadeguate. Ma il piano di emergenza
non può soltanto consistere nella individuazione degli scenari attesi, nella predisposizione delle
risorse, nella determinazione delle linee di flusso per la loro attivazione e di chi e che cosa deve
fare, ma deve caratterizzarsi anche e soprattutto per la verifica della coerenza e praticabilità delle
azioni da attivarsi in ragione di detti scenari. In definitiva occorre valutarne la sua operabilità. Sia
attraverso simulazioni, realizzate, come si è visto, mediante modelli matematici più o meno raffinati
implementati su calcolatori, sia attraverso concrete sperimentazioni, è possibile verificare se una
emergenza è gestibile, cioè se il corrispettivo piano ammette soluzioni, e quindi se quel rischio è
“accettabile”. Quando l’evento si verifica si determina una situazione di crisi che deve essere gestita
e risolta. I gestori del piano devono pertanto possedere le competenze e le caratteristiche necessarie
per la gestione delle emergenze di progetto. La gestione delle emergenze sarà tanto più efficace
quanto più gli scenari di progetto saranno realistici e conservativi e la professionalità dei gestori
elevata; investire nella loro qualificazione è quindi di fondamentale importanza.
Il piano di emergenza deve prendere in considerazione anche i rapporti con entità esterne: tra queste
vanno annoverati prioritariamente i soccorritori professionali e le forze dell’ordine. Infatti
l’affidabilità dell’intervento di “repressione differita” loro richiesta potrà essere garantita soltanto
attraverso un lavoro congiunto di pianificazione, ma anche e soprattutto di verifica mediante
esercitazioni congiunte. Il passaggio di mano della gestione della emergenza dall’interno all’esterno
non può prevedere discontinuità, ma deve avvenire in sperimentata sinergia.
4. Gli standard legislativi e normativi
Gli standard legislativi e normativi in materia di sicurezza si sostanziano in un quadro di riferimento
organico costituito da Direttive europee, Regole Tecniche e da Norme tecniche di prodotto e di
impianto. Le Direttive europee che nella materia della sicurezza vengono denominate anche
Direttive del nuovo approccio si discostano dalla tradizionale metodologia deterministico–
prescrittiva per privilegiare la progettazione di sicurezza caso per caso basata essenzialmente su di
una virtuale griglia che individua i suoi nodi fondamentali nei Requisiti essenziali, negli Obiettivi di
sicurezza per ciascun requisito, nella Strategia, ma anche nelle Regole Tecniche e nelle Norme
Tecniche. Con l’accezione di Regole Tecniche si intende il quadro di riferimento di disposizioni
legislative nazionali che fino ad un recente passato veniva brevemente individuato come “Norme”.
Con l’avvento della Unione Europea si è reso necessario distinguere le disposizioni legislative
nazionali “cogenti” dal novero delle “Norme Tecniche” di “impianto” e di “prodotto” che, in
ossequio al mercato comune e quindi alla libera circolazione dei prodotti, pur se “volontarie”, hanno
assunto il carattere di esclusività nella caratterizzazione tecnica di tali materie. Talché, nelle relative
materie in ottemperanza, al principio del libero mercato, gli Stati membri possono regolamentare,
con proprie Regole Tecniche, ad esempio quali e quanti presidi di sicurezza devono essere adottati a
fronte di questo o quel rischio e di questa o di quella attività, ma non possono definire come tali
presidi devono essere realizzati, rimandando alle Norme Tecniche tale compito. Per Norme
Tecniche si intendono le cosiddette norme di buona tecnica di natura formalmente volontarie, ma di
fatto obbligatorie in quanto conferiscono ope legis agli impianti ed ai prodotti la presunzione di
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essere conformi alle regole dell’arte. Le Norme Tecniche sono emanate da organismi comunitari
(CEN, CENELEC, EOTA) e recepite dai corrispondenti organismi nazionali (UNI, CEI, Organismi
nazionali legittimati a rilasciare ETA); anche quando, in assenza di norme tecniche comunitarie, gli
organismi nazionali emettono loro specifiche norme tecniche, queste devono ricevere
l’approvazione in sede europea.
gli standard procedurali: il progetto sicurezza
Gli insediamenti costituenti “beni culturali” per le loro specifiche caratteristiche storico–artistiche
appartengono più di ogni altro a quella realtà costruita che male ammette un approccio determi-
nistico–prescrittivo e ciò almeno per i seguenti motivi:
– Esigenze affatto diverse della security e della safety;
– Destinazione non prevedibile e non prevista in fase di progetto che risale spesso ad epoche
storicamente molto lontane da noi e dalla nostra civiltà tecnologica;
– Inammissibilità di interventi strutturali ed impiantistici invasivi che andrebbero a snaturare la
stessa realtà artistica e storica dell’edificio. Fermi restando i requisiti essenziali e gli obiettivi da
soddisfare è necessario allora fare ricorso ad un moderno approccio che commisuri di volta in volta
la strategia di sicurezza alle specifiche realtà anche attraverso un ampio ricorso a misure di
sicurezza equivalenti. Questo approccio è quello comunemente noto come analisi dei rischi e la
scienza che la studia è la reliability engineering. Questa branca dell’ingegneria studia la
problematica della affidabilità che un sistema o una sua parte (sottosistema) o un suo elemento
(unità) svolga correttamente la propria funzione nel tempo di missione assegnato. In ambito “beni
culturali” essa riguarda in particolare gli impianti tecnologici di servizio ed i sistemi di protezione
attiva, ma anche il comportamento degli addetti in ogni fase del progetto sicurezza considerando il
“fattore umano” un aspetto centrale del problema. L’uomo e la tecnologia si devono infatti attivare
in modo certo a partire dall’ora zero dell’evento o dell’azione dei quali sono stati messi a presidio.
Tale ovvia constatazione pone primariamente il problema della loro affidabilità, valutazione quali-
tativa troppo generica per un riferimento utile se non affrontata con metodologia tecnico–scientifica
motivata e giustificabile. L’analisi dei rischi è un processo che ha l’obiettivo di fornire una
rappresentazione formale della probabilità di danno di un sistema, nella fattispecie di un
insediamento culturale, e di fornire le informazioni necessarie per una verifica documentata,
motivata e giustificabile della rispondenza delle scelte di progetto per il soddisfacimento dei
requisiti essenziali che detti insediamenti devono garantire e per il raggiungimento degli obiettivi di
sicurezza postulati da ciascun requisito. L’analisi di rischio implica primariamente la individuazione
dell’insieme dei pericoli (tecnologici) ed alle azioni (naturali ed antropiche) possibili (limitatamente
a quelli “credibili”), oggetto dell’analisi stessa, ma anche la vulnerabilità del sistema considerato ed
il fattore di esposizione nei confronti di detti pericoli e/o azioni.
Infatti è l’interazione dei tre fattori sopra considerati che sostanzia un determinato livello di rischio
che peraltro è caratterizzato anche da una frequenza di accadimento e soprattutto dalla magnitudo
delle conseguenze.
Quando un rischio (concetto probabilistico) si concretizza in un evento negativo (certezza) si hanno
conseguenti scenari di emergenza ed in definitiva di danno.
L’analisi del rischio, sotto il profilo metodologico, si avvale di tecniche di analisi logico-
probabilistiche e di tecniche di analisi fenomenologiche.
Le fasi di una compiuta analisi del rischio sono:
l’individuazione e l’analisi dei “pericoli” e delle “azioni”;
– l’individuazione e l’analisi delle corrispondenti vulnerabilità;
– l’individuazione e l’analisi dei fattori di esposizione a ciascun pericolo;
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– la valutazione dei rischi;
– la “compensazione” dei rischi;
– la “valutazione” dei rischi residui;
– l’individuazione degli eventi e dei relativi scenari connessi con i rischi residui;
– la mitigazione degli eventi connessi con i rischi residui: i sistemi di protezione attiva;
– la pianificazione e la gestione delle emergenze;
– gli interventi correttivi della strategia.
Il livello di rischio globale delle attività viene rappresentato con un modello matematico nel
quale gli effetti del rischio stesso dipendono dai seguenti fattori:
F = probabilità o frequenza del verificarsi dell’evento rischioso
M = magnitudo della conseguenza, ossia dell’entità del danno ai lavoratori o all’ambiente,
provocato dal verificarsi dell’evento dannoso.
Secondo la funzione: Rischio = F x M
Il flow–chart che segue rappresenta sinotticamente il processo logico di una analisi di rischio.
23
PERICOLI
24
6. Le procedure di valutazione
Le procedure di valutazione di un progetto di sicurezza devono essere fondate su:
6.1. Primo livello (Adempimento)
Verifica osservanza regole e norme tecniche
– Conformità alle “Regole Tecniche”: il progetto deve essere conforme alle Regole Tecniche
nazionali (disposti legislativi cogenti) pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale nazionale;
– Conformità alle “Regole dell’Arte”: il progetto deve essere conforme alle norme tecniche
di “impianto” e di “prodotto” internazionali, comunitarie e nazionali in quanto applicabili (ISO,
IEC, CEN, CENELEC, UNI, CEI).
6.2. Secondo livello (Efficacia)
Ricognizione dello “stato dell’arte”
Ricognizione dello “stato dell’arte”
Schede di rilevazione (check–list) Analisi di dettaglio
– Liste di controllo (Check list)
– Analisi di operabilità (Hazop);
– Modi di guasto e loro effetti (F.m.e.a.);
– Cosa succede se ? (What if);
– Alberi di guasto;
– Alberi degli eventi;
– Modelli vulnerabilità;
– Modelli conseguenze;
– Modelli “fattore umano”.
Compensazione dei rischi Quali–quantificazione dei rischi residui
metodi ad indici
Mitigazione dei rischi residui Verifica praticabilita’ manuali operativi e piani emergenze.
7. Le linee guida e i valori numerici: i criteri di accettabilità
Ribadita la ovvia cogenza di osservare puntualmente quanto prescritto dal quadro di riferimento
legislativo e normativo vigente nelle singole materie afferenti la sicurezza (adempimento), si ritiene
che i criteri di accettabilità dovrebbero indicare per il livello superiore (quello dell’efficacia), più
che limiti statici riconducibili a valori numerici, trend di compensazione e mitigazione in ragione
delle necessità contingenti, quali risultano dalla analisi dei rischi, delle specificità degli
insediamenti, peraltro da aggiornarsi (work in progress) in funzione del progresso tecnologico.
Tuttavia, supposto di poter classificare i musei in almeno cinque categorie, da 1 a 5 in ordine
decrescente per “importanza”, si propone una possibile matrice rappresentata al successivo punto 8)
nella quale nelle ordinate sono stati elencati i più comuni sistemi di protezione attiva.
L’ipotesi di suddividere in categorie i musei è certamente arbitraria e comunque esula dalle
competenze del tecnico della sicurezza.
La matrice potrebbe essere “perfezionata” indicando con una “X”, nelle colonne delle categorie,
quei sistemi di protezione attiva ritenuti irrinunciabili in funzione della “importanza”
dell’insediamento museale preso a riferimento.
25
Categorie di
musei
8. Matrice
SISTEMI DI PROTEZIONE ATTIVA
1 2 3 4 5
impianto di rivelazione
automatico
pulsanti di segnalazione
manuale
rivelatori di miscele
infiammabili
vigilanza ad "uomo
presente"
rivelazione
sala operativa
squadra antincendio
estintori portatili
intervento
immediato
estintori carrellati
"a gas"
pre-
flashover
spegnimento
automatico "a sprinkler"
naspi DN 20
idranti DN 45
intervento
differito
(V.V.F.
professionali) idranti DN 70
acquedotto
attacco gruppo
motopompa
post-
flashover
alimentazione
riserva idrica per almeno 1
ora
ANTINCENDIO
altro
impianto
antiscavalcamento
impianto antieffrazione
delle superfici
impianto antieffrazione
degli accessi
protezione recinzione
impianto TVCC
impianto di rivelazione
antintrusione
impianto antieffrazione
delle superfici
impianto antieffrazione
degli accessi
impianto di protezione
volumetrica
protezione edificio
impianto TVCC
impianto di rivelazione
antintrusione
impianto antieffrazione
delle superfici
ANTICRIMINE
protezione sale museali
impianto antieffrazione
degli accessi
26
impianto di protezione
volumetrica
impianto TVCC
teche e/o vetri di
protezione
distanziometriprotezione opere
allarme per distacco
singola opera
mezzi ed impianti
antirapina
sistemi di controllo degli
accessi e dei flussi di
transito
vigilanza
custodi
collegamenti con le FF.O.
e/o Istituti privati
sistemi di centralizzazione
e gestione segnali di
allarme
sistemi di sicurezza
polifunzionali
sala operativa
altro
scale a giorno
scale protette
scale a prova di fumo
interne/esterne
vie di esodo
(collegamenti verticali)
ascensori antincendio
illuminazione di sicurezza
alimentazione di
emergenza (G.E.)
diffusione sonora
segnaletica di sicurezza
vari
presidi sanitari
SISTEMI VARI
altro
la fabbricazione della carta d'amianto
Sul finire del XVII secolo, la nobildonna Candida Lena Perpenti, di Gordona in Valchiavenna ma
di origine spagnola, incuriosita dalla vista in un museo di un fuso con del filo di amianto
proveniente dagli scavi di Ercolano, decise di provare lei stessa a filare il minerale. Nel 1806 riuscì
27
a produrre il primo paio di guanti ignifughi che donò al viceré d’Italia Eugenio di Behaurnais. Oggi
sappiamo che la materia prima utilizzata dalla nobildonna Perpenti era proveniente proprio dalla
Valmalenco.
A buona ragione, si può quindi sostenere che la Valmalenco sia stata tra le prime al mondo a
scoprire e sfruttare le miniere di amianto dopo l’età antica (l’amianto era già conosciuto dalle civiltà
persiane, greche e romane per le sue qualità ignifughe).
Nei primi anni dell’800 inizia lo sfruttamento industriale ma bisognerà aspettare il 1867 perché
l’amianto della Valmalenco torni ad essere protagonista sul mercato nazionale per la produzione di
carta ignifuga, necessaria per redigere importanti documenti all’interno della cartiera Rigamonti di
Tivoli ove si produceva la carta di amianto considerata per il suo pregio particolarmente adatta a
quei documenti che, essendo importanti, richiedevano un'accurata conservazione. Tale carta era
incombustibile e quindi garantiva ancora di più tale sicura conservazione. L'idea di realizzarla è
però antecedente all'Ottocento; dobbiamo risalire all'ultimo decennio del Seicento, precisamente al
1691, per trovare l'ideatore, un alto prelato, Mons.Giovanni Ciampini. Costui esperimentò la
creazione di fogli ottenuti mescolando a fibre vegetali i residui di fibre minerali che si depositavano
all'interno dei grandi vasconi dove veniva lavato l'amianto (noto già agli antichi Romani che, pur
non riuscendo a fare il tessuto di amianto, sapevano filarlo). Chiaramente, all'inizio, la sua
realizzazione non era al meglio: infatti i fogli erano abbastanza friabili e poco consistenti ma,
attraverso degli accorgimenti, i risultati migliorarono. La gomma arabica aggiunta alla primitiva
mistura fece sì che la carta ottenuta fosse più consistente e sbiancata, in una parola più idonea per
essere scritta e stampata. Un successivo passo per migliorarla fu fatto nel 1868 dal canonico
D.Vittorio del Corona il che fece balenare al Marchese Augusto di Baviera (futuro direttore
dell'Osservatore Romano) l'idea (dopo una serie di esperimenti fatti a Tivoli) di sfruttarla
industrialmente. Nel 1869 avanzò domanda per ottenerne il brevetto insieme al predetto canonico e,
una volta che tale diritto gli fu concesso (24/7/1869), iniziò a Tivoli la fabbricazione industriale
della carta incombustibile ottenuta attraverso due procedimenti. Il primo prevedeva di collocare per
due giorni in un bagno di acido idroclorico gli avanzi di amianto non adatti ad essere filati; per
attutire il colore giallognolo della materia occorreva fare molti lavaggi.
Al termine di essi il residuo colore andava eliminato usando acqua di cloruro di calce e poi acqua
acidulata con acido solforico; poi si passava a tritare la materia nei cilindri per ottenerne una pasta a
cui si aggiungeva poca fecola di patata cotte; a questo punto era pronta per essere lavorata. Il
secondo procedimento prevedeva invece di mettere per due giorni "l'asbesto in un bagno di acido
clolorico del commercio" cambiando spesso l'acqua onde eliminare il predetto colore giallognolo. Si
passava poi a tritare in cilindri di bronzo versandovi "4 l. di acqua di cloruro di calce e, dopo trenta
minuti, 1 l. di acido solforico per ogni cilindrata". A metà triturazione occorreva aprire "lo
sciacquo" e "purgare il pesto dagli acidi. A questo punto occorreva aggiungere fecola di patate cotte
(5 libre ogni 100 di pesto) amalgamando bene; la carta era così pronta per essere lavorata a mano o
a machina. Il Marchese propose di utilizzare tale carta d'amianto non solo per i documenti da
conservare ma anche per i titoli cambiari. Dalle pagine dell'Osservatore Romano iniziò una
campagna di promozione per quella tela e carta incombustibile che le cartiere di Tivoli
fabbricavano. Ad appoggiarne l'impiego erano anche illustri personaggi come il dr. Francesco Ratti
e Padre Angelo Secchi della Compagnia di Gesù (colui che fece interessanti osservazioni sul
pianeta Marte) i quali sottolineavano il pregio di questa carta inattaccabile dal fuoco.
Le carte di amianto di Tivoli, di tessuti e di filo furono oggetto anche di una mostra-mercato a
Roma dall'ottobre del 1869 al febbraio 1870 allestita presso la sede del giornale vaticano in Via dei
Crociferi 48. Purtroppo però gli avvenimenti del 1870 (Roma capitale, estensione dell'unità d'Italia,
sgretolamento dello Stato Pontificio) comportarono delle conseguenze politiche, economiche,
sociali che in parte provocarono degli sconvolgimenti dalle lunghe e diverse conseguenze.
28
INQUINAMENTO DA AMIANTO
L'amianto, chiamato anche indifferentemente asbesto, è un minerale naturale a struttura fibrosa
appartenente alla classe chimica dei silicati e alle serie mineralogiche del serpentino e degli anfiboli. E'
presente naturalmente in molte parti del globo terrestre e si ottiene facilmente dalla roccia madre dopo
macinazione e arricchimento, in genere in miniere a cielo aperto. Secondo la normativa italiana ( art. 249
Testo Unico D.Lgs. 9 aprile 2008 , n. 81) il termine amianto designa i seguenti silicati fibrosi:
ACTINOLITE ( n. CAS 77536-66-4 ) AMOSITE ( n. CAS 12172-73-5 )
ANTOFILLITE ( n. CAS 77536-67-5 ) CRISOTILO ( n. CAS 12001-29-5 )
CROCIDOLITE ( n. CAS 12001-78-4 ) TREMOLITE ( n. CAS 77536-68-6 )
Il crisotilo appartiene alla serie mineralogica dei serpentini, gli altri a quella degli anfiboli.
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L'amianto resiste al fuoco e al calore, all'azione di agenti chimici e biologici, all'abrasione e all'usura; ha una
notevole resistenza meccanica ed una alta flessibilità La sua struttura fibrosa ha fibre lunghe e sottili che
possono essere tessute come quelle della lana e del cotone.
Amianto in greco significa incorruttibile, perché le sue fibre non possono essere distrutte
dal fuoco; esso era già noto agli Egizi e il romano Plinio lo considerò una “pietra magica”.
Dal 1830-40 cominciò ad essere usato per proteggere uomini e cose dal fuoco e dal
calore delle caldaie, sempre più numerose nell’industria e sulle navi ormai non più a vela,
ma a vapore. Da poche tonnellate si arrivò ad estrarne e adoperarne milioni di tonnellate
all’anno e l’Italia ne lavorò grandi quantità per fabbricare pareti isolanti o per molti usi
industriali
Le miniere più ricche sono in Canada,
Sudafrica, Russia e Australia, ma ve
ne sono anche nelle Alpi:
in Piemonte se ne estraevano 100
mila tonnellate all’anno a Balangero
in Val di Lanzo e nel casalese
(Casale Monferrato) si costruivano
manufatti in cemento-amianto.
Ma l’amianto può essere dannoso alla salute?
Già nel 1906 l’ispettorato del lavoro inglese aveva
segnalato che le ragazzine addette alla tessitura delle
fibre di amianto si ammalavano ai polmoni senza che
fossero affette da tubercolosi, malattia allora molto
diffusa tra i giovani delle classi più povere.
Dopo qualche tempo ci si rese conto che le fibre di
amianto inalate si depositavano nei polmoni i quali
diventavano grigi e duri: tale malattia fu denominata asbestosi e fu dichiarata malattia professionale
indennizzabile come la silicosi a partire dal 1936 in Inghilterra e qualche anno dopo in Italia; furono resi
obbligatori i filtri, depuratori e mascherine nelle sedi di lavoro, ma la produzione e l’uso dell’amianto continuò.
Nel 1960 comparve un articolo che fece scalpore: tra un gruppo di minatori di amianto del Sudafrica erano
stati osservati un certo numero di soggetti affetti da un tumore della pleura molto raro, il Mesotelioma.
Nacque il ragionevole sospetto che vi fosse un rapporto tra l’esposizione all’amianto e tale malattia; per
risolvere il dubbio l’Accademia delle Scienze di New York organizzò un congresso nel 1965 e il tale
occasione si confermò che anche tra i minatori degli Stati Uniti si era manifestato questo tumore con una
frequenza insolitamente alta. Lo stesso fenomeno fu in seguito denunciato in modo clamoroso in una
miniera di amianto australiana: tale evento fu definito un disastro industriale.
Infine furono segnalati tumori della pleura in un piccolo villaggio turco, situato vicino ad una collina ricca di
rocce amiantifere, la cui polvere era trasportata dal vento sul villaggio: si scoprì così che vi può essere un
danno non solo lavorativo, ma anche ambientale.
L’allarme scattò all’inizio degli anni ’80, ma soltanto nel 1992 una legge ( legge 257 del 27 marzo 1992 ) ha
vietato l’estrazione e la lavorazione dell’amianto ed ha ordinato la bonifica di tutte le strutture fonti di
inquinamento da amianto Questa legge non limita la sua azione alla sola messa al bando dell’amianto, ma
affronta anche le complesse problematiche ad esso collegate: la tutela contrattuale dei lavoratori, i limiti ed il
controllo delle emissioni, l’imballaggio, l’etichettatura e lo smaltimento dei rifiuti contenenti amianto. Per esse
indica norme di riferimento già in vigore, introducendo a volte in queste ultime adeguate modifiche. La legge
contiene forme di tutela sia verso i lavoratori che verso le imprese di produzione penalizzate dalla
dismissione dell’amianto. La stessa prende in esame diversi aspetti particolarmente significativi inerenti sia
la salvaguardia dell’ambiente che la tutela della salute pubblica. Tuttavia essa non fornisce per essi una
regolamentazione specifica , ma rimanda a successive norme di attuazione. A tal fine istituisce una
commissione per la valutazione dei problemi ambientali e dei rischi sanitari connessi all’impiego dell’amianto
alla quale attribuisce compiti ben precisi.
Pertanto per anni è stato considerato un materiale estremamente versatile a basso costo, con estese e
svariate applicazioni industriali, edilizie e in prodotti di consumo.
In tali prodotti, manufatti e applicazioni, le fibre possono essere libere o debolmente legate: si parla in questi
casi di amianto in matrice friabile, oppure possono essere fortemente legate in una matrice stabile e
solida (come il cemento-amianto o il vinil-amianto): si parla in questo caso di amianto in matrice
compatta.
Nell’industria dei materiali edili, l’amianto è stato utilizzato per la realizzazione di circa 2.000 diversi prodotti.
di larga diffusione quali tubi per acquedotti, fogne ecc, lastre e fogli in cemento-amianto, mattonelle per
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pavimentazioni, frizioni, freni e prodotti vari per attrito, guarnizioni, filtri per bevande, tute, coperte, guanti
antincendio, pannelli fonoassorbenti e/o isolanti, vernici, rivestimenti, stucchi, feltri, tegole, ecc. ecc
Generalmente è stato utilizzato insieme con altri materiali in diverse percentuali, al fine di sfruttare al meglio
le sue caratteristiche.
PRODOTTI E LORO CONTENUTO IN AMIANTO (DA HEALTH AND SAFETY EXECUTIVE - 1979)
PRODOTTI % IN PESO AMIANTI
Cemento/amianto per edilizia 10-15 C, A, Cr
Cemento/amianto per condutture 12-15 C, A, Cr
Prodotti isolanti, ignifughi 25-40 A,C
Prodotti isolanti, inclusi quelli a spruzzo 12-100 A, C, Cr
Guarnizioni sigillanti 25-85 C, Cr
Materiali di attrito 30-70 C
Altri materiali tessili 65-100 C,Cr
Materiali per pavimentazione 5-7,5 C
Materie plastiche, inclusi gli involucri per batterie 55-70 C, Cr
Materiali di carica e di rinforzo 25-98 C,Cr
Legenda: C=Crisotilo, A=Amosite Cr=Crocidolite
Tra questi erano comuni i prodotti in cemento-amianto: lastre di copertura, rivestimenti, pareti divisorie, tubi,
contenitori, ecc. che venivano utilizzati indifferentemente nella costruzione di edifici civili o industriali. I
manufatti che contengono l'amianto con il passare degli anni subiscono, come tutti i materiali, un
invecchiamento naturale causato da interventi di manutenzione, di riparazione, ecc...; in questi casi si può
generare un inquinamento ambientale a seguito della possibile dispersione in atmosfera di fibre. Non
sempre l'amianto, però, è pericoloso: lo è sicuramente quando può disperdere le sue fibre nell'ambiente
circostante per effetto di qualsiasi tipo di sollecitazione meccanica, eolica, da stress termico, dilavamento di
acqua piovana.
La cessazione dell'utilizzo dell'amianto ha fatto sì che l'esposizione a questo inquinante si sia spostata
dall'ambiente di lavoro a quello di vita.
PRINCIPALI MATERIALI CONTENENTI AMIANTO E LORO POTENZIALE RILASCIO DI
FIBRE (D.M. del 6 Settembre 1994)
TIPO DI MATERIALE FRIABILITÀ RILASCIO NOTE
Applicazioni a spruzzo e rivestimenti isolanti Elevata Significativo Amosite, Crocidolite
a volte con Crisotilo
Rivestimenti isolanti di tubazioni e di caldaie Elevata Per rivestimenti
alterati e non
sigillati
Miscele con silicato
di calcio; tele, feltri
ed imbottiture
Funi, corde, tessuti scarsa secondo lo stato di
conservazione
Amosite, Crocidolite,
Crisotilo
Cartoni, carte, prodotti affini Elevata secondo lo stato di
conservazione
Crisotilo
Cemento - Amianto Molto scarsa Scarso Amosite, Crocidolite,
Crisotilo
Bitumi, intercapedini, piastrelle, mastici, sigillanti, pavimenti
plastici
Inesistente Improbabile Prevalentemente
Crisotilo
Gli effetti nocivi per la salute che possono essere con certezza attribuiti all’amianto riguardano l’apparato
respiratorio. Il problema biologico ed in particolare l'effetto oncogeno dell'amianto non risulta subordinato
alla durata ed all'intensità dell'esposizione, pertanto l'effetto non dipende dalla dose alla quale si è stati
esposti, ma dalla natura delle fibre inalate ed alle loro caratteristiche Ai fini dell’inquinamento ambientale,
l’amianto in forma "friabile" è il più pericoloso, perché anche deboli azioni meccaniche sono in grado di
liberare un gran numero di fibre e causare, quindi, forti inquinamenti dell’aria.
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AMIANTO NEGLI EDIFICI
La legge 257/92 [Normative e metodologie tecniche di applicazione dell'art. 6, comma 3, e dell'art. 12,
comma 2, della legge 27 marzo 1992, n. 257, relativa alla cessazione dell'impiego dell'amianto.e il D.M. 6
settembre 1994] prende in esame per la prima volta il problema dell’amianto in tutti gli edifici. Riserva
particolare attenzione ai materiali contenente amianto floccato, cioè quelli applicati a spruzzo o a cazzuola,
in matrice friabile, che si può ridurre in polvere con la semplice azione manuale. Affida alle regioni il
censimento di questi edifici e conferisce ad esse il potere, ove necessario, di predisporre interventi di
bonifica a carico dei proprietari degli immobili. Istituisce un registro degli edifici in cui è presente amianto
friabile, depositato presso le ASL ed un albo delle imprese di bonifica.
Il D.M. 6/9/94 è uno dei disciplinari tecnici emanati in attuazione delle norme previste dalla legge 257/92. In
esso sono contenute normative e metodologie tecniche per la valutazione del rischio, il controllo, la
manutenzione e la bonifica dei materiali contenenti amianto presenti nelle strutture edilizie. Il documento
prende in esame:
• l’ispezione delle strutture edilizie, il campionamento e l’analisi dei materiali sospetti per
l’identificazione dei materiali contenenti amianto
• il processo diagnostico per la valutazione del rischio e la scelta dei provvedimenti necessari per il
contenimento o l’eliminazione del rischio stesso;
• il controllo dei materiali contenenti amianto e le procedure per le attività di custodia e manutenzione
in strutture edilizie contenenti materiali di amianto;
• le misure di sicurezza per gli interventi di bonifica;
• le metodologie tecniche per il campionamento e l’analisi delle fibre aerodisperse.
Il documento fa riferimento a due tipi di indicazioni:
- norme prescrittive che compaiono nel testo in carattere - grassetto; -
- norme indicative , da intendersi come linee guida non prescrittive che vengono indicate nel testo in
carattere - corsivo
AMIANTO NEGLI EDIFICI E NEGLI IMPIANTI ASPETTI GESTIONALI E PROBLEMI
DI BONIFICA
Dove si può trovare l'amianto in un'abitazione?
1. Intonaco
2. Guarnizioni stufe
3. Pannelli
4. Coibentazione tubi
5. Rivestimento camini
6. Elettrodomestici
7. Tubazioni idriche
8. Materiali Isolanti
9. Lastre di copertura
10.Canne fumarie
11.Serbatoi idrici
VALUTAZIONE DEL RISCHIO
Relativamente alla presenza di materiali contenenti amianto negli edifici, e alle relative bonifiche, si riporta
quanto cita il Decreto 6 Settembre 1994 (“Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art.6,
comma 3, e dell’art.12, comma 2, dellaLegge 27 Marzo 1992, n.257, relativa alla cessazione dell’impiego
dell’amianto”):
“La presenza di MCA in un edificio non comporta di per sé un pericolo per la salute degli occupanti.
Se il materiale è in buone condizioni e non viene manomesso, è estremamente improbabile che
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esista un pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di amianto. Se invece il materiale viene
danneggiato per interventi di manutenzione o per vandalismo, siverifica un rilascio di fibre che
costituisce un rischio potenziale. Analogamente se il materiale è in cattive condizioni, ose è
altamente friabile, le vibrazioni dell’edificio, i movimenti di persone o macchine, le correnti d’aria
possono causareil distacco di fibre legate debolmente al resto del materiale”.
La valutazione dei rischi si deve sviluppare attraverso una analisi dello stato in cui si trova il materiale
contenente amianto la cui presenza in un edificio non comporta di per sé un pericolo per la salute degli
occupanti: i rischi dipendono infatti dalla probabilità che il materiale rilasci nell'aria fibre di amianto che
possono essere inalate dagli individui. Se il materiale è in buone condizioni e non viene manomesso, è
estremamente improbabile che esista un pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di amianto. Se invece il
materiale viene danneggiato per interventi di manutenzione o per vandalismo si verifica un rilascio di fibre
che costituisce un rischio potenziale. Analogamente se il materiale è in cattive condizioni, le vibrazioni
dell'edificio, i movimenti di persone o macchine, le correnti d'aria possono causare il distacco di fibre legate
debolmente al resto del materiale. Questo fenomeno si verifica anche per materiali apparentemente in buone
condizioni, ma altamente friabili in cui la forza di coesione tra le fibre è molto scarsa.
Meccanismi fondamentali di rilascio e dispersione delle fibre all'interno di un edificio
FALLOUT
distacco dal materiale friabile, delle fibre legate più debolmente, determinato dalle sollecitazioni a cui è
sottoposto il materiale per i movimenti dell'aria e le vibrazioni delle strutture, per infiltrazioni di acqua, per
una cattiva qualità dell'istallazione o per i naturali fenomeni di invecchiamento. In ogni caso si tratta di un
fenomeno di entità relativamente scarsa, ma costante.
IMPATTO
contatto diretto col materiale con il quale si verifica una dispersione di fibre in occasione di interventi di
manutenzione che interessano direttamente i materiali di amianto o quando lo stesso viene danneggiato per
vandalismo. Spesso l'impatto è accidentale, come nel caso della manutenzione di attrezzature poste nelle
immediate vicinanze In questi casi l'entità del rilascio di fibre dipende dal grado di danneggiamento e dalle
caratteristiche del materiale, in particolare dalla friabilità e dalla forza di coesione e di adesione.
Generalmente l'impatto causa un rilascio di fibre di elevata entità, ma occasionale e di breve durata. Di
conseguenza quello che conta è soprattutto la frequenza di questo tipo di eventi. A tal fine è importante
l'accessibilità del materiale in relazione al tipo di attività che si svolgono nell'edificio. In particolare se il
materiale contenente amianto è facilmente accessibile da parte di tutti gli occupanti dell'edificio, se invece è
accessibile solo nel caso di interventi di manutenzione e con quale frequenza sono effettuati tali interventi.
DISPERSIONE SECONDARIA
consiste nel risollevamento e nella dispersione in aria delle fibre rilasciate in conseguenza del fallout o
dell'impatto. La dispersione secondaria è prodotta dalle attività di pulizia, dal movimento delle persone e
dalla circolazione dell'aria. L'importanza del fenomeno dipende da un lato dalle attività svolte nell'ambiente e
dall'altro dalla capacità del pavimento e delle pareti di trattenere le fibre di amianto . Per le buone
caratteristiche aerodinamiche, le fibre sospese tendono a rimanere in aria per lungo tempo fino a
determinare concentrazioni anche elevate, laddove si verificano rilevanti rilasci di fibre.
Secondo il Decreto del Ministero della Sanità del 6 settembre 1994, relativo all'amianto negli edifici, si
definiscono friabili i materiali che possono essere facilmente sbriciolati o ridotti in polvere con la semplice
pressione manuale, mentre sono considerati compatti i materiali duri che possono essere sbriciolati o
ridotti in polvere solo con l'impiego di attrezzi meccanici. La friabilità dipende dalla tipologia della matrice. I
materiali in matrice cementizia sono duri e compatti e rilasciano fibre con estrema difficoltà; viceversa i
materiali applicati a spruzzo sono estremamente friabili e quindi di gran lunga più pericolosi
La corretta valutazione del rischio amianto richiede, solitamente, l'intervento di tecnici competenti che
possono procedere a:
• esame delle condizioni dell'installazione, al fine di stimare il pericolo di un rilascio di fibre dal
materiale;
• misura della concentrazione delle fibre di amianto aerodisperse all'interno dell'edificio (monitoraggio
ambientale).
In fase di ispezione visiva dell'installazione, devono essere invece attentamente valutati:
• il tipo e le condizioni dei materiali;
33
• i fattori che possono determinare un futuro danneggiamento o degrado;
• i fattori che influenzano la diffusione di fibre ed esposizione degli individui.
In base agli elementi raccolti per la valutazione possono delinearsi tre diversi tipi di situazioni:
a) MATERIALI INTEGRI NON SUSCETTIBILI DI DANNEGGIAMENTO
Sono situazioni nelle quali non esiste pericolo di rilascio di fibre d'amianto in atto o potenziale o di
esposizione degli occupanti, come ad esempio:
• materiali non accessibili per la presenza di un efficace confinamento;
• materiali in buone condizioni, non confinati ma comunque difficilmente accessibili agli occupanti;
• materiali in buone condizioni, accessibili ma difficilmente danneggiabili per le caratteristiche proprie
del materiale (duro e compatto);
• non esposizione degli occupanti in quanto l'amianto si trova in aree non occupate dell'edificio.
In questi casi non è necessario un intervento di bonifica. Occorre, invece, un controllo periodico delle
condizioni dei materiali e il rispetto di idonee procedure per le operazioni di manutenzione e pulizia dello
stabile, al fine di assicurare che le attività quotidiane dell'edificio siano condotte in modo da minimizzare il
rilascio di fibre di amianto.
b) MATERIALI INTEGRI SUSCETTIBILI DI DANNEGGIAMENTO
Sono situazioni nelle quali esiste pericolo di rilascio potenziale di fibre di amianto, come ad esempio:
• materiali in buone condizioni facilmente danneggiabili dagli occupanti;
• materiali in buone condizioni facilmente danneggiabili in occasione di interventi manutentivi;
• materiali in buone condizioni esposti a fattori di deterioramento (vibrazioni, correnti d'aria, ecc.).
In situazioni di questo tipo, in primo luogo, devono essere adottati provvedimenti idonei a scongiurare il
pericolo di danneggiamento e quindi attuare un programma di controllo e manutenzione. Se non è possibile
ridurre significativamente i rischi di danneggiamento dovrà essere preso in considerazione un intervento di
bonifica da attuare a medio termine.
c) MATERIALI DANNEGGIATI
Sono situazioni nelle quali esiste pericolo di rilascio di fibre di amianto con possibile esposizione degli
occupanti, come ad esempio:
• materiali a vista o comunque non confinati, in aree occupate dell'edificio, che si presentino:
• danneggiati per azione degli occupanti o per interventi manutentivi;
• deteriorati per effetto di fattori esterni (vibrazioni, infiltrazioni d'acqua, correnti d'aria, ecc.), deteriorati
per degrado spontaneo;
• materiali danneggiati o deteriorati o materiali friabili in prossimità dei sistemi di ventilazione.
Sono queste le situazioni in cui si determina la necessità di un'azione specifica da attuare in tempi brevi, per
eliminare il rilascio in atto di fibre di amianto nell'ambiente
Le tecniche d’intervento per i possibili provvedimenti possono essere:
IL RESTAURO DI MATERIALI: l'amianto viene lasciato senza effettuare alcun intervento di bonifica, ma si
riparano le zone danneggiate e si eliminano le cause potenziali del danneggiamento. E' applicabile per
materiali in buone condizioni che presentino danneggiamenti di scarsa estensione (inferiori al 10% della
superficie di amianto dell'area interessata). Questo provvedimento viene utilizzato soprattutto per il
rivestimento di tubi e caldaie o per materiali poco danneggiati, che presentino danni circoscritti.
INTERVENTO DI BONIFICA mediante rimozione, incapsulamento o confinamento dell'amianto. La
bonifica può riguardare l'intera installazione o essere circoscritta alle aree dell'edificio o alle zone
dell'installazione in cui si determina un rilascio di fibre.
Dal momento in cui viene rilevata la presenza di materiali contenenti amianto in un edificio, è necessario che
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sia messo in atto un programma di controllo e manutenzione al fine di ridurre al minimo l'esposizione degli
occupanti
I metodi di bonifica che possono essere attuati sono:
• la rimozione o decoibentazione intesa come sostituzione dell'amianto con altro materiale; è il
metodo più utilizzato in quanto elimina il problema alla radice;
• l'incapsulamento che corrisponde al trattamento dell'amianto con prodotti penetranti e ricoprenti
per costituire una pellicola protettiva fra l'ambiente e la superficie esposta; è necessario un
programma di manutenzione e controllo costante in quanto l'amianto rimane nell'edificio;
• il confinamento che consiste nell'installazione di una barriera a tenuta che separi l'amianto dalle
aree occupate dell'edificio. Occorre sempre attivare un programma di controllo e manutenzione in
quanto l'amianto rimane nell'edificio e la barriera installata per il confinamento deve essere
mantenuta in buone condizioni.
Nei metodi di bonifica (al punto 4 del Decreto 6/9/94), viene specificato che gli interventi di ristrutturazione
o demolizione di strutture rivestite di amianto devono sempre essere preceduti dalla rimozione
dell'amianto stesso.
La certificazione della restituibilità di ambienti bonificati
Al termine dei lavori di bonifica, dovranno essere eseguite le operazioni di certificazione di restituibilità degli
ambienti bonificati. Tali operazioni, da eseguirsi a spese del committente, dovranno essere eseguite da
funzionari della ASL competente al fine di assicurare che le aree interessate possano essere rioccupate con
sicurezza.
In genere si distinguono tre fasi di analisi delle fibre d'amianto:
• prima dell’intervento di bonifica, per valutare lo stato dei materiali;
• nel corso dell’intervento, per accertare il contenuto di fibre di amianto aerodisperse ai fini della
salvaguardia della sicurezza dei lavoratori e dell’ambiente circostante;
• alla fine dei lavori, per valutare la restituibilità del sito bonificato
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  • 1. 1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II “ FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA Corso di Laurea in Tecniche della Prevenzione nell’Ambiente e nei Luoghi di Lavoro ECOLOGIA I Docente: Dott. Geol. Giuseppe CIGLIANO Presidente: Prof.ssa Maria TRIASSI
  • 2. 2 Indice Il rischio del patrimonio “ambiente” e “cultura” - Incidenti rilevanti per l’ ambiente - Cernobyl - Aurul - Seveso - La direttiva Seveso - Sicurezza del museo Inquinamento da amianto - Amianto negli edifici - Amianto negli edifici e negli impianti aspetti gestionali e problemi di bonifica - Meccanismi fondamentali di rilascio e dispersione delle fibre all'interno di un edificio - Le tecniche d’intervento per i possibili provvedimenti - Le tecniche d'intervento per i materiali contenenti amianto in matrice compatta - Le tecniche d'intervento per i materiali contenenti amianto in matrice friabile Inquinamento da gas Radon - Generalità - Come entra negli edifici - Metodi tecnici per l’eliminazione del Radon dalle abitazioni - Il Radon in galleria - Il Radon e gli stabilimenti termali - Il Radon in edilizia e nei materiali da costruzione Inquinamento da elettrosmog - Campo elettromagnetico - Spettro elettromagnetico - Le fonti dei campi elettromagnetici - Campi elettromagnetici e radiazione di fondo - Campi elettromagnetici e effetti sulla salute Valutazione dell’esposizione professionale alle radiazioni non ionizzanti Richiami normative Inquinamento indoor - Materiali da costruzione e inquinamento interno - Prodotti chimici e inquinamento interno - Monossido di carbonio - Biossido di Azoto - VOC – Composti Organici Volatili - Formaldeide - Benzene - Idrocarburi Policiclici Aromatici - Ozono - Particolato Aerodisperso
  • 3. 3 - Fumo di Tabacco ambientale - Pesticidi - Legionella Le cause di degrado per l’ambiente e dei beni culturali - La contaminazione chimica, fisica e biologica - Le principali fonti di inquinamento - Definizione degli inquinanti in relazione ai diversi comparti ambientali - Effetti degli inquinanti chimici per l’ambiente e per i beni culturali - Aspetti fisici del deterioramento ambiente e beni culturali - Cenni sulle cause biologiche di degrado - Indagini sperimentali in aree urbane - Deposizioni secche e umide - Problemi ambientali fondamentali Monitoraggio micro- e macro-ambientale - Il sistema “manufatto-ambiente - Il controllo degli ambienti: qualità dell’aria, parametri termoigrometrici, illuminazione - Monitoraggio microclimatico in ambiente confinato - Il rilevamento degli inquinanti atmosferici - La prevenzione - Forme di prevenzione - Sistemi di contenimento - Le problematiche ambientali prioritarie - Cambiamenti climatici ed effetto serra - Distruzione dell’ozono stratosferico - Biodiversità Fondamenti di ecologia delle acque interne - Limnologia - Acque artificiali e minori - Consigli per la sicurezza Introduzione - Sinistrosità - Tutela delle acque - Costruzioni e pericoli - Cantieri Misure protettive - Principi d'arredo e di sicurezza - Acque artificiali e biotopi grandi - Realizzazione terrazzata - Sollevare il fondo - Recinzione - Strato di coltura
  • 4. 4 - Costruzione con rete - Superfici d'acqua gelate Esempi di acque sicure - Introduzione - Rinaturalizzazione / rivitalizzazione nel quartiere - Vasca di filtrazione e ritenzione - Stagno per nuotare nel giardino - Piscina nel giardino - Biotopi e stagni - Botti - Parchi giochi con acque naturali o artificiali - Fontane - Acquedotti per acque correnti - Vasca o conca di infiltrazione Aspetti giuridici - Progettazione, pianificazione e realizzazione - Conseguenze civili e penali - Superfici ghiacciate Scheda di sicurezza per acque naturali e artificiali Contaminazione acqua freatica Fonti di inquinamento dell'acqua freatica Contaminanti dell'acqua freatica Intrusioni di acqua marina in acqua freatica
  • 5. 5 IL RISCHIO DEL PATRIMONIO “AMBIENTE” E “CULTURA” Una delle problematiche fondamentali della attuale società è certamente la questione tecnologica.. Immagini pubblicitarie cariche di tecnologia e le cosiddette nuove tecnologie hanno profondamente modificato lo stile di vita della gente, fin dall’infanzia. Allo stesso tempo, assistiamo a disastri tecnologici quali: inquinamenti delle acque e dei suoli, fughe di gas, intossicazioni per veleni sintetici, contaminazioni radioattive. Questa società, che ha basato tutta la sua fiducia sulla speranza tecnologica si ritrova spesso vittima, come una sorta di boomerang, di effetti negativi spesso non previsti.. Proprio a seguito dell’intervento della tecnologia come conseguenza del crescente “trend” dei bisogni della società e del corrispondente impatto con l’ambiente, si sono verificati, negli ultimi decenni, rilevanti disastri ecologici. Fra i tanti, sembra qui opportuno fare brevemente cenno ad alcuni di essi avvenuti in Europa, esempi emblematici non tanto e non solo in riferimento alla sconvolgente entità del disastro conseguente al fatto in sé, quanto anche alla capacità voluta o inconsapevole (confine alcune volte non del tutto netto e chiaro) da parte dell’uomo di causare tali disastri. Cernobyl Il 25 aprile del 1986 esplode il reattore numero 4 della centrale nucleare di Cernobyl, in Ucraina. Una vasta area geografica rimane contaminata. Le conseguenze della nube radioattiva si fanno sentire in tutta Europa (esempio tangibile dei processi di avvezione, cioè di spostamenti orizzontali di masse d’aria e, quindi, di inquinanti aerodispersi). Attorno a Cernobyl gli effetti delle radiazioni hanno causato, fino ad oggi, la morte di 8.000 persone. La centrale prima dell’ incidente Modalità dell'incidente Il 25 aprile 1986 era programmato lo spegnimento del reattore numero 4 per normali operazioni di manutenzione. Senza scendere in particolari tecnici, questo tipo di reattore ha un’antipatica particolarità: in caso di fusione del nocciolo, cioè se la temperatura sale in modo incontrollato, la grafite inizia reagire con l'acqua di raffreddamento, aggiungendo danno a danno. Si approfittò della recente fermata per manutenzione del reattore per eseguire il test sulla capacità delle turbine di generare elettricità sufficiente per alimentare i sistemi di sicurezza (in particolare le pompe dell'acqua refrigerante) nel caso in cui non fossero alimentati dall'esterno. I reattori come quello di Černobyl' avevano due generatori diesel di emergenza, ma non erano attivabili istantaneamente. Quindi si voleva sfruttare il momento d'inerzia residuo nelle turbine ancora in rotazione, ma disconnesse dal reattore, per garantire, in caso di emergenza, l'erogazione di energia elettrica durante l'intervallo necessario a far partire i generatori diesel di soccorso per alimentare le pompe a regime poi alimentate dai generatori diesel di soccorso.. Il test era già stato condotto su un altro reattore (ma con tutti i sistemi di sicurezza attivi) ed aveva dato esito negativo (cioè l'energia elettrica prodotta dall'inerzia delle turbine era insufficiente ad alimentare le pompe), ma erano state apportate delle migliorie alle turbine, che richiedevano un nuovo test di verifica. La potenza del reattore numero 4 doveva essere ridotta dai normali 3200 MW termici a 1000 MW termici per condurre il test in sicurezza. Tuttavia l'inizio del test fu ritardato di 9 ore, Per realizzare il test il reattore si sarebbe dovuto stabilizzare a circa 1000 MW termici prima di fermarlo ma, a seguito di un errore procedurale (dovuto probabilmente a cattiva taratura degli strumenti), le barre di controllo scesero più del previsto e la potenza del reattore precipitò a circa 30 MW termici, dove l'instabilità diventa dominante In questo momento la turbina era a minima potenza e forniva intorno ai 10 MW elettrici, quantità insufficiente per far funzionare le pompe del sistema di refrigerazione (due, ciascuna delle quali richiedeva una potenza di 5,5 MW elettrici). A questo punto si sarebbe dovuta sospendere la prova e rimettere in funzione i dispositivi di emergenza. Gli operatori confidarono però di poter elevare la potenza a 700 - 1000 MW termici chiudendo i regolatori automatici e passando tutte le barre di controllo ad operazioni manuali (per evitare i sistemi automatici che lo
  • 6. 6 avrebbero impedito). Solo verso l'una del 26 aprile si riuscì a stabilizzare il reattore a circa 200 MW termici e non c'era verso di aumentare questa potenza a seguito dello Xenon che mangiava neutroni. Questa potenza era insufficiente per realizzare l'esperimento. Benché ci fosse una direttiva che richiedeva un minimo di 30 barre di controllo per garantire la sicurezza del reattore, per realizzare il test, si passò ai comandi manuali e furono alzate altre barre di controllo, lasciandone solo 6-8 dentro il nocciolo. Ciò significa che se ci fosse stato un innalzamento di potenza, sarebbero occorsi circa 20 secondi per abbassare tutte le barre di controllo e spegnere il reattore. Nonostante ciò si decise di continuare il test programmato e, per farlo, fu aumentato il flusso di refrigerante (da 56000 a 58000 tonnellate l'ora) mettendo in funzione la pompa principale collegata alla rete elettrica principale (era l'una e 7 minuti), fatto (vietato dalle normative di sicurezza) che provocò una caduta della pressione del vapore e cambi in altri parametri del reattore. Il disinnesto automatico che avrebbe dovuto spegnere il reattore quando fosse scesa la pressione del vapore, risultava escluso. Per aumentare la potenza gli operatori estrassero quasi tutte le barre di controllo che restavano. Il reattore diventò molto instabile e gli operatori tentarono di fare aggiustamenti ogni 5 secondi cercando di mantenere costante la potenza. All'incirca in questo momento gli operatori ridussero il flusso dell'alimentazione di acqua, presumibilmente al fine di mantenere la pressione del vapore. Simultaneamente le pompe che erano alimentate dalla turbina che andava più lenta fornivano meno acqua di raffreddamento al reattore. Si era ora nelle condizioni di fare il test, era l'una 22 minuti e mezzo. Ogni indicazione da manuale indicava che il reattore doveva essere spento immediatamente. Iniziò il test. La potenza del reattore si trovava ad un 12% del valore approssimativamente necessario a portare alla massima velocità di rotazione il turbogeneratore ed eravamo in queste condizioni a seguito della caduta di pressione cui accennavo. All'una 23 minuti e 4 secondi vennero chiuse le valvole regolatrici di emergenza del turbogeneratore numero 8, con ciò scollegando la turbina dal vapore. Il piano della prova prevedeva a questo punto che quattro pompe restassero in funzione con il turbogeneratore in rallentamento. E' però difficile capire come si fosse pensata una cosa del genere. Se ogni pompa necessita 5,5 MW (e come minimo 4,3 MW) e se erano in funzione altre due pompe in totale sarebbero occorsi almeno una trentina di megawatt ed il turbogenratore stava fornendo circa 60 MW elettrici (e non i circa 250 previsti nel progetto originale della prova che avrebbero permesso il funzionamento delle pompe per almeno 50 secondi). Una volta iniziata la prova il turbogeneratore iniziò a decelerare. Anche il suo rendimento elettrico iniziò a scendere notevolmente. Quando il flusso di vapore cessò di arrivare alla turbina in un momento di tale instabilità (nel medesimo tempo in cui diminuiva il flusso dell'acqua in circolo), lo stesso vapore restò nel nucleo e formò rapidamente delle bolle dentro di esso. La potenza del reattore cominciò a crescere piano piano. Le bolle di vapore non sono refrigeranti di modo che gli elementi di combustibile iniziarono a surriscaldarsi. Crebbero le bolle e con esse la temperatura del nocciolo e la pressione del vapore. Diminuiva il flusso totale dell'acqua di refrigerazione perché 4 delle 8 pompe che la facevano circolare erano, come accennato, sottoalimentate a seguito della decelerazione del turbogeneratore. Ma la diminuzione dell'acqua di raffreddamento aumentò la condizione di instabilità del reattore aumentando la produzione di vapore nei canali di raffreddamento. Quando la potenza iniziò ad aumentare visibilmente, gli operatori si resero conto che era iniziata l'emergenza. All'una 23 minuti e 40 secondi iniziarono a suonare le sirene di allarme per emergenza grave al reattore. Solo 36 secondi dall'inizio della prova ... già troppo tardi. Tutte le barre di controllo si trovavano alzate ed il segnale di allarme avrebbe dovuto farle abbassare automaticamente, anche se la lentezza, alla quale ho già accennato, nel moto di esse avrebbe potuto abbassare la potenza di un 5% al secondo. Non bastava! Ci si rese in seguito conto di un grave errore nel progetto delle barre di controllo, errore probabilmente alla base della prima esplosione. Le barre di controllo di boro terminavano con cilindri di alluminio di 4, 5 metri di lunghezza, pieni di grafite incorporata. I cilindri di grafite giocavano un doppio ruolo: aiutavano i blocchi di grafite del reattore, attuando come ulteriori moderatori, e deviavano l'acqua dei canali di controllo quando si facevano discendere le barre. Il disegno era tale (cilindri troppo corti e situati nella sezione centrale del nucleo del reattore) che, appena dato il comando di discesa delle barre, si aveva un aumento iniziale della reattività nella parte inferiore del nucleo del reattore per i primi 4 secondi ed in quel frangente questi 4 secondi furono probabilmente fatali. Nella situazione instabile in cui ci si trovava e considerando le elevatissime temperature che si stavano producendo, i terminali di grafite, nel discendere, fusero gli elementi di combustibile che si trovavano nella parte inferiore del nucleo, provocando la distruzione locale di ogni geometria. La potenza continuò ad aumentare spettacolarmente: in soli 3 secondi era arrivata a 530 MW. Gli operatori non furono in grado di prevenire questo eccezionale aumento, stimato in 100 volte la potenza nominale di uscita nei 4 secondi successivi (01:23:44). Le barre in discesa si bloccarono a metà strada, dopo che si udirono una serie di colpi. L'operatore si rese conto che si erano bloccate a metà cammino e tolse la corrente al servomeccanismo, in modo che le barre potessero cadere per gravità. Niente. Il disegno sbagliato, la forte pressione e l'elevatissima temperatura avevano distrutto i canali nei quali
  • 7. 7 scivolavano le barre. La reazione a catena andava avanti senza essere moderata o refrigerata con la conseguenza che la temperatura del nucleo e la pressione del vapore continuavano ad aumentare insieme alla distruzione di ogni geometria fondamentale per i controlli. Una ricostruzione al computer dell'incidente dice che a questo punto gli elementi di combustibile si andavano rompendo provocando un aumento rapido della pressione del vapore nei canali che contenevano il combustibile stesso con la conseguente distruzione dei medesimi. A questo punto l'acqua di refrigerazione non aveva più dove circolare liberamente ma solo attraverso pezzi di combustibile rotti e surriscaldati. Piccole parti di combustibile ad alta temperatura, reagendo con l'acqua, provocarono una potente esplosione del vapore che distrusse il nocciolo della centrale. Era l'una e 24 secondi, 20 secondi dopo l'inizio dell'emergenza. L'esplosione danneggiò il tetto e fece sollevare il coperchio monoblocco di acciaio della centrale, del peso di circa 2000 tonnellate. Per maggiore disgrazia, nel ricadere, questo coperchio si adagiò di fianco incastrandosi tra le opere murarie e nei suoi violenti spostamenti strappò cavi e varie tubature provocando svariati danni, ormai a catena. Passarono solo 2 o 3 secondi e seguì una seconda esplosione, molto più violenta. Questa volta era l'idrogeno il responsabile, idrogeno prodotto dalla reazione ad alta temperatura tra vapore e zirconio (il materiale che faceva da camicia ai tubi che contenevano le barre) e tra vapore e grafite incandescente (che produce idrogeno ed ossigeno). Tale idrogeno si era probabilmente accumulato localmente negli spazi del nocciolo liberi o liberati. Testimoni all'esterno della centrale hanno visto scagliati all'aria pezzi in fiamme che, nel ricadere, estendevano l'incendio al corpo della centrale stessa. Circa il 25% dei blocchi di grafite fu sparato all'aria in fiamme. Furono scagliati lontano anche pezzi di elementi di combustibile, parti del nocciolo e delle strutture portanti. Le spaccature nel tetto fecero da effetto camino con l'estensione ulteriore dell'incendio. Questo fu l'inizio della catastrofe. Il pennacchio di fumi, contenenti isotopi radioattivi, si alzò per oltre un chilometro sopra la centrale. I componenti pesanti di questi fumi ricaddero più o meno nelle vicinanze della centrale, ma i componenti leggeri, i gas, iniziarono la loro marcia per l'Europa iniziando dal Nord-Est della centrale, dove i venti prevalenti spingevano . Sparito il refrigerante, sparito ogni controllo, finita la geometria del reattore, in qualche parte proseguiva la reazione a catena perché vi era Uranio 235 ed un moderatore (grafite) ancora efficienti (la cosa non sarebbe accaduta in un VVER o PWR perché la perdita del refrigerante avrebbe coinciso con la perdita del moderatore). Saliva la temperatura ed il nocciolo stava fondendo in una massa unica nella quale proseguiva e sarebbe proseguita per molto tempo la reazione a catena. Il nocciolo intanto penetrava nel suolo per oltre 4 metri. Ormai c'era solo da tentare qualche operazione che alleviasse il completo disastro. Oltre cento incendi erano scoppiati nelle adiacenze della centrale. Occorreva fermarli, spegnere la grafite. Non si dimentichi che, a lato dell'Unità 4 vi erano altri 3 reattori funzionanti e che una estensione del disastro sarebbe stata un'apocalisse. Inoltre tutti sapevano che non si aveva a che fare con semplici esplosioni di natura chimica: ora ad esse si sarebbe accompagnata una radioattività incontrollabile e disastrosa. Negli elementi di combustibile dei 4 reattori vi erano oltre 3000 Kg di plutonio e 700 tonnellate di Uranio ed una infinita di isotopi radioattivi ottenuti come prodotti di fissione delle successive reazioni nucleari. Nessuno sapeva bene come impedire o arginare la catastrofe. Centinaia di pompieri intervenuti dalla vicina Pripyat si sacrificarono, essendo esposti per primi ad enormi dosi di radioattività, per tentare lo spegnimento degli incendi (tra l'altro questi uomini intervennero con attrezzature del tutto inadeguate: non avevano vestiti speciali che li coprissero completamente, non avevano maschere con filtri efficienti, non avevano dosimetri adeguati, ...).
  • 8. 8 Pripyat: oggi è una città fantasma cronologia degli eventi che causarono l'incidente. 25 aprile, ore 01,00 - La potenza del reattore viene diminuita per consentire un esperimento. 25 aprile, ore 14,00 - Il sistema di raffreddamento del nocciolo di emergenza viene disinnestato, violando così i principi di sicurezza. 25 aprile, ore 23,00 - La potenza del reattore scende a 700 mw. 26 aprile, ore 00,28 - Un errore dell'operatore fa scendere troppo la potenza, fino a 30 mw. Il reattore si trova in condizione di instabilità. 26 aprile, ore 01,23,04 - L'operatore chiude la valvola di emergenza verso la turbina, l'ultimo sistema di emergenza che altrimenti avrebbe salvato il reattore. 26 aprile, ore 01,23,31 - La reattività del nocciolo comincia a crescere. Le barre di controllo non riescono più a bilanciarne l'aumento. 26 aprile, ore 01,23,43 - La temperatura del nocciolo aumenta in maniera irreversibile. 26 aprile, ore 01,23,44 - In 40 secondi la potenza del reattore è cresciuta da 200 a 100.000 mw. Il reattore esplode. 26 aprile, ore 01,23,45 - L'esplosione distrugge la parte alta delle pareti e il tetto dell'edificio. . La centrale dopo dell’ incidente
  • 9. 9 Considerazioni C'è da tener conto bene delle date: il 25 aprile era venerdì e l'1 e 2 maggio sono feste nazionali. Con un paio di giorni da giocare è possibile fare un ponte lungo e certamente varie persone lo hanno fatto e probabilmente quelle più elevate in grado e quindi più esperte. Vi è da osservare che l'esperimento andava ad iniziare con 10 ore di ritardo rispetto a quanto programmato, con turno di lavoro di personale differente da quanto in programmazione e quindi con tecnici impreparati ad affrontare eventuali problemi; Questo per un una sperimentazione da effettuare con i sistemi automatici di sicurezza esclusi e quindi con reattore da condurre solo in maniera manuale Aurul Nella notte fra il 30 e il 31 gennaio 2000, da una breccia apertasi nel rilevato arginale del bacino per sterili, deputato a raccogliere il cianuro usato per separare oro e argento dalle scorie di altri materiali,della miniera Aurul, presso la città di Baia Mare (distretto di Maramures), causò il riversamento di circa 100.000 metri cubi di acqua e fanghi ricchi di cianuro nel sistema fluviale circostante. Si è valutato che un quantitativo di 50-100 tonnellate di cianuro di sodio si sia diffuso nei fiumi Somes, Tibisco e Danubio per poi raggiungere il Mar Nero. La società Aurul S.A. è una compagnia per azioni di proprietà congiunta dell'australiana "Esmeralda Exploration Ltd." e della romena "Compania Nationala a Metalelor Pretiosasi si Neferoase", fondata nel 1992. Questa compagnia tratta sterili solidi provenienti da precedenti processi minerari per recuperare metalli preziosi, in particolare oro e argento. Nel 1997, dopo avere ricevuto l'autorizzazione necessaria da parte del Ministero dell'Ambiente, si diede inizio alla costruzione di un nuovo impianto che fu completato nel 1999 presso Baia Mare. Nello stesso anno, in seguito alla presentazione di una valutazione di impatto ambientale, venne messo al servizio del nuovo impianto di trattamento minerario un vecchio bacino di decantazione per sterili di miniera costruito 30 anni prima (bacino di Meda) in prossimità di un'area residenziale. L'incidente fu descritto dalla stessa Aurul S.A. nel modo seguente: in seguito a condizioni meteorologiche estreme (ghiaccio e neve sulla superficie dell'invaso, elevate precipitazioni di 36 litri/m2), gli sterili che costituivano l'argine interno del rilevato si impregnarono d'acqua, compromettendo la stabilità dello stesso argine. In un primo tempo si verificò la tracimazione della parte sommitale del rilevato che, in breve, portò all'apertura di una vera e propria falla lunga circa 23 m. Attraverso questa breccia oltre 100.000 metri cubi di acque ricche di cianuro fuoriuscirono dall'invaso prima che si potesse intervenire. LE FASI DELL'INCIDENTE • Rottura della sommità dell'argine in seguito a tracimazione causata da piogge torrenziali e scioglimento di neve; • Fuoriuscita di circa 100.000 metri cubi di acque e fanghi altamente contaminati da cianuro e metalli pesanti; • Grave inquinamento dei fiumi Somes e Tibisco; • Contaminazione dell'acqua potabile in 24 località diverse e fermo dell'erogazione per 2,5 milioni di persone; • Massiccia moria di pesci e distruzione di diverse specie acquatiche in tutto il bacino del Tibisco; • Gravissimo impatto sulla biodiversità, gli ecosistemi fluviali, l'erogazione di acqua potabile e le condizioni socioeconomiche della popolazione; • Elevati costi degli interventi di decontaminazione. Tentativi di contenimento dell'ondata inquinante in Romania.
  • 10. 10 POSSIBILI CAUSE DEL DISASTRO La falla nell'argine del bacino fu probabilmente causata da una combinazione di inadeguatezze intrinseche nel progetto e nella realizzazione dell'opera, di condizioni operative non previste e di una situazione meteorologica particolarmente avversa. I bacini di decantazione al servizio di miniere attive sono in continuo accrescimento man mano che nuovo materiale solido di scarto si rende disponibile per l'innalzamento dell'invaso, che deve ospitare volumi sempre crescenti di acqua e di fanghi oltre gli afflussi diretti delle precipitazioni. A parte i doverosi controlli riguardanti il livello dell'acqua nell'invaso durante precipitazioni intense, la sicurezza degli argini dipende dal costante equilibrio fra l'altezza del rilevato e il livello dell'acqua nell'invaso. Nel caso del bacino di Aurul a Baia Mare, gli argini crescevano invece più lentamente del progressivo aumento del livello dell'acqua per cui si è determinata una condizione di "acqua alta", molto pericolosa per la stabilità di queste strutture geotecniche. Mancavano inoltre le comuni attrezzature di cantiere - quali pompe - per fare fronte a imprevisti afflussi di acqua nel bacino. Le sfavorevoli condizioni climatiche hanno ulteriormente aggravato la situazione determinando un aumento incontrollato dell'afflusso di acqua e, infine, la sua tracimazione al di sopra dell'argine. La compagnia fece fronte all'incidente riparando la falla con materiali inerti disponibili in zona e immettendo ipoclorito di sodio all'interno del bacino e nell'area interessata dalla tracimazione per neutralizzare il cianuro. Ciò nonostante, una gran quantità di effluenti altamente contaminati riuscì a fuoriuscire prima che la falla potesse essere riparata. Secondo le norme del Ministero romeno dei Lavori Pubblici riguardanti gli standard costruttivi, l'impianto e l'annesso invaso erano classificati di "importanza normale", vale a dire non richiedevano l'obbligo di effettuare specifiche attività di sorveglianza e monitoraggio. Pertanto, dal punto di vista delle autorità competenti, l'impianto aveva ricevuto tutte le autorizzazioni necessarie per essere pienamente operativo. L'analisi dei dati raccolti e delle perizie post-disastro inducono a ritenere che questo incidente sia stato causato da una serie di fattori, fra i quali: • inadeguatezze del progetto dell'intero sistema (condizioni di stabilità degli invasi per sterili e processi di trattamento del cianuro) della miniera Aurul, specialmente per quanto concerne le misure di sicurezza in caso di condizioni operative anomale; • termini di concessione dell'impianto incompleti e inappropriati, sistemi di monitoraggio e di ispezione inadeguati; • carenze manutentive nella gestione dell'impianto, soprattutto contro i rischi di straripamento e riversamento, e in termini di risposta efficiente in caso di emergenza. Considerazioni L’incidente sarebbe stato probabilmente di entità molto più ridotta se fossero state costruite le cosidette “Overflow Pons”, vasche appositamente progettate per accogliere le soluzioni in caso di drenaggio molto spinto da parte delle acque meteoriche. Sono disastri questi che colpiscono irrimediabilmente anche tenendo presente i conseguenti effetti che possono riscontrarsi nel corso del tempo impoverendo l’umanità ed il patrimonio ambientale. - Seveso Poiché la temperatura interna dell’impianto supera i 350, la fuoriuscita dalle valvole di sicurezza è non soltanto di triclorofenolo, con la sua quota inquinante “normale” di tetraclorodibenzodiossina, ma anche di una quantità di TCDD di molto superiore a quella che si sarebbe prodotta a temperatura inferiore ai 350°. L a nube, sospinta dal vento, si sparge sui terreni vicini per un’estensione di 18 milioni di m 2 , coinvolgendo una popolazione di 22.000 persone. La città di Seveso, e alcuni paesi limitrofi della Brianza, furono contaminati da una nube di diossina sollevatasi dopo l’esplosione dello stabilimento chimico. Simbolo di quell’incidente (segnato dall’evacuazione della popolazione, da lunghe e costose operazioni di bonifica dei terreni e da effetti sulla salute ancora oggi in fase di studio) fu l’immagine
  • 11. 11 di bambini con il volto deturpato dalla cloracne (formazione di pustole di difficile cicatrizzazione. Direttiva Seveso Il "caso Seveso" ha portato la Comunità Europea ad emanare nel 1982 una specifica direttiva denominata Direttiva Seveso (Direttiva 82/501). L'Italia recepì tale emendamento con il DPR 175/88. Naturalmente, periodicamente ci sono aggiornamenti e perfezionamenti di questo emendamento attraverso successivi decreti ministeriali attuativi, alcuni decreti legge, la Legge n. 137/97. Infine, c’è da sottolineare che il Consiglio dell’UE ha recentemente sostituito la Direttiva Seveso con una nuova direttiva, la 96/82/CE, o "Seveso 2", che ha aggiornato la 82/501. Alcuni aspetti sono anche coperti dal D.Lgs. 626/94. La direttiva stabilisce inoltre che in presenza di molte industrie a rischio incidente, l’analisi del rischio ed il piano di intervento debba essere complessivo e, per la prima volta, si prende in esame anche il rischio di un effetto domino. Proprio questa considerazione ha fatto sì che si decidesse che stabilimenti prossimi tra loro dovranno consorziarsi in merito ai piani di emergenza, con grande considerazione per l'urbanizzazione nei pressi dei centri industriali. Come già detto in precedenza, oggi è molto più difficile, soprattutto in Paesi industrializzati come il nostro, che avvengano nuovi incidenti così gravi e drammatici (con una nota polemica, si può dire anche a causa del progressivo declino della grande industria chimica italiana avvenuta negli ultimi anni per vari e svariati motivi). Oggi, le aziende hanno tutto l'interesse ha tutelarsi e controllare le loro azioni in materia di sicurezza. Parallelamente, si può dire che si è sviluppata una nuova industria, quella che comprende i vari Enti Pubblici e/o Privati, Agenzie Nazionali (ANPA) o locali (ARPA) che sono preposte e sempre più specializzate nel monitorare e controllare le emissioni e l'attività delle Aziende considerate a rischio (ovvero aziende che manipolano sostanze tossiche e/o pericolose in generale). Disposizioni della direttiva • il censimento degli stabilimenti a rischio, con identificazione delle sostanze pericolose • l'esistenza in ogni stabilimento a rischio di un piano di prevenzione e di un piano di emergenza • la cooperazione tra i gestori per limitare l'effetto domino • il controllo dell'urbanizzazione attorno ai siti a rischio • l'informazione degli abitanti delle zone limitrofe • l'esistenza di un'autorità preposta all'ispezione dei siti a rischio Gli elementi caratterizzanti un’industria a rischio di incidente rilevante ai sensi della direttiva sono: l’uso di sostanze pericolose, in quantità tale da superare determinate soglie,quali: sostanze tossiche (composti chimici che provocano danni all’organismo umano quando sono inalati, ingeriti o assorbiti per via cutanea); • sostanze infiammabili (possono liberare grandi quantità di energia termica); • sostanze esplosive (possono liberare grandi quantità di energia dinamica); • sostanze comburenti (hanno reazione fortemente esotermica a contatto con altre sostanze, in particolare con sostanze infiammabili);
  • 12. 12 la possibilità di evoluzione non controllata di un’attività industriale con conseguente pericolo grave, immediato o differito sia per l’uomo all’interno o all’esterno dello stabilimento sia per l’ambiente circostante a causa di: • emissione di sostanze tossiche; • incendio; • esplosione. La direttiva Seveso è stata recepita in Italia sei anni dopo la sua emanazione, con il decreto del Presidente della Repubblica del 17 maggio 1988, n. 175 “Attuazione della direttiva CEE n.501 del 24 giugno 1982 relativa ai rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attività industriali”, in seguito modificato e integrato da diverse disposizioni normative e di carattere tecnico applicativo fino alla Legge n.137 del 19 maggio 1997 “Sanatoria dei decreti legge recanti modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 17 maggio 1988 n.175, relativo ai rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attività industriali”. Il D.P.R. 175/88 distingueva gli impianti a rischio in due tipologie in base al grado di pericolosità: stabilimenti sottoposti a notifica (art. 4) ed a dichiarazione (art 6). La situazione attuale: la direttiva Seveso bis La direttiva Seveso, dopo quattordici anni di esperienze maturate anche alla luce dei diversi recepimenti degli stati membri della Comunità Europea, si è evoluta nella direttiva 96/82/CEE detta “Seveso bis”, tesa ad integrare la normativa sui grandi rischi con le più moderne conoscenze tecniche del settore. In Italia la direttiva Seveso bis è stata recepita con il D.Lgs 334/99, che è divenuta la nuova legge quadro in materia di rischio industriale, e che introduce dei sostanziali cambiamenti rispetto la legislazione precedente: • lo stabilimento è controllato nel suo complesso, anziché con riferimento ad ogni singolo impianto/deposito, in relazione alla possibile presenza di quantitativi massimi di sostanze classificate come pericolose, uguali e superiori alle quantità di soglia indicate negli specifici allegati del decreto, a prescindere dalla loro eventuale ripartizione in impianti produttori o utilizzatori, nonché in unità di deposito o stoccaggio; • la creazione di un sistema teso alla realizzazione/applicazione di un’efficace politica di prevenzione degli incidenti rilevanti. A tal fine il decreto prevede che il gestore dello stabilimento provveda ad organizzare, realizzare e rispettare un sistema di gestione della sicurezza che, integrato nella gestione generale dell’azienda, faccia sì che ogni possibile evento incidentale che si configuri all’interno dello stabilimento possa essere affrontato, gestito e quindi posto efficacemente sotto controllo; • il decreto sottolinea la necessità di considerare la prevenzione degli incidenti rilevanti durante la pianificazione della destinazione e dell’utilizzo dei suoli e della loro urbanizzazione, sia a breve sia a lungo termine, con uno specifico riguardo per quei territori particolarmente sensibili, prevedendo linee di sviluppo che concilino le esigenze degli stabilimenti già esistenti con lo sviluppo industriale e urbano dei territori circostanti; • nell’ottica di una maggior integrazione della matrice industriale con il territorio circostante, il decreto indica una serie di informazioni minime di cui il cittadino debba essere messo al corrente per poter poi esprimere un parere che apporti un costruttivo contributo nell’elaborazione di progetti finalizzati; • il decreto prevede altresì che il gestore possa esercitare il proprio diritto al segreto industriale o alla tutela delle informazioni di carattere commerciale, personale o che si riferiscano alla pubblica sicurezza, ma deve comunque fornire alla popolazione informazioni organizzate e messe a disposizione del pubblico previo controllo delle autorità competenti, in una forma ridotta ma che consenta tuttavia la conoscenza delle eventuali problematiche. Il D.Lgs 334/99 prevede 3 differenti tipologie di adempimenti cui le aziende possono essere soggette: Relazione semplice: prevista dall’art. 5 comma 3 del D.lgs. 334/99, è un documento contenente le informazioni relative al processo produttivo, alle sostanze pericolose presenti, alla valutazione dei rischi di incidente rilevante all’adozione di misure di sicurezza appropriate, all’informazione, formazione, addestramento ed equipaggiamento dei lavoratori. Notifica: prevista dall’art. 6 del D.lgs. 334/99 è un documento sottoscritto nelle forme dell’autocertificazione contenente informazioni amministrative riguardo allo stabilimento e il gestore, notizie che consentono di
  • 13. 13 individuare le sostanze pericolose, la loro quantità e la loro forma fisica, notizie riguardo all’ambiente circostante lo stabilimento e in particolare elementi che potrebbero causare un incidente rilevante o aggravarne le conseguenze. Rapporto di sicurezza: prevista dall’art. 8 del D.lgs. 334/99 è un documento che deve contenere notizie riguardo all’adozione del Sistema di Gestione della Sicurezza, i pericoli di incidente rilevante, le misure necessarie a prevenirli e a limitarne le conseguenze per l’uomo e per l’ambiente, la progettazione, la costruzione, l’esercizio e la manutenzione di qualsiasi impianto, i piani di emergenze interni e gli elementi utili per l’elaborazione del piano di emergenza esterno. SICUREZZA DEL MUSEO Fonte: MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI Atto di indirizzo sui criteri tecnico –scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei ( art 150 comma 6 D.L. n. 112/1998 ) AMBITO V Premessa Nell’ambito dei beni culturali sono presenti diverse problematiche inerenti la salvaguardia degli edifici e del loro contenuto, ma anche la sicurezza degli occupanti (frequentatori ed addetti), in buona sostanza ciò che usualmente è individuato con i termini inglesi di security e di safety. Tali problematiche assumono di volta in volta la denominazione di conservazione, tutela, restauro, sicurezza sul lavoro, sicurezza antincendio, ecc., coinvolgendo aspetti di ordine ambientale, strutturale, di uso, anticrimine e antincendio. Si tratta di materie molto complesse ed anche tra loro molto diverse che rischiano talvolta di entrare in rotta di collisione, se non affrontate in maniera coordinata ed organica. Inoltre, quando si considerano insediamenti ed edifici realizzati in un arco temporale misurabile in secoli, non modificabili con interventi strutturali ed impiantistici invasivi, non si possono prescrivere soluzioni deterministico–prescrittive valide per tutte le situazioni. Un approccio culturale, prima ancora che regolamentare, è quello che riguarda la sicurezza, nella più ampia eccezione del termine. È un approccio pragmatico integrato che, fissati gli irrinunciabili requisiti essenziali che i contenitori museali devono garantire e gli obiettivi che, a fronte di ciascun requisito, devono essere soddisfatti, si basa su una analisi del rischio mirata ed una conseguente strategia di sicurezza che comprende misure preventive, protettive ed organizzative capaci di perseguire quegli obiettivi, anche in occasione delle emergenze correlate alle situazioni di rischio considerate. L’analisi del rischio parte dalla raccolta organica ed uniforme di tutti i dati relativi ai singoli pericoli, alle corrispondenti vulnerabilità ed anche ai relativi fattori di esposizione che concorrono in stretta sinergia alla determinazione dei singoli rischi in termini sia qualitativi che quantitativi. La definizione della strategia di sicurezza parte dalla conoscenza di tali dati e delle singole realtà costruite, poiché solo attraverso una corretta e coerente rappresentazione dell’oggetto dell’analisi possono essere progettati in modo mirato misure preventive, di compensazione e di mitigazione dei rischi. Con tale approccio l’acritica cultura dell’adempimento viene sostituita da una cultura basata sugli obiettivi da raggiungere in concreto, caso per caso e, in conformità con le più recenti Direttive comunitarie ed i Disposti legislativi di recepimento nazionali riguardanti materie riconducibili alla sicurezza, le linee di responsabilità nei confronti del rischio all’interno delle realtà nelle quali esso è presente non si affidano a prescrizioni che provengono dall’esterno, ma vengono bensì ricondotte non solo e non tanto in capo a singole figure giuridiche, ma anche e soprattutto alla organizzazione nel suo insieme ed alle sue regole strategiche ed operative per il perseguimento degli obiettivi di sicurezza. Si tratta di un approccio che non esclude il rischio, sempre connesso con qualsivoglia attività umana, ma tende a renderlo minimo nella sua residualità, compatibile con la vulnerabilità del “contenitore” e del “contenuto”, in grado di garantire una accettabile sicurezza anche in condizioni di emergenza.
  • 14. 14 Il museo deve garantire la sicurezza ambientale, la sicurezza strutturale, la sicurezza nell’uso, la sicurezza anticrimine la sicurezza in caso di incendio, e considerando i problemi della sicurezza in modo mirato ed integrato. Il museo deve tendere a: • mitigare le azioni che l’ecosistema territoriale può provocare, attraverso interventi di analisi, monitoraggio e bonifica • tutelare, conservare e consolidare il contenitore delle collezioni nei confronti delle suddette azioni • tutelare e conservare le sue collezioni, anche in condizioni di emergenza • garantire la sicurezza del personale e dei visitatori, anche in condizioni di emergenza • garantire la sicurezza dei soccorritori in condizioni di emergenza Il museo è tenuto ad assicurare che le strutture siano conformi alle disposizioni di carattere cogente (standard legislativi), ad attuare interventi finalizzati a rendere le strutture atte a soddisfare i requisiti essenziali (standard normativi) ed a prevedere tutte le misure preventive, di protezione attiva e passiva e organizzative per dare adeguata confidenza sul mantenimento nel tempo delle condizioni di sicurezza (strategia di sicurezza). Allo scopo esso è tenuto ad effettuare una analisi dei rischi atta a commisurare la strategia di sicurezza alla specifica realtà, anche attraverso il ricorso a misure di sicurezza equivalenti. Ambito V SICUREZZA DEL MUSEO 1. Le finalità di un sistema di sicurezza Le finalità primarie che ogni intervento finalizzato alla sicurezza deve prendere a riferimento in modo mirato e soprattutto integrato sono: – Mitigazione delle “azioni” presenti nel contesto dell’ecosistema territoriale nel quale si trovano gli insediamenti e gli edifici, anche attraverso interventi di analisi, monitoraggio e bonifica; – Tutela, conservazione, consolidamento degli insediamenti e degli edifici (“contenitori”) anche nei confronti delle “azioni” di cui al punto precedente; – Tutela, conservazione del “contenuto” degli insediamenti e degli edifici anche in condizioni di emergenza; – Sicurezza degli “occupanti” (frequentatori ed addetti) anche in condizioni di emergenza; – Sicurezza dei soccorritori in condizioni di emergenza. 2. I requisiti essenziali di un insediamento I requisiti essenziali che gli insediamenti e gli edifici, contenitori di “beni e attività culturali” devono garantire, possono utilmente essere così schematizzati: – Sicurezza ambientale – Sicurezza strutturale – Sicurezza nell’uso – Sicurezza anticrimine – Sicurezza in caso d’incendio 2.1. Sicurezza ambientale Nell’ambito della sicurezza ambientale si considerano le “azioni” che l’ecosistema può esercitare sull’insediamento, sugli edifici e sulle sovrastrutture del sistema considerato. Tra queste si segnalano: – Sismicità
  • 15. 15 – Subsidenza – Vulcanesimo – Bradisismo – Dissesti idrogeologici – Presenza di falde superficiali – Agenti meteo–marini – Ceraunicità [densità di fulminazione al suolo (Ground flash density - Ng) ] – Inquinamento atmosferico – Inquinamento elettromagnetico – Degrado urbanistico – Effetti “domino” dovuti a insediamenti e infrastrutture al contorno – Traffico – Altri. A fronte dei suddetti pericoli, occorrerà verificare l’adeguatezza dell’insediamento e delle strutture ad esso connesse e, ove necessario, predisporre adeguati piani di intervento per la messa in sicurezza, il consolidamento, la protezione, ecc. In ogni caso occorrerà che per ognuna delle “azioni” prese in considerazione sia garantita l’esistenza di un capitolo dedicato alla pianificazione delle emergenze per la messa in sicurezza dei beni culturali mobili presenti nell’insediamento anche in condizioni di emergenza. 2.2. Sicurezza strutturale Con l’espressione sicurezza strutturale si vuole intendere la stabilità degli edifici e delle strutture nei confronti di qualsivoglia “azione” comprese quelle ambientali di cui al precedente punto. Tra queste si segnalano: – Vetustà – Deficienze strutturali – Deficienze nella manutenzione – Azioni conseguenti al sisma – Azioni conseguenti a dissesti idrogeologici – Azioni conseguenti a dissesti meteorologici – Sovraccarichi statici e dinamici – Cantieri, sbancamenti e simili – Vibrazioni – Altri. A fronte delle suddette azioni, occorrerà verificare l’idoneità statica delle strutture e, ove necessario, predisporre un progetto di adeguamento e/o miglioramento. 2.3. Sicurezza nell’uso Si tratta delle numerose problematiche connesse con la destinazione d’uso e le connesse modalità di fruizione degli insediamenti e degli immobili.
  • 16. 16 E’ questo il requisito essenziale che investe tutti quegli aspetti della sicurezza che sono in genere regolamentati da Direttive europee e da disposizioni legislative nazionali di più o meno recente emanazione e che non sempre trovano facile composizione per via della natura degli insediamenti e degli edifici, ma che in ogni caso devono essere rispettate. Le problematiche emergenti sono: – Compatibilità delle destinazione d’uso generale e specifica – Fruibilità da parte di grandi masse (affollamento, gestione dei flussi, etc.) – Barriere architettoniche – Infortuni sul lavoro e malattie professionali – Agenti nocivi (fisici, chimici, biologici) – Microclima – Illuminazione – Rumore – Contenimento energetico – Impianti tecnologici di servizio: impianti elettrici impianti termici impianti per la movimentazione interna (elevatori, etc.) impianti distribuzione gas combustibili e gas tecnici impianti condizionamento impianti idrico – sanitari – Impianti e sistemi di protezione attiva – Impianti per le comunicazioni interne – Impianti e sistemi bus * – Macchine, apparecchiature, attrezzature – Lavorazioni – Cantieri – Servizi aggiuntivi: cucine ristoranti bar bookshop guardaroba nursery altri – Manifestazioni occasionali – Aree a rischio specifico – Rifiuti solidi urbani e tossico–nocivi – Inquinamento acqua, aria, suolo – Altre. Particolare attenzione andrà rivolta all’eliminazione delle barriere architettoniche, oltre che per ovvi motivi di fruibilità, anche per l’importante aspetto legato alla eventuale evacuazione in caso di emergenza. *sistemi bus La tecnologia che oggi permette la realizzazione di un sistema domotico completo è costituita dai "sistemi bus". Per bus si intende una linea dati che collega i diversi dispositivi del sistema domotico e che trasmette tutte le informazioni di controllo. Possiamo pensare al sistema domotico come ad una rete di computer: i diversi dispositivi presenti nella casa sono come i nodi (i computer) della rete, il bus è il cavo che li collega e che permette la circolazione dell'informazione nel sistema. Nei sistemi bus il comando di attivazione di un componente, ad esempio l'accensione della luce (v. fig.1), non avviene in modo diretto, attraverso un filo elettrico che collega l'interruttore con la lampada, ma è controllato dal bus: il dispositivo di input (l'interruttore) invia un segnale nella rete, cioè nella linea dati del bus, che lo ritrasmette al dispositivo di output (la lampada).
  • 17. 17 Solo a prima vista il risultato non cambia: "premo l'interruttore e la lampada si accende". La differenza fondamentale, però, è legata al fatto che in questo modo il sistema domotico è informato di tutto quello che avviene nella casa e può comandare i diversi dispositivi. L'informatica - ovvero una gestione di tipo software - si inserisce all'interno degli impianti e, come sappiamo, grazie alla versatilità e la flessibilità della programmazione è possibile potenziare le possibilità di controllo e di gestione di tutti i dispositivi che vengono installati nell'alloggio e che sono connessi al bus. 2.4. Sicurezza anticrimine Con l’espressione sicurezza anticrimine si vuole intendere la tutela del patrimonio culturale con particolare riguardo ai beni mobili nei confronti di “azioni” dolose. Tra queste si segnalano: – Effrazione – Intrusione – Vandalismi – Taccheggi – Furti – Rapine – Attentati Gli strumenti disponibili sul piano tecnico per poter perseguire gli obiettivi di sicurezza sono essenzialmente: – Sbarramenti alla azione dolosa: si tratta delle barriere di protezione passiva (sbarramenti fisici) e ad uomo presente (vigilanza) tra loro integrate; – Contrasto alla azione dolosa: è questo lo strumento che si affida ai sistemi di protezione attiva ba- sati sulla tecnologia e a tempestivi interventi di repressione ad uomo presente tra loro sinergici. 2.5. Sicurezza in caso di incendio Gli obiettivi della sicurezza in caso di incendio, da prendere a riferimento in modo mirato e soprattutto integrato, in ambito dei beni culturali sono: – Sicurezza degli insediamenti e degli edifici anche in caso di incendio; – Sicurezza del “contenuto” anche in caso di incendio; – Sicurezza degli “occupanti” (frequentatori ed addetti) anche in caso di incendio; – Sicurezza dei soccorritori. Con l’espressione “sicurezza in caso d’incendio” si vuole intendere, in adesione alla ratio del nuovo approccio, qualcosa di più rispetto alla sicurezza antincendio, volendo con ciò sottolineare la convinzione che la sicurezza deve essere garantita anche in caso ed in occasione di un incendio che non si è saputo o potuto evitare. È proprio questo il caso al quale meglio si attaglia l’obbligo della gestione del rischio residuo,
  • 18. 18 postulato dalla filosofia sottesa al nuovo approccio. Infatti in caso di incendio la necessità di garantire la sicurezza degli occupanti, dei beni mobili e di quelli immobili richiede una strategia di sicurezza complessa e a tutto campo. È quindi necessario un “progetto sicurezza” che deve fare riferimento ad un percorso costituito da più e diversi momenti, tra i quali si segnalano: – definire l’incendio (focolaio) di progetto che si vuole affrontare e risolvere; – provvedere al suo rilevamento tempestivo; – provvedere all’invio di allarmi mirati; – provvedere al controllo e/o allo spegnimento con sostanze idonee; – provvedere all’intervento ad uomo presente per verifiche e/o azioni mirate. È quasi inutile aggiungere che i singoli momenti in questione sono tra loro fortemente dipendenti. 3. La strategia di sicurezza Per strategia di sicurezza si intende il novero delle misure preventive, di protezione attiva e passiva e quelle organizzative cui il progettista della sicurezza può, e talvolta deve, fare riferimento nel proprio lavoro. Le misure preventive sono quelle misure che interagiscono con la frequenza di accadimento degli eventi riducendo le occasioni di rischio. Si tratta di una categoria di misure di primaria importanza che risolve i problemi evitandoli. Le misure di protezione passiva per il solo fatto di esistere, mitigano le conseguenze di una azione e/o di un evento dannosi che non abbiamo potuto o saputo evitare. Appartengono a questa categoria di misure: – le recinzioni – le chiusure d’ambito esterno – la resistenza al fuoco delle strutture e delle sovrastrutture – la reazione al fuoco dei materiali e degli arredi – le compartimentazioni – le vie di esodo. Le misure di protezione attiva riguardano in buona sostanza i sistemi di protezione attiva integrati (tecnologia e vigilanza ad uomo presente). L’uomo e la tecnologia sono infatti deputati a garantire l’efficacia della protezione attiva in diver- sa misura, ma in modo sinergico. Poiché è in ogni caso richiesta una indispensabile integrazione uomo–sistemi, va da sé che l’intera gestione delle misure di protezione attiva richiede una attenzione particolare. I lati dell’ipotetico triangolo rappresentano I tre elementi necessari per la combustione: Combustibile (materiale infiammabile ) Comburente ( usualmente ossigeno) Fonte di innesco ( apporto di calore )
  • 19. 19 Infatti per quanto riguarda i sistemi di protezione attiva, questi dovranno essere integrati nei rispetti- vi “progetti di sicurezza” e soddisfare il requisito della “affidabilità” intendendo con questo termine che siano soddisfatte le seguenti condizioni: Idoneità: il sistema non deve creare danni aggiuntivi a quelli dell’evento dal quale ci si vuol pro- teggere sia con riguardo alla sicurezza delle persone che a quella degli edifici e del loro contenuto; Tempestività: il sistema deve consentire il rilevamento precoce dell’evento e l’intervento immediato; Efficacia: il sistema deve garantire il raggiungimento dell’obiettivo di progetto, talché esso deve essere mirato e compatibile con l’evento che si progetta di dover affrontare; al riguardo si deve segnalare la odierna disponibilità di una ampia modellistica di riferimento per gli eventi di che trat- tasi che consente di superare le approssimazioni empiriche che fino ad oggi hanno guidato la progettazione in materia; Disponibilità: il sistema deve essere in grado di intervenire quando ciò sia richiesto; Protezione contro il sabotaggio: i sistemi di protezione attiva devono essere protetti contro il sabotaggio; Grado di automazione: si deve in ogni caso sottolineare che i sistemi di protezione attiva si diversificano anche per il loro grado di automazione. Infatti l’uomo e la tecnologia possono essere deputati al loro funzionamento in diversa misura. Occorre pertanto tenere presente che per gestire un elevato grado di automazione, occorre essere certi di una buona ingegneria di progetto, di una accurata costruzione, di una competente installazione ed infine di una costante e scrupolosa ma- nutenzione programmabile fin dalla fase di progetto, e che per poter contare sull’uomo si deve aver cura della sua selezione, formazione ed addestramento; Falsi allarmi: il sistema deve essere esente o comunque deve ridurre al minimo la possibilità di falsi allarmi; Facilità di manutenzione: il sistema deve essere facilmente “testabile” per una diagnosi precoce dei guasti che in ogni caso devono essere del tipo “fail–safe” (devono mettere in sicurezza i luoghi e/o quantomeno autosegnalarsi); ogni guasto deve poter essere riparato in tempo breve e sul posto. Le misure organizzative per la gestione della sicurezza afferiscono alla gestione del rischio in ogni sua fase (risk management). Il risk management riguarda infatti primariamente l’organizzazione che ciascuna struttura si deve dare per la sicurezza, intendendo con ciò, in buona sostanza, gli adempimenti progettuali ed organizzativi necessari per il perseguimento degli obiettivi prefissati, la predisposizione di risorse, il controllo sistematico, le azioni correttive, la formazione e l’addestramento degli addetti, ma anche dei gestori delle emergenze. Infatti se da una parte il moderno approccio alla sicurezza non escludendo il rischio, sempre presente in qualsivoglia attività umana, suggerisce di guardare alla complessa e non facile problematica con razionalità e con realismo pragmatico, dall’altra non deve essere interpretato come foriero di comode deresponsabilizzazioni perché semmai aggiunge un dovere in più, cioè quello che detto rischio residuo deve essere gestito riconducendo all’interno della attività stessa la responsabilità prima di detta gestione. La responsabilità in questione non deve essere interpretata soltanto nella individuazione del soggetto giuridico cui fare riferimento, soprattutto in sede penale, ma piuttosto nella necessità cogente di costituire un compiuto sistema organizzativo deputato alla sicurezza. Infatti il risk management riguarda anche la pianificazione e la gestione di quelle emergenze che non abbiamo saputo o potuto prevenire, controllandone primariamente l’evoluzione con l’obiettivo di minimizzarne le conseguenze. Pianificare l’emergenza significa, in ultima analisi, formulare un
  • 20. 20 piano operativo per la sua gestione. Il piano di emergenza si deve qualificare per il dettaglio della progettazione organizzativa. Compito della pianificazione della emergenza è anche quello di sviluppare nei gestori della stessa le abilità necessarie per riconoscere e fronteggiare gli eventi attesi. Occorre pertanto dare ai gestori una formazione capace di sviluppare le abilità tecnico– professionali di mestiere necessarie per interpretare i sintomi della emergenza al suo nascere e soprattutto una capacità di sintesi che consenta loro di mettere a fuoco i problemi selezionando la gamma delle informazioni deducibili dai segnali premonitori. La rilevazione dei segnali premonitori della emergenza da parte di coloro che sono deputati alla gestione dipende infatti dalla loro formazione specifica all’analisi del rischio, dipende cioè dal grado di conoscenza dei pericoli e delle loro caratteristiche intrinseche, dal saperne riconoscere la minacciosa presenza, ma anche nel saper correlare tali pericoli alla contingente vulnerabilità ambientale. In mancanza si rischia la sottovalutazione dei fenomeni e risposte all’evento tardive e inadeguate. Ma il piano di emergenza non può soltanto consistere nella individuazione degli scenari attesi, nella predisposizione delle risorse, nella determinazione delle linee di flusso per la loro attivazione e di chi e che cosa deve fare, ma deve caratterizzarsi anche e soprattutto per la verifica della coerenza e praticabilità delle azioni da attivarsi in ragione di detti scenari. In definitiva occorre valutarne la sua operabilità. Sia attraverso simulazioni, realizzate, come si è visto, mediante modelli matematici più o meno raffinati implementati su calcolatori, sia attraverso concrete sperimentazioni, è possibile verificare se una emergenza è gestibile, cioè se il corrispettivo piano ammette soluzioni, e quindi se quel rischio è “accettabile”. Quando l’evento si verifica si determina una situazione di crisi che deve essere gestita e risolta. I gestori del piano devono pertanto possedere le competenze e le caratteristiche necessarie per la gestione delle emergenze di progetto. La gestione delle emergenze sarà tanto più efficace quanto più gli scenari di progetto saranno realistici e conservativi e la professionalità dei gestori elevata; investire nella loro qualificazione è quindi di fondamentale importanza. Il piano di emergenza deve prendere in considerazione anche i rapporti con entità esterne: tra queste vanno annoverati prioritariamente i soccorritori professionali e le forze dell’ordine. Infatti l’affidabilità dell’intervento di “repressione differita” loro richiesta potrà essere garantita soltanto attraverso un lavoro congiunto di pianificazione, ma anche e soprattutto di verifica mediante esercitazioni congiunte. Il passaggio di mano della gestione della emergenza dall’interno all’esterno non può prevedere discontinuità, ma deve avvenire in sperimentata sinergia. 4. Gli standard legislativi e normativi Gli standard legislativi e normativi in materia di sicurezza si sostanziano in un quadro di riferimento organico costituito da Direttive europee, Regole Tecniche e da Norme tecniche di prodotto e di impianto. Le Direttive europee che nella materia della sicurezza vengono denominate anche Direttive del nuovo approccio si discostano dalla tradizionale metodologia deterministico– prescrittiva per privilegiare la progettazione di sicurezza caso per caso basata essenzialmente su di una virtuale griglia che individua i suoi nodi fondamentali nei Requisiti essenziali, negli Obiettivi di sicurezza per ciascun requisito, nella Strategia, ma anche nelle Regole Tecniche e nelle Norme Tecniche. Con l’accezione di Regole Tecniche si intende il quadro di riferimento di disposizioni legislative nazionali che fino ad un recente passato veniva brevemente individuato come “Norme”. Con l’avvento della Unione Europea si è reso necessario distinguere le disposizioni legislative nazionali “cogenti” dal novero delle “Norme Tecniche” di “impianto” e di “prodotto” che, in ossequio al mercato comune e quindi alla libera circolazione dei prodotti, pur se “volontarie”, hanno assunto il carattere di esclusività nella caratterizzazione tecnica di tali materie. Talché, nelle relative materie in ottemperanza, al principio del libero mercato, gli Stati membri possono regolamentare, con proprie Regole Tecniche, ad esempio quali e quanti presidi di sicurezza devono essere adottati a fronte di questo o quel rischio e di questa o di quella attività, ma non possono definire come tali presidi devono essere realizzati, rimandando alle Norme Tecniche tale compito. Per Norme Tecniche si intendono le cosiddette norme di buona tecnica di natura formalmente volontarie, ma di fatto obbligatorie in quanto conferiscono ope legis agli impianti ed ai prodotti la presunzione di
  • 21. 21 essere conformi alle regole dell’arte. Le Norme Tecniche sono emanate da organismi comunitari (CEN, CENELEC, EOTA) e recepite dai corrispondenti organismi nazionali (UNI, CEI, Organismi nazionali legittimati a rilasciare ETA); anche quando, in assenza di norme tecniche comunitarie, gli organismi nazionali emettono loro specifiche norme tecniche, queste devono ricevere l’approvazione in sede europea. gli standard procedurali: il progetto sicurezza Gli insediamenti costituenti “beni culturali” per le loro specifiche caratteristiche storico–artistiche appartengono più di ogni altro a quella realtà costruita che male ammette un approccio determi- nistico–prescrittivo e ciò almeno per i seguenti motivi: – Esigenze affatto diverse della security e della safety; – Destinazione non prevedibile e non prevista in fase di progetto che risale spesso ad epoche storicamente molto lontane da noi e dalla nostra civiltà tecnologica; – Inammissibilità di interventi strutturali ed impiantistici invasivi che andrebbero a snaturare la stessa realtà artistica e storica dell’edificio. Fermi restando i requisiti essenziali e gli obiettivi da soddisfare è necessario allora fare ricorso ad un moderno approccio che commisuri di volta in volta la strategia di sicurezza alle specifiche realtà anche attraverso un ampio ricorso a misure di sicurezza equivalenti. Questo approccio è quello comunemente noto come analisi dei rischi e la scienza che la studia è la reliability engineering. Questa branca dell’ingegneria studia la problematica della affidabilità che un sistema o una sua parte (sottosistema) o un suo elemento (unità) svolga correttamente la propria funzione nel tempo di missione assegnato. In ambito “beni culturali” essa riguarda in particolare gli impianti tecnologici di servizio ed i sistemi di protezione attiva, ma anche il comportamento degli addetti in ogni fase del progetto sicurezza considerando il “fattore umano” un aspetto centrale del problema. L’uomo e la tecnologia si devono infatti attivare in modo certo a partire dall’ora zero dell’evento o dell’azione dei quali sono stati messi a presidio. Tale ovvia constatazione pone primariamente il problema della loro affidabilità, valutazione quali- tativa troppo generica per un riferimento utile se non affrontata con metodologia tecnico–scientifica motivata e giustificabile. L’analisi dei rischi è un processo che ha l’obiettivo di fornire una rappresentazione formale della probabilità di danno di un sistema, nella fattispecie di un insediamento culturale, e di fornire le informazioni necessarie per una verifica documentata, motivata e giustificabile della rispondenza delle scelte di progetto per il soddisfacimento dei requisiti essenziali che detti insediamenti devono garantire e per il raggiungimento degli obiettivi di sicurezza postulati da ciascun requisito. L’analisi di rischio implica primariamente la individuazione dell’insieme dei pericoli (tecnologici) ed alle azioni (naturali ed antropiche) possibili (limitatamente a quelli “credibili”), oggetto dell’analisi stessa, ma anche la vulnerabilità del sistema considerato ed il fattore di esposizione nei confronti di detti pericoli e/o azioni. Infatti è l’interazione dei tre fattori sopra considerati che sostanzia un determinato livello di rischio che peraltro è caratterizzato anche da una frequenza di accadimento e soprattutto dalla magnitudo delle conseguenze. Quando un rischio (concetto probabilistico) si concretizza in un evento negativo (certezza) si hanno conseguenti scenari di emergenza ed in definitiva di danno. L’analisi del rischio, sotto il profilo metodologico, si avvale di tecniche di analisi logico- probabilistiche e di tecniche di analisi fenomenologiche. Le fasi di una compiuta analisi del rischio sono: l’individuazione e l’analisi dei “pericoli” e delle “azioni”; – l’individuazione e l’analisi delle corrispondenti vulnerabilità; – l’individuazione e l’analisi dei fattori di esposizione a ciascun pericolo;
  • 22. 22 – la valutazione dei rischi; – la “compensazione” dei rischi; – la “valutazione” dei rischi residui; – l’individuazione degli eventi e dei relativi scenari connessi con i rischi residui; – la mitigazione degli eventi connessi con i rischi residui: i sistemi di protezione attiva; – la pianificazione e la gestione delle emergenze; – gli interventi correttivi della strategia. Il livello di rischio globale delle attività viene rappresentato con un modello matematico nel quale gli effetti del rischio stesso dipendono dai seguenti fattori: F = probabilità o frequenza del verificarsi dell’evento rischioso M = magnitudo della conseguenza, ossia dell’entità del danno ai lavoratori o all’ambiente, provocato dal verificarsi dell’evento dannoso. Secondo la funzione: Rischio = F x M Il flow–chart che segue rappresenta sinotticamente il processo logico di una analisi di rischio.
  • 24. 24 6. Le procedure di valutazione Le procedure di valutazione di un progetto di sicurezza devono essere fondate su: 6.1. Primo livello (Adempimento) Verifica osservanza regole e norme tecniche – Conformità alle “Regole Tecniche”: il progetto deve essere conforme alle Regole Tecniche nazionali (disposti legislativi cogenti) pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale nazionale; – Conformità alle “Regole dell’Arte”: il progetto deve essere conforme alle norme tecniche di “impianto” e di “prodotto” internazionali, comunitarie e nazionali in quanto applicabili (ISO, IEC, CEN, CENELEC, UNI, CEI). 6.2. Secondo livello (Efficacia) Ricognizione dello “stato dell’arte” Ricognizione dello “stato dell’arte” Schede di rilevazione (check–list) Analisi di dettaglio – Liste di controllo (Check list) – Analisi di operabilità (Hazop); – Modi di guasto e loro effetti (F.m.e.a.); – Cosa succede se ? (What if); – Alberi di guasto; – Alberi degli eventi; – Modelli vulnerabilità; – Modelli conseguenze; – Modelli “fattore umano”. Compensazione dei rischi Quali–quantificazione dei rischi residui metodi ad indici Mitigazione dei rischi residui Verifica praticabilita’ manuali operativi e piani emergenze. 7. Le linee guida e i valori numerici: i criteri di accettabilità Ribadita la ovvia cogenza di osservare puntualmente quanto prescritto dal quadro di riferimento legislativo e normativo vigente nelle singole materie afferenti la sicurezza (adempimento), si ritiene che i criteri di accettabilità dovrebbero indicare per il livello superiore (quello dell’efficacia), più che limiti statici riconducibili a valori numerici, trend di compensazione e mitigazione in ragione delle necessità contingenti, quali risultano dalla analisi dei rischi, delle specificità degli insediamenti, peraltro da aggiornarsi (work in progress) in funzione del progresso tecnologico. Tuttavia, supposto di poter classificare i musei in almeno cinque categorie, da 1 a 5 in ordine decrescente per “importanza”, si propone una possibile matrice rappresentata al successivo punto 8) nella quale nelle ordinate sono stati elencati i più comuni sistemi di protezione attiva. L’ipotesi di suddividere in categorie i musei è certamente arbitraria e comunque esula dalle competenze del tecnico della sicurezza. La matrice potrebbe essere “perfezionata” indicando con una “X”, nelle colonne delle categorie, quei sistemi di protezione attiva ritenuti irrinunciabili in funzione della “importanza” dell’insediamento museale preso a riferimento.
  • 25. 25 Categorie di musei 8. Matrice SISTEMI DI PROTEZIONE ATTIVA 1 2 3 4 5 impianto di rivelazione automatico pulsanti di segnalazione manuale rivelatori di miscele infiammabili vigilanza ad "uomo presente" rivelazione sala operativa squadra antincendio estintori portatili intervento immediato estintori carrellati "a gas" pre- flashover spegnimento automatico "a sprinkler" naspi DN 20 idranti DN 45 intervento differito (V.V.F. professionali) idranti DN 70 acquedotto attacco gruppo motopompa post- flashover alimentazione riserva idrica per almeno 1 ora ANTINCENDIO altro impianto antiscavalcamento impianto antieffrazione delle superfici impianto antieffrazione degli accessi protezione recinzione impianto TVCC impianto di rivelazione antintrusione impianto antieffrazione delle superfici impianto antieffrazione degli accessi impianto di protezione volumetrica protezione edificio impianto TVCC impianto di rivelazione antintrusione impianto antieffrazione delle superfici ANTICRIMINE protezione sale museali impianto antieffrazione degli accessi
  • 26. 26 impianto di protezione volumetrica impianto TVCC teche e/o vetri di protezione distanziometriprotezione opere allarme per distacco singola opera mezzi ed impianti antirapina sistemi di controllo degli accessi e dei flussi di transito vigilanza custodi collegamenti con le FF.O. e/o Istituti privati sistemi di centralizzazione e gestione segnali di allarme sistemi di sicurezza polifunzionali sala operativa altro scale a giorno scale protette scale a prova di fumo interne/esterne vie di esodo (collegamenti verticali) ascensori antincendio illuminazione di sicurezza alimentazione di emergenza (G.E.) diffusione sonora segnaletica di sicurezza vari presidi sanitari SISTEMI VARI altro la fabbricazione della carta d'amianto Sul finire del XVII secolo, la nobildonna Candida Lena Perpenti, di Gordona in Valchiavenna ma di origine spagnola, incuriosita dalla vista in un museo di un fuso con del filo di amianto proveniente dagli scavi di Ercolano, decise di provare lei stessa a filare il minerale. Nel 1806 riuscì
  • 27. 27 a produrre il primo paio di guanti ignifughi che donò al viceré d’Italia Eugenio di Behaurnais. Oggi sappiamo che la materia prima utilizzata dalla nobildonna Perpenti era proveniente proprio dalla Valmalenco. A buona ragione, si può quindi sostenere che la Valmalenco sia stata tra le prime al mondo a scoprire e sfruttare le miniere di amianto dopo l’età antica (l’amianto era già conosciuto dalle civiltà persiane, greche e romane per le sue qualità ignifughe). Nei primi anni dell’800 inizia lo sfruttamento industriale ma bisognerà aspettare il 1867 perché l’amianto della Valmalenco torni ad essere protagonista sul mercato nazionale per la produzione di carta ignifuga, necessaria per redigere importanti documenti all’interno della cartiera Rigamonti di Tivoli ove si produceva la carta di amianto considerata per il suo pregio particolarmente adatta a quei documenti che, essendo importanti, richiedevano un'accurata conservazione. Tale carta era incombustibile e quindi garantiva ancora di più tale sicura conservazione. L'idea di realizzarla è però antecedente all'Ottocento; dobbiamo risalire all'ultimo decennio del Seicento, precisamente al 1691, per trovare l'ideatore, un alto prelato, Mons.Giovanni Ciampini. Costui esperimentò la creazione di fogli ottenuti mescolando a fibre vegetali i residui di fibre minerali che si depositavano all'interno dei grandi vasconi dove veniva lavato l'amianto (noto già agli antichi Romani che, pur non riuscendo a fare il tessuto di amianto, sapevano filarlo). Chiaramente, all'inizio, la sua realizzazione non era al meglio: infatti i fogli erano abbastanza friabili e poco consistenti ma, attraverso degli accorgimenti, i risultati migliorarono. La gomma arabica aggiunta alla primitiva mistura fece sì che la carta ottenuta fosse più consistente e sbiancata, in una parola più idonea per essere scritta e stampata. Un successivo passo per migliorarla fu fatto nel 1868 dal canonico D.Vittorio del Corona il che fece balenare al Marchese Augusto di Baviera (futuro direttore dell'Osservatore Romano) l'idea (dopo una serie di esperimenti fatti a Tivoli) di sfruttarla industrialmente. Nel 1869 avanzò domanda per ottenerne il brevetto insieme al predetto canonico e, una volta che tale diritto gli fu concesso (24/7/1869), iniziò a Tivoli la fabbricazione industriale della carta incombustibile ottenuta attraverso due procedimenti. Il primo prevedeva di collocare per due giorni in un bagno di acido idroclorico gli avanzi di amianto non adatti ad essere filati; per attutire il colore giallognolo della materia occorreva fare molti lavaggi. Al termine di essi il residuo colore andava eliminato usando acqua di cloruro di calce e poi acqua acidulata con acido solforico; poi si passava a tritare la materia nei cilindri per ottenerne una pasta a cui si aggiungeva poca fecola di patata cotte; a questo punto era pronta per essere lavorata. Il secondo procedimento prevedeva invece di mettere per due giorni "l'asbesto in un bagno di acido clolorico del commercio" cambiando spesso l'acqua onde eliminare il predetto colore giallognolo. Si passava poi a tritare in cilindri di bronzo versandovi "4 l. di acqua di cloruro di calce e, dopo trenta minuti, 1 l. di acido solforico per ogni cilindrata". A metà triturazione occorreva aprire "lo sciacquo" e "purgare il pesto dagli acidi. A questo punto occorreva aggiungere fecola di patate cotte (5 libre ogni 100 di pesto) amalgamando bene; la carta era così pronta per essere lavorata a mano o a machina. Il Marchese propose di utilizzare tale carta d'amianto non solo per i documenti da conservare ma anche per i titoli cambiari. Dalle pagine dell'Osservatore Romano iniziò una campagna di promozione per quella tela e carta incombustibile che le cartiere di Tivoli fabbricavano. Ad appoggiarne l'impiego erano anche illustri personaggi come il dr. Francesco Ratti e Padre Angelo Secchi della Compagnia di Gesù (colui che fece interessanti osservazioni sul pianeta Marte) i quali sottolineavano il pregio di questa carta inattaccabile dal fuoco. Le carte di amianto di Tivoli, di tessuti e di filo furono oggetto anche di una mostra-mercato a Roma dall'ottobre del 1869 al febbraio 1870 allestita presso la sede del giornale vaticano in Via dei Crociferi 48. Purtroppo però gli avvenimenti del 1870 (Roma capitale, estensione dell'unità d'Italia, sgretolamento dello Stato Pontificio) comportarono delle conseguenze politiche, economiche, sociali che in parte provocarono degli sconvolgimenti dalle lunghe e diverse conseguenze.
  • 28. 28 INQUINAMENTO DA AMIANTO L'amianto, chiamato anche indifferentemente asbesto, è un minerale naturale a struttura fibrosa appartenente alla classe chimica dei silicati e alle serie mineralogiche del serpentino e degli anfiboli. E' presente naturalmente in molte parti del globo terrestre e si ottiene facilmente dalla roccia madre dopo macinazione e arricchimento, in genere in miniere a cielo aperto. Secondo la normativa italiana ( art. 249 Testo Unico D.Lgs. 9 aprile 2008 , n. 81) il termine amianto designa i seguenti silicati fibrosi: ACTINOLITE ( n. CAS 77536-66-4 ) AMOSITE ( n. CAS 12172-73-5 ) ANTOFILLITE ( n. CAS 77536-67-5 ) CRISOTILO ( n. CAS 12001-29-5 ) CROCIDOLITE ( n. CAS 12001-78-4 ) TREMOLITE ( n. CAS 77536-68-6 ) Il crisotilo appartiene alla serie mineralogica dei serpentini, gli altri a quella degli anfiboli.
  • 29. 29 L'amianto resiste al fuoco e al calore, all'azione di agenti chimici e biologici, all'abrasione e all'usura; ha una notevole resistenza meccanica ed una alta flessibilità La sua struttura fibrosa ha fibre lunghe e sottili che possono essere tessute come quelle della lana e del cotone. Amianto in greco significa incorruttibile, perché le sue fibre non possono essere distrutte dal fuoco; esso era già noto agli Egizi e il romano Plinio lo considerò una “pietra magica”. Dal 1830-40 cominciò ad essere usato per proteggere uomini e cose dal fuoco e dal calore delle caldaie, sempre più numerose nell’industria e sulle navi ormai non più a vela, ma a vapore. Da poche tonnellate si arrivò ad estrarne e adoperarne milioni di tonnellate all’anno e l’Italia ne lavorò grandi quantità per fabbricare pareti isolanti o per molti usi industriali Le miniere più ricche sono in Canada, Sudafrica, Russia e Australia, ma ve ne sono anche nelle Alpi: in Piemonte se ne estraevano 100 mila tonnellate all’anno a Balangero in Val di Lanzo e nel casalese (Casale Monferrato) si costruivano manufatti in cemento-amianto. Ma l’amianto può essere dannoso alla salute? Già nel 1906 l’ispettorato del lavoro inglese aveva segnalato che le ragazzine addette alla tessitura delle fibre di amianto si ammalavano ai polmoni senza che fossero affette da tubercolosi, malattia allora molto diffusa tra i giovani delle classi più povere. Dopo qualche tempo ci si rese conto che le fibre di amianto inalate si depositavano nei polmoni i quali diventavano grigi e duri: tale malattia fu denominata asbestosi e fu dichiarata malattia professionale indennizzabile come la silicosi a partire dal 1936 in Inghilterra e qualche anno dopo in Italia; furono resi obbligatori i filtri, depuratori e mascherine nelle sedi di lavoro, ma la produzione e l’uso dell’amianto continuò. Nel 1960 comparve un articolo che fece scalpore: tra un gruppo di minatori di amianto del Sudafrica erano stati osservati un certo numero di soggetti affetti da un tumore della pleura molto raro, il Mesotelioma. Nacque il ragionevole sospetto che vi fosse un rapporto tra l’esposizione all’amianto e tale malattia; per risolvere il dubbio l’Accademia delle Scienze di New York organizzò un congresso nel 1965 e il tale occasione si confermò che anche tra i minatori degli Stati Uniti si era manifestato questo tumore con una frequenza insolitamente alta. Lo stesso fenomeno fu in seguito denunciato in modo clamoroso in una miniera di amianto australiana: tale evento fu definito un disastro industriale. Infine furono segnalati tumori della pleura in un piccolo villaggio turco, situato vicino ad una collina ricca di rocce amiantifere, la cui polvere era trasportata dal vento sul villaggio: si scoprì così che vi può essere un danno non solo lavorativo, ma anche ambientale. L’allarme scattò all’inizio degli anni ’80, ma soltanto nel 1992 una legge ( legge 257 del 27 marzo 1992 ) ha vietato l’estrazione e la lavorazione dell’amianto ed ha ordinato la bonifica di tutte le strutture fonti di inquinamento da amianto Questa legge non limita la sua azione alla sola messa al bando dell’amianto, ma affronta anche le complesse problematiche ad esso collegate: la tutela contrattuale dei lavoratori, i limiti ed il controllo delle emissioni, l’imballaggio, l’etichettatura e lo smaltimento dei rifiuti contenenti amianto. Per esse indica norme di riferimento già in vigore, introducendo a volte in queste ultime adeguate modifiche. La legge contiene forme di tutela sia verso i lavoratori che verso le imprese di produzione penalizzate dalla dismissione dell’amianto. La stessa prende in esame diversi aspetti particolarmente significativi inerenti sia la salvaguardia dell’ambiente che la tutela della salute pubblica. Tuttavia essa non fornisce per essi una regolamentazione specifica , ma rimanda a successive norme di attuazione. A tal fine istituisce una commissione per la valutazione dei problemi ambientali e dei rischi sanitari connessi all’impiego dell’amianto alla quale attribuisce compiti ben precisi. Pertanto per anni è stato considerato un materiale estremamente versatile a basso costo, con estese e svariate applicazioni industriali, edilizie e in prodotti di consumo. In tali prodotti, manufatti e applicazioni, le fibre possono essere libere o debolmente legate: si parla in questi casi di amianto in matrice friabile, oppure possono essere fortemente legate in una matrice stabile e solida (come il cemento-amianto o il vinil-amianto): si parla in questo caso di amianto in matrice compatta. Nell’industria dei materiali edili, l’amianto è stato utilizzato per la realizzazione di circa 2.000 diversi prodotti. di larga diffusione quali tubi per acquedotti, fogne ecc, lastre e fogli in cemento-amianto, mattonelle per
  • 30. 30 pavimentazioni, frizioni, freni e prodotti vari per attrito, guarnizioni, filtri per bevande, tute, coperte, guanti antincendio, pannelli fonoassorbenti e/o isolanti, vernici, rivestimenti, stucchi, feltri, tegole, ecc. ecc Generalmente è stato utilizzato insieme con altri materiali in diverse percentuali, al fine di sfruttare al meglio le sue caratteristiche. PRODOTTI E LORO CONTENUTO IN AMIANTO (DA HEALTH AND SAFETY EXECUTIVE - 1979) PRODOTTI % IN PESO AMIANTI Cemento/amianto per edilizia 10-15 C, A, Cr Cemento/amianto per condutture 12-15 C, A, Cr Prodotti isolanti, ignifughi 25-40 A,C Prodotti isolanti, inclusi quelli a spruzzo 12-100 A, C, Cr Guarnizioni sigillanti 25-85 C, Cr Materiali di attrito 30-70 C Altri materiali tessili 65-100 C,Cr Materiali per pavimentazione 5-7,5 C Materie plastiche, inclusi gli involucri per batterie 55-70 C, Cr Materiali di carica e di rinforzo 25-98 C,Cr Legenda: C=Crisotilo, A=Amosite Cr=Crocidolite Tra questi erano comuni i prodotti in cemento-amianto: lastre di copertura, rivestimenti, pareti divisorie, tubi, contenitori, ecc. che venivano utilizzati indifferentemente nella costruzione di edifici civili o industriali. I manufatti che contengono l'amianto con il passare degli anni subiscono, come tutti i materiali, un invecchiamento naturale causato da interventi di manutenzione, di riparazione, ecc...; in questi casi si può generare un inquinamento ambientale a seguito della possibile dispersione in atmosfera di fibre. Non sempre l'amianto, però, è pericoloso: lo è sicuramente quando può disperdere le sue fibre nell'ambiente circostante per effetto di qualsiasi tipo di sollecitazione meccanica, eolica, da stress termico, dilavamento di acqua piovana. La cessazione dell'utilizzo dell'amianto ha fatto sì che l'esposizione a questo inquinante si sia spostata dall'ambiente di lavoro a quello di vita. PRINCIPALI MATERIALI CONTENENTI AMIANTO E LORO POTENZIALE RILASCIO DI FIBRE (D.M. del 6 Settembre 1994) TIPO DI MATERIALE FRIABILITÀ RILASCIO NOTE Applicazioni a spruzzo e rivestimenti isolanti Elevata Significativo Amosite, Crocidolite a volte con Crisotilo Rivestimenti isolanti di tubazioni e di caldaie Elevata Per rivestimenti alterati e non sigillati Miscele con silicato di calcio; tele, feltri ed imbottiture Funi, corde, tessuti scarsa secondo lo stato di conservazione Amosite, Crocidolite, Crisotilo Cartoni, carte, prodotti affini Elevata secondo lo stato di conservazione Crisotilo Cemento - Amianto Molto scarsa Scarso Amosite, Crocidolite, Crisotilo Bitumi, intercapedini, piastrelle, mastici, sigillanti, pavimenti plastici Inesistente Improbabile Prevalentemente Crisotilo Gli effetti nocivi per la salute che possono essere con certezza attribuiti all’amianto riguardano l’apparato respiratorio. Il problema biologico ed in particolare l'effetto oncogeno dell'amianto non risulta subordinato alla durata ed all'intensità dell'esposizione, pertanto l'effetto non dipende dalla dose alla quale si è stati esposti, ma dalla natura delle fibre inalate ed alle loro caratteristiche Ai fini dell’inquinamento ambientale, l’amianto in forma "friabile" è il più pericoloso, perché anche deboli azioni meccaniche sono in grado di liberare un gran numero di fibre e causare, quindi, forti inquinamenti dell’aria.
  • 31. 31 AMIANTO NEGLI EDIFICI La legge 257/92 [Normative e metodologie tecniche di applicazione dell'art. 6, comma 3, e dell'art. 12, comma 2, della legge 27 marzo 1992, n. 257, relativa alla cessazione dell'impiego dell'amianto.e il D.M. 6 settembre 1994] prende in esame per la prima volta il problema dell’amianto in tutti gli edifici. Riserva particolare attenzione ai materiali contenente amianto floccato, cioè quelli applicati a spruzzo o a cazzuola, in matrice friabile, che si può ridurre in polvere con la semplice azione manuale. Affida alle regioni il censimento di questi edifici e conferisce ad esse il potere, ove necessario, di predisporre interventi di bonifica a carico dei proprietari degli immobili. Istituisce un registro degli edifici in cui è presente amianto friabile, depositato presso le ASL ed un albo delle imprese di bonifica. Il D.M. 6/9/94 è uno dei disciplinari tecnici emanati in attuazione delle norme previste dalla legge 257/92. In esso sono contenute normative e metodologie tecniche per la valutazione del rischio, il controllo, la manutenzione e la bonifica dei materiali contenenti amianto presenti nelle strutture edilizie. Il documento prende in esame: • l’ispezione delle strutture edilizie, il campionamento e l’analisi dei materiali sospetti per l’identificazione dei materiali contenenti amianto • il processo diagnostico per la valutazione del rischio e la scelta dei provvedimenti necessari per il contenimento o l’eliminazione del rischio stesso; • il controllo dei materiali contenenti amianto e le procedure per le attività di custodia e manutenzione in strutture edilizie contenenti materiali di amianto; • le misure di sicurezza per gli interventi di bonifica; • le metodologie tecniche per il campionamento e l’analisi delle fibre aerodisperse. Il documento fa riferimento a due tipi di indicazioni: - norme prescrittive che compaiono nel testo in carattere - grassetto; - - norme indicative , da intendersi come linee guida non prescrittive che vengono indicate nel testo in carattere - corsivo AMIANTO NEGLI EDIFICI E NEGLI IMPIANTI ASPETTI GESTIONALI E PROBLEMI DI BONIFICA Dove si può trovare l'amianto in un'abitazione? 1. Intonaco 2. Guarnizioni stufe 3. Pannelli 4. Coibentazione tubi 5. Rivestimento camini 6. Elettrodomestici 7. Tubazioni idriche 8. Materiali Isolanti 9. Lastre di copertura 10.Canne fumarie 11.Serbatoi idrici VALUTAZIONE DEL RISCHIO Relativamente alla presenza di materiali contenenti amianto negli edifici, e alle relative bonifiche, si riporta quanto cita il Decreto 6 Settembre 1994 (“Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art.6, comma 3, e dell’art.12, comma 2, dellaLegge 27 Marzo 1992, n.257, relativa alla cessazione dell’impiego dell’amianto”): “La presenza di MCA in un edificio non comporta di per sé un pericolo per la salute degli occupanti. Se il materiale è in buone condizioni e non viene manomesso, è estremamente improbabile che
  • 32. 32 esista un pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di amianto. Se invece il materiale viene danneggiato per interventi di manutenzione o per vandalismo, siverifica un rilascio di fibre che costituisce un rischio potenziale. Analogamente se il materiale è in cattive condizioni, ose è altamente friabile, le vibrazioni dell’edificio, i movimenti di persone o macchine, le correnti d’aria possono causareil distacco di fibre legate debolmente al resto del materiale”. La valutazione dei rischi si deve sviluppare attraverso una analisi dello stato in cui si trova il materiale contenente amianto la cui presenza in un edificio non comporta di per sé un pericolo per la salute degli occupanti: i rischi dipendono infatti dalla probabilità che il materiale rilasci nell'aria fibre di amianto che possono essere inalate dagli individui. Se il materiale è in buone condizioni e non viene manomesso, è estremamente improbabile che esista un pericolo apprezzabile di rilascio di fibre di amianto. Se invece il materiale viene danneggiato per interventi di manutenzione o per vandalismo si verifica un rilascio di fibre che costituisce un rischio potenziale. Analogamente se il materiale è in cattive condizioni, le vibrazioni dell'edificio, i movimenti di persone o macchine, le correnti d'aria possono causare il distacco di fibre legate debolmente al resto del materiale. Questo fenomeno si verifica anche per materiali apparentemente in buone condizioni, ma altamente friabili in cui la forza di coesione tra le fibre è molto scarsa. Meccanismi fondamentali di rilascio e dispersione delle fibre all'interno di un edificio FALLOUT distacco dal materiale friabile, delle fibre legate più debolmente, determinato dalle sollecitazioni a cui è sottoposto il materiale per i movimenti dell'aria e le vibrazioni delle strutture, per infiltrazioni di acqua, per una cattiva qualità dell'istallazione o per i naturali fenomeni di invecchiamento. In ogni caso si tratta di un fenomeno di entità relativamente scarsa, ma costante. IMPATTO contatto diretto col materiale con il quale si verifica una dispersione di fibre in occasione di interventi di manutenzione che interessano direttamente i materiali di amianto o quando lo stesso viene danneggiato per vandalismo. Spesso l'impatto è accidentale, come nel caso della manutenzione di attrezzature poste nelle immediate vicinanze In questi casi l'entità del rilascio di fibre dipende dal grado di danneggiamento e dalle caratteristiche del materiale, in particolare dalla friabilità e dalla forza di coesione e di adesione. Generalmente l'impatto causa un rilascio di fibre di elevata entità, ma occasionale e di breve durata. Di conseguenza quello che conta è soprattutto la frequenza di questo tipo di eventi. A tal fine è importante l'accessibilità del materiale in relazione al tipo di attività che si svolgono nell'edificio. In particolare se il materiale contenente amianto è facilmente accessibile da parte di tutti gli occupanti dell'edificio, se invece è accessibile solo nel caso di interventi di manutenzione e con quale frequenza sono effettuati tali interventi. DISPERSIONE SECONDARIA consiste nel risollevamento e nella dispersione in aria delle fibre rilasciate in conseguenza del fallout o dell'impatto. La dispersione secondaria è prodotta dalle attività di pulizia, dal movimento delle persone e dalla circolazione dell'aria. L'importanza del fenomeno dipende da un lato dalle attività svolte nell'ambiente e dall'altro dalla capacità del pavimento e delle pareti di trattenere le fibre di amianto . Per le buone caratteristiche aerodinamiche, le fibre sospese tendono a rimanere in aria per lungo tempo fino a determinare concentrazioni anche elevate, laddove si verificano rilevanti rilasci di fibre. Secondo il Decreto del Ministero della Sanità del 6 settembre 1994, relativo all'amianto negli edifici, si definiscono friabili i materiali che possono essere facilmente sbriciolati o ridotti in polvere con la semplice pressione manuale, mentre sono considerati compatti i materiali duri che possono essere sbriciolati o ridotti in polvere solo con l'impiego di attrezzi meccanici. La friabilità dipende dalla tipologia della matrice. I materiali in matrice cementizia sono duri e compatti e rilasciano fibre con estrema difficoltà; viceversa i materiali applicati a spruzzo sono estremamente friabili e quindi di gran lunga più pericolosi La corretta valutazione del rischio amianto richiede, solitamente, l'intervento di tecnici competenti che possono procedere a: • esame delle condizioni dell'installazione, al fine di stimare il pericolo di un rilascio di fibre dal materiale; • misura della concentrazione delle fibre di amianto aerodisperse all'interno dell'edificio (monitoraggio ambientale). In fase di ispezione visiva dell'installazione, devono essere invece attentamente valutati: • il tipo e le condizioni dei materiali;
  • 33. 33 • i fattori che possono determinare un futuro danneggiamento o degrado; • i fattori che influenzano la diffusione di fibre ed esposizione degli individui. In base agli elementi raccolti per la valutazione possono delinearsi tre diversi tipi di situazioni: a) MATERIALI INTEGRI NON SUSCETTIBILI DI DANNEGGIAMENTO Sono situazioni nelle quali non esiste pericolo di rilascio di fibre d'amianto in atto o potenziale o di esposizione degli occupanti, come ad esempio: • materiali non accessibili per la presenza di un efficace confinamento; • materiali in buone condizioni, non confinati ma comunque difficilmente accessibili agli occupanti; • materiali in buone condizioni, accessibili ma difficilmente danneggiabili per le caratteristiche proprie del materiale (duro e compatto); • non esposizione degli occupanti in quanto l'amianto si trova in aree non occupate dell'edificio. In questi casi non è necessario un intervento di bonifica. Occorre, invece, un controllo periodico delle condizioni dei materiali e il rispetto di idonee procedure per le operazioni di manutenzione e pulizia dello stabile, al fine di assicurare che le attività quotidiane dell'edificio siano condotte in modo da minimizzare il rilascio di fibre di amianto. b) MATERIALI INTEGRI SUSCETTIBILI DI DANNEGGIAMENTO Sono situazioni nelle quali esiste pericolo di rilascio potenziale di fibre di amianto, come ad esempio: • materiali in buone condizioni facilmente danneggiabili dagli occupanti; • materiali in buone condizioni facilmente danneggiabili in occasione di interventi manutentivi; • materiali in buone condizioni esposti a fattori di deterioramento (vibrazioni, correnti d'aria, ecc.). In situazioni di questo tipo, in primo luogo, devono essere adottati provvedimenti idonei a scongiurare il pericolo di danneggiamento e quindi attuare un programma di controllo e manutenzione. Se non è possibile ridurre significativamente i rischi di danneggiamento dovrà essere preso in considerazione un intervento di bonifica da attuare a medio termine. c) MATERIALI DANNEGGIATI Sono situazioni nelle quali esiste pericolo di rilascio di fibre di amianto con possibile esposizione degli occupanti, come ad esempio: • materiali a vista o comunque non confinati, in aree occupate dell'edificio, che si presentino: • danneggiati per azione degli occupanti o per interventi manutentivi; • deteriorati per effetto di fattori esterni (vibrazioni, infiltrazioni d'acqua, correnti d'aria, ecc.), deteriorati per degrado spontaneo; • materiali danneggiati o deteriorati o materiali friabili in prossimità dei sistemi di ventilazione. Sono queste le situazioni in cui si determina la necessità di un'azione specifica da attuare in tempi brevi, per eliminare il rilascio in atto di fibre di amianto nell'ambiente Le tecniche d’intervento per i possibili provvedimenti possono essere: IL RESTAURO DI MATERIALI: l'amianto viene lasciato senza effettuare alcun intervento di bonifica, ma si riparano le zone danneggiate e si eliminano le cause potenziali del danneggiamento. E' applicabile per materiali in buone condizioni che presentino danneggiamenti di scarsa estensione (inferiori al 10% della superficie di amianto dell'area interessata). Questo provvedimento viene utilizzato soprattutto per il rivestimento di tubi e caldaie o per materiali poco danneggiati, che presentino danni circoscritti. INTERVENTO DI BONIFICA mediante rimozione, incapsulamento o confinamento dell'amianto. La bonifica può riguardare l'intera installazione o essere circoscritta alle aree dell'edificio o alle zone dell'installazione in cui si determina un rilascio di fibre. Dal momento in cui viene rilevata la presenza di materiali contenenti amianto in un edificio, è necessario che
  • 34. 34 sia messo in atto un programma di controllo e manutenzione al fine di ridurre al minimo l'esposizione degli occupanti I metodi di bonifica che possono essere attuati sono: • la rimozione o decoibentazione intesa come sostituzione dell'amianto con altro materiale; è il metodo più utilizzato in quanto elimina il problema alla radice; • l'incapsulamento che corrisponde al trattamento dell'amianto con prodotti penetranti e ricoprenti per costituire una pellicola protettiva fra l'ambiente e la superficie esposta; è necessario un programma di manutenzione e controllo costante in quanto l'amianto rimane nell'edificio; • il confinamento che consiste nell'installazione di una barriera a tenuta che separi l'amianto dalle aree occupate dell'edificio. Occorre sempre attivare un programma di controllo e manutenzione in quanto l'amianto rimane nell'edificio e la barriera installata per il confinamento deve essere mantenuta in buone condizioni. Nei metodi di bonifica (al punto 4 del Decreto 6/9/94), viene specificato che gli interventi di ristrutturazione o demolizione di strutture rivestite di amianto devono sempre essere preceduti dalla rimozione dell'amianto stesso. La certificazione della restituibilità di ambienti bonificati Al termine dei lavori di bonifica, dovranno essere eseguite le operazioni di certificazione di restituibilità degli ambienti bonificati. Tali operazioni, da eseguirsi a spese del committente, dovranno essere eseguite da funzionari della ASL competente al fine di assicurare che le aree interessate possano essere rioccupate con sicurezza. In genere si distinguono tre fasi di analisi delle fibre d'amianto: • prima dell’intervento di bonifica, per valutare lo stato dei materiali; • nel corso dell’intervento, per accertare il contenuto di fibre di amianto aerodisperse ai fini della salvaguardia della sicurezza dei lavoratori e dell’ambiente circostante; • alla fine dei lavori, per valutare la restituibilità del sito bonificato