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Cooperativa Editoriale Etica
Anno 15 numero 125 febbraio 2015
Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità
PAULHILTON/GREENPEACE
9788899095048
ISBN978-88-99095-04-8
Mare
da
difendere
PosteItalianeS.p.A.SpedizioneinabbonamentopostaleD.L.353/2003(conv.inL.27/02/2004n.46)art. 1,comma1,NE/VR.ContieneI.R.
Ocean grabbing: dopo la terra una
nuova risorsa naturale rischia
di cadere vittima della speculazione
finanza etica
CROLLA IL PREZZO
DEL PETROLIO:
GLI USA PIANGONO,
L’ARABIA SAUDITA
FESTEGGIA
internazionale
VENTI DI GUERRA:
IN EUROPA NON
SI PARLA D’ALTRO
economia solidale
BOOM PER IL PESCE,
PREZIOSO PER
LE ECONOMIE EMERGENTI
N
egli ultimi anni si è parlato molto di land
grabbing, cioè dell’accaparramento di ter-
re da parte dei Paesi ricchi del mondo, che
ha avuto inizio dopo la crisi alimentare mondiale
nel 2007. Ma c’è anche un’altra forma meno cono-
sciuta, ma non per questo meno pericolosa, di ac-
caparramentochesistasviluppandoinmodoespo-
nenziale. È l’ocean grabbing che riguarda il 70% del
nostro Pianeta, cioè gli oceani e i nostri mari.
Ispirandosi proprio all’accaparramento delle
terre fertili, il relatore Onu per il diritto al cibo Oli-
vier De Schutter ha coniato questo termine du-
rante la sua relazione all’Assemblea Generale. È
possibile definire ocean grabbing – ovvero depre-
dazione degli oceani – l’accaparramento predato-
rio di risorse ittiche in acque territoriali altrui e in
acque internazionali.
La pesca praticata dalle flotte straniere – so-
prattutto Cina, Russia, Unione europea, Stati Uni-
ti e Giappone – è una minaccia alla sicurezza ali-
mentare dei Paesi in via di sviluppo, dove i governi
dovrebbero fare di più per promuovere e tutelare
la piccola pesca costiera.
L’ultimo rapporto sul Global Ocean Grab – pub-
blicato dalWFFP (una rete che rappresenta oltre 10
milioni di persone in tutto il mondo), insieme a
Transnational Institute, Afrika Kontakt e Masifun-
dise – ci mostra una situazione tragica in quasi tut-
ti i mari del Pianeta, dal Senegal all’Ecuador, dal
Cile allo Sri Lanka.
La privatizzazione degli oceani viene spesso
presentata dai media come l’unica soluzione possi-
bile al sovra-sfruttamento del-
le risorse alieutiche (disponi-
biliperlapesca,ndr).Vogliono
farci credere, ad esempio, che
l’introduzione delle ITQs (In-
dividual Transferable Quotas)
in Sud Africa sia una soluzione
ambientale alla pesca eccessi-
va. In realtà gli stessi tacciono
suglieffettidellaprivatizzazio-
ne sulle comunità rurali e co-
stiere. Non dicono dei piccoli
pescatori che perdono il fon-
damentale diritto al sostentamento economico e
alimentare, né delle migrazioni economiche alle
quali sono costretti. Alla base della privatizzazione
del suolo e degli oceani c’è un grave problema di re-
gole, che determina il continuo calpestamento di
diritti e l’assoggettamento all’unica legge che conta:
il profitto a breve termine.
Stiamo assistendo a un processo di privatiz-
zazione silenzioso, che non smetterà di mono-
polizzare le risorse e generare disuguaglianze
sociali.
Gli oceani hanno molti problemi, è vero, ma la
soluzione non risiede nella loro privatizzazione,
quanto piuttosto in una gestione partecipata, che
tenga conto di tutti gli attori e che dia voce anche
a chi è generalmente inascoltato. Perché“il mare è
di tutti”: anche dei piccoli pescatori, anche delle
comunità indigene e anche nostro. Non possiamo
non interessarcene. ✱
2 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
editoriale
3valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
OCEANI
DEPREDATI
di Silvestro Greco
La copertina
dell’ultimo rapporto
Global Ocean Grab,
pubblicato dal WFFP
L’AUTORE
SILVESTRO GRECO
Silvestro Greco, biologo
marino, per 30 anni si è
occupato di pesca e
acquacoltura per il CNR
e successivamente per
l’ICRAM; oggi è dirigente
di ricerca dell’ISPRA. Docente
di Controllo delle produzioni
agroalimentari dell’Università
di Scienze Gastronomiche.
Ha svolto campagne
scientifiche di pesca in tutti
i mari del mondo, tra le quali
sei spedizioni in Antartico.
fotoracconto 02/05
4 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
DA: GREENPEACE
CLÉMENT TARDIF (LUGLIO 2012)
Nella foto pescatori su piroghe
artigianali al lavoro con reti
a circuizione al largo della costa
senegalese, di fronte
a Kafountine e Casamance, dove
un estremo impoverimento ittico
preoccupa. Nel Paese è in corso
un processo di ripristino delle
attività di pesca locale dopo
un periodo di sfruttamento
intensivo su larga scala attuato
da pescherecci provenienti
da Cina, Russia, Corea, Islanda,
e soprattutto dalla Spagna
e altri Paesi Ue. Nel 2012
il governo appena eletto
ha perciò proceduto
ad annullare le licenze di pesca
precedentemente concesse.
sommario
Acqua del mare come
elemento di vita e
sostentamento primario, per
il Pianeta e per le popolazioni.
Ma anche e soprattutto
risorsa da preservare contro
l’inquinamento, le attività
illegali, lo sfruttamento
sconsiderato, la mancata
tutela degli habitat protetti
e delle specie viventi che
li abitano. In questo
fotoracconto le istantanee
della pesca negli oceani, dove
si incontrano l’uomo e
la natura in un rapporto che
può essere rispettoso e
sostenibile se concepito
pensando al futuro, come
insegna la sapienza locale di
chi da sempre strappa al mare
con fatica solo poco più
di quanto serve ad alimentare
sé e le proprie comunità.
Viceversa, da una pesca
intensiva, industrializzata e
che mira principalmente agli
utili deriva il rischio intrinseco
di perdere di vista gli equilibri
necessari a mantenere gli
oceani in buona salute.
E allora l’auspicio è che la
grande industria della pesca,
che saccheggia le acque della
Manica o ha depredato
i fondali del Senegal, non
distrugga la sua stessa
ragione di esistenza; e che
pratiche come quelle qui
raccontate, osservate tra
Sicilia, Africa e Oceano
Indiano, mantengano i propri
spazi, vitali per tutti. Questo
è un breve viaggio che
profuma di salsedine,
realizzato con la preziosa
collaborazione di Greenpeace
(greenpeace.org) e Marevivo
(marevivo.it), organizzazioni
da decenni in prima linea nella
battaglia per la difesa degli
ambienti marini – e non solo –
dalle pratiche umane
insostenibili.
Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra
l’altro che legno e derivati non provengano da foreste
ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso
e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali.
Involucro in Mater-Bi®
global vision 7
finanza etica
Scoppia la guerra del petrolio 19
Gli studenti gridano: “Stop alle fonti fossili!” 22
L’anno nero dei fondi hedge 23
Microcredito: la legge è operativa finalmente! 25
numeri della terra 28
economia solidale
Il mondo ha fame di pesce 31
Le nuove attrattive della terra 35
Design, un futuro di carta 37
social innovation 40
internazionale
Siete pronti alla guerra? 43
Il Giappone verso l’endorsement di massa 46
Climate change: tutto rimandato, vincono le lobby 49
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redazione
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(redazione@valori.it)
hanno collaborato a questo numero:
Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Alberto Berrini,
Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio,
Luca Martino, Valentina Neri, Andrea Vecci
grafica, impaginazione e stampa
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Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento)
fotografie e illustrazioni
Christian Åslund, Paul Hilton, Lorenzo Moscia,
Clément Tardif (Greenpeace); Marina Pulcini (Marevivo);
Priwo, Tim From Schönebeck, Zerohund
(commons.wikimedia.org); Michela Bruna; Paulo Lima;
Edoardo Quatrale
distribuzione
Press Di - Segrate (Milano)
È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché
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Ordinario cartaceo
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- enti pubblici, aziende Euro 48 Euro 90
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Cartaceo+Web Reader Euro 48 Euro 85
8 MARE DA DIFENDERE
Enormi pescherecci che solcano
i nostri mari, piattaforme off-shore per
estrarre gas e petrolio, reti a strascico
che distruggono gli ecosistemi marini.
Sono i simboli di un business che
sfrutta l’ennesima risorsa naturale
dossier
La pesca intensiva è l’emblema dello
sfruttamento del mare. E l’ecosistema
marino ne fa le spese. Ma è possibile
anche una pesca sostenibile,
oltre a un’acquacoltura certificata
fotoracconto 01/05
L’energia utilizzata per realizzare questa rivista proviene al 100% da fonte rinnovabile,
tracciata e garantita dall’origine grazie al sistema di certificazione GO.
FATTI
IN ITALIA L’eccellenza
italiana
sotto la lente
di Valori
Emanuele Isonio
ed Elisabetta Tramonto
prefazione
Ermete Realacci
FATTIINITALIAL’eccellenzaitalianasottolalentediValoriFAFAFTATTIINITATATLIAL’’eccellenzaitalianasottolalentediVaVlori
Per non parlare sempre dei misfatti,
dei contraffatti, degli artefatti
Valori propone i suoi
FATTI IN ITALIA
L’eccellenza italiana
sotto la lente di Valori
IL LIBRO DI VALORI
DEDICATO ALL’ITALIA
CREATIVA E CAPACE
Puoi acquistarlo on line su www.valori.it
anche come e-book
global vision
7valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
Azione e reazione
Le Banche centrali
entrano in gioco
L
e previsioni di crescita mondiale per il 2015 indicano negli Stati
Uniti l’unica area di vero sviluppo e individuano nell’Europa
l’area economica occidentale di maggior debolezza. Dunque
le politiche monetarie in atto o previste sulle due sponde dell’Atlantico
sembrano coerenti con tale scenario macroeconomico. Una Fed (Federal
Reserve, Banca centrale americana) che azzera il suo sforzo espansivo
favorendo il rafforzamento del dollaro (meno “stampo” una moneta,
più ne aumenta il prezzo). E la Bce (Banca centrale europea) che
finalmente attua il QE (Quantitative Easing), ossia una politica monetaria
espansiva non convenzionale in quanto la creazione di liquidità si attua
attraverso l’acquisto sul mercato di ogni tipo di titoli, ma in particolare
di titoli di Stato.
In questo modo non solo si attenua la pressione (ossia la necessità
di finanziamento) sui debiti pubblici europei, ma si contribuisce in modo
determinante all’indebolimento dell’euro, favorendo la crescita
dell’economia europea e facilitando le sue esportazioni.
Dunque tutto ok, ossia nessuna complicazione deriva da tali politiche
monetarie? Non proprio, poiché bisogna considerare gli effetti globali,
e in particolare come esse impattano sulle strategie e sull’operare
dei mercati finanziari.
L’esempio più recente è rappresentato dall’aumento repentino e vistoso
(+20%) del franco svizzero (in rapporto all’euro) in previsione del QE
europeo. Il balzo del franco ha, infatti, provocato uno tsunami mondiale
con il fallimento di varie società di brokeraggio (dagli Usa fino alla
Nuova Zelanda) e ha causato perdite per 100/150 milioni di dollari
a testa per le più grandi banche del mondo. Dunque questa vicenda
è emblematica per capire come gira il mondo sempre più globalizzato.
La Banca centrale svizzera ha ritenuto di non essere più in grado
di difendere il tetto al cambio franco-euro che essa stessa aveva
imposto a fronte della crisi europea del 2011. E ciò a causa dell’afflusso
sui conti svizzeri dei capitali in fuga dall’euro in procinto di svalutarsi.
Come ha sottolineato il professor Marco Onado (insegna Diritto
ed Economia dei mercati finanziari e Comparative financial systems presso
l’Università Bocconi di Milano), alla base di quanto successo al franco
svizzero «c’è il potenziale destabilizzante dei movimenti di capitale a breve
in un mondo interconnesso, ma con politiche monetarie non coordinate fra
loro per effetto degli inevitabili sfasamenti dei cicli delle loro economie».
In altre parole mercati finanziari ancora sostanzialmente
deregolamentati (e perciò fragili) possono interferire in modo
destabilizzante, creando effetti collaterali non desiderati, su politiche
attuate per coerenti obiettivi economici.
E le Banche centrali, che spesso sono costrette a operare in ordine
sparso, non possono che essere in balia di un mercato che, anche per
le sue dimensioni, è sempre più fuori controllo. ✱
di Alberto Berrini
DA DIFENDERE
Le risorse naturali sono sempre
più preda della speculazione.
Dopo la terra, il mare rischia
di essere attaccato con gravi
conseguenze per gli ecosistemi
e per le popolazioni locali
Dalla pesca intensiva alle
multinazionali che sfruttano gli
oceani, alle estrazioni off-shore
di gas e petrolio.
La privatizzazione degli oceani
è dietro l’angolo
DOSSIER
Gabbiani seguono
il peschereccio tedesco
Maartje Theadora della
compagnia olandese
Pelagic Freezer-trawler
Association (PFA). Molte
grandi navi officina come
questa, in navigazione
a caccia di aringhe,
partecipano all’intenso
traffico che affolla
il Canale della Manica ogni
anno tra novembre
e dicembre, durante
la stagione autunnale
di deposizione delle uova.
Una nave simile in un solo
viaggio può pescare fino
a 600 tonnellate di pesce,
l'equivalente di 2 milioni
di pasti.
10 / Ocean
grabbing.
La speculazione
prende il largo
12 / I signori
degli oceani
14 / Il mare
senza regole fa
male alla salute
16 / Il Canada
studia un oleodotto
artico. Ecologisti
in rivolta
fotoracconto 03/05
FOTO:GREENPEACE/CHRISTIANÅSLUND(DICEMBRE2014)
MARE
MARE DA DIFENDERE DOSSIER
11valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
ha rappresentato Greenpeace nella causa contro
la realizzazione di un rigassificatore al largo delle
coste livornesi (vedi a pag. 17). Le regole so-
no poche, assai diverse tra Stato e Stato, incapaci
di regolare quanto avviene in acque internazio-
nali. E, quando esistono, le norme sembrano
pensate con l’unico scopo di arricchire poche po-
tenti multinazionali a discapito dei molti che in
quei luoghi vivono.
I PADRONI DELLE QUOTE
Di esempi ce ne sono decine in giro per il mondo.
Ma il filo conduttore che li unisce è unico. La paro-
la d’ordine è “razionalizzazione”, paravento se-
mantico per dire “privatizzazione”: «Presentandoli
come una risposta alle preoccupazioni ambientali
sulla salute dei mari, in numerosi Paesi sono stati
ridefiniti i diritti d’accesso o i privilegi di sfrutta-
mento delle risorse ittiche libere, comuni o dello
Stato, aumentando i livelli di attribuzione ai priva-
ti», spiega Silvio Greco, presidente del comitato
scientifico di Slow Fish. Un sistema di quote e con-
cessioni che sta tagliando fuori i piccoli pescatori.
Nel Nord come nel Sud del mondo: in Islanda die-
ci compagnie controllano il 50% delle quote. In Ci-
le 127mila pescatori devono dividersi il 10% del
mercato mentre 4 grandi aziende detengono il 90%
delle concessioni. In Danimarca, dal 2005, le flotte
dei pescatori tradizionali sono state dimezzate. In
Namibia succursali locali di aziende spagnole de-
tengono il 75% del mercato. E in Sud Africa l’Indi-
vidual Transferable Quota (ITQ) introdotto nel
2005 ha portato alla repentina esclusione di 50mi-
la piccoli pescatori.
Unasituazioneodiosa:«L’oceangrabbing–con-
ferma Olivier De Schutter, relatore speciale delle
Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione – nel-
la forma di accordi che colpiscono i pescatori su
piccola scala, catture non dichiarate, incursioni in
acque protette e distrazione delle risorse dalle po-
polazioni locali, è una minaccia altrettanto grave
del land grabbing». Denuncia che è anche un (indi-
retto) atto d’accusa contro le strategie di un’altra
potente istituzione internazionale, la Banca Mon-
diale, che sul tema ha una posizione ben diversa.
«L’ocean grabbing – spiega un dettagliato rap-
porto della tedesca Lighthouse Foundation – è en-
trato in una nuova fase nel 2012 con l’istituzione
della GPO (Global Partnership for Oceans), ideata
dalla Banca Mondiale per sostenere la privatizza-
zione dei diritti di proprietà delle risorse acquati-
che». Al suo interno grandi Ong ambientaliste co-
me WWF e l’Environmental Defense Fund, ma
anche soggetti più controversi come la Fondazio-
neWalton Family, una delle dinastie più ricche del
Pianeta, fondatori del colosso mondiale della
Grande distribuzione Walmart.
Presupposto alla base delle azioni della GPO è
che i danni ambientali causati dal settore pesca
siano prodotti dall’assenza di diritti di proprietà di
BOX
DOSSIER MARE DA DIFENDERE
10 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
Ocean grabbing
La speculazione
prende il largo
«F
ino all’80% del valore del pescato,
una volta scaricato a terra, mi serve
a finanziare l’affitto della conces-
sione di pesca. Non mi rimane alcun margine da
reinvestire per modernizzare la mia barca. Intan-
to la maggior parte dei ricavi va a persone che con
la pesca non hanno niente a che fare. Per quel che
ne so, potrebbero anche vivere dall’altra parte del
Pianeta». Dan Edwards è un pescatore dell’isola
canadese di Vancouver, testimone oculare di uno
dei tanti effetti perversi di un fenomeno comples-
so, che attivisti ed esperti chiamano ocean grab-
bing. Parente dell’ormai storico land grabbing,
l’accaparramento su vasta scala di terreni agricoli
nei Paesi in via di sviluppo da parte di multinazio-
nali e governi stranieri. Ugualmente preoccupan-
te, ma assai meno conosciuto, sapere quello che
avviene sotto il pelo dell’acqua a centinaia o anche
migliaia di chilometri dalla costa è evidentemente
complicato. E forse proprio su questo contano
speculatori e imprenditori senza scrupoli. Lonta-
no dai clamori dei media, le loro mani stringono
sempre più saldamente le risorse che mari e ocea-
ni celano dentro di sé.
UN FENOMENO COMPLESSO
L’aspetto più indagato – perché influenza diretta-
mente le nostre abitudini alimentari – è il depau-
peramento delle risorse ittiche causate da stili e
quantità di pesca insostenibili. Ma è solo la pati-
na superficiale di un fenomeno più complesso,
che questo dossier cercherà di documentare: in-
quinamento, imperi industriali più o meno nitidi
che hanno trovato nei mari una nuova opportu-
nità di lucro, estrazioni off-shore di gas e petrolio,
sistematica riduzione dei diritti delle comunità
costiere.
Il sistema, insostenibile e miope, è agevolato
da un quadro normativo caratterizzato da lacune
e faziosità: «Per il mare non esiste una legislazio-
ne equivalente a quella che pianifica l’uso del ter-
ritorio», rivela Giancarlo Altavilla, avvocato che
di Emanuele Isonio
La privatizzazione delle risorse naturali non riguarda più solo la terra-
ferma. Complice un quadro normativo confuso, gli oceani sono sotto
attacco. Con gravi danni alle popolazioni locali e agli ecosistemi marini
QUALE PESCA?
PESCA SU LARGA SCALA PICCOLA PESCA
$$$$$25-27 BILIONI
sussidi
$5-7 BILIONI
sussidi
30 MILIONI DI TON. (CIRCA)
catture annuali per consumo umano
30 MILIONI DI TON. (CIRCA)
catture annuali per consumo umano
35 MILIONI DI TONNELLATE
catture annuali per farina di pesce e oli
QUASI NULLA
catture annuali per farina di pesce e oli
8-20 MILIONI DI TON.
pesce e altre forme di vita rigettate in mare
MOLTO POCO
pesce e altre forme di vita rigettate in mare
      
37 MILIONI DI TON. (CIRCA)
consumo annuo di olio combustibile

5 MILIONI DI TON. (CIRCA)
consumo annuo di olio combustibile
 =
1-2 TON.
cattura per ton. di carburante consumato
 =
4-8 TON.
cattura per ton. di carburante consumato
1/2 MILIONI (CIRCA)
pescatori impiegati
SOPRA I 12 MILIONI
pescatori impiegati
PESCA ILLEGALE,
UN AFFARE DA 23 MILIARDI DI DOLLARI
Dagli 11 ai 26 milioni di tonnellate. È il peso della pesca illegale nel mondo secon-
do le stime citate dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Un dato, equi-
valente nella peggiore delle ipotesi a 1/6 dell’ammontare totale del pesce prodot-
to nell’ultimo anno su scala globale, che si traduce in una perdita economica
oscillante tra i 10 e i 23 miliardi di dollari e che nasconde, sostiene dal 2011 uno
studio dello United Nations Office on Drugs and Crime, la tratta di esseri umani (tra
cui i bambini) destinati al “lavoro forzato”. Lo scorso mese di settembre uno stu-
dio a cura dei ricercatori Ganapathiraju Pramod, Katrina Nakamura, Tony J. Pitcher
e Leslie Delagran, pubblicato sulla rivista di settore Marine Policy, ha stimato che
la quota di pesce illegale introdotto negli Stati Uniti nel 2011 oscillasse tra il 20 e il
32% delle importazioni totali (pari a loro volta al 90% del pesce consumato negli
Usa) per un controvalore economico compreso tra 1,3 e 2,1 miliardi di dollari. Se-
condo lo studio la maggiore incidenza della pesca illegale sulle importazioni si sa-
rebbe registrata nei prodotti ittici (tonno in testa) provenienti dalla Thailandia. Su-
gli altri gradini del podio il merlano e il salmone cinese, che precedono i tonni
provenienti da Filippine, India e Indonesia (ma non mancano casi rilevanti anche
tra le importazioni da Messico, Cile, India, Canada ed Ecuador). Affidata negli Usa
alla National Oceanic and Atmospheric Administration, la lotta alla pesca illegale
si scontra con la difficoltà di monitoraggio del settore. Navi e barche da pesca,
ricordava a gennaio Mark P. Lagon, docente della Georgetown University, sulle
colonne del Washington Post, sono esentati dal mantenimento di numeri identifi-
cativi e dall’obbligo di portare a bordo strumenti di rilevamento come i transponder.
Le imbarcazioni, inoltre, non sono soggette al controllo degli enti portuali dei luo-
ghi di attracco, ma solo a quello delle autorità dei Paesi d’origine. [M.Cav.]
600 metri
la lunghezza di una delle più grandi reti a strascico, l'equivalente di 2 Tour Eiffel
sfruttamento delle risorse ittiche, piuttosto che da
un’assenza di equità. Esattamente l’opposto di
quanto sostiene il Forum Mondiale dei pescatori,
che individua nelle politiche di mercato neoliberi-
ste la causa fondamentale dell’ocean grabbing,
tanto da chiedere una politica che riconosca il
ruolo primario della piccola pesca.
I MOSTRI DEL MARE
Ma, intanto, il braccio “armato” di questa corsa al-
l’accaparramento delle risorse ittiche è in piena
azione: megapescherecci, finiti nel mirino di un
rapporto di Greenpeace, “Monster Boats”, e spesso
appartenenti ad affaristi e imprese tutt’altro che
limpide (vedi ). Rappresentano una quota
minima della flotta mondiale (nella Ue le barche
superiori a 24 metri sono appena il 3%), ma, con i
loro metodi di pesca, sono i massimi responsabili
dei danni alle specie marine (vedi ): reti lun-
ghe anche 600 metri (l’Empire State Building si
ferma a 381), 350 tonnellate di pesce pescate in un
solo giorno, tra 8 e 20 milioni di tonnellate di pe-
sce scartato (quindi ributtato in mare morto) per-
ché considerato di scarso valore commerciale.
Tanti difetti inesistenti nella piccola pesca, che per
di più consuma molto meno carburante (1 ton-
nellata ogni 4-8 tonnellate di pesce pescato, con-
tro i 2 delle flotte industriali) e impiega oltre 12 mi-
lioni di persone nel mondo. Eppure i sussidi
mondiali premiano chi è più insostenibile: circa
25 miliardi di dollari nel mondo, contro i 5 riserva-
ti ai piccoli pescatori. «Continuando così, interi
ecosistemi marini sono a rischio», spiega Serena
Maso, responsabile Mare di Greenpeace. «Già og-
gi su 97 stock ittici analizzati nel Mediterraneo, il
91% è sovrasfruttato e in alcuni casi siamo oltre il
punto di non ritorno. Al tempo stesso gli stock pe-
scati in modo compatibile con la loro conserva-
zione sono scesi dal 90% degli anni ’70 all’attuale
70%. L’esigenza di un cambio di rotta è certa». La
possibilità di sconfiggere le lobby della grande pe-
sca, molto meno. ✱
GRAFICO
SCHEDE
DietroilmegapeschereccioOdinc’èlaUnimedGlory,aziendacon-
trollata dalla Laskaridis Shipping, di proprietà dei fratelli Laskari-
dis: due imprenditori ellenici che hanno affiancato agli investi-
menti marittimi quelli nel settore alberghiero e dei casino. Oltre
alla greca Laskaridis, hanno fondato in Liberia la Lavinia Corpora-
tion,sviluppandoprogettiportualieneitrasportiinnumerosiSta-
ti. Odin è però solo uno dei pescherecci della flotta dei Laskaridis,
che conta ormai 50 navi.
UNIMED GLORY
© WILLEM048 / MARINETRAFFIC.COM
Era da poco finita la Seconda guerra mondiale quando Dirk Parle-
vliet e i fratelli Dirk e Jan Van der Plas fondarono in Danimarca
l’omonima azienda che, nel tempo, si è consolidata nella pesca
d’alto mare e si è estesa nel mercato tedesco. Oggi l’azienda è di
proprietà della PP Groep Katwijk BV, con sede legale in Olanda,
ma i suoi pescherecci battono bandiera danese, tedesca o lituana:
Annelies Ilena, Margiris, Helen Mary e Maartje Theodora i più
grandi. Il gruppo conta circa 1500 dipendenti nei vari Paesi.
PARLEVLIET & VAN DER PLAS
Dal 1880 le generazioni di questa dinastia olandese si tramanda-
no l’azienda che conta oggi 600 addetti (100 a terra e 500 in ma-
re), divisi su una flotta di pescherecci frigoriferi registrati oltre
che nei Paesi Bassi anche in Francia e Inghilterra attraverso so-
cietà controllate. Gli sgombri sono la specie che ha fatto la fortu-
na dei Cornelis Vrolijk. Ma l’azienda si è estesa occupandosi ormai
anche della parte logistica, trasporto e congelamento.
CORNELIS VROLIJK
La nave Franziska è la più grande della flotta della Willem Van der
Zwan en Zonen, azienda attiva nella pesca dal 1888. Anch’essa si è
sviluppataapartiredallacittàportualeolandesediScheveningen,ma
le controllate del gruppo sono ormai nate in molti altri Stati e conta-
no filiali in Nigeria, Perù e Ghana. L’azienda stessa quantifica in un
milionelepersonechesinutronoconilpescepescatodallesue navi.
WILLEM VAN
DER ZWAN EN ZONEN
Albacora Uno e Albatun Tres sono due dei 18 pescherecci della
holding spagnola controllata dalla Albacora SA e fondata nel 1974
dalla famiglia Uria. Il gruppo è coinvolto in tutti gli aspetti della
pesca al tonno, dalla cattura alla trasformazione. E questo ha am-
pliato le sue attività, spostandole dal golfo di Biscaglia a siti di pe-
sca più lontani nell’Oceano Indiano e Pacifico, dove è più facile
usare le controverse mega-reti FAD. Il fatturato del gruppo spa-
gnolo si è attestato nel 2012 a 340 milioni di euro.
ALBACORA GROUP
ÈtuttounintrecciotraparadisifiscalilastoriadiBaltlanta,proprieta-
ria del megapeschereccio Kovas. Prima detenuta da imprese regi-
strate in Lichtenstein (Henessen) e a Panama (AB Cosaco Naval En-
terpriseseABVaporesNauticosMerrimack).IlramodelLichtenstein
fuliquidatonel2007pernonaverpagato1750euroditasse.Lecom-
pagniepanamensisembranolegateaKostantinKoval,primodiretto-
re di Baltlanta dal ‘96 al ‘99, cittadino lituano tra i più ricchi del suo
Paese con un patrimonio personale di 144 milioni di euro.
BALTLANTA
MARE DA DIFENDERE DOSSIER
13valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
DOSSIER MARE DA DIFENDERE
12 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
I SIGNORI DEGLI OCEANI
di Corrado Fontana
Dai progetti minerari di una
multinazionale indiana
l’estrema minaccia
alla salvaguardia della
Grande barriera corallina.
La controffensiva
ambientalista potrebbe però
funzionare, perché i conti
degli speculatori non tornano
Per centinaia di specie animali sottoma-
rine ospitate nella Grande barriera corallina
australiana l’attesa durerà ancora poco.
Probabilmente entro marzo 2015 si saprà
infatti se il più grande organismo vivente del
mondo – e straordinaria fonte economica,
come polo di attrazione turistica del conti-
nente oceanico – vedrà materializzarsi una
nuova e vicina origine d’inquinamento, e
quindi di pericolo per la propria sopravviven-
za: la Banca centrale indiana (State Bank of
India) deve infatti decidere se contribuire
con un miliardo di dollari pubblici all’enorme
progetto di sfruttamento minerario che Adani
Group, multinazionale con base nel Gujarat,
cerca di realizzare nella regione australiana
del Queensland, a partire dall’acquisto della
miniera di carbone Carmichael nel cosiddet-
to Bacino Galilea. Un progetto da 10 miliardi
di dollari complessivi, che prevede un pros-
simo investimento da 3,5 miliardi nelle infra-
strutture ferroviarie e portuali necessarie a
movimentare ed esportare 60 milioni di ton-
nellate di carbone l’anno: dalla miniera per
400 chilometri fino ad Abbott Point, sulla co-
sta, attraverso linee di carico, scarico e rotte
di navigazione capaci di generare traffico ed
emissioni micidiali per il fragilissimo ecosi-
stema della barriera corallina.
Un progetto avversato strenuamente
dagli ambientalisti. Ma anche di incerto suc-
cesso economico, tanto che alcune delle
banche sostenitrici (Citigroup, Goldman
Sachs, Deutsche Bank, JP Morgan, RBS,
HSBC) hanno (solo) dichiarato pubblica-
mente un disinvestimento. Dubbi ci sono
sulla qualità e la quantità della produzione
del minerale; dubbi sul futuro andamento
dei prezzi del carbone (crollati dai 141 dol-
lari/tonnellata di gennaio 2011 ai 67 dolla-
ri di novembre scorso); dubbi infine sulla
sostenibilità economica del progetto, se ai
costi non parteciperanno altre compagnie
minerarie (in primis il gruppo GVK, concor-
rente di Adani) co-interessate al carbone
australiano.
E così, benché la Grande barriera coralli-
na sia protetta dall’UNESCO, che ha già mi-
nacciato di toglierle lo status di patrimonio
dell’umanità se il governo del premier Tony
Abbott non si impegnerà adeguatamente
nella sua salvaguardia.
Greenpeace & Co. puntano innanzitutto
sui temi economici, forti anche delle parole
del ministro indiano per l’Energia, il carbone
e le rinnovabili Piyush Goyal, che a novembre
scorso dichiarava: «Forse nei prossimi due o
tre anni, dovremmo essere in grado di ferma-
re le importazioni di carbone termico». Un bel
problema per il magnate Gautam Adani, che
40 dei 60 milioni di tonnellate di carbone
pensa di esportarli proprio nel suo Paese.
BARRIERA SENZA DIFESE
L’ECONOMIA BLU IN EUROPA: LA RIFORMA
DELLA POLITICA COMUNE DELLA PESCA
Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno varato una nuova politica comune del-
la pesca (Pcp) in vigore a partire dal 1° gennaio del 2014. La riforma si articola in
molti punti che hanno come fine la sostenibilità della pesca e la creazione di nuo-
ve opportunità di occupazione e di crescita nelle zone costiere.
Per raggiungere questi obiettivi la nuova politica prevede la fine dei rigetti in mare
dei pesci non commercializzabili attraverso un ventaglio di misure da attuare zo-
na per zona, il rafforzamento dei diritti nel settore ittico, il decentramento e la sem-
plificazione del processo decisionale, il potenziamento dell’acquacoltura, il soste-
gno alla piccola pesca, il miglioramento delle conoscenze scientifiche riguardanti
lo stato dello stock e l’assunzione di responsabilità nelle acque dei Paesi terzi at-
traverso accordi internazionali dell’Unione europea.
Il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (Feamp) è lo strumento di
finanziamento che fornirà sostegno all’attuazione della politica comune della
pesca. [Pa.Bai.]
GUERRA TRA LOBBY
Fieri oppositori di ogni misura restrittiva, gli ope-
ratori del trasporto marittimo.Tutta una questione
di soldi, ça va sans dire. «Se il Mediterraneo dive-
nisse area speciale – spiega Molocchi – le navi do-
vrebbero utilizzare il gasolio marino, più pulito ma
molto più costoso del bunker oil oggi utilizzato, ot-
tenuto dagli scarti di raffinazione. I costi di tra-
sporto lieviterebbero del 50%». Un’ipotesi vista co-
me fumo negli occhi dalle aziende. Finora la loro
attività di lobby ha funzionato. L’IMO non ha mai
concretamente valutato proposte di introdurre
un’ECA. Anche perché nel loro sforzo sono di fatto
sostenuti dai gestori dei porti che affacciano sul
Mare Nostrum, che, pur logisticamente meno
competitivi dei concorrenti nel Mar del Nord, si
stanno avvantaggiando delle norme lassiste.
Ma qualche novità potrebbe presto arrivare.
Paradossalmente per l’intervento di un’altra (più
potente?) lobby. I produttori di gas premono per-
ché tale carburante soppianti nelle pance delle na-
vi il più inquinante petrolio. Molti intravedono il
loro zampino in un decreto legislativo approvato
in Italia pochi mesi fa, che riduce di dieci volte i li-
miti di zolfo nei carburanti usati nelle rotte in
Adriatico (pur subordinando l’applicazione della
regola al consenso di tutti gli Stati confinanti). ✱
MARE DA DIFENDERE DOSSIERDOSSIER MARE DA DIFENDERE
14 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
L
ontano dagli occhi, drammaticamente vi-
cino alla salute (e al portafoglio) di tutti
noi. Quanto avviene in alto mare è per sua
natura difficilmente controllabile. E la frammen-
tazione delle normative non facilita la soluzione
del problema. Il risultato è che le attività commer-
ciali, legate soprattutto al trasporto marittimo del-
le merci, producono costi esterni inimmaginabili.
Ambientali, economici e sanitari.
PROVE SCIENTIFICHE INNEGABILI
I dati esistono. Poco noti, ma autorevoli. L’Interna-
tional Maritime Organization (Imo), organizzazio-
ne mondiale che riunisce praticamente tutti gli
Stati costieri, ha stimato le ricadute di polveri sot-
tili e ozono emesse dalle navi nei mari statuniten-
si e canadesi: tra 5 e 12mila morti premature, 6,5
milioni di episodi respiratori acuti, 4.600 bronchiti
croniche, 8.400 ricoveri ospedalieri (vedi ). E
ad essi si aggiungono ovviamente i danni ambien-
tali per un costo economico affatto irrilevante. Un
altro studio, commissionato dal Parlamento euro-
peo qualche anno fa, lo quantificava in 45,4 miliar-
di, diviso tra i diversi mari che bagnano il continen-
te: solo nel Mediterraneo il trasporto marittimo
causa danni per quasi 11 miliardi.
Numeri allarmanti che dovrebbero imporre so-
luzioni.Qualcosa,inqualchecaso,siègiàfatto:aree
speciali nei luoghi più a rischio (le cosiddette ECA,
aree di controllo emissioni), che impongono limiti
piùstringentisulleemissioniesulcarburanteutiliz-
zabile. Ma sono ancora esempi positivi in un mare
di deregulation. E non pienamente soddisfacenti: in
un’ECA il limite delle emissioni di zolfo è dieci volte
più basso che altrove (0,1% anziché 1). Ma il tetto ri-
mane generoso: nel caso dei trasporti terrestri è in-
fatti mille volte più basso (0,00001). «La prova scien-
tifica e sanitaria dell’esigenza di introdurre regole
più stringenti non manca di certo – osserva Andrea
Molocchi, autore dello studio dell’Europarlamento
e ricercatore del centro di ricerca ECBA Project – ma
è altrettanto evidente l’assenza di volontà politica,
soprattutto dove il traffico è più intenso». E quindi il
Mediterraneo, che pure è uno dei mari bisognosi di
intervento, rimane fuori dalle ECA.
TABELLA
Il mare senza regole
fa male alla salute
di Emanuele Isonio
Le emissioni delle navi provocano tra 5 e 12mila morti premature in Nord
America e costano 45 miliardi agli Stati Ue per danni sanitari. Il rimedio
più realistico è sfruttare una guerra tra lobby
Effetto sanitario
Incidenza annuale nel 2020
dovuta al traffico marittimo
senza ECA
Riduzione annuale nel 2020
dovuta al traffico marittimo
con ECA
Mortalità premature 5.100 - 12.000 3.700 - 8.300
Bronchiti croniche 4.600 3.500
Ricoveri ospedalieri 8.400 3.300
Visite a camere di emergenza 4.100 2.300
Episodi di bronchiti acute 13.000 9.300
Episodi di sintomi respiratori acuti 6.500.000 3.400.000
GLI EFFETTI SANITARI DOVUTI ALLE CONCENTRAZIONI DI PM2,5 E OZONO,
ASSOCIATI ALLE EMISSIONI DELLE NAVI NEGLI USA E NEL CANADA
FONTE: IMO-MEPC 59/6/5, 2 APRIL 2009 - PROPOSAL TO DESIGNATE AN EMISSION CONTROL AREA FOR NOX, SOX, AND PM®
SUBMITTED BY
USA AND CANADA
STIMA DEI COSTI ESTERNI DELL’INQUINAMENTO ATMOSFERICO
DEL TRASPORTO MARITTIMO NEL MEDITERRANEO, ANNO 2005
FONTE: S. MAFFLI, C. CHIFFI, A. MOLOCCHI. EXTERNAL COST OF MARITTIME TRANSPORT (2007), A STUDY FOR THE POLICY DEPARTMENT
STRUCTURAL AND COHESION POLICIES OF THE EUROPEAN PARLIAMENT
[valori in milioni di euro]
di Corrado Fontana
Il mare può anche essere
affrontato in modo sostenibile:
dall’acquacoltura certificata
alla dissalazione alimentata
da rinnovabili. Proposte in
Europa, praticate in Africa e
promosse da Slow Fish 2015
Non solo sfruttatori senza scrupoli e dan-
ni ecologici in cambio di profitto. C’è anche
chi guarda agli oceani e alle loro risorse per
preservarne l’integrità, come fonti di sosten-
tamento e lavoro in armonia con l’ambiente.
Aquestafilosofiarisponderebbe,adesempio,
l’attività della Northern Harvest Sea Farms
Group, prima impresa al mondo dedita all’al-
levamento e commercializzazione del sal-
mone, certificata secondo gli standard BAP
(Best Aquaculture Practices) in tema di ac-
quacoltura: il comparto industriale per l’alle-
vamento controllato di organismi acquatici
(pesci, crostacei e molluschi, alghe). Azienda
modello, insomma, secondo i criteri di tra-
sparenza e tracciabilità della filiera, nonché di
responsabilità sociale e ambientale, elabora-
ti da un ente certificatore statunitense.
Torna Slow Fish
È un modello apprezzabile anche per asso-
ciazioni come Legambiente, Marevivo Med-
ReAct e Lav, che, con Maria Damanaki (ex
Commissaria europea per gli Affari marittimi
e la pesca), hanno sostenuto a maggio 2014
la proposta di mettere al bando in Europa la
pesca con le reti derivanti (o “da posta”),
“muri di maglie” sottomarini che non fanno
distinzioni tra specie protette e non. La pro-
posta, osteggiata finora, è in attesa di un
voto a Strasburgo per maggio 2015. Proprio
quando a Genova, dal 14 al 17, si rinnoverà
l’esperienza di Slow Fish, la fiera organizza-
ta da Slow Food per offrire soluzioni per una
pesca che protegga il mare e la salute dei
consumatori. Ci saranno storie di lavoro e
riscatto che si sposano col rispetto del ma-
re, come quelle delle donne Imraguen, che in
Mauritania sono custodi del presidio Slow
Food della bottarga di muggine; o delle don-
ne senegalesi delle isole di Dionewar, Falia e
Niodior, che mantengono viva la raccolta e
la lavorazione dei molluschi endemici yeet
(in lingua wolof, ndr), oggi messe in crisi
dalla crescente pressione sulle risorse ma-
rine da parte delle flotte straniere e locali e
dall’alta salinità dell’acqua.
Innovazione al servizio dell’ambiente
Diverse realtà ecocompatibili, cui si affian-
ca uno sfruttamento degli ambienti ocea-
nici che non produce benefici effetti solo
sulla filiera che da essi deriva. È il caso del-
l’innovazione tecnologica sviluppata da una
società australiana di Port Augusta, la Sun-
drop Farm, che commercializza un processo
in cui il solare termico viene adottato per ali-
mentare sia le macchine per la dissalazione
del mare che gli ambienti climatizzati delle
serre, fornendo così acqua dolce ed energia
a basso impatto ambientale. Una sorta di
circuito hi-tech, chiuso e pulito, che favori-
sce la riduzione di emissioni di gas serra e
l’acquisizione di sali minerali e nutrienti da
parte delle piante, mirando a produrre cibo e
a sostenere aziende agricole situate in zone
costiere non raggiunte dalle comuni infra-
strutture elettriche e idriche. Sul futuro di
questa tecnologia punta la società ameri-
cana di private equity KKR.
IN BUONE ACQUE
15valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
DA ONDE E MAREE L’ENERGIA DEL FUTURO
Il mare potrebbe costituire una gigantesca risorsa energetica in futuro. Soprat-
tutto per Francia e Uk che, non a caso, rappresentano i due Paesi che con più
convinzione stanno sperimentando la possibilità di sfruttare l’energia maremo-
trice. Sulle coste che bagnano la Manica le maree sono estremamente ampie
(anche di parecchi metri) e così il gruppo Tidal Energy, insieme a EDF, ha pro-
gettato la tecnologia DeltaStream, il cui primo generatore sottomarino, nelle ac-
que del Galles, dovrebbe essere installato a breve. Secondo i promotori del pro-
getto, l’energia prodotta sarà rinnovabile, pulita e non emetterà CO2. Sarà inoltre
possibile stimare con notevole precisione la produzione, sulla base dei coefficienti
delle maree. Il problema, tuttavia, ad oggi restano i costi, che sono ancora eleva-
ti, soprattutto per quanto riguarda l’installazione e la manutenzione degli impian-
ti. Ciò nonostante, l’Ue sembra voler esplorare le possibilità dell’energia marina:
nel 2014, la Commissione aveva lanciato un piano d’azione per lo sviluppo tecno-
logico nel settore. «È una fonte a portata di mano, che si può sfruttare in modo
ecologico», aveva spiegato l’allora commissario all’Energia Günther Oettinger.
Anche l’Italia è interessata, non tanto in termini di sfruttamento delle maree (non
così ampie sulle nostre coste) quanto del moto ondoso. A luglio scorso si è te-
nuto a Roma il workshop “Energia dal mare: le nuove tecnologie per i mari italia-
ni”, organizzato dall’Enea e dal ministero per lo Sviluppo economico. La European
Ocean Energy Association aveva spiegato che «in Europa i dispositivi per la con-
versione dell’energia dal mare raggiungeranno una potenza installata di circa 3,6
GW entro il 2020 e 188 GW entro il 2050». Per ora l’energia maremotrice rappre-
senta appena lo 0,02% della domanda complessiva europea. [A.Bar.]
SO2 NOx PM2,5
COV da
combustione
Totale %
Mare del Nord 9.230 8.504 3.795 131 21.660 47,7
Mar Mediterraneo 6.557 2.247 1.950 63 10.817 23,8
NE Atlantico 2.919 3.375 732 30 7.056 15,5
Totale 21.355 16.431 7.407 247 45.441 100,0
un“piano B” rispetto all’oleodotto Canada-Usa: un
progetto, secondo gli ecologisti, ancor più perico-
loso e allarmante.
Lo studio, intitolato An Arctic Energy Gateway
for Alberta, conclude infatti che il petrolio delle tar
sands (considerato tra i più pericolosi in termini
ambientali) potrà essere trasportato grazie a una
gigantesca pipeline, di oltre 2.400 km, che da Fort
McMurray, vicino al fiume Arhabasca, raggiunge-
rebbe il porto di Tuktoyaktuk, nell’estremo Nord.
Da qui l’idea di sfruttare lo scioglimento dei ghiac-
ci dovuto al riscaldamento globale per caricare il
greggio sulle petroliere e raggiungere l’Europa.
Ovviamente, d’estate, e d’inverno? Secondo il rap-
porto si potrebbero usare rompighiaccio o sotto-
marini nucleari (è tutto nero su bianco, a pagina
13 del rapporto, reperibile on line).
Domanda: perché avanzare una proposta del
genere? «Perché i petrolieri sono disperati», spiega
Patrick Bonin, responsabile della campagna Cli-
ma-Energia di Greenpeace Canada. «L’oleodotto
artico è probabilmente un bluff, è il tentativo di di-
mostrare che hanno altre opzioni di fronte al falli-
mento di ciò che è stato avanzato finora. È evi-
dente che l’industria ha bisogno di dare segnali
positivi, subito, visto che colossi come Total e Sta-
toil hanno già annunciato che diminuiranno i lo-
ro investimenti legati alle sabbie bituminose».
OLEODOTTI SÌ E NO
Gli industriali delle tar sands si sono in effetti visti
rifiutare o bloccare numerosi progetti di pipelines.
I petrolieri hanno bisogno di un’alternativa spen-
dibile. E pazienza se l’unica strada non ancora
battuta punta verso l’Artico, con gli elevati rischi
ecologici connessi. «Una fuga di petrolio – spiega
Hannah McKinnon, esperta dell’associazione Oil
Change International – è sempre drammatica, ma
se pensiamo a un incidente in una regione vulne-
rabile come quella artica, dove tra l’altro le condi-
zioni di accesso sono estremamente difficili, lo
scenario non può che essere definito catastrofi-
co». Per parlare in termini concreti, basta tornare
indietro con la memoria al 24 marzo 1989, quan-
do in Alaska un incidente della superpetroliera
Exxon Valdez provocò uno dei peggiori disastri
ambientali mai causati dall’essere umano. ✱
I
l 18 novembre scorso il Senato Usa ha rifiutato
di concedere il via libera al progetto Keystone
XL, un immenso oleodotto che dovrebbe tra-
sportare il petrolio estratto dalle sabbie bituminose
dellaprovinciadell’Alberta,inCanada,finoalleraffi-
nerie texane. Pochi giorni prima, anche la Camera si
era espressa in modo analogo: un sospiro di sollievo
per gli ecologisti, e una doccia fredda per i repubbli-
cani, che hanno fatto del Keystone XL un vero e pro-
prio cavallo di battaglia in campagna elettorale. Il
GOP puntava a una votazione sull’oleodotto che se-
gnasse il primo successo parlamentare dopo la con-
quista della camera alta alle elezioni di mid-term.
Nonostante la vittoria ambientalista, la pru-
denza è d’obbligo. I repubblicani sono già tornati
alla carica: mentre questo numero di Valori va in
stampa è possibile che il Congresso sia chiamato
nuovamente a esprimersi sulla questione, dopo un
parere positivo arrivato da una commissione par-
lamentare. Il 6 gennaio il portavoce della Casa
Bianca, Josh Earnest, ha spiegato che Obama po-
trebbe in ogni caso porre il veto sul progetto. Ma
l’industria petrolifera non si arrenderà. Sono trop-
pi gli interessi in gioco, anche e soprattutto da par-
te dei canadesi. Non a caso, proprio nei mesi scor-
si le autorità della provincia dell’Alberta hanno
messo, in un certo senso, le mani avanti. Prima an-
cora che si conoscesse l’esito delle votazioni sul
Keystone XL, è stato pubblicato un rapporto com-
missionato dalla provincia canadese, che indica
patti e spessi (300-400 metri). Questi sedi-
menti, chiamati clatrati, formano dei veri e
propri reservoir che si estendono per mi-
gliaia di chilometri quadrati – continua Ma-
ria Filomena Loreto – e fanno da “tappo”
impedendo al gas sottostante di migrare
verso l’alto».
Al di sotto di un bacino di gas idrato esi-
ste, di solito, un giacimento di gas naturale:
i luoghi dove più facilmente si trovano que-
ste riserve sono i margini continentali, pra-
ticamente le scarpate marine che degrada-
no dalle zone di piattaforma (-200 metri),
verso le profondità oceaniche.
Conosciuti da tempo, i gas idrati stanno
ora attirando l’attenzione e le speranze di
molte potenze. Tra queste il Giappone, alla
ricerca di un’alternativa al nucleare dopo il
disastro di Fukushima. Ma anche dei gran-
di produttori di gas, tra cui la Russia che, dal
1969, ha iniziato lo sfruttamento del pozzo
Messoyakha, perforato nel campo di gas
idrato del bacino occidentale della Siberia
allo scopo di estrarre il gas sottostante. Nel
Golfo del Messico sono stati trovati enormi
accumuli di gas idrati affioranti al fondale
marino, mentre in Canada è stato perforato
il pozzo Mallik, nel delta del fiume Macken-
zie, allo scopo di sperimentare le varie tec-
niche di sfruttamento.
«India, Giappone e Cina sembrano esse-
re i Paesi con maggiori disponibilità di idra-
to e stanno investendo cospicue somme
nella ricerca» aggiunge la dott.ssa Loreto.
La vera “frontiera” è la messa a punto di
tecnologie e modalità estrattive che per-
mettano il recupero del gas dall’idrato uti-
lizzando una quantità di energia inferiore a
quella che si andrebbe ad estrarre senza,
inoltre, arrecare danni all’ambiente: il meta-
no è un gas climalterante e le preoccupa-
zioni degli ambientalisti sono che durante le
estrazioni se ne liberino delle quantità in
modo incontrollato, contribuendo ad au-
mentare il riscaldamento globale. Inoltre le
estrazioni potrebbero rendere incoerenti i
sedimenti delle scarpate continentali dando
luogo a frane o/e subsidenza.
Trattandosi, poi, di perforazioni da effet-
tuare soprattutto in ambiente marino, an-
che nelle zone artiche e antartiche, si molti-
plicano i timori che si consideri l’ambiente
circostante come un territorio di nessuno,
da sfruttare o inquinare senza limiti.
di Paola Baiocchi
L’estrazione dei gas idrati
potrebbe rivoluzionare
gli equilibri mondiali
dell’energia, perché stiamo
parlando di risorse più che
doppie rispetto a quelle fossili
convenzionali. Mentre si
stanno studiando le tecnologie
estrattive, si pone il problema
del rispetto ambientale
Dopo l’entrata tra le risorse energetiche
dello shale gas, che ha rivoluzionato prezzi
ed equilibri consolidati nello scenario mon-
diale, un’altra fonte d’energia potrebbe pre-
sto essere resa disponibile, con effetti poten-
zialmente più travolgenti: i gas idrati, ossia
gas intrappolato nel ghiaccio dei sedimenti
marini o terrestri. Le proiezioni effettuate
sulle risorse totali sono impressionanti, si
parla di più di 3.400 miliardi di barili equiva-
lenti di gas, a fronte di risorse stimate su sca-
la globale di circa 1.700 miliardi complessivi
di barili di greggio e gas naturale.
Maria Filomena Loreto, geologa del-
l’ISMAR-CNR di Bologna, ci spiega di cosa
si tratta: «Quando nei sedimenti, ad esem-
pio lungo i margini continentali marini, o in
ambiente subaereo dove c’è il permafrost,
in presenza di adeguata concentrazione di
gas si vengono a creare le condizioni di sta-
bilità dell’idrato, ossia elevata pressione e
bassa temperatura, l’acqua ghiaccia in-
trappolando nella sua struttura molecolare
le particelle di gas (principalmente meta-
no). All’interno dei pori dei sedimenti si for-
mano così strati di idrato abbastanza com-
DALLE PROFONDITÀ MARINE
UNA NUOVA FONTE ENERGETICA
di Andrea Barolini
Un collegamento di 2.400 chilometri unirebbe l’Alberta e l’estremo nord
del Paese. Obiettivo: continuare a estrarre petrolio dalle controverse
sabbie bituminose e trasportarlo via nave in Europa
Il Canada studia
un oleodotto artico
Ecologisti in rivolta
QUANDO IL MARE DIVENTA UN SITO
INDUSTRIALE: IL CASO DELLA OLT DI LIVORNO
Il primo impianto al mondo di rigassificazione su una nave gasiera è nel mare di
fronte a Livorno. Gli argomenti portati, senza successo, dai cittadini nella loro
battaglia per impedirne l’installazione (Valori n° 41, giugno 2006) andavano dal-
la pericolosità dell’impianto e la sua inutilità alla privatizzazione del mare, al suo
pesante impatto ambientale e alla poca rilevanza dei posti di lavoro creati: la na-
ve della Olt (Offshore Lng Toscana) avrebbe dovuto riportare allo stato gassoso
il gas naturale liquefatto (Gnl) trasportato dalle gasiere a -161 gradi centigradi,
utilizzando acqua marina al ritmo di 500/600 milioni di litri al giorno. L’acqua sa-
rebbe poi stata reintrodotta in mare, ma clorata e più fredda di 16 gradi. Un pro-
cedimento che avrebbe desertificato l’ambiente floro-faunistico circostante.
La nave gasiera, inaugurata nel dicembre 2013, è inattiva, a riprova di quanto so-
stenevano i Comitati No Off-Shore. In compenso E.On e Iren, che ora controllano Olt,
hanno trovato il modo per rifarsi dei costi dell’installazione caricandoli sulle spalle
dei cittadini: il terminale galleggiante Fsru Toscana è stato riconosciuto “infrastrut-
tura strategica per la sicurezza energetica nazionale” e quindi non solo è stato de-
stinato a deposito di gas per le emergenze, ma grazie a una clausola di garanzia ri-
ceverà in pagamento almeno il 64% della tariffa, anche se resterà vuoto. [Pa.Bai.]
MARE DA DIFENDERE DOSSIERDOSSIER MARE DA DIFENDERE
16 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015

ONLINE
Global Aquaculture Alliance
www.gaalliance.org
Best Aquaculture Practices - BAP
bap.gaalliance.org
Legambiente
www.legambiente.it
Marevivo
www.marevivo.it
Slow Food
slowfish.slowfood.it
Sundrop
www.sundropfarms.com
17valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
19
FINANZA ETICA
valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
SCOPPIA
LA GUERRA
DEL PETROLIO
Il crollo del prezzo del barile
inguaia le compagnie
americane. Un vantaggio
per l’Arabia Saudita,
ma non per i bilanci
di molti membri Opec
U
na volta tanto la speculazione non c’entra.
Ma le buone notizie, purtroppo, finiscono
qui. Il clamoroso tracollo del prezzo del pe-
trolio sperimentato a partire dalla scorsa estate di
fronte al più classico dei fattori “materiali” – l’ec-
cessodiofferta,ovviamente–hagettatonelloscon-
forto un po’ tutti. Dai grandi malati di inflazione
(Russia e Venezuela) al fondo sovrano norvegese,
che nonostante tutto ha scelto ancora di puntare
sull’oro nero (vedi ), passando per gli operatori
del comparto obbligazionario corporate statuni-
tense. Un settore chiave, quest’ultimo, che a modo
suo sembra raccontare meglio di chiunque altro il
significato più intimo dell’attuale bearish moment.
E che moment, a leggere le cifre.
A metà giugno, il petrolio americano (West
Texas Intermediate,WTI) aveva toccato il suo picco
annuale a 107,52 dollari. Sei mesi dopo il suo valore
era sceso fino a quota 56 (vedi ). Nello stes-
so periodo, il rendimento medio dei junk bond sta-
tunitensi, misurato dall’indice Merrill Lynch US
BOX
GRAFICO 1
di Matteo Cavallito
comparto potrebbe toccare quota 8%. Il
doppio dell’anno precedente.
ARABIA SAUDITA ALL’ATTACCO
«Se il prezzo dovesse rimanere troppo
basso troppo a lungo le società america-
ne produttrici di shale oil dovranno pa-
gare un conto salatissimo», nota ancora
Galeotti secondo cui proprio le analisi sul
mercato americano potrebbero aver oc-
cupato parte delle «riflessioni fatte dai
Paesi Opec a Vienna lo scorso 27 novem-
bre». Nell’occasione, l’Arabia Saudita ha
confermato la scelta di non tagliare la
produzione assecondando quindi la ca-
duta dei prezzi. Una mossa, sostiene Lui-
gi De Paoli, ordinario di Economia del-
l’energia e di Economia dell’ambiente
dell’Università Bocconi di Milano (vedi
), che finisce per «frenare i pro-
getti più costosi dei Paesi concorrenti»
(shale Usa in testa) mettendo in crisi pe-
rò gli anelli deboli dell’Organizzazione. Il
pensiero corre ovviamente a Iran eVene-
zuela che per compensare i propri deficit
di bilancio, ha notato l’Economist, neces-
siterebbero di prezzi di mercato prossimi
rispettivamente a 140 e 160 dollari per
barile contro i 100 dollari dell’Arabia Sau-
dita. Ma quello individuato per Ryad re-
sta un valore teorico, visto che il Paese, al
pari di Kuwait ed Emirati Arabi, non è co-
stretto a finanziare la spesa corrente con
le sole entrate petrolifere odierne. Ovve-
ro può sopportare, a differenza di altri
concorrenti, un fruttuoso quanto pro-
lungato periodo di ribasso. Condizione
necessaria per vincere qualsiasi guerra
dei prezzi. ✱
INTERVISTA
High Yield Master II, è passato da 5,24 a
7,28 punti percentuali. Contemporanea-
mente, lo spread tra quest’ultimo e i titoli
di Stato Usa a 10 anni è cresciuto di 260
punti base (2,6%, vedi ). Dal punto
di vista degli operatori, in altre parole, gli
investimenti nel settore junk (alto rendi-
mento) sono diventati di colpo molto più
rischiosi alimentando, almeno in parte,
l’alternativa degli“asset rifugio” (i titoli del
debito pubblico). Ma il bello, o per meglio
dire il brutto, della vicenda è che a perfor-
mare ancor peggio della media sono state
proprio le obbligazioni spazzatura del set-
tore energetico che tra giugno e dicembre,
ha riferito Bloomberg riprendendo i dati
di Merrill Lynch, hanno visto i loro rendi-
menti medi passare da 5,7 a quota 9,5%.
Un incremento di 380 punti base, ovvero
1,2 punti percentuali “peggio” del com-
parto junk nel suo complesso.
BOLLA ENERGETICA
Il fatto, ha notato Bloomberg, è che anni
e anni di tassi a zero e di Quantitative
Easing (QE, l’iniezione di liquidità attra-
verso il riacquisto del debito da parte del-
la Fed) hanno favorito a lungo la corsa
agli alti rendimenti alimentando la do-
manda di obbligazioni più rischiose. A
beneficiare dell’afflusso di investimenti
sono state in particolare le società ener-
getiche trascinate a loro volta dal boom
dello shale oil, le cui fortune, come noto,
dipendono in larga parte da alti livelli di
prezzo del petrolio. Non stupisce, di con-
seguenza, che la flessione del barile – fa-
vorita dalla fine del QE stesso, che dei
precedenti rialzi dell’oro nero era stato in
parte responsabile – abbia fatto saltare il
banco. L’analisi di Bloomberg appare
«assolutamente realistica» spiega a Valo-
ri Fabio Galeotti, analista di Saxo Bank
secondo il quale «la battaglia dei prezzi»
starebbe ormai «entrando nel vivo». Il
guaio è che la scommessa Usa sul com-
parto shale ha implicato puntate di gros-
so calibro che oggi suscitano ampie pre-
occupazioni. Dal 2010 ad oggi, notano gli
analisti di Deutsche Bank ripresi ancora
da Bloomberg, le compagnie energeti-
che  hanno raccolto prestiti per oltre
mezzo trilione di dollari e alcune di loro
non saranno in grado di restituirli. Nel
corso del 2015, sostiene la società di ri-
cerca CreditSights, il tasso di default nel
GRAFICO 2
di Matteo Cavallito
Eccesso di offerta per lo shale
oil Usa e domanda stagnante.
Le cause del crollo del barile
«Un insieme di fattori fisici e di aspetta-
tive». Secondo Luigi De Paoli, professore
ordinario di Economia dell’energia e di Eco-
nomia dell’ambiente presso l’Università
Bocconi di Milano, il forte ribasso speri-
mentato dal barile a partire dalla scorsa
estate si spiega essenzialmente così. Un
problema di «eccesso di offerta», dovuto
soprattutto all’incremento della produzione
Usa di shale oil e a una domanda stagnan-
te di Cina e Paesi Ocse, non più controbilan-
ciato dal timore di una possibile crisi delle
forniture. «Per un certo periodo l’effetto ri-
bassista legato al rallentamento dei Paesi
emergenti è stato compensato dalla paura
delle conseguenze della crisi geopolitica in
Medio Oriente, fino a quando…».
Fino a quando?
Fino al punto in cui si è capito che anche
l’Isis aveva interesse a vendere il suo pe-
trolio e che, nonostante tutto, la produzione
non si sarebbe contratta ulteriormente,
malgrado le crisi in Libia e nello scacchiere
medio-orientale, ovvero che nessuna crisi
politica, al di là di qualche oscillazione di
breve periodo, sarebbe stata in grado di ta-
gliare l’offerta. Il fuoco comunque covava
sotto la cenere e da un po’ di tempo vi era-
no segnali che il prezzo del petrolio era trop-
po alto, almeno guardando al suo rapporto
con il prezzo del gas.
Cioè?
Storicamente, a parità di energia prodotta, il
prezzo del petrolio tende a superare quello
del gas di 1,5 o 2 volte circa. Negli ultimi an-
ni, tuttavia, il rapporto registrato negli Stati
Uniti si è allargato fino a 6-7 volte. Uno squi-
librio tra due prodotti almeno in parte sosti-
tuibili che doveva essere compensato o dal
rialzo dell’uno, cosa che è avvenuta molto li-
mitatamente, o, per l’appunto, dal ribasso
dell’altro. Con un prezzo del petrolio attorno
a 40 dollari al barile siamo ritornati quasi al-
la situazione di equilibrio tradizionale.
Parliamo delle conseguenze: ci sono pro-
blemi evidenti per molti Paesi esportatori?
Alcuni Paesi, come Arabia Saudita, Kuwait ed
Emirati Arabi, hanno saputo tesaurizzare la
produzione degli anni passati e per questo
PETROLIO E FUTURO
«LA VERA BATTAGLIA? OPEC VS NON OPEC»
possono permettersi di sopportare un certo
periodo di ribasso prolungato. Molti altri, co-
me Iran e Russia ad esempio, saranno inve-
ce costretti a tagliare la loro spesa corrente o
i loro investimenti – che sono finanziati dai
ricavi del settore petrolifero –, una scelta che
potrà deprimere il commercio mondiale.
Un problema anche per noi importatori,
insomma…
Non è detto. È vero che la riduzione della spe-
sa russa costituisce un problema per l’Euro-
pa. Ma va detto che la contrazione di quella
iraniana non dovrebbe avere effetti significa-
tivi per l’Occidente senza contare, inoltre, che
la riduzione del prezzo del petrolio rappre-
senta anche uno stimolo ai consumi, ovvero
una spinta per i Paesi importatori.
Si dice che i rapporti all’interno dell’Opec non
siano mai stati così tesi. È in atto uno scon-
tro tra l’Arabia Saudita e l’asse Iran-Iraq?
Non c’è dubbio che nell’area del Golfo vi sia-
no conflitti economici e religiosi tra sciiti e
sunniti che pesano nei rapporti tra i diversi
Paesi, ma non parlerei propriamente di
“scontro”. La situazione attuale mi fa pen-
sare più che altro alla riproposizione del
vecchio modello “Opec anni ’80”.
Ovvero?
Paesi come Iran e Iraq, che sono costretti a
produrre al massimo della loro capacità,
chiedono a chi se lo può permettere un ta-
glio produttivo a difesa dei prezzi, qualcosa
di simile a quanto avvenuto tra il 1981 e il
1985, quando l’Arabia Saudita ridusse la
sua produzione giornaliera da 9 a 2,5 milio-
ni di barili. Solo che oggi si pone un altro
problema: quello del rapporto tra l’Opec e gli
altri produttori.
E qui entra in gioco il fattore shale, vero?
Certamente, ma non solo. I Paesi produtto-
ri non-Opec studiano progetti di sviluppo
nell’Artico e continuano a incrementare la
produzione offshore e quella dello shale oil,
ovvero del petrolio più costoso. Ma, sicco-
me il mondo punta a una riduzione del peso
degli idrocarburi per lottare contro i cam-
biamenti climatici, è chiaro che questa si-
tuazione non potrà andare avanti a lungo.
Per questo motivo l’Arabia Saudita – che,
insieme agli altri Paesi Opec, controlla la
maggior parte delle riserve petrolifere a
basso costo di estrazione del Pianeta – ha
tutto l’interesse a estrarre il “suo” petrolio
ora per portare a casa un profitto significa-
tivo in tempi ragionevoli, favorendo con-
temporaneamente un ribasso dei prezzi che
sia in grado di frenare i progetti più costosi
dei Paesi concorrenti.
oro nero in caduta libera finanza etica
21valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
finanza etica oro nero in caduta libera
20 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
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feb03,2014
gen01,2014
Prezzo per barile (WTI)
[in dollari Usa]
IL CROLLO DEL BARILE
FONTE: U.S. ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION (WWW.EIA.GOV), GENNAIO 2015
Spread [punti %]
Merrill Lynch US High Yield
Master II / US Treasuries 10y
8,00
7,00
6,00
5,00
4,00
3,00
2,00
2010
2011
2012
2013
2014
2015
ANDAMENTO DEL RISCHIO SULLE OBBLIGAZIONI SPAZZATURA
FONTE: FEDERAL RESERVE BANK OF ST. LOUIS (HTTP://RESEARCH.STLOUISFED.ORG/), GENNAIO 2015.
NOSTRE ELABORAZIONI
HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG/PRIWO
LA NORVEGIA INVESTIRÀ ANCORA NEL FOSSILE
Il fondo sovrano norvegese non dovrebbe avviare il disinvestimento automatico dalle im-
prese del comparto delle fonti fossili, limitandosi, piuttosto, a valutare le ipotesi di esclu-
sione con un’analisi “caso per caso”. È la raccomandazione avanzata da un gruppo di sei
esperti allo stesso governo di Oslo. La squadra di periti, guidata dal consulente indipen-
dente Martin Skancke, ha giudicato gli investimenti nei comparti del carbone e del petro-
lio compatibili con quegli stessi princìpi etici che – ha ricordato il quotidiano norvegese
in lingua inglese The Local - avevano ispirato in passato l’esclusione dal portafoglio del-
le imprese attive nel settore delle armi “particolarmente disumane” e del tabacco così co-
me i gruppi coinvolti in qualche modo con il fenomeno del lavoro minorile o con la viola-
zione dei diritti umani. Con 700 miliardi di euro di asset gestiti, quello di Oslo è tuttora il
più grande fondo sovrano del mondo. [M.Cav.]
investimenti speculativi finanza etica
23valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
finanza etica oro nero in caduta libera
22 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
Gli studenti
gridano: “Stop
alle fonti fossili!”
L’anno nero
dei fondi hedge
I
l 13 e il 14 febbraio sono date particolari per le
università più prestigiose al mondo. In calen-
dario non ci sono cerimonie accademiche,
ma il Global Divestment Day: due giorni in cui gli
studenti di tutto il Pianeta, affiancati in molti casi
dai professori, hanno organizzato sit-in, marce
pacifiche, flash mob e altre iniziative creative per
lanciare un messaggio chiaro: gli atenei devono
smettere di investire nei combustibili fossili.
I RISULTATI NEGLI USA
Il movimento è nato nei campus americani nel
2010, con i tentativi pionieristici dello Swarthmo-
re College in Pennsylvania, seguito dal 2012 da un
numero crescente di istituti. Erano made in Usa
anche le campagne di boicottaggio degli scorsi de-
cenni contro l’industria del tabacco o il Sudafrica
dell’apartheid, ricorda un rapporto pubblicato a
ottobre 2013 dalla Smith School of Enterprise and
Environment dell’Università di Oxford. In con-
fronto a questi precedenti, sottolinea il report, i ri-
sultati conseguiti in queste poche manciate di me-
si sono di tutto rispetto. Già tredici università e
college Usa sono passati dalle parole ai fatti, vo-
tando per il “no” agli investimenti nelle fonti in-
quinanti. Sono soprattutto realtà di piccole di-
mensioni, come il californiano Pitzer College, che
lo scorso aprile ha scelto di ritirare i capitali e ri-
durre del 25% la propria impronta ambientale en-
tro il 2016. L’eccezione, di tutto rispetto, è la Stan-
ford University, che gestisce 21,4 miliardi di
dollari. Dopo mesi di contestazioni studentesche,
a maggio il Consiglio dell’ateneo ha deliberato il
ritiro di tutti gli investimenti nei colossi del carbo-
ne. Ma non è abbastanza, affermano a gran voce
trecento professori in una lettera inviata a genna-
io al presidente e al Consiglio: bisogna dire addio
anche a petrolio e gas naturale.
È andata peggio ai vertici dell’Università di
Harvard, citati in giudizio a novembre da sette stu-
denti che li accusano di «cattiva gestione delle do-
nazioni» e chiedono di prendere una posizione
netta sul clima, per conto degli studenti e «delle fu-
ture generazioni». In attesa della pronuncia della
Corte, il presidente dell’Ateneo, Drew Gilpin Faust,
non cede: il fondo dell’università, dice, è «una ri-
sorsa, non uno strumento per incitare cambia-
menti sociali o politici». È di parere diverso l’Au-
stralian National University, che a ottobre ha detto
addio a sette società petrolifere e minerarie che
rappresentavano circa l’1% dei suoi investimenti.
…E IN EUROPA
Anche in Europa qualcosa si muove. Lo scorso 8 ot-
tobre, dopo un anno di proteste da parte di 1.300
studenti e docenti, il Consiglio dell’Università di
Glasgowharitiratocapitaliper18milionidisterline.
Mentre a Edimburgo e Oxford si medita sul da farsi,
allalondineseUCLlastradaèinsalita.Sonocirca21
milioni di sterline i patrimoni stanziati, più o meno
direttamente, in società che operano coi combusti-
bili fossili. Gli studenti interpellati da Valori si di-
chiarano «delusi dalle risposte e dalle false promes-
se». E annunciano di «intensificare la campagna
fino a quando non si vedranno progressi reali».
La Smith School of Enterprise and Environ-
ment, però, mette i puntini sulle “i”: gli atenei
americani hanno investito nelle società minerarie
e petrolifere il 2% dei loro asset, percentuale che
sale al 4% nel Regno Unito, dove tali aziende sono
più rappresentate in Borsa. Ciò significa che, an-
che se le università si mobilitassero in massa, non
dovremmo certo aspettarci un repentino crollo
delle quotazioni. Le conseguenze più rilevanti, se-
condo gli studiosi, sarebbero semmai quelle indi-
rette,a lungo termine, quando sulle big delle ener-
gie inquinanti si è ormai abbattuto uno stigma che
allontana potenziali investitori, fornitori, clienti,
dipendenti. E che può spingere i governi a osare di
più nelle politiche per il clima. ✱
Dopo le
campagne
contro
l’industria del
tabacco e
l’apartheid in
Sudafrica, gli
studenti di
tutto il mondo
lanciano una
nuova sfida:
stop agli
investimenti
nelle fonti
energetiche
inquinanti da
parte delle
università
di Valentina Neri di Matteo Cavallito
A
certificare la crisi ci ha pensato la Chica-
go Hedge Fund Research, rendendo noti
gli ultimi dati del settore. Nel primo se-
mestre del 2014, l’ultimo periodo per il quale sono
disponibili cifre definitive, i fondi hedge chiusi
sotto il peso di performance negative sono stati
461. Un dato che impressiona, soprattutto nel
confronto con gli anni passati. Al ritmo attuale,
ha notato infatti Bloomberg, la conta dei caduti
registrata alla fine dell’anno (ma i numeri defini-
tivi non sono ancora noti) potrebbe aver rag-
giunto il valore teorico di 922. Ovvero il livello più
alto dal 2009, il famigerato annus horribilis dei
mercati finanziari in cui le chiusure dei fondi su-
perarono quota mille (vedi ). Ad alimenta-
re il fenomeno, ovviamente, ci sono i modesti
rendimenti offerti dal comparto che, nel corso
del 2014, si sono attestati a un livello medio del
2%, la peggior performance dal 2011. L’indice
BarclayHedge (nessuna parentela con l’istituto
Barclays) – che analizza un paniere composto da
migliaia di fondi – ha calcolato un rendimento
medio per l’anno appena concluso prossimo al
4%, un dato apparentemente più confortante,
ma pur sempre lontano dalle performances tipi-
che registrate in passato quando i risultati in
doppia cifra erano stati frequenti (vedi ).
Un fenomeno particolarmente critico, che acui-
sce, tra gli altri, l’annoso problema dei costi di ge-
stione (vedi ).
COMMODITIES ED EMERGENTI
In un anno caratterizzato da rendimenti modesti,
ha notato Bloomberg, a patire in modo particola-
re sono stati i fondi attivi nel comparto materie
prime. Tra questi Hall Commodities LLP, un hedge
londinese da 100 milioni di dollari che ha chiuso i
battenti a ottobre dopo due anni di attività, e il
fondo di settore della Brevan Howard Asset Mana-
gement LLP, un veicolo d’investimento da 630 mi-
lioni di dollari chiuso dalla stessa casa madre (una
maxi creatura da 37 miliardi) dopo lo sconfortan-
te -4,3% registrato quest’anno. Determinante il ca-
lo dei prezzi del comparto su cui pesa, negli ultimi
tempi, il forte ribasso del petrolio. Ma, accanto al
trend ribassista del barile, notava a fine novembre
la CNBC, altri fattori chiave come il deprezzamen-
to di alcune valute (tra cui il real brasiliano e ov-
viamente il rublo) e le tensioni geopolitiche (con-
flitto Russia-Ucraina in testa) avrebbero finito per
condizionare negativamente il mercato, contri-
buendo così a influire sui destini di un altro com-
parto chiave per gli investimenti alternativi: quel-
lo dei mercati emergenti.
BOX
GRAFICO 1
GRAFICO 2
Record di chiusure e rendimenti ai minimi. Per i fondi hedge il 2014
è stato un anno da dimenticare. Pesa il calo delle materie prime,
ma alcuni errori strategici partono da lontano
FONDO SPECULATIVO, QUANTO MI COSTI!
Costosi. Tanto. Anzi, troppo. Soprattutto in relazione ai risultati. Sono i fondi
hedge, già protagonisti di deludenti performance di mercato, e ora nel mirino di
una clientela costretta a sobbarcarsi costi di gestione decisamente elevati. Lo
ha riferito Bloomberg citando, tra le altre, le critiche mosse dalla Alignment of
Interests Association (AOI), un gruppo di pressione che rappresenta gli interes-
si degli investitori nel comparto. Alcuni operatori, come il fondo pensione degli
insegnanti texani, chiedono a gran voce ai fondi di vincolare le commissioni im-
poste agli investitori ai risultati raggiunti. A settembre, PMT, il fondo pensione
dei lavoratori dell'industria siderurgica olandese, e Calpers, l’omologo dei di-
pendenti pubblici della California, hanno annunciato il disinvestimento dagli
hedge a causa dei costi eccessivi. I manager dei fondi hedge, che gestiscono
asset complessivi per 2,8 trilioni (mila miliardi) di dollari a livello globale, ricor-
da Bloomberg, sono tuttora tra i più pagati di Wall Street.
un cappotto normativo finanza etica
25valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
Nel corso del 2014, osservava l’emittente Usa,
gli investimenti degli hedge nel continente lati-
noamericano avrebbero reso circa il 3,5%, una
performance molto modesta. Quelli condotti in
Russia, da parte loro, si sarebbero rivelati a dir po-
co disastrosi registrando addirittura una perdita
complessiva del 12%. A fare eccezione, trascinati
dai rialzi del mercato azionario locale, sono stati
invece gli investimenti dei fondi attivi in India, ca-
paci, sempre secondo CNBC, di centrare un rendi-
mento annuale medio del 42% circa.
L’ONDA LUNGA
DEI BASSI RENDIMENTI
Per quanto rilevanti nel loro insieme, tuttavia, i
trend più recenti sperimentati dal mercato – com-
modities, Russia e svalutazioni varie – sembrano
in grado di offrire una spiegazione solo parziale,
oscurando, nel marasma delle cifre, quello che in
realtà appare a qualcuno come un fenomeno di
medio-lungo periodo. «Il 2014 è stato indubbia-
mente segnato da numeri negativi, ma la verità è
che gli hedge fund sono in declino già dai tempi
del crack Lehman quando molti operatori, che si
erano trovati a fare i conti con fondi alternativi
illiquidi, hanno iniziato a vendere innescando
così un meccanismo al ribasso», spiega Raffae-
le Zenti, socio fondatore e responsabile dell’area
Financial Strategies della società di consulenza
Advise Only.
Un declino «che parte da lontano», insomma,
come evidenziano alcuni confronti impietosi.
«Prendiamo l’HFRX Equity Hedge Index, un indi-
ce di riferimento dei fondi che investono nel mer-
cato azionario», nota Zenti. «Dalla fine del 2008 ad
oggi (intervista del 18 dicembre 2014, ndr) il suo
total return, ovvero il rendimento complessivo, di-
videndi compresi, è stato del 2,6%, come a dire in
media 52 punti base, o lo 0,52%, all’anno. Nello
stesso periodo l’MSCI World, un indice di riferi-
mento per i mercati azionari delle economie avan-
zate, ha raggiunto una media annuale del 10,71%,
ovvero 1071 punti base, registrando un total re-
turn complessivo del 66% circa. Come si può ve-
dere siamo su due ordini di grandezza completa-
mente diversi».
Sugli scarsi rendimenti pesano diversi fattori,
«a cominciare dall’inasprimento dei controlli che
ha un’inevitabile ricaduta sui costi di gestione dei
fondi» e proseguendo con «la forte concorrenza
all’interno del settore».
Ma l’aspetto maggiormente decisivo, forse, è di
natura strategica. «Dallo scoppio della crisi in
avanti i mercati sono stati guidati, per così dire,
dalle idee “macro”, legate alla politica monetaria e
d’indirizzo dei mercati come il Quantitative Ea-
sing, ad esempio, e gli interventi della Troika nel-
l’eurozona» spiega ancora Zenti. «Chi ha saputo
valutare dall’alto con analisi ragionate e comples-
sive l’impatto di grandi fenomeni, come la politi-
ca monetaria espansiva americana o la crisi del-
l’euro, ha fatto bene. I fondi che si sono affidati
maggiormente a un approccio di tipo quantitativo
– analisi di dati statistici confronto tra titoli simili,
uso di metodi algoritmici – al contrario, possono
essersi trovati in difficoltà nel centrare in pieno i
rendimenti del mercato». Un’impasse che trova ri-
scontro soprattutto nel comparto azionario, una
potenziale miniera d’oro di cui i fondi non hanno
saputo approfittare adeguatamente. Dal 2008 ad
oggi, ha notato Bloomberg, le azioni presenti nei
portafogli dei fondi equity del comparto hedge
hanno reso il 41%. Nello stesso periodo, l’indice
Standard & Poor’s 500, uno dei principali punti di
riferimento delle Borse, ha registrato una crescita
del 153%. ✱
finanza etica investimenti speculativi
24 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
0
100
200
300
400
500
600
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800
900
1.000
1.100
1.200
1.300
1.400
1.500
1.600
2014
(1° sem.)
201320122011201020092008
1.471
1.023
743
775
873
904
461*
NUMERO DI FONDI HEDGE CHIUSI 2008-14
FONTI: BLOOMBERG, DICEMBRE 2014; BLOOMBERG BUSINESSWEEK, DICEMBRE 2009; FINANCIAL TIMES, MARZO 2013;
OPALESQUE, DICEMBRE 2014; THINKADVISOR, MARZO 2014; NOSTRE ELABORAZIONI. *DATO AL PRIMO SEMESTRE
-30%
-20%
-10%
0%
10%
20%
30%
40%
2014
2013
2012
2011
2010
2009
2008
2007
2006
2005
2004
2003
2002
2001
2000
1999
1998
199722,35%
8,23%
36,56%
12,19%
6,77%
1,42%
17,99%
8,80%
10,67%
12,39%
10,22%
8,25%
11,12%
3,89%
23,74%
10,88%
-5,48%
-21,63%
IL RENDIMENTO ANNUALE MEDIO DEI FONDI HEDGE 1997-2014
FONTE: BARCLAYHEDGE ALTERNATIVE INVESTMENT DATABASE (WWW.BARCLAYHEDGE.COM), GENNAIO 2015
Microcredito:
la legge è operativa
finalmente!
I
n piena crisi economica, tra il 2011 e il 2013, c’è
uno strumento che ha permesso di creare cir-
ca 20mila posti di lavoro in Italia. È il microcre-
ditoproduttivo:piccoliprestiti(25milaeuroalmas-
simo) che hanno permesso a chi avrebbe ricevuto
un “no” da una qualsiasi banca di avviare un’attivi-
tà produttiva. In tre anni ne sono stati concessi più
di 8mila. È la fotografia scattata dal IV rapporto del-
l’Ente nazionale per il microcredito. Un fenomeno
in crescita (in 3 anni le somme erogate sono quasi
raddoppiate, dai 42 milioni di euro del 2011 ai
76 milioni del 2013, per i microprestiti d’impresa),
per il quale però la domanda supera di gran lunga
l’offerta: i microcrediti produttivi concessi coprono
solo il 30% della domanda reale. «Dall’analisi risul-
ta una carenza di offerta per il microcredito d’im-
presa, che avrebbe potuto essere in parte incre-
mentata dall’intervento del legislatore. Ma così non
è stato». È la denuncia del presidente dell’Ente na-
zionale per il microcredito, Mario Baccini.
Questo strumento finanziario, infatti, pur es-
sendosi dimostrato molto utile, fino ad oggi era
“zoppo”, gli mancava un capotto giuridico. A dire il
vero la “rivoluzione” era avvenuta più di quattro
anni fa, quando, con la riforma del Testo unico
bancario, era stato inserito un articolo, il 111, inti-
tolato proprio “microcredito”, che definiva i con-
torni legislativi di questo particolare strumento fi-
nanziario (definizione, importi, requisiti dei
soggetti erogatori). Peccato che nei successivi
quattro anni nulla si sia mosso per rendere opera-
tiva la legge. Solo lo scorso dicembre, finalmente,
è stato approvato il regolamento attuativo, che
purtroppo non è stato accolto con scrosci di ap-
plausi. “Ben venga questo passaggio che permette
di applicare la norma dopo quattro anni, ma sono
molti i limiti introdotti”, è il commento più o me-
no unanime degli operatori del settore.
LUCI E (MOLTE) OMBRE
«Un passaggio normativo fondamentale per gli
operatori del settore», aveva commentato a caldo
Ritmi, Rete italiana microfinanza, secondo cui,
però, il regolamento attuativo è solo il punto di
partenza per una normativa ancora tutta da scri-
vere. «Accogliamo positivamente il regolamento
attuativo dell’articolo 111 che definisce il percor-
so da intraprendere per diventare operatori di mi-
crocredito», dichiara Ugo Biggeri, Presidente di
Banca Popolare Etica, secondo cui però «Alcuni li-
miti oggettivi nel quadro normativo ostacolano il
riconoscimento come operatori di microcredito
di esperienze storiche». E, continua Biggeri «il tet-
to di 200mila euro di fatturato e di 5 anni di attivi-
tà limita eccessivamente i potenziali beneficiari
ed esclude le micro imprese in stato di crisi». Una
delle principali critiche alle novità introdotte dai
regolamenti attutivi riguarda proprio i requisiti
per poter beneficiare di un microcredito. Il legi-
slatore, a quanto pare, a voluto riservare i prestiti
a realtà giovani, start up, escludendo però una lar-
ga fetta di possibili beneficiari. «In questo modo
la norma non rispetta l’intenzione espressa dal
legislatore 4 anni fa di rafforzare il ruolo del mi-
crocredito come strumento per politiche attive
del lavoro», commenta Mario Baccini.
«Il regolamento attuativo introduce una defi-
nizione più rigida di microcredito, degli erogatori
ammessi e dei beneficiari», spiega Andrea Limo-
ne, amministratore delegato di Permicro, la socie-
Dopo 4 anni è stato approvato il regolamento attuativo dell’articolo
dedicato al microcredito (111 del Tub). Gli esperti esprimono
soddisfazione per una norma che diventa operativa. E molte critiche
di Elisabetta Tramonto
tà torinese che dal 2007 eroga microcredito. «Que-
sto da un lato evita che soggetti che in realtà non
si occupano di microcredito, usino impropria-
mente questo termine – continua Andrea Limone
– dall’altro però, introduce una serie di difficoltà
anche per chi si occupa davvero di microfinanza».
Ma alla domanda chiave: “questi decreti per-
metteranno di concedere più microprestiti?” la ri-
sposta sembra unanime: no. «Se non ci sono van-
taggi significativi per gli erogatori, non nascerà
più mercato. E dalla norma attuale non vedo que-
sti vantaggi significativi», risponde Andrea Limo-
ne. «Di certo la normativa attuale non è sufficien-
te per sviluppare il settore», aggiunge Giampietro
Pizzo (vedi sotto). «Manca una serie di
tasselli per incrementare l’offerta – spiega Mario
Baccini – dalla formazione alle agevolazioni fisca-
li, dai servizi di accompagnamento a risorse spe-
cifiche per il settore».
SOLO PER LA FINANZA MUTUALISTICA
Chi sta festeggiando per il nuovo regolamento so-
no le realtà della finanza mutualistica, come le
Mag (Mutue di autogestione), o almeno una par-
te di esse. «Mentre nella stesura dell’articolo 111
la finanza mutualistica non era neanche citata,
nel regolamento attuativo le viene riservato un in-
tero articolo: il 16, intitolato “Operatori di finanza
mutualistica e solidale”», spiega Patrizio Monti-
celli, presidente di Mag2 Finance. A questa cate-
goria il legislatore ha riservato una serie di dero-
ghe rispetto agli altri operatori, per esempio nel
tetto degli importi erogabili (75mila, invece di
25mila) e nella durata massima del prestito (10
anni, invece di 7). Se le Mag potranno essere
“operatori di microcredito” è tutto da vedere («di-
penderà anche dalla capacità di rispettare le ri-
chieste operative e burocratiche contenute nel
regolamento», spiega ancora Monticelli), fatto sta
che la valenza simbolica dell’articolo dedicato al-
la finanza mutualistica è elevato. ✱
INTERVISTA
di Elisabetta Tramonto
Il regolamento attuativo è una
condizione necessaria, ma
non sufficiente per
svuluppare il settore del
microcredito in Italia
«Oggi il 25% degli italiani affronta una
condizione di esclusione finanziaria. La cri-
si da anni colpisce in particolare le fasce
più deboli della popolazione: giovani, don-
ne, disoccupati, migranti, che non trovano
risposte nel sistema bancario tradizionale.
E molti piccoli imprenditori non riescono a
ottenete prestiti. Il microcredito è da più
parti riconosciuto come un efficace stru-
mento di lotta alla povertà e di contrasto al-
l’esclusione finanziaria e sociale. Ma non
può rimanere riservato a poche migliaia di
persone, deve diventare uno strumento ac-
cessibile a tutti. È l’Europa a chiederlo. In
Italia il microcredito continua a crescere in
termini di erogazioni (vedi alla pa-
gina precedente, ndr), ma non soddisfa an-
cora la crescente domanda, anche a causa
delle difficoltà provocate dalla mancanza di
un quadro normativo appropriato». Descri-
ve così il crescente bisogno di microcredi-
to in Italia Giampietro Pizzo, presidente di
Ritmi (Rete Italiana Microfinanza).
L’approvazione del regolamento attuativo
dell’articolo 111 è una buona notizia?
Certamente sì, anche se, per come è stato
scritto, comporta una serie di limiti. È un
fattore positivo, innanzitutto, perché rende
operativa una norma che per quattro anni
era rimasta sulla carta. E, in secondo luogo,
perché consente un salto di qualità nell’of-
ferta di servizi finanziari inclusivi in Italia: si
passa da una logica a progetto a una logica
più istituzionale, capace di garantire una
presenza permanente sul territorio.
Quali aspetti invece non la convincono?
Il regolamento attuativo approvato ha una
serie di limiti. Riguardano, per esempio, i be-
neficiari dei microprestiti d’impresa: posso-
no essere finanziate solo imprese costituite
da non più di 5 anni. Una logica che favori-
sce le start up, ma esclude tutte le realtà
preesistenti, riducendo quindi la portata del
microcredito come strumento per politiche
del lavoro attive. I beneficiari vengono sele-
zionati anche sulla base delle dimensioni,
favorendo le microimprese e tagliando fuori
le realtà un po’ più grandi, ma comunque
piccole. Oltre ad essere stata introdotta una
serie di regole macchinose che rendono
complesso anche stabilire il tasso di inte-
resse da applicare.
Ci sarebbe molto da migliorare, quindi…
L’articolo 111 è una condizione necessaria,
ma non sufficiente per lo sviluppo del setto-
re. Occorre al più presto una legislazione
specifica, che, per esempio, introduca delle
agevolazioni fiscali e preveda adeguate ri-
sorse per promuovere la microfinanza. Come
Ritmi abbiamo proposto due progetti di leg-
ge che ora sono in attesa di discussione alla
Camera dei Deputati. L’attenzione riservata
dalla Presidente Laura Boldrini al tema del
microcredito ci fa ben sperare.
ARTICOLO
UN PRIMO PASSO, MA C’È ANCORA MOLTO DA FARE
VALORITECA
I MIGLIORI TWEET DEL MESE
Credito erogato +5%, sofferenze 2,5%
(media banche italiane 9,5%).
Alcuni numeri di @bancaetica nel 2014
15 gennaio @abaranes
Basta lamentele, titola @DIEZEIT
#Germania ha approfittato dell'euro e della crisi.
Ora tocca agli altri Paesi.
23 gennaio @meggio_m
MININEWS
Gli hedge cinesi
dietro al crollo del rame
Meno 6,4%. Ovvero il più consistente deprezzamento da più
di tre anni a questa parte. È la performance negativa fatta
registrare dal rame nella seconda settimana di gennaio.
Un tracollo di cui sarebbero largamente responsabili le strategie
speculative dei fondi cinesi, sempre più protagonisti nel
mercato delle materie prime e dei metalli in particolare.
Lo ha sostenuto il Financial Times.
NEWS
Usa, cresce
il “dark trading”
sulle azioni
2.560 milioni di dollari, oltre due miliardi
e mezzo di biglietti verdi, registrati nel
terzo trimestre 2014. È l’ammontare
crescente (+3% rispetto allo stesso
periodo dell’anno passato) dei volumi
medi di scambio giornaliero di azioni nelle
piattaforme extra borsistiche (dark pools)
americane. Lo riferisce l’ultima ricerca
di TABB Group. Una massa di operazioni
che copre ormai il 45% degli scambi totali.
27valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
finanza etica un cappotto normativo
26 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
 LIBRI
Hyman Philip Minsky
COMBATTERE LA POVERTÀ.
LAVORO NON ASSISTENZA
Ediesse, 2014
Una raccolta di saggi di Minsky ripubblicata oggi con un saggio
di Riccardo Bellofiore (economista dell'Università di Bergamo)
e Laura Pennacchi (economista ed ex-sottosegretario al Tesoro
nel primo Governo Prodi) analizza il ruolo dello Stato nel
combattere la povertà. Minsky affronta, negli anni Sessanta
e Settanta, il problema delle politiche di contrasto della povertà
adottate dalle amministrazioni statunitensi. Riccardo Bellofiore
e Laura Pennacchi propongono, come indica il titolo del loro
contributo – Crisi capitalistica, socializzazione degli investimenti
e lotta all’impoverimento – una riflessione sull’attuale situazione
di crisi e sul modo di uscirne che non sia quello regressivo
prospettato dalle politiche di austerità.
DISEGUAGLIANZA:
L’ASCESA DELL’1%
La ripartizione della
ricchezza globale
(per fasce di ricchezza)
[percentuale
di popolazione adulta]
<$10,000
$100,000-1m
>$1m
7,9
21,5
69,8
0,7
IL MICROCREDITO IN ITALIA: DOMANDE, PRESTITI CONCESSI E AMMONTARE
PER FINALITÀ. ANNO 2013
FONTE: PROGETTO MONITORAGGIO, ENTE NAZIONALE MICROCREDITO - MINISTERO DEL LAVORO
Domande valutate
Microcrediti
concessi
Erogati/
domande
valutate
Ammontare totale
erogato
Ammontare
medio per
prestito
v.a. % v.a. % Rapporto Euro % Euro
Sociale 10.067 42,8 5.958 59,9 59,2 26.014.073 25,4 4.366,2
Produttivo 13.461 57,2 3.983 40,1 29,6 76.323.653 74,6 19.162,4
Totale 23.528 100,0 9.941 100,0 42,3 102.337.726 100,0 10.294,5
$10,000-100,000
 129.107
 129.338
Pesce
 91.336
 66.633
[157.969]
MONDO

import

export
INDIA
 4.862  4.209 [9.071]
 18.228  7.441
CINA
 16.168  41.108 [57.276]
 6.278
VIETNAM
 2.623  3.086 [5.709]
 5.753  17.561
USA
 5.108  420 [5.528]
RUSSIA
 4.262  130 [4.392]
 17.991
GIAPPONE
 3.611  633 [4.244]
 8.912
NORVEGIA
 2.150  1.321 [3.471]
 53.120  47.000
UE
 4.420  1.260 [5.680]
INDONESIA
 5.814  3.068 [8.882]
ISLANDA
 1.449  5 [1.454]
FRANCIA
 461  205 [666]
SPAGNA
 882  267 [1.149]
 3.927  6.428
 6.064
ITALIA
 196  164 [360]
 5.562
CILE
 2.573  1.071 [3.644]
 4.386
THAILANDIA
 1.835  1.234 [3.069]
 8.079
29valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 201528 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
Nelle acque
DEL MONDO
Quasi 160 milioni di tonnellate. È la stima della
produzione mondiale di pesce calcolata dalle ultime
rilevazioni disponibili della Fao e dai più recenti dati
Ue. Un ammontare che si concentra soprattutto
in Cina (oltre 57 milioni di tonnellate prodotte), leader
globale davanti a India, Indonesia e Vietnam.
L’acquacoltura pesa sulla produzione totale per quasi
67 milioni di tonnellate (di cui 41 milioni circa coperte
dalla sola industria degli allevamenti cinesi) con
un’incidenza pari al 42%, destinata ad aumentare nei
prossimi anni a fronte dei forti ritmi di crescita del
segmento. Il commercio mondiale dei prodotti ittici,
stima ancora la Fao, vale quasi 130 miliardi di dollari,
53 dei quali coperti dalle sole operazioni dei Paesi
membri dell’Unione europea (ma si sale
a 66 considerando anche il peso di Norvegia
e Islanda). Con 47 miliardi di dollari di controvalore
l’Unione europea si conferma anche primo
importatore del Pianeta davanti al Giappone e agli
Stati Uniti. Quarta la Cina (7,4 miliardi), seconda nella
graduatoria dell’export (18,2 miliardi).
di Matteo Cavallito
numeri della terra menù a base di pesce
FONTI: NOSTRE ELABORAZIONI DA FAO, "THE STATE OF WORLD
FISHERIES AND AQUACULTURE 2014", EUMOFA - EUROPEAN MARKET
OBSERVATORY FOR FISHERIES AND AQUACULTURE, "THE EU FISH
MARKET 2014 EDITION", EUROSTAT, "FISHERY STATISTICS", MAGGIO
2014. PRODUZIONE: DATI IN MIGLIAIA DI TONNELLATE.
IMPORT/EXPORT: DATI IN MILIONI DI DOLLARI.
[produzione in migliaia di tonnellate, 2014]
 Pesca
 Acquacoltura
[produzione totale]
30 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 31valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
ECONOMIA SOLIDALE
IL MONDO
HA FAME
DI PESCE
Le economie emergenti
e in via di sviluppo trainano
il mercato globale del pesce:
fonte di proteine e di lavoro.
I consumi volano, ma l’Italia
è in controtendenza.
Boom per l’acquacoltura
U
n settore in crescita e non potrebbe essere
altrimenti. Comparto alimentare chiave
per molte economie emergenti, fonte pri-
maria di assimilazione di proteine animali nei
Paesi in via di sviluppo, segmento economico fon-
damentale per il lavoro nel continente asiatico, il
più popoloso del mondo. Bastano queste caratte-
ristiche, va da sé, a spiegare l’espansione del mer-
cato globale del pesce. Dal 1960 ad oggi, dicono i
dati Fao, il consumo annuale pro capite di prodot-
ti ittici è passato da 9,9 a 19 chili, con l’Europa – 24
kg secondo Ismea, ma l’Italia è in controtendenza
(vedi ) – a guidare la classifica per continenti.
La crescita, evidenzia ancora la Fao, si è con-
fermata ampiamente anche nell’ultimo quin-
quennio rilevato (+12,3%) grazie soprattutto al-
l’onda lunga del comparto cinese. Ad oggi Pechino
si conferma il primo produttore mondiale con ol-
tre 57 milioni di tonnellate di prodotti ittici (vedi
alle pagg. 28-29) pari a circa il 36% del tota-
BOX
MAPPA
di Matteo Cavallito
COP20 - Vincono le Lobbies (pag. 25-26-27)
COP20 - Vincono le Lobbies (pag. 25-26-27)
COP20 - Vincono le Lobbies (pag. 25-26-27)
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COP20 - Vincono le Lobbies (pag. 25-26-27)

  • 1. € 4,00 Cooperativa Editoriale Etica Anno 15 numero 125 febbraio 2015 Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità PAULHILTON/GREENPEACE 9788899095048 ISBN978-88-99095-04-8 Mare da difendere PosteItalianeS.p.A.SpedizioneinabbonamentopostaleD.L.353/2003(conv.inL.27/02/2004n.46)art. 1,comma1,NE/VR.ContieneI.R. Ocean grabbing: dopo la terra una nuova risorsa naturale rischia di cadere vittima della speculazione finanza etica CROLLA IL PREZZO DEL PETROLIO: GLI USA PIANGONO, L’ARABIA SAUDITA FESTEGGIA internazionale VENTI DI GUERRA: IN EUROPA NON SI PARLA D’ALTRO economia solidale BOOM PER IL PESCE, PREZIOSO PER LE ECONOMIE EMERGENTI
  • 2. N egli ultimi anni si è parlato molto di land grabbing, cioè dell’accaparramento di ter- re da parte dei Paesi ricchi del mondo, che ha avuto inizio dopo la crisi alimentare mondiale nel 2007. Ma c’è anche un’altra forma meno cono- sciuta, ma non per questo meno pericolosa, di ac- caparramentochesistasviluppandoinmodoespo- nenziale. È l’ocean grabbing che riguarda il 70% del nostro Pianeta, cioè gli oceani e i nostri mari. Ispirandosi proprio all’accaparramento delle terre fertili, il relatore Onu per il diritto al cibo Oli- vier De Schutter ha coniato questo termine du- rante la sua relazione all’Assemblea Generale. È possibile definire ocean grabbing – ovvero depre- dazione degli oceani – l’accaparramento predato- rio di risorse ittiche in acque territoriali altrui e in acque internazionali. La pesca praticata dalle flotte straniere – so- prattutto Cina, Russia, Unione europea, Stati Uni- ti e Giappone – è una minaccia alla sicurezza ali- mentare dei Paesi in via di sviluppo, dove i governi dovrebbero fare di più per promuovere e tutelare la piccola pesca costiera. L’ultimo rapporto sul Global Ocean Grab – pub- blicato dalWFFP (una rete che rappresenta oltre 10 milioni di persone in tutto il mondo), insieme a Transnational Institute, Afrika Kontakt e Masifun- dise – ci mostra una situazione tragica in quasi tut- ti i mari del Pianeta, dal Senegal all’Ecuador, dal Cile allo Sri Lanka. La privatizzazione degli oceani viene spesso presentata dai media come l’unica soluzione possi- bile al sovra-sfruttamento del- le risorse alieutiche (disponi- biliperlapesca,ndr).Vogliono farci credere, ad esempio, che l’introduzione delle ITQs (In- dividual Transferable Quotas) in Sud Africa sia una soluzione ambientale alla pesca eccessi- va. In realtà gli stessi tacciono suglieffettidellaprivatizzazio- ne sulle comunità rurali e co- stiere. Non dicono dei piccoli pescatori che perdono il fon- damentale diritto al sostentamento economico e alimentare, né delle migrazioni economiche alle quali sono costretti. Alla base della privatizzazione del suolo e degli oceani c’è un grave problema di re- gole, che determina il continuo calpestamento di diritti e l’assoggettamento all’unica legge che conta: il profitto a breve termine. Stiamo assistendo a un processo di privatiz- zazione silenzioso, che non smetterà di mono- polizzare le risorse e generare disuguaglianze sociali. Gli oceani hanno molti problemi, è vero, ma la soluzione non risiede nella loro privatizzazione, quanto piuttosto in una gestione partecipata, che tenga conto di tutti gli attori e che dia voce anche a chi è generalmente inascoltato. Perché“il mare è di tutti”: anche dei piccoli pescatori, anche delle comunità indigene e anche nostro. Non possiamo non interessarcene. ✱ 2 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 editoriale 3valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 OCEANI DEPREDATI di Silvestro Greco La copertina dell’ultimo rapporto Global Ocean Grab, pubblicato dal WFFP L’AUTORE SILVESTRO GRECO Silvestro Greco, biologo marino, per 30 anni si è occupato di pesca e acquacoltura per il CNR e successivamente per l’ICRAM; oggi è dirigente di ricerca dell’ISPRA. Docente di Controllo delle produzioni agroalimentari dell’Università di Scienze Gastronomiche. Ha svolto campagne scientifiche di pesca in tutti i mari del mondo, tra le quali sei spedizioni in Antartico.
  • 3. fotoracconto 02/05 4 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 DA: GREENPEACE CLÉMENT TARDIF (LUGLIO 2012) Nella foto pescatori su piroghe artigianali al lavoro con reti a circuizione al largo della costa senegalese, di fronte a Kafountine e Casamance, dove un estremo impoverimento ittico preoccupa. Nel Paese è in corso un processo di ripristino delle attività di pesca locale dopo un periodo di sfruttamento intensivo su larga scala attuato da pescherecci provenienti da Cina, Russia, Corea, Islanda, e soprattutto dalla Spagna e altri Paesi Ue. Nel 2012 il governo appena eletto ha perciò proceduto ad annullare le licenze di pesca precedentemente concesse. sommario Acqua del mare come elemento di vita e sostentamento primario, per il Pianeta e per le popolazioni. Ma anche e soprattutto risorsa da preservare contro l’inquinamento, le attività illegali, lo sfruttamento sconsiderato, la mancata tutela degli habitat protetti e delle specie viventi che li abitano. In questo fotoracconto le istantanee della pesca negli oceani, dove si incontrano l’uomo e la natura in un rapporto che può essere rispettoso e sostenibile se concepito pensando al futuro, come insegna la sapienza locale di chi da sempre strappa al mare con fatica solo poco più di quanto serve ad alimentare sé e le proprie comunità. Viceversa, da una pesca intensiva, industrializzata e che mira principalmente agli utili deriva il rischio intrinseco di perdere di vista gli equilibri necessari a mantenere gli oceani in buona salute. E allora l’auspicio è che la grande industria della pesca, che saccheggia le acque della Manica o ha depredato i fondali del Senegal, non distrugga la sua stessa ragione di esistenza; e che pratiche come quelle qui raccontate, osservate tra Sicilia, Africa e Oceano Indiano, mantengano i propri spazi, vitali per tutti. Questo è un breve viaggio che profuma di salsedine, realizzato con la preziosa collaborazione di Greenpeace (greenpeace.org) e Marevivo (marevivo.it), organizzazioni da decenni in prima linea nella battaglia per la difesa degli ambienti marini – e non solo – dalle pratiche umane insostenibili. Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi® global vision 7 finanza etica Scoppia la guerra del petrolio 19 Gli studenti gridano: “Stop alle fonti fossili!” 22 L’anno nero dei fondi hedge 23 Microcredito: la legge è operativa finalmente! 25 numeri della terra 28 economia solidale Il mondo ha fame di pesce 31 Le nuove attrattive della terra 35 Design, un futuro di carta 37 social innovation 40 internazionale Siete pronti alla guerra? 43 Il Giappone verso l’endorsement di massa 46 Climate change: tutto rimandato, vincono le lobby 49 avvistamenti 52 bancor 54 Lettere, contributi, informazioni, promozione, Per informazioni sugli abbonamenti scrivete a abbonamenti@valori.it. I nostri uffici sono aperti dal lunedì al giovedì, dalle 9.00 alle 13.30 Via Napo Torriani, 29 / 20124 Milano tel. 02.67199099 /fax 02.67479116 Abbonamenti cumulativi Assieme a Valori sottoscrivi un abbonamento annuale a una delle riviste riportate di seguito: risparmierai e riceverai più informazione critica, sostenibile, sociale e di qualità. Valori + Africa [6 numeri] euro 60 (anziché 76 €) Valori + Altreconomia [11 numeri] euro 72 (anziché 76 €) Valori + Italia Caritas [10 numeri] euro 49 (anziché 53 €) Valori + Mosaico di Pace [11 numeri] euro 62 (anziché 71 €) Valori + Nigrizia [11 numeri] euro 64 (anziché 73 €) Valori + Terre di Mezzo [11 numeri] euro 60 (anziché 71 €) Versamenti ✱ carta di credito sul sito www.valori.it sezione come abbonarsi Causale: abbonamento/Rinnovo Valori ✱ bonifico bancario c/c n° 108836 - Abi 05018 - Cab 01600 - Cin Z Iban: IT29Z 05018 01600 000000108836 della Banca Popolare Etica Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori + Cognome Nome e indirizzo dell’abbonato ABBONAMENTI 2015 valori [10 numeri] febbraio 2015 mensile www.valori.it anno 15 numero 125 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 ROC. n° 13562 del 18/03/2006 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Circom soc. coop. consiglio di amministrazione Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Maurizio Gemelli, Emanuele Patti, Marco Piccolo, Sergio Slavazza, Fabio Silva (presidente@valori.it). direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Mario Caizzone, Danilo Guberti, Giuseppe Chiacchio (presidente) direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano (redazione@valori.it) hanno collaborato a questo numero: Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Alberto Berrini, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Luca Martino, Valentina Neri, Andrea Vecci grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Christian Åslund, Paul Hilton, Lorenzo Moscia, Clément Tardif (Greenpeace); Marina Pulcini (Marevivo); Priwo, Tim From Schönebeck, Zerohund (commons.wikimedia.org); Michela Bruna; Paulo Lima; Edoardo Quatrale distribuzione Press Di - Segrate (Milano) È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri. Annuali Biennali Ordinario cartaceo - scuole, enti non profit, privati Euro 38 Euro 70 - enti pubblici, aziende Euro 48 Euro 90 Only Web Reader Euro 28 Euro 50 Cartaceo+Web Reader Euro 48 Euro 85 8 MARE DA DIFENDERE Enormi pescherecci che solcano i nostri mari, piattaforme off-shore per estrarre gas e petrolio, reti a strascico che distruggono gli ecosistemi marini. Sono i simboli di un business che sfrutta l’ennesima risorsa naturale dossier La pesca intensiva è l’emblema dello sfruttamento del mare. E l’ecosistema marino ne fa le spese. Ma è possibile anche una pesca sostenibile, oltre a un’acquacoltura certificata fotoracconto 01/05 L’energia utilizzata per realizzare questa rivista proviene al 100% da fonte rinnovabile, tracciata e garantita dall’origine grazie al sistema di certificazione GO.
  • 4. FATTI IN ITALIA L’eccellenza italiana sotto la lente di Valori Emanuele Isonio ed Elisabetta Tramonto prefazione Ermete Realacci FATTIINITALIAL’eccellenzaitalianasottolalentediValoriFAFAFTATTIINITATATLIAL’’eccellenzaitalianasottolalentediVaVlori Per non parlare sempre dei misfatti, dei contraffatti, degli artefatti Valori propone i suoi FATTI IN ITALIA L’eccellenza italiana sotto la lente di Valori IL LIBRO DI VALORI DEDICATO ALL’ITALIA CREATIVA E CAPACE Puoi acquistarlo on line su www.valori.it anche come e-book global vision 7valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 Azione e reazione Le Banche centrali entrano in gioco L e previsioni di crescita mondiale per il 2015 indicano negli Stati Uniti l’unica area di vero sviluppo e individuano nell’Europa l’area economica occidentale di maggior debolezza. Dunque le politiche monetarie in atto o previste sulle due sponde dell’Atlantico sembrano coerenti con tale scenario macroeconomico. Una Fed (Federal Reserve, Banca centrale americana) che azzera il suo sforzo espansivo favorendo il rafforzamento del dollaro (meno “stampo” una moneta, più ne aumenta il prezzo). E la Bce (Banca centrale europea) che finalmente attua il QE (Quantitative Easing), ossia una politica monetaria espansiva non convenzionale in quanto la creazione di liquidità si attua attraverso l’acquisto sul mercato di ogni tipo di titoli, ma in particolare di titoli di Stato. In questo modo non solo si attenua la pressione (ossia la necessità di finanziamento) sui debiti pubblici europei, ma si contribuisce in modo determinante all’indebolimento dell’euro, favorendo la crescita dell’economia europea e facilitando le sue esportazioni. Dunque tutto ok, ossia nessuna complicazione deriva da tali politiche monetarie? Non proprio, poiché bisogna considerare gli effetti globali, e in particolare come esse impattano sulle strategie e sull’operare dei mercati finanziari. L’esempio più recente è rappresentato dall’aumento repentino e vistoso (+20%) del franco svizzero (in rapporto all’euro) in previsione del QE europeo. Il balzo del franco ha, infatti, provocato uno tsunami mondiale con il fallimento di varie società di brokeraggio (dagli Usa fino alla Nuova Zelanda) e ha causato perdite per 100/150 milioni di dollari a testa per le più grandi banche del mondo. Dunque questa vicenda è emblematica per capire come gira il mondo sempre più globalizzato. La Banca centrale svizzera ha ritenuto di non essere più in grado di difendere il tetto al cambio franco-euro che essa stessa aveva imposto a fronte della crisi europea del 2011. E ciò a causa dell’afflusso sui conti svizzeri dei capitali in fuga dall’euro in procinto di svalutarsi. Come ha sottolineato il professor Marco Onado (insegna Diritto ed Economia dei mercati finanziari e Comparative financial systems presso l’Università Bocconi di Milano), alla base di quanto successo al franco svizzero «c’è il potenziale destabilizzante dei movimenti di capitale a breve in un mondo interconnesso, ma con politiche monetarie non coordinate fra loro per effetto degli inevitabili sfasamenti dei cicli delle loro economie». In altre parole mercati finanziari ancora sostanzialmente deregolamentati (e perciò fragili) possono interferire in modo destabilizzante, creando effetti collaterali non desiderati, su politiche attuate per coerenti obiettivi economici. E le Banche centrali, che spesso sono costrette a operare in ordine sparso, non possono che essere in balia di un mercato che, anche per le sue dimensioni, è sempre più fuori controllo. ✱ di Alberto Berrini
  • 5. DA DIFENDERE Le risorse naturali sono sempre più preda della speculazione. Dopo la terra, il mare rischia di essere attaccato con gravi conseguenze per gli ecosistemi e per le popolazioni locali Dalla pesca intensiva alle multinazionali che sfruttano gli oceani, alle estrazioni off-shore di gas e petrolio. La privatizzazione degli oceani è dietro l’angolo DOSSIER Gabbiani seguono il peschereccio tedesco Maartje Theadora della compagnia olandese Pelagic Freezer-trawler Association (PFA). Molte grandi navi officina come questa, in navigazione a caccia di aringhe, partecipano all’intenso traffico che affolla il Canale della Manica ogni anno tra novembre e dicembre, durante la stagione autunnale di deposizione delle uova. Una nave simile in un solo viaggio può pescare fino a 600 tonnellate di pesce, l'equivalente di 2 milioni di pasti. 10 / Ocean grabbing. La speculazione prende il largo 12 / I signori degli oceani 14 / Il mare senza regole fa male alla salute 16 / Il Canada studia un oleodotto artico. Ecologisti in rivolta fotoracconto 03/05 FOTO:GREENPEACE/CHRISTIANÅSLUND(DICEMBRE2014) MARE
  • 6. MARE DA DIFENDERE DOSSIER 11valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 ha rappresentato Greenpeace nella causa contro la realizzazione di un rigassificatore al largo delle coste livornesi (vedi a pag. 17). Le regole so- no poche, assai diverse tra Stato e Stato, incapaci di regolare quanto avviene in acque internazio- nali. E, quando esistono, le norme sembrano pensate con l’unico scopo di arricchire poche po- tenti multinazionali a discapito dei molti che in quei luoghi vivono. I PADRONI DELLE QUOTE Di esempi ce ne sono decine in giro per il mondo. Ma il filo conduttore che li unisce è unico. La paro- la d’ordine è “razionalizzazione”, paravento se- mantico per dire “privatizzazione”: «Presentandoli come una risposta alle preoccupazioni ambientali sulla salute dei mari, in numerosi Paesi sono stati ridefiniti i diritti d’accesso o i privilegi di sfrutta- mento delle risorse ittiche libere, comuni o dello Stato, aumentando i livelli di attribuzione ai priva- ti», spiega Silvio Greco, presidente del comitato scientifico di Slow Fish. Un sistema di quote e con- cessioni che sta tagliando fuori i piccoli pescatori. Nel Nord come nel Sud del mondo: in Islanda die- ci compagnie controllano il 50% delle quote. In Ci- le 127mila pescatori devono dividersi il 10% del mercato mentre 4 grandi aziende detengono il 90% delle concessioni. In Danimarca, dal 2005, le flotte dei pescatori tradizionali sono state dimezzate. In Namibia succursali locali di aziende spagnole de- tengono il 75% del mercato. E in Sud Africa l’Indi- vidual Transferable Quota (ITQ) introdotto nel 2005 ha portato alla repentina esclusione di 50mi- la piccoli pescatori. Unasituazioneodiosa:«L’oceangrabbing–con- ferma Olivier De Schutter, relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione – nel- la forma di accordi che colpiscono i pescatori su piccola scala, catture non dichiarate, incursioni in acque protette e distrazione delle risorse dalle po- polazioni locali, è una minaccia altrettanto grave del land grabbing». Denuncia che è anche un (indi- retto) atto d’accusa contro le strategie di un’altra potente istituzione internazionale, la Banca Mon- diale, che sul tema ha una posizione ben diversa. «L’ocean grabbing – spiega un dettagliato rap- porto della tedesca Lighthouse Foundation – è en- trato in una nuova fase nel 2012 con l’istituzione della GPO (Global Partnership for Oceans), ideata dalla Banca Mondiale per sostenere la privatizza- zione dei diritti di proprietà delle risorse acquati- che». Al suo interno grandi Ong ambientaliste co- me WWF e l’Environmental Defense Fund, ma anche soggetti più controversi come la Fondazio- neWalton Family, una delle dinastie più ricche del Pianeta, fondatori del colosso mondiale della Grande distribuzione Walmart. Presupposto alla base delle azioni della GPO è che i danni ambientali causati dal settore pesca siano prodotti dall’assenza di diritti di proprietà di BOX DOSSIER MARE DA DIFENDERE 10 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 Ocean grabbing La speculazione prende il largo «F ino all’80% del valore del pescato, una volta scaricato a terra, mi serve a finanziare l’affitto della conces- sione di pesca. Non mi rimane alcun margine da reinvestire per modernizzare la mia barca. Intan- to la maggior parte dei ricavi va a persone che con la pesca non hanno niente a che fare. Per quel che ne so, potrebbero anche vivere dall’altra parte del Pianeta». Dan Edwards è un pescatore dell’isola canadese di Vancouver, testimone oculare di uno dei tanti effetti perversi di un fenomeno comples- so, che attivisti ed esperti chiamano ocean grab- bing. Parente dell’ormai storico land grabbing, l’accaparramento su vasta scala di terreni agricoli nei Paesi in via di sviluppo da parte di multinazio- nali e governi stranieri. Ugualmente preoccupan- te, ma assai meno conosciuto, sapere quello che avviene sotto il pelo dell’acqua a centinaia o anche migliaia di chilometri dalla costa è evidentemente complicato. E forse proprio su questo contano speculatori e imprenditori senza scrupoli. Lonta- no dai clamori dei media, le loro mani stringono sempre più saldamente le risorse che mari e ocea- ni celano dentro di sé. UN FENOMENO COMPLESSO L’aspetto più indagato – perché influenza diretta- mente le nostre abitudini alimentari – è il depau- peramento delle risorse ittiche causate da stili e quantità di pesca insostenibili. Ma è solo la pati- na superficiale di un fenomeno più complesso, che questo dossier cercherà di documentare: in- quinamento, imperi industriali più o meno nitidi che hanno trovato nei mari una nuova opportu- nità di lucro, estrazioni off-shore di gas e petrolio, sistematica riduzione dei diritti delle comunità costiere. Il sistema, insostenibile e miope, è agevolato da un quadro normativo caratterizzato da lacune e faziosità: «Per il mare non esiste una legislazio- ne equivalente a quella che pianifica l’uso del ter- ritorio», rivela Giancarlo Altavilla, avvocato che di Emanuele Isonio La privatizzazione delle risorse naturali non riguarda più solo la terra- ferma. Complice un quadro normativo confuso, gli oceani sono sotto attacco. Con gravi danni alle popolazioni locali e agli ecosistemi marini QUALE PESCA? PESCA SU LARGA SCALA PICCOLA PESCA $$$$$25-27 BILIONI sussidi $5-7 BILIONI sussidi 30 MILIONI DI TON. (CIRCA) catture annuali per consumo umano 30 MILIONI DI TON. (CIRCA) catture annuali per consumo umano 35 MILIONI DI TONNELLATE catture annuali per farina di pesce e oli QUASI NULLA catture annuali per farina di pesce e oli 8-20 MILIONI DI TON. pesce e altre forme di vita rigettate in mare MOLTO POCO pesce e altre forme di vita rigettate in mare        37 MILIONI DI TON. (CIRCA) consumo annuo di olio combustibile  5 MILIONI DI TON. (CIRCA) consumo annuo di olio combustibile  = 1-2 TON. cattura per ton. di carburante consumato  = 4-8 TON. cattura per ton. di carburante consumato 1/2 MILIONI (CIRCA) pescatori impiegati SOPRA I 12 MILIONI pescatori impiegati PESCA ILLEGALE, UN AFFARE DA 23 MILIARDI DI DOLLARI Dagli 11 ai 26 milioni di tonnellate. È il peso della pesca illegale nel mondo secon- do le stime citate dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Un dato, equi- valente nella peggiore delle ipotesi a 1/6 dell’ammontare totale del pesce prodot- to nell’ultimo anno su scala globale, che si traduce in una perdita economica oscillante tra i 10 e i 23 miliardi di dollari e che nasconde, sostiene dal 2011 uno studio dello United Nations Office on Drugs and Crime, la tratta di esseri umani (tra cui i bambini) destinati al “lavoro forzato”. Lo scorso mese di settembre uno stu- dio a cura dei ricercatori Ganapathiraju Pramod, Katrina Nakamura, Tony J. Pitcher e Leslie Delagran, pubblicato sulla rivista di settore Marine Policy, ha stimato che la quota di pesce illegale introdotto negli Stati Uniti nel 2011 oscillasse tra il 20 e il 32% delle importazioni totali (pari a loro volta al 90% del pesce consumato negli Usa) per un controvalore economico compreso tra 1,3 e 2,1 miliardi di dollari. Se- condo lo studio la maggiore incidenza della pesca illegale sulle importazioni si sa- rebbe registrata nei prodotti ittici (tonno in testa) provenienti dalla Thailandia. Su- gli altri gradini del podio il merlano e il salmone cinese, che precedono i tonni provenienti da Filippine, India e Indonesia (ma non mancano casi rilevanti anche tra le importazioni da Messico, Cile, India, Canada ed Ecuador). Affidata negli Usa alla National Oceanic and Atmospheric Administration, la lotta alla pesca illegale si scontra con la difficoltà di monitoraggio del settore. Navi e barche da pesca, ricordava a gennaio Mark P. Lagon, docente della Georgetown University, sulle colonne del Washington Post, sono esentati dal mantenimento di numeri identifi- cativi e dall’obbligo di portare a bordo strumenti di rilevamento come i transponder. Le imbarcazioni, inoltre, non sono soggette al controllo degli enti portuali dei luo- ghi di attracco, ma solo a quello delle autorità dei Paesi d’origine. [M.Cav.] 600 metri la lunghezza di una delle più grandi reti a strascico, l'equivalente di 2 Tour Eiffel
  • 7. sfruttamento delle risorse ittiche, piuttosto che da un’assenza di equità. Esattamente l’opposto di quanto sostiene il Forum Mondiale dei pescatori, che individua nelle politiche di mercato neoliberi- ste la causa fondamentale dell’ocean grabbing, tanto da chiedere una politica che riconosca il ruolo primario della piccola pesca. I MOSTRI DEL MARE Ma, intanto, il braccio “armato” di questa corsa al- l’accaparramento delle risorse ittiche è in piena azione: megapescherecci, finiti nel mirino di un rapporto di Greenpeace, “Monster Boats”, e spesso appartenenti ad affaristi e imprese tutt’altro che limpide (vedi ). Rappresentano una quota minima della flotta mondiale (nella Ue le barche superiori a 24 metri sono appena il 3%), ma, con i loro metodi di pesca, sono i massimi responsabili dei danni alle specie marine (vedi ): reti lun- ghe anche 600 metri (l’Empire State Building si ferma a 381), 350 tonnellate di pesce pescate in un solo giorno, tra 8 e 20 milioni di tonnellate di pe- sce scartato (quindi ributtato in mare morto) per- ché considerato di scarso valore commerciale. Tanti difetti inesistenti nella piccola pesca, che per di più consuma molto meno carburante (1 ton- nellata ogni 4-8 tonnellate di pesce pescato, con- tro i 2 delle flotte industriali) e impiega oltre 12 mi- lioni di persone nel mondo. Eppure i sussidi mondiali premiano chi è più insostenibile: circa 25 miliardi di dollari nel mondo, contro i 5 riserva- ti ai piccoli pescatori. «Continuando così, interi ecosistemi marini sono a rischio», spiega Serena Maso, responsabile Mare di Greenpeace. «Già og- gi su 97 stock ittici analizzati nel Mediterraneo, il 91% è sovrasfruttato e in alcuni casi siamo oltre il punto di non ritorno. Al tempo stesso gli stock pe- scati in modo compatibile con la loro conserva- zione sono scesi dal 90% degli anni ’70 all’attuale 70%. L’esigenza di un cambio di rotta è certa». La possibilità di sconfiggere le lobby della grande pe- sca, molto meno. ✱ GRAFICO SCHEDE DietroilmegapeschereccioOdinc’èlaUnimedGlory,aziendacon- trollata dalla Laskaridis Shipping, di proprietà dei fratelli Laskari- dis: due imprenditori ellenici che hanno affiancato agli investi- menti marittimi quelli nel settore alberghiero e dei casino. Oltre alla greca Laskaridis, hanno fondato in Liberia la Lavinia Corpora- tion,sviluppandoprogettiportualieneitrasportiinnumerosiSta- ti. Odin è però solo uno dei pescherecci della flotta dei Laskaridis, che conta ormai 50 navi. UNIMED GLORY © WILLEM048 / MARINETRAFFIC.COM Era da poco finita la Seconda guerra mondiale quando Dirk Parle- vliet e i fratelli Dirk e Jan Van der Plas fondarono in Danimarca l’omonima azienda che, nel tempo, si è consolidata nella pesca d’alto mare e si è estesa nel mercato tedesco. Oggi l’azienda è di proprietà della PP Groep Katwijk BV, con sede legale in Olanda, ma i suoi pescherecci battono bandiera danese, tedesca o lituana: Annelies Ilena, Margiris, Helen Mary e Maartje Theodora i più grandi. Il gruppo conta circa 1500 dipendenti nei vari Paesi. PARLEVLIET & VAN DER PLAS Dal 1880 le generazioni di questa dinastia olandese si tramanda- no l’azienda che conta oggi 600 addetti (100 a terra e 500 in ma- re), divisi su una flotta di pescherecci frigoriferi registrati oltre che nei Paesi Bassi anche in Francia e Inghilterra attraverso so- cietà controllate. Gli sgombri sono la specie che ha fatto la fortu- na dei Cornelis Vrolijk. Ma l’azienda si è estesa occupandosi ormai anche della parte logistica, trasporto e congelamento. CORNELIS VROLIJK La nave Franziska è la più grande della flotta della Willem Van der Zwan en Zonen, azienda attiva nella pesca dal 1888. Anch’essa si è sviluppataapartiredallacittàportualeolandesediScheveningen,ma le controllate del gruppo sono ormai nate in molti altri Stati e conta- no filiali in Nigeria, Perù e Ghana. L’azienda stessa quantifica in un milionelepersonechesinutronoconilpescepescatodallesue navi. WILLEM VAN DER ZWAN EN ZONEN Albacora Uno e Albatun Tres sono due dei 18 pescherecci della holding spagnola controllata dalla Albacora SA e fondata nel 1974 dalla famiglia Uria. Il gruppo è coinvolto in tutti gli aspetti della pesca al tonno, dalla cattura alla trasformazione. E questo ha am- pliato le sue attività, spostandole dal golfo di Biscaglia a siti di pe- sca più lontani nell’Oceano Indiano e Pacifico, dove è più facile usare le controverse mega-reti FAD. Il fatturato del gruppo spa- gnolo si è attestato nel 2012 a 340 milioni di euro. ALBACORA GROUP ÈtuttounintrecciotraparadisifiscalilastoriadiBaltlanta,proprieta- ria del megapeschereccio Kovas. Prima detenuta da imprese regi- strate in Lichtenstein (Henessen) e a Panama (AB Cosaco Naval En- terpriseseABVaporesNauticosMerrimack).IlramodelLichtenstein fuliquidatonel2007pernonaverpagato1750euroditasse.Lecom- pagniepanamensisembranolegateaKostantinKoval,primodiretto- re di Baltlanta dal ‘96 al ‘99, cittadino lituano tra i più ricchi del suo Paese con un patrimonio personale di 144 milioni di euro. BALTLANTA MARE DA DIFENDERE DOSSIER 13valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 DOSSIER MARE DA DIFENDERE 12 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 I SIGNORI DEGLI OCEANI di Corrado Fontana Dai progetti minerari di una multinazionale indiana l’estrema minaccia alla salvaguardia della Grande barriera corallina. La controffensiva ambientalista potrebbe però funzionare, perché i conti degli speculatori non tornano Per centinaia di specie animali sottoma- rine ospitate nella Grande barriera corallina australiana l’attesa durerà ancora poco. Probabilmente entro marzo 2015 si saprà infatti se il più grande organismo vivente del mondo – e straordinaria fonte economica, come polo di attrazione turistica del conti- nente oceanico – vedrà materializzarsi una nuova e vicina origine d’inquinamento, e quindi di pericolo per la propria sopravviven- za: la Banca centrale indiana (State Bank of India) deve infatti decidere se contribuire con un miliardo di dollari pubblici all’enorme progetto di sfruttamento minerario che Adani Group, multinazionale con base nel Gujarat, cerca di realizzare nella regione australiana del Queensland, a partire dall’acquisto della miniera di carbone Carmichael nel cosiddet- to Bacino Galilea. Un progetto da 10 miliardi di dollari complessivi, che prevede un pros- simo investimento da 3,5 miliardi nelle infra- strutture ferroviarie e portuali necessarie a movimentare ed esportare 60 milioni di ton- nellate di carbone l’anno: dalla miniera per 400 chilometri fino ad Abbott Point, sulla co- sta, attraverso linee di carico, scarico e rotte di navigazione capaci di generare traffico ed emissioni micidiali per il fragilissimo ecosi- stema della barriera corallina. Un progetto avversato strenuamente dagli ambientalisti. Ma anche di incerto suc- cesso economico, tanto che alcune delle banche sostenitrici (Citigroup, Goldman Sachs, Deutsche Bank, JP Morgan, RBS, HSBC) hanno (solo) dichiarato pubblica- mente un disinvestimento. Dubbi ci sono sulla qualità e la quantità della produzione del minerale; dubbi sul futuro andamento dei prezzi del carbone (crollati dai 141 dol- lari/tonnellata di gennaio 2011 ai 67 dolla- ri di novembre scorso); dubbi infine sulla sostenibilità economica del progetto, se ai costi non parteciperanno altre compagnie minerarie (in primis il gruppo GVK, concor- rente di Adani) co-interessate al carbone australiano. E così, benché la Grande barriera coralli- na sia protetta dall’UNESCO, che ha già mi- nacciato di toglierle lo status di patrimonio dell’umanità se il governo del premier Tony Abbott non si impegnerà adeguatamente nella sua salvaguardia. Greenpeace & Co. puntano innanzitutto sui temi economici, forti anche delle parole del ministro indiano per l’Energia, il carbone e le rinnovabili Piyush Goyal, che a novembre scorso dichiarava: «Forse nei prossimi due o tre anni, dovremmo essere in grado di ferma- re le importazioni di carbone termico». Un bel problema per il magnate Gautam Adani, che 40 dei 60 milioni di tonnellate di carbone pensa di esportarli proprio nel suo Paese. BARRIERA SENZA DIFESE L’ECONOMIA BLU IN EUROPA: LA RIFORMA DELLA POLITICA COMUNE DELLA PESCA Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno varato una nuova politica comune del- la pesca (Pcp) in vigore a partire dal 1° gennaio del 2014. La riforma si articola in molti punti che hanno come fine la sostenibilità della pesca e la creazione di nuo- ve opportunità di occupazione e di crescita nelle zone costiere. Per raggiungere questi obiettivi la nuova politica prevede la fine dei rigetti in mare dei pesci non commercializzabili attraverso un ventaglio di misure da attuare zo- na per zona, il rafforzamento dei diritti nel settore ittico, il decentramento e la sem- plificazione del processo decisionale, il potenziamento dell’acquacoltura, il soste- gno alla piccola pesca, il miglioramento delle conoscenze scientifiche riguardanti lo stato dello stock e l’assunzione di responsabilità nelle acque dei Paesi terzi at- traverso accordi internazionali dell’Unione europea. Il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (Feamp) è lo strumento di finanziamento che fornirà sostegno all’attuazione della politica comune della pesca. [Pa.Bai.]
  • 8. GUERRA TRA LOBBY Fieri oppositori di ogni misura restrittiva, gli ope- ratori del trasporto marittimo.Tutta una questione di soldi, ça va sans dire. «Se il Mediterraneo dive- nisse area speciale – spiega Molocchi – le navi do- vrebbero utilizzare il gasolio marino, più pulito ma molto più costoso del bunker oil oggi utilizzato, ot- tenuto dagli scarti di raffinazione. I costi di tra- sporto lieviterebbero del 50%». Un’ipotesi vista co- me fumo negli occhi dalle aziende. Finora la loro attività di lobby ha funzionato. L’IMO non ha mai concretamente valutato proposte di introdurre un’ECA. Anche perché nel loro sforzo sono di fatto sostenuti dai gestori dei porti che affacciano sul Mare Nostrum, che, pur logisticamente meno competitivi dei concorrenti nel Mar del Nord, si stanno avvantaggiando delle norme lassiste. Ma qualche novità potrebbe presto arrivare. Paradossalmente per l’intervento di un’altra (più potente?) lobby. I produttori di gas premono per- ché tale carburante soppianti nelle pance delle na- vi il più inquinante petrolio. Molti intravedono il loro zampino in un decreto legislativo approvato in Italia pochi mesi fa, che riduce di dieci volte i li- miti di zolfo nei carburanti usati nelle rotte in Adriatico (pur subordinando l’applicazione della regola al consenso di tutti gli Stati confinanti). ✱ MARE DA DIFENDERE DOSSIERDOSSIER MARE DA DIFENDERE 14 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 L ontano dagli occhi, drammaticamente vi- cino alla salute (e al portafoglio) di tutti noi. Quanto avviene in alto mare è per sua natura difficilmente controllabile. E la frammen- tazione delle normative non facilita la soluzione del problema. Il risultato è che le attività commer- ciali, legate soprattutto al trasporto marittimo del- le merci, producono costi esterni inimmaginabili. Ambientali, economici e sanitari. PROVE SCIENTIFICHE INNEGABILI I dati esistono. Poco noti, ma autorevoli. L’Interna- tional Maritime Organization (Imo), organizzazio- ne mondiale che riunisce praticamente tutti gli Stati costieri, ha stimato le ricadute di polveri sot- tili e ozono emesse dalle navi nei mari statuniten- si e canadesi: tra 5 e 12mila morti premature, 6,5 milioni di episodi respiratori acuti, 4.600 bronchiti croniche, 8.400 ricoveri ospedalieri (vedi ). E ad essi si aggiungono ovviamente i danni ambien- tali per un costo economico affatto irrilevante. Un altro studio, commissionato dal Parlamento euro- peo qualche anno fa, lo quantificava in 45,4 miliar- di, diviso tra i diversi mari che bagnano il continen- te: solo nel Mediterraneo il trasporto marittimo causa danni per quasi 11 miliardi. Numeri allarmanti che dovrebbero imporre so- luzioni.Qualcosa,inqualchecaso,siègiàfatto:aree speciali nei luoghi più a rischio (le cosiddette ECA, aree di controllo emissioni), che impongono limiti piùstringentisulleemissioniesulcarburanteutiliz- zabile. Ma sono ancora esempi positivi in un mare di deregulation. E non pienamente soddisfacenti: in un’ECA il limite delle emissioni di zolfo è dieci volte più basso che altrove (0,1% anziché 1). Ma il tetto ri- mane generoso: nel caso dei trasporti terrestri è in- fatti mille volte più basso (0,00001). «La prova scien- tifica e sanitaria dell’esigenza di introdurre regole più stringenti non manca di certo – osserva Andrea Molocchi, autore dello studio dell’Europarlamento e ricercatore del centro di ricerca ECBA Project – ma è altrettanto evidente l’assenza di volontà politica, soprattutto dove il traffico è più intenso». E quindi il Mediterraneo, che pure è uno dei mari bisognosi di intervento, rimane fuori dalle ECA. TABELLA Il mare senza regole fa male alla salute di Emanuele Isonio Le emissioni delle navi provocano tra 5 e 12mila morti premature in Nord America e costano 45 miliardi agli Stati Ue per danni sanitari. Il rimedio più realistico è sfruttare una guerra tra lobby Effetto sanitario Incidenza annuale nel 2020 dovuta al traffico marittimo senza ECA Riduzione annuale nel 2020 dovuta al traffico marittimo con ECA Mortalità premature 5.100 - 12.000 3.700 - 8.300 Bronchiti croniche 4.600 3.500 Ricoveri ospedalieri 8.400 3.300 Visite a camere di emergenza 4.100 2.300 Episodi di bronchiti acute 13.000 9.300 Episodi di sintomi respiratori acuti 6.500.000 3.400.000 GLI EFFETTI SANITARI DOVUTI ALLE CONCENTRAZIONI DI PM2,5 E OZONO, ASSOCIATI ALLE EMISSIONI DELLE NAVI NEGLI USA E NEL CANADA FONTE: IMO-MEPC 59/6/5, 2 APRIL 2009 - PROPOSAL TO DESIGNATE AN EMISSION CONTROL AREA FOR NOX, SOX, AND PM® SUBMITTED BY USA AND CANADA STIMA DEI COSTI ESTERNI DELL’INQUINAMENTO ATMOSFERICO DEL TRASPORTO MARITTIMO NEL MEDITERRANEO, ANNO 2005 FONTE: S. MAFFLI, C. CHIFFI, A. MOLOCCHI. EXTERNAL COST OF MARITTIME TRANSPORT (2007), A STUDY FOR THE POLICY DEPARTMENT STRUCTURAL AND COHESION POLICIES OF THE EUROPEAN PARLIAMENT [valori in milioni di euro] di Corrado Fontana Il mare può anche essere affrontato in modo sostenibile: dall’acquacoltura certificata alla dissalazione alimentata da rinnovabili. Proposte in Europa, praticate in Africa e promosse da Slow Fish 2015 Non solo sfruttatori senza scrupoli e dan- ni ecologici in cambio di profitto. C’è anche chi guarda agli oceani e alle loro risorse per preservarne l’integrità, come fonti di sosten- tamento e lavoro in armonia con l’ambiente. Aquestafilosofiarisponderebbe,adesempio, l’attività della Northern Harvest Sea Farms Group, prima impresa al mondo dedita all’al- levamento e commercializzazione del sal- mone, certificata secondo gli standard BAP (Best Aquaculture Practices) in tema di ac- quacoltura: il comparto industriale per l’alle- vamento controllato di organismi acquatici (pesci, crostacei e molluschi, alghe). Azienda modello, insomma, secondo i criteri di tra- sparenza e tracciabilità della filiera, nonché di responsabilità sociale e ambientale, elabora- ti da un ente certificatore statunitense. Torna Slow Fish È un modello apprezzabile anche per asso- ciazioni come Legambiente, Marevivo Med- ReAct e Lav, che, con Maria Damanaki (ex Commissaria europea per gli Affari marittimi e la pesca), hanno sostenuto a maggio 2014 la proposta di mettere al bando in Europa la pesca con le reti derivanti (o “da posta”), “muri di maglie” sottomarini che non fanno distinzioni tra specie protette e non. La pro- posta, osteggiata finora, è in attesa di un voto a Strasburgo per maggio 2015. Proprio quando a Genova, dal 14 al 17, si rinnoverà l’esperienza di Slow Fish, la fiera organizza- ta da Slow Food per offrire soluzioni per una pesca che protegga il mare e la salute dei consumatori. Ci saranno storie di lavoro e riscatto che si sposano col rispetto del ma- re, come quelle delle donne Imraguen, che in Mauritania sono custodi del presidio Slow Food della bottarga di muggine; o delle don- ne senegalesi delle isole di Dionewar, Falia e Niodior, che mantengono viva la raccolta e la lavorazione dei molluschi endemici yeet (in lingua wolof, ndr), oggi messe in crisi dalla crescente pressione sulle risorse ma- rine da parte delle flotte straniere e locali e dall’alta salinità dell’acqua. Innovazione al servizio dell’ambiente Diverse realtà ecocompatibili, cui si affian- ca uno sfruttamento degli ambienti ocea- nici che non produce benefici effetti solo sulla filiera che da essi deriva. È il caso del- l’innovazione tecnologica sviluppata da una società australiana di Port Augusta, la Sun- drop Farm, che commercializza un processo in cui il solare termico viene adottato per ali- mentare sia le macchine per la dissalazione del mare che gli ambienti climatizzati delle serre, fornendo così acqua dolce ed energia a basso impatto ambientale. Una sorta di circuito hi-tech, chiuso e pulito, che favori- sce la riduzione di emissioni di gas serra e l’acquisizione di sali minerali e nutrienti da parte delle piante, mirando a produrre cibo e a sostenere aziende agricole situate in zone costiere non raggiunte dalle comuni infra- strutture elettriche e idriche. Sul futuro di questa tecnologia punta la società ameri- cana di private equity KKR. IN BUONE ACQUE 15valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 DA ONDE E MAREE L’ENERGIA DEL FUTURO Il mare potrebbe costituire una gigantesca risorsa energetica in futuro. Soprat- tutto per Francia e Uk che, non a caso, rappresentano i due Paesi che con più convinzione stanno sperimentando la possibilità di sfruttare l’energia maremo- trice. Sulle coste che bagnano la Manica le maree sono estremamente ampie (anche di parecchi metri) e così il gruppo Tidal Energy, insieme a EDF, ha pro- gettato la tecnologia DeltaStream, il cui primo generatore sottomarino, nelle ac- que del Galles, dovrebbe essere installato a breve. Secondo i promotori del pro- getto, l’energia prodotta sarà rinnovabile, pulita e non emetterà CO2. Sarà inoltre possibile stimare con notevole precisione la produzione, sulla base dei coefficienti delle maree. Il problema, tuttavia, ad oggi restano i costi, che sono ancora eleva- ti, soprattutto per quanto riguarda l’installazione e la manutenzione degli impian- ti. Ciò nonostante, l’Ue sembra voler esplorare le possibilità dell’energia marina: nel 2014, la Commissione aveva lanciato un piano d’azione per lo sviluppo tecno- logico nel settore. «È una fonte a portata di mano, che si può sfruttare in modo ecologico», aveva spiegato l’allora commissario all’Energia Günther Oettinger. Anche l’Italia è interessata, non tanto in termini di sfruttamento delle maree (non così ampie sulle nostre coste) quanto del moto ondoso. A luglio scorso si è te- nuto a Roma il workshop “Energia dal mare: le nuove tecnologie per i mari italia- ni”, organizzato dall’Enea e dal ministero per lo Sviluppo economico. La European Ocean Energy Association aveva spiegato che «in Europa i dispositivi per la con- versione dell’energia dal mare raggiungeranno una potenza installata di circa 3,6 GW entro il 2020 e 188 GW entro il 2050». Per ora l’energia maremotrice rappre- senta appena lo 0,02% della domanda complessiva europea. [A.Bar.] SO2 NOx PM2,5 COV da combustione Totale % Mare del Nord 9.230 8.504 3.795 131 21.660 47,7 Mar Mediterraneo 6.557 2.247 1.950 63 10.817 23,8 NE Atlantico 2.919 3.375 732 30 7.056 15,5 Totale 21.355 16.431 7.407 247 45.441 100,0
  • 9. un“piano B” rispetto all’oleodotto Canada-Usa: un progetto, secondo gli ecologisti, ancor più perico- loso e allarmante. Lo studio, intitolato An Arctic Energy Gateway for Alberta, conclude infatti che il petrolio delle tar sands (considerato tra i più pericolosi in termini ambientali) potrà essere trasportato grazie a una gigantesca pipeline, di oltre 2.400 km, che da Fort McMurray, vicino al fiume Arhabasca, raggiunge- rebbe il porto di Tuktoyaktuk, nell’estremo Nord. Da qui l’idea di sfruttare lo scioglimento dei ghiac- ci dovuto al riscaldamento globale per caricare il greggio sulle petroliere e raggiungere l’Europa. Ovviamente, d’estate, e d’inverno? Secondo il rap- porto si potrebbero usare rompighiaccio o sotto- marini nucleari (è tutto nero su bianco, a pagina 13 del rapporto, reperibile on line). Domanda: perché avanzare una proposta del genere? «Perché i petrolieri sono disperati», spiega Patrick Bonin, responsabile della campagna Cli- ma-Energia di Greenpeace Canada. «L’oleodotto artico è probabilmente un bluff, è il tentativo di di- mostrare che hanno altre opzioni di fronte al falli- mento di ciò che è stato avanzato finora. È evi- dente che l’industria ha bisogno di dare segnali positivi, subito, visto che colossi come Total e Sta- toil hanno già annunciato che diminuiranno i lo- ro investimenti legati alle sabbie bituminose». OLEODOTTI SÌ E NO Gli industriali delle tar sands si sono in effetti visti rifiutare o bloccare numerosi progetti di pipelines. I petrolieri hanno bisogno di un’alternativa spen- dibile. E pazienza se l’unica strada non ancora battuta punta verso l’Artico, con gli elevati rischi ecologici connessi. «Una fuga di petrolio – spiega Hannah McKinnon, esperta dell’associazione Oil Change International – è sempre drammatica, ma se pensiamo a un incidente in una regione vulne- rabile come quella artica, dove tra l’altro le condi- zioni di accesso sono estremamente difficili, lo scenario non può che essere definito catastrofi- co». Per parlare in termini concreti, basta tornare indietro con la memoria al 24 marzo 1989, quan- do in Alaska un incidente della superpetroliera Exxon Valdez provocò uno dei peggiori disastri ambientali mai causati dall’essere umano. ✱ I l 18 novembre scorso il Senato Usa ha rifiutato di concedere il via libera al progetto Keystone XL, un immenso oleodotto che dovrebbe tra- sportare il petrolio estratto dalle sabbie bituminose dellaprovinciadell’Alberta,inCanada,finoalleraffi- nerie texane. Pochi giorni prima, anche la Camera si era espressa in modo analogo: un sospiro di sollievo per gli ecologisti, e una doccia fredda per i repubbli- cani, che hanno fatto del Keystone XL un vero e pro- prio cavallo di battaglia in campagna elettorale. Il GOP puntava a una votazione sull’oleodotto che se- gnasse il primo successo parlamentare dopo la con- quista della camera alta alle elezioni di mid-term. Nonostante la vittoria ambientalista, la pru- denza è d’obbligo. I repubblicani sono già tornati alla carica: mentre questo numero di Valori va in stampa è possibile che il Congresso sia chiamato nuovamente a esprimersi sulla questione, dopo un parere positivo arrivato da una commissione par- lamentare. Il 6 gennaio il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, ha spiegato che Obama po- trebbe in ogni caso porre il veto sul progetto. Ma l’industria petrolifera non si arrenderà. Sono trop- pi gli interessi in gioco, anche e soprattutto da par- te dei canadesi. Non a caso, proprio nei mesi scor- si le autorità della provincia dell’Alberta hanno messo, in un certo senso, le mani avanti. Prima an- cora che si conoscesse l’esito delle votazioni sul Keystone XL, è stato pubblicato un rapporto com- missionato dalla provincia canadese, che indica patti e spessi (300-400 metri). Questi sedi- menti, chiamati clatrati, formano dei veri e propri reservoir che si estendono per mi- gliaia di chilometri quadrati – continua Ma- ria Filomena Loreto – e fanno da “tappo” impedendo al gas sottostante di migrare verso l’alto». Al di sotto di un bacino di gas idrato esi- ste, di solito, un giacimento di gas naturale: i luoghi dove più facilmente si trovano que- ste riserve sono i margini continentali, pra- ticamente le scarpate marine che degrada- no dalle zone di piattaforma (-200 metri), verso le profondità oceaniche. Conosciuti da tempo, i gas idrati stanno ora attirando l’attenzione e le speranze di molte potenze. Tra queste il Giappone, alla ricerca di un’alternativa al nucleare dopo il disastro di Fukushima. Ma anche dei gran- di produttori di gas, tra cui la Russia che, dal 1969, ha iniziato lo sfruttamento del pozzo Messoyakha, perforato nel campo di gas idrato del bacino occidentale della Siberia allo scopo di estrarre il gas sottostante. Nel Golfo del Messico sono stati trovati enormi accumuli di gas idrati affioranti al fondale marino, mentre in Canada è stato perforato il pozzo Mallik, nel delta del fiume Macken- zie, allo scopo di sperimentare le varie tec- niche di sfruttamento. «India, Giappone e Cina sembrano esse- re i Paesi con maggiori disponibilità di idra- to e stanno investendo cospicue somme nella ricerca» aggiunge la dott.ssa Loreto. La vera “frontiera” è la messa a punto di tecnologie e modalità estrattive che per- mettano il recupero del gas dall’idrato uti- lizzando una quantità di energia inferiore a quella che si andrebbe ad estrarre senza, inoltre, arrecare danni all’ambiente: il meta- no è un gas climalterante e le preoccupa- zioni degli ambientalisti sono che durante le estrazioni se ne liberino delle quantità in modo incontrollato, contribuendo ad au- mentare il riscaldamento globale. Inoltre le estrazioni potrebbero rendere incoerenti i sedimenti delle scarpate continentali dando luogo a frane o/e subsidenza. Trattandosi, poi, di perforazioni da effet- tuare soprattutto in ambiente marino, an- che nelle zone artiche e antartiche, si molti- plicano i timori che si consideri l’ambiente circostante come un territorio di nessuno, da sfruttare o inquinare senza limiti. di Paola Baiocchi L’estrazione dei gas idrati potrebbe rivoluzionare gli equilibri mondiali dell’energia, perché stiamo parlando di risorse più che doppie rispetto a quelle fossili convenzionali. Mentre si stanno studiando le tecnologie estrattive, si pone il problema del rispetto ambientale Dopo l’entrata tra le risorse energetiche dello shale gas, che ha rivoluzionato prezzi ed equilibri consolidati nello scenario mon- diale, un’altra fonte d’energia potrebbe pre- sto essere resa disponibile, con effetti poten- zialmente più travolgenti: i gas idrati, ossia gas intrappolato nel ghiaccio dei sedimenti marini o terrestri. Le proiezioni effettuate sulle risorse totali sono impressionanti, si parla di più di 3.400 miliardi di barili equiva- lenti di gas, a fronte di risorse stimate su sca- la globale di circa 1.700 miliardi complessivi di barili di greggio e gas naturale. Maria Filomena Loreto, geologa del- l’ISMAR-CNR di Bologna, ci spiega di cosa si tratta: «Quando nei sedimenti, ad esem- pio lungo i margini continentali marini, o in ambiente subaereo dove c’è il permafrost, in presenza di adeguata concentrazione di gas si vengono a creare le condizioni di sta- bilità dell’idrato, ossia elevata pressione e bassa temperatura, l’acqua ghiaccia in- trappolando nella sua struttura molecolare le particelle di gas (principalmente meta- no). All’interno dei pori dei sedimenti si for- mano così strati di idrato abbastanza com- DALLE PROFONDITÀ MARINE UNA NUOVA FONTE ENERGETICA di Andrea Barolini Un collegamento di 2.400 chilometri unirebbe l’Alberta e l’estremo nord del Paese. Obiettivo: continuare a estrarre petrolio dalle controverse sabbie bituminose e trasportarlo via nave in Europa Il Canada studia un oleodotto artico Ecologisti in rivolta QUANDO IL MARE DIVENTA UN SITO INDUSTRIALE: IL CASO DELLA OLT DI LIVORNO Il primo impianto al mondo di rigassificazione su una nave gasiera è nel mare di fronte a Livorno. Gli argomenti portati, senza successo, dai cittadini nella loro battaglia per impedirne l’installazione (Valori n° 41, giugno 2006) andavano dal- la pericolosità dell’impianto e la sua inutilità alla privatizzazione del mare, al suo pesante impatto ambientale e alla poca rilevanza dei posti di lavoro creati: la na- ve della Olt (Offshore Lng Toscana) avrebbe dovuto riportare allo stato gassoso il gas naturale liquefatto (Gnl) trasportato dalle gasiere a -161 gradi centigradi, utilizzando acqua marina al ritmo di 500/600 milioni di litri al giorno. L’acqua sa- rebbe poi stata reintrodotta in mare, ma clorata e più fredda di 16 gradi. Un pro- cedimento che avrebbe desertificato l’ambiente floro-faunistico circostante. La nave gasiera, inaugurata nel dicembre 2013, è inattiva, a riprova di quanto so- stenevano i Comitati No Off-Shore. In compenso E.On e Iren, che ora controllano Olt, hanno trovato il modo per rifarsi dei costi dell’installazione caricandoli sulle spalle dei cittadini: il terminale galleggiante Fsru Toscana è stato riconosciuto “infrastrut- tura strategica per la sicurezza energetica nazionale” e quindi non solo è stato de- stinato a deposito di gas per le emergenze, ma grazie a una clausola di garanzia ri- ceverà in pagamento almeno il 64% della tariffa, anche se resterà vuoto. [Pa.Bai.] MARE DA DIFENDERE DOSSIERDOSSIER MARE DA DIFENDERE 16 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015  ONLINE Global Aquaculture Alliance www.gaalliance.org Best Aquaculture Practices - BAP bap.gaalliance.org Legambiente www.legambiente.it Marevivo www.marevivo.it Slow Food slowfish.slowfood.it Sundrop www.sundropfarms.com 17valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015
  • 10. 19 FINANZA ETICA valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 SCOPPIA LA GUERRA DEL PETROLIO Il crollo del prezzo del barile inguaia le compagnie americane. Un vantaggio per l’Arabia Saudita, ma non per i bilanci di molti membri Opec U na volta tanto la speculazione non c’entra. Ma le buone notizie, purtroppo, finiscono qui. Il clamoroso tracollo del prezzo del pe- trolio sperimentato a partire dalla scorsa estate di fronte al più classico dei fattori “materiali” – l’ec- cessodiofferta,ovviamente–hagettatonelloscon- forto un po’ tutti. Dai grandi malati di inflazione (Russia e Venezuela) al fondo sovrano norvegese, che nonostante tutto ha scelto ancora di puntare sull’oro nero (vedi ), passando per gli operatori del comparto obbligazionario corporate statuni- tense. Un settore chiave, quest’ultimo, che a modo suo sembra raccontare meglio di chiunque altro il significato più intimo dell’attuale bearish moment. E che moment, a leggere le cifre. A metà giugno, il petrolio americano (West Texas Intermediate,WTI) aveva toccato il suo picco annuale a 107,52 dollari. Sei mesi dopo il suo valore era sceso fino a quota 56 (vedi ). Nello stes- so periodo, il rendimento medio dei junk bond sta- tunitensi, misurato dall’indice Merrill Lynch US BOX GRAFICO 1 di Matteo Cavallito
  • 11. comparto potrebbe toccare quota 8%. Il doppio dell’anno precedente. ARABIA SAUDITA ALL’ATTACCO «Se il prezzo dovesse rimanere troppo basso troppo a lungo le società america- ne produttrici di shale oil dovranno pa- gare un conto salatissimo», nota ancora Galeotti secondo cui proprio le analisi sul mercato americano potrebbero aver oc- cupato parte delle «riflessioni fatte dai Paesi Opec a Vienna lo scorso 27 novem- bre». Nell’occasione, l’Arabia Saudita ha confermato la scelta di non tagliare la produzione assecondando quindi la ca- duta dei prezzi. Una mossa, sostiene Lui- gi De Paoli, ordinario di Economia del- l’energia e di Economia dell’ambiente dell’Università Bocconi di Milano (vedi ), che finisce per «frenare i pro- getti più costosi dei Paesi concorrenti» (shale Usa in testa) mettendo in crisi pe- rò gli anelli deboli dell’Organizzazione. Il pensiero corre ovviamente a Iran eVene- zuela che per compensare i propri deficit di bilancio, ha notato l’Economist, neces- siterebbero di prezzi di mercato prossimi rispettivamente a 140 e 160 dollari per barile contro i 100 dollari dell’Arabia Sau- dita. Ma quello individuato per Ryad re- sta un valore teorico, visto che il Paese, al pari di Kuwait ed Emirati Arabi, non è co- stretto a finanziare la spesa corrente con le sole entrate petrolifere odierne. Ovve- ro può sopportare, a differenza di altri concorrenti, un fruttuoso quanto pro- lungato periodo di ribasso. Condizione necessaria per vincere qualsiasi guerra dei prezzi. ✱ INTERVISTA High Yield Master II, è passato da 5,24 a 7,28 punti percentuali. Contemporanea- mente, lo spread tra quest’ultimo e i titoli di Stato Usa a 10 anni è cresciuto di 260 punti base (2,6%, vedi ). Dal punto di vista degli operatori, in altre parole, gli investimenti nel settore junk (alto rendi- mento) sono diventati di colpo molto più rischiosi alimentando, almeno in parte, l’alternativa degli“asset rifugio” (i titoli del debito pubblico). Ma il bello, o per meglio dire il brutto, della vicenda è che a perfor- mare ancor peggio della media sono state proprio le obbligazioni spazzatura del set- tore energetico che tra giugno e dicembre, ha riferito Bloomberg riprendendo i dati di Merrill Lynch, hanno visto i loro rendi- menti medi passare da 5,7 a quota 9,5%. Un incremento di 380 punti base, ovvero 1,2 punti percentuali “peggio” del com- parto junk nel suo complesso. BOLLA ENERGETICA Il fatto, ha notato Bloomberg, è che anni e anni di tassi a zero e di Quantitative Easing (QE, l’iniezione di liquidità attra- verso il riacquisto del debito da parte del- la Fed) hanno favorito a lungo la corsa agli alti rendimenti alimentando la do- manda di obbligazioni più rischiose. A beneficiare dell’afflusso di investimenti sono state in particolare le società ener- getiche trascinate a loro volta dal boom dello shale oil, le cui fortune, come noto, dipendono in larga parte da alti livelli di prezzo del petrolio. Non stupisce, di con- seguenza, che la flessione del barile – fa- vorita dalla fine del QE stesso, che dei precedenti rialzi dell’oro nero era stato in parte responsabile – abbia fatto saltare il banco. L’analisi di Bloomberg appare «assolutamente realistica» spiega a Valo- ri Fabio Galeotti, analista di Saxo Bank secondo il quale «la battaglia dei prezzi» starebbe ormai «entrando nel vivo». Il guaio è che la scommessa Usa sul com- parto shale ha implicato puntate di gros- so calibro che oggi suscitano ampie pre- occupazioni. Dal 2010 ad oggi, notano gli analisti di Deutsche Bank ripresi ancora da Bloomberg, le compagnie energeti- che  hanno raccolto prestiti per oltre mezzo trilione di dollari e alcune di loro non saranno in grado di restituirli. Nel corso del 2015, sostiene la società di ri- cerca CreditSights, il tasso di default nel GRAFICO 2 di Matteo Cavallito Eccesso di offerta per lo shale oil Usa e domanda stagnante. Le cause del crollo del barile «Un insieme di fattori fisici e di aspetta- tive». Secondo Luigi De Paoli, professore ordinario di Economia dell’energia e di Eco- nomia dell’ambiente presso l’Università Bocconi di Milano, il forte ribasso speri- mentato dal barile a partire dalla scorsa estate si spiega essenzialmente così. Un problema di «eccesso di offerta», dovuto soprattutto all’incremento della produzione Usa di shale oil e a una domanda stagnan- te di Cina e Paesi Ocse, non più controbilan- ciato dal timore di una possibile crisi delle forniture. «Per un certo periodo l’effetto ri- bassista legato al rallentamento dei Paesi emergenti è stato compensato dalla paura delle conseguenze della crisi geopolitica in Medio Oriente, fino a quando…». Fino a quando? Fino al punto in cui si è capito che anche l’Isis aveva interesse a vendere il suo pe- trolio e che, nonostante tutto, la produzione non si sarebbe contratta ulteriormente, malgrado le crisi in Libia e nello scacchiere medio-orientale, ovvero che nessuna crisi politica, al di là di qualche oscillazione di breve periodo, sarebbe stata in grado di ta- gliare l’offerta. Il fuoco comunque covava sotto la cenere e da un po’ di tempo vi era- no segnali che il prezzo del petrolio era trop- po alto, almeno guardando al suo rapporto con il prezzo del gas. Cioè? Storicamente, a parità di energia prodotta, il prezzo del petrolio tende a superare quello del gas di 1,5 o 2 volte circa. Negli ultimi an- ni, tuttavia, il rapporto registrato negli Stati Uniti si è allargato fino a 6-7 volte. Uno squi- librio tra due prodotti almeno in parte sosti- tuibili che doveva essere compensato o dal rialzo dell’uno, cosa che è avvenuta molto li- mitatamente, o, per l’appunto, dal ribasso dell’altro. Con un prezzo del petrolio attorno a 40 dollari al barile siamo ritornati quasi al- la situazione di equilibrio tradizionale. Parliamo delle conseguenze: ci sono pro- blemi evidenti per molti Paesi esportatori? Alcuni Paesi, come Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi, hanno saputo tesaurizzare la produzione degli anni passati e per questo PETROLIO E FUTURO «LA VERA BATTAGLIA? OPEC VS NON OPEC» possono permettersi di sopportare un certo periodo di ribasso prolungato. Molti altri, co- me Iran e Russia ad esempio, saranno inve- ce costretti a tagliare la loro spesa corrente o i loro investimenti – che sono finanziati dai ricavi del settore petrolifero –, una scelta che potrà deprimere il commercio mondiale. Un problema anche per noi importatori, insomma… Non è detto. È vero che la riduzione della spe- sa russa costituisce un problema per l’Euro- pa. Ma va detto che la contrazione di quella iraniana non dovrebbe avere effetti significa- tivi per l’Occidente senza contare, inoltre, che la riduzione del prezzo del petrolio rappre- senta anche uno stimolo ai consumi, ovvero una spinta per i Paesi importatori. Si dice che i rapporti all’interno dell’Opec non siano mai stati così tesi. È in atto uno scon- tro tra l’Arabia Saudita e l’asse Iran-Iraq? Non c’è dubbio che nell’area del Golfo vi sia- no conflitti economici e religiosi tra sciiti e sunniti che pesano nei rapporti tra i diversi Paesi, ma non parlerei propriamente di “scontro”. La situazione attuale mi fa pen- sare più che altro alla riproposizione del vecchio modello “Opec anni ’80”. Ovvero? Paesi come Iran e Iraq, che sono costretti a produrre al massimo della loro capacità, chiedono a chi se lo può permettere un ta- glio produttivo a difesa dei prezzi, qualcosa di simile a quanto avvenuto tra il 1981 e il 1985, quando l’Arabia Saudita ridusse la sua produzione giornaliera da 9 a 2,5 milio- ni di barili. Solo che oggi si pone un altro problema: quello del rapporto tra l’Opec e gli altri produttori. E qui entra in gioco il fattore shale, vero? Certamente, ma non solo. I Paesi produtto- ri non-Opec studiano progetti di sviluppo nell’Artico e continuano a incrementare la produzione offshore e quella dello shale oil, ovvero del petrolio più costoso. Ma, sicco- me il mondo punta a una riduzione del peso degli idrocarburi per lottare contro i cam- biamenti climatici, è chiaro che questa si- tuazione non potrà andare avanti a lungo. Per questo motivo l’Arabia Saudita – che, insieme agli altri Paesi Opec, controlla la maggior parte delle riserve petrolifere a basso costo di estrazione del Pianeta – ha tutto l’interesse a estrarre il “suo” petrolio ora per portare a casa un profitto significa- tivo in tempi ragionevoli, favorendo con- temporaneamente un ribasso dei prezzi che sia in grado di frenare i progetti più costosi dei Paesi concorrenti. oro nero in caduta libera finanza etica 21valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 finanza etica oro nero in caduta libera 20 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 40 50 60 70 80 90 100 110 120 gen02,2015 dic01,2014 nov03,2014 ott01,2014 set02,2014 ago01,2014 lug01,2014 giu02,2014 mag01,2014 apr01,2014 mar03,2014 feb03,2014 gen01,2014 Prezzo per barile (WTI) [in dollari Usa] IL CROLLO DEL BARILE FONTE: U.S. ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION (WWW.EIA.GOV), GENNAIO 2015 Spread [punti %] Merrill Lynch US High Yield Master II / US Treasuries 10y 8,00 7,00 6,00 5,00 4,00 3,00 2,00 2010 2011 2012 2013 2014 2015 ANDAMENTO DEL RISCHIO SULLE OBBLIGAZIONI SPAZZATURA FONTE: FEDERAL RESERVE BANK OF ST. LOUIS (HTTP://RESEARCH.STLOUISFED.ORG/), GENNAIO 2015. NOSTRE ELABORAZIONI HTTP://COMMONS.WIKIMEDIA.ORG/PRIWO LA NORVEGIA INVESTIRÀ ANCORA NEL FOSSILE Il fondo sovrano norvegese non dovrebbe avviare il disinvestimento automatico dalle im- prese del comparto delle fonti fossili, limitandosi, piuttosto, a valutare le ipotesi di esclu- sione con un’analisi “caso per caso”. È la raccomandazione avanzata da un gruppo di sei esperti allo stesso governo di Oslo. La squadra di periti, guidata dal consulente indipen- dente Martin Skancke, ha giudicato gli investimenti nei comparti del carbone e del petro- lio compatibili con quegli stessi princìpi etici che – ha ricordato il quotidiano norvegese in lingua inglese The Local - avevano ispirato in passato l’esclusione dal portafoglio del- le imprese attive nel settore delle armi “particolarmente disumane” e del tabacco così co- me i gruppi coinvolti in qualche modo con il fenomeno del lavoro minorile o con la viola- zione dei diritti umani. Con 700 miliardi di euro di asset gestiti, quello di Oslo è tuttora il più grande fondo sovrano del mondo. [M.Cav.]
  • 12. investimenti speculativi finanza etica 23valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 finanza etica oro nero in caduta libera 22 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 Gli studenti gridano: “Stop alle fonti fossili!” L’anno nero dei fondi hedge I l 13 e il 14 febbraio sono date particolari per le università più prestigiose al mondo. In calen- dario non ci sono cerimonie accademiche, ma il Global Divestment Day: due giorni in cui gli studenti di tutto il Pianeta, affiancati in molti casi dai professori, hanno organizzato sit-in, marce pacifiche, flash mob e altre iniziative creative per lanciare un messaggio chiaro: gli atenei devono smettere di investire nei combustibili fossili. I RISULTATI NEGLI USA Il movimento è nato nei campus americani nel 2010, con i tentativi pionieristici dello Swarthmo- re College in Pennsylvania, seguito dal 2012 da un numero crescente di istituti. Erano made in Usa anche le campagne di boicottaggio degli scorsi de- cenni contro l’industria del tabacco o il Sudafrica dell’apartheid, ricorda un rapporto pubblicato a ottobre 2013 dalla Smith School of Enterprise and Environment dell’Università di Oxford. In con- fronto a questi precedenti, sottolinea il report, i ri- sultati conseguiti in queste poche manciate di me- si sono di tutto rispetto. Già tredici università e college Usa sono passati dalle parole ai fatti, vo- tando per il “no” agli investimenti nelle fonti in- quinanti. Sono soprattutto realtà di piccole di- mensioni, come il californiano Pitzer College, che lo scorso aprile ha scelto di ritirare i capitali e ri- durre del 25% la propria impronta ambientale en- tro il 2016. L’eccezione, di tutto rispetto, è la Stan- ford University, che gestisce 21,4 miliardi di dollari. Dopo mesi di contestazioni studentesche, a maggio il Consiglio dell’ateneo ha deliberato il ritiro di tutti gli investimenti nei colossi del carbo- ne. Ma non è abbastanza, affermano a gran voce trecento professori in una lettera inviata a genna- io al presidente e al Consiglio: bisogna dire addio anche a petrolio e gas naturale. È andata peggio ai vertici dell’Università di Harvard, citati in giudizio a novembre da sette stu- denti che li accusano di «cattiva gestione delle do- nazioni» e chiedono di prendere una posizione netta sul clima, per conto degli studenti e «delle fu- ture generazioni». In attesa della pronuncia della Corte, il presidente dell’Ateneo, Drew Gilpin Faust, non cede: il fondo dell’università, dice, è «una ri- sorsa, non uno strumento per incitare cambia- menti sociali o politici». È di parere diverso l’Au- stralian National University, che a ottobre ha detto addio a sette società petrolifere e minerarie che rappresentavano circa l’1% dei suoi investimenti. …E IN EUROPA Anche in Europa qualcosa si muove. Lo scorso 8 ot- tobre, dopo un anno di proteste da parte di 1.300 studenti e docenti, il Consiglio dell’Università di Glasgowharitiratocapitaliper18milionidisterline. Mentre a Edimburgo e Oxford si medita sul da farsi, allalondineseUCLlastradaèinsalita.Sonocirca21 milioni di sterline i patrimoni stanziati, più o meno direttamente, in società che operano coi combusti- bili fossili. Gli studenti interpellati da Valori si di- chiarano «delusi dalle risposte e dalle false promes- se». E annunciano di «intensificare la campagna fino a quando non si vedranno progressi reali». La Smith School of Enterprise and Environ- ment, però, mette i puntini sulle “i”: gli atenei americani hanno investito nelle società minerarie e petrolifere il 2% dei loro asset, percentuale che sale al 4% nel Regno Unito, dove tali aziende sono più rappresentate in Borsa. Ciò significa che, an- che se le università si mobilitassero in massa, non dovremmo certo aspettarci un repentino crollo delle quotazioni. Le conseguenze più rilevanti, se- condo gli studiosi, sarebbero semmai quelle indi- rette,a lungo termine, quando sulle big delle ener- gie inquinanti si è ormai abbattuto uno stigma che allontana potenziali investitori, fornitori, clienti, dipendenti. E che può spingere i governi a osare di più nelle politiche per il clima. ✱ Dopo le campagne contro l’industria del tabacco e l’apartheid in Sudafrica, gli studenti di tutto il mondo lanciano una nuova sfida: stop agli investimenti nelle fonti energetiche inquinanti da parte delle università di Valentina Neri di Matteo Cavallito A certificare la crisi ci ha pensato la Chica- go Hedge Fund Research, rendendo noti gli ultimi dati del settore. Nel primo se- mestre del 2014, l’ultimo periodo per il quale sono disponibili cifre definitive, i fondi hedge chiusi sotto il peso di performance negative sono stati 461. Un dato che impressiona, soprattutto nel confronto con gli anni passati. Al ritmo attuale, ha notato infatti Bloomberg, la conta dei caduti registrata alla fine dell’anno (ma i numeri defini- tivi non sono ancora noti) potrebbe aver rag- giunto il valore teorico di 922. Ovvero il livello più alto dal 2009, il famigerato annus horribilis dei mercati finanziari in cui le chiusure dei fondi su- perarono quota mille (vedi ). Ad alimenta- re il fenomeno, ovviamente, ci sono i modesti rendimenti offerti dal comparto che, nel corso del 2014, si sono attestati a un livello medio del 2%, la peggior performance dal 2011. L’indice BarclayHedge (nessuna parentela con l’istituto Barclays) – che analizza un paniere composto da migliaia di fondi – ha calcolato un rendimento medio per l’anno appena concluso prossimo al 4%, un dato apparentemente più confortante, ma pur sempre lontano dalle performances tipi- che registrate in passato quando i risultati in doppia cifra erano stati frequenti (vedi ). Un fenomeno particolarmente critico, che acui- sce, tra gli altri, l’annoso problema dei costi di ge- stione (vedi ). COMMODITIES ED EMERGENTI In un anno caratterizzato da rendimenti modesti, ha notato Bloomberg, a patire in modo particola- re sono stati i fondi attivi nel comparto materie prime. Tra questi Hall Commodities LLP, un hedge londinese da 100 milioni di dollari che ha chiuso i battenti a ottobre dopo due anni di attività, e il fondo di settore della Brevan Howard Asset Mana- gement LLP, un veicolo d’investimento da 630 mi- lioni di dollari chiuso dalla stessa casa madre (una maxi creatura da 37 miliardi) dopo lo sconfortan- te -4,3% registrato quest’anno. Determinante il ca- lo dei prezzi del comparto su cui pesa, negli ultimi tempi, il forte ribasso del petrolio. Ma, accanto al trend ribassista del barile, notava a fine novembre la CNBC, altri fattori chiave come il deprezzamen- to di alcune valute (tra cui il real brasiliano e ov- viamente il rublo) e le tensioni geopolitiche (con- flitto Russia-Ucraina in testa) avrebbero finito per condizionare negativamente il mercato, contri- buendo così a influire sui destini di un altro com- parto chiave per gli investimenti alternativi: quel- lo dei mercati emergenti. BOX GRAFICO 1 GRAFICO 2 Record di chiusure e rendimenti ai minimi. Per i fondi hedge il 2014 è stato un anno da dimenticare. Pesa il calo delle materie prime, ma alcuni errori strategici partono da lontano FONDO SPECULATIVO, QUANTO MI COSTI! Costosi. Tanto. Anzi, troppo. Soprattutto in relazione ai risultati. Sono i fondi hedge, già protagonisti di deludenti performance di mercato, e ora nel mirino di una clientela costretta a sobbarcarsi costi di gestione decisamente elevati. Lo ha riferito Bloomberg citando, tra le altre, le critiche mosse dalla Alignment of Interests Association (AOI), un gruppo di pressione che rappresenta gli interes- si degli investitori nel comparto. Alcuni operatori, come il fondo pensione degli insegnanti texani, chiedono a gran voce ai fondi di vincolare le commissioni im- poste agli investitori ai risultati raggiunti. A settembre, PMT, il fondo pensione dei lavoratori dell'industria siderurgica olandese, e Calpers, l’omologo dei di- pendenti pubblici della California, hanno annunciato il disinvestimento dagli hedge a causa dei costi eccessivi. I manager dei fondi hedge, che gestiscono asset complessivi per 2,8 trilioni (mila miliardi) di dollari a livello globale, ricor- da Bloomberg, sono tuttora tra i più pagati di Wall Street.
  • 13. un cappotto normativo finanza etica 25valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 Nel corso del 2014, osservava l’emittente Usa, gli investimenti degli hedge nel continente lati- noamericano avrebbero reso circa il 3,5%, una performance molto modesta. Quelli condotti in Russia, da parte loro, si sarebbero rivelati a dir po- co disastrosi registrando addirittura una perdita complessiva del 12%. A fare eccezione, trascinati dai rialzi del mercato azionario locale, sono stati invece gli investimenti dei fondi attivi in India, ca- paci, sempre secondo CNBC, di centrare un rendi- mento annuale medio del 42% circa. L’ONDA LUNGA DEI BASSI RENDIMENTI Per quanto rilevanti nel loro insieme, tuttavia, i trend più recenti sperimentati dal mercato – com- modities, Russia e svalutazioni varie – sembrano in grado di offrire una spiegazione solo parziale, oscurando, nel marasma delle cifre, quello che in realtà appare a qualcuno come un fenomeno di medio-lungo periodo. «Il 2014 è stato indubbia- mente segnato da numeri negativi, ma la verità è che gli hedge fund sono in declino già dai tempi del crack Lehman quando molti operatori, che si erano trovati a fare i conti con fondi alternativi illiquidi, hanno iniziato a vendere innescando così un meccanismo al ribasso», spiega Raffae- le Zenti, socio fondatore e responsabile dell’area Financial Strategies della società di consulenza Advise Only. Un declino «che parte da lontano», insomma, come evidenziano alcuni confronti impietosi. «Prendiamo l’HFRX Equity Hedge Index, un indi- ce di riferimento dei fondi che investono nel mer- cato azionario», nota Zenti. «Dalla fine del 2008 ad oggi (intervista del 18 dicembre 2014, ndr) il suo total return, ovvero il rendimento complessivo, di- videndi compresi, è stato del 2,6%, come a dire in media 52 punti base, o lo 0,52%, all’anno. Nello stesso periodo l’MSCI World, un indice di riferi- mento per i mercati azionari delle economie avan- zate, ha raggiunto una media annuale del 10,71%, ovvero 1071 punti base, registrando un total re- turn complessivo del 66% circa. Come si può ve- dere siamo su due ordini di grandezza completa- mente diversi». Sugli scarsi rendimenti pesano diversi fattori, «a cominciare dall’inasprimento dei controlli che ha un’inevitabile ricaduta sui costi di gestione dei fondi» e proseguendo con «la forte concorrenza all’interno del settore». Ma l’aspetto maggiormente decisivo, forse, è di natura strategica. «Dallo scoppio della crisi in avanti i mercati sono stati guidati, per così dire, dalle idee “macro”, legate alla politica monetaria e d’indirizzo dei mercati come il Quantitative Ea- sing, ad esempio, e gli interventi della Troika nel- l’eurozona» spiega ancora Zenti. «Chi ha saputo valutare dall’alto con analisi ragionate e comples- sive l’impatto di grandi fenomeni, come la politi- ca monetaria espansiva americana o la crisi del- l’euro, ha fatto bene. I fondi che si sono affidati maggiormente a un approccio di tipo quantitativo – analisi di dati statistici confronto tra titoli simili, uso di metodi algoritmici – al contrario, possono essersi trovati in difficoltà nel centrare in pieno i rendimenti del mercato». Un’impasse che trova ri- scontro soprattutto nel comparto azionario, una potenziale miniera d’oro di cui i fondi non hanno saputo approfittare adeguatamente. Dal 2008 ad oggi, ha notato Bloomberg, le azioni presenti nei portafogli dei fondi equity del comparto hedge hanno reso il 41%. Nello stesso periodo, l’indice Standard & Poor’s 500, uno dei principali punti di riferimento delle Borse, ha registrato una crescita del 153%. ✱ finanza etica investimenti speculativi 24 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 0 100 200 300 400 500 600 700 800 900 1.000 1.100 1.200 1.300 1.400 1.500 1.600 2014 (1° sem.) 201320122011201020092008 1.471 1.023 743 775 873 904 461* NUMERO DI FONDI HEDGE CHIUSI 2008-14 FONTI: BLOOMBERG, DICEMBRE 2014; BLOOMBERG BUSINESSWEEK, DICEMBRE 2009; FINANCIAL TIMES, MARZO 2013; OPALESQUE, DICEMBRE 2014; THINKADVISOR, MARZO 2014; NOSTRE ELABORAZIONI. *DATO AL PRIMO SEMESTRE -30% -20% -10% 0% 10% 20% 30% 40% 2014 2013 2012 2011 2010 2009 2008 2007 2006 2005 2004 2003 2002 2001 2000 1999 1998 199722,35% 8,23% 36,56% 12,19% 6,77% 1,42% 17,99% 8,80% 10,67% 12,39% 10,22% 8,25% 11,12% 3,89% 23,74% 10,88% -5,48% -21,63% IL RENDIMENTO ANNUALE MEDIO DEI FONDI HEDGE 1997-2014 FONTE: BARCLAYHEDGE ALTERNATIVE INVESTMENT DATABASE (WWW.BARCLAYHEDGE.COM), GENNAIO 2015 Microcredito: la legge è operativa finalmente! I n piena crisi economica, tra il 2011 e il 2013, c’è uno strumento che ha permesso di creare cir- ca 20mila posti di lavoro in Italia. È il microcre- ditoproduttivo:piccoliprestiti(25milaeuroalmas- simo) che hanno permesso a chi avrebbe ricevuto un “no” da una qualsiasi banca di avviare un’attivi- tà produttiva. In tre anni ne sono stati concessi più di 8mila. È la fotografia scattata dal IV rapporto del- l’Ente nazionale per il microcredito. Un fenomeno in crescita (in 3 anni le somme erogate sono quasi raddoppiate, dai 42 milioni di euro del 2011 ai 76 milioni del 2013, per i microprestiti d’impresa), per il quale però la domanda supera di gran lunga l’offerta: i microcrediti produttivi concessi coprono solo il 30% della domanda reale. «Dall’analisi risul- ta una carenza di offerta per il microcredito d’im- presa, che avrebbe potuto essere in parte incre- mentata dall’intervento del legislatore. Ma così non è stato». È la denuncia del presidente dell’Ente na- zionale per il microcredito, Mario Baccini. Questo strumento finanziario, infatti, pur es- sendosi dimostrato molto utile, fino ad oggi era “zoppo”, gli mancava un capotto giuridico. A dire il vero la “rivoluzione” era avvenuta più di quattro anni fa, quando, con la riforma del Testo unico bancario, era stato inserito un articolo, il 111, inti- tolato proprio “microcredito”, che definiva i con- torni legislativi di questo particolare strumento fi- nanziario (definizione, importi, requisiti dei soggetti erogatori). Peccato che nei successivi quattro anni nulla si sia mosso per rendere opera- tiva la legge. Solo lo scorso dicembre, finalmente, è stato approvato il regolamento attuativo, che purtroppo non è stato accolto con scrosci di ap- plausi. “Ben venga questo passaggio che permette di applicare la norma dopo quattro anni, ma sono molti i limiti introdotti”, è il commento più o me- no unanime degli operatori del settore. LUCI E (MOLTE) OMBRE «Un passaggio normativo fondamentale per gli operatori del settore», aveva commentato a caldo Ritmi, Rete italiana microfinanza, secondo cui, però, il regolamento attuativo è solo il punto di partenza per una normativa ancora tutta da scri- vere. «Accogliamo positivamente il regolamento attuativo dell’articolo 111 che definisce il percor- so da intraprendere per diventare operatori di mi- crocredito», dichiara Ugo Biggeri, Presidente di Banca Popolare Etica, secondo cui però «Alcuni li- miti oggettivi nel quadro normativo ostacolano il riconoscimento come operatori di microcredito di esperienze storiche». E, continua Biggeri «il tet- to di 200mila euro di fatturato e di 5 anni di attivi- tà limita eccessivamente i potenziali beneficiari ed esclude le micro imprese in stato di crisi». Una delle principali critiche alle novità introdotte dai regolamenti attutivi riguarda proprio i requisiti per poter beneficiare di un microcredito. Il legi- slatore, a quanto pare, a voluto riservare i prestiti a realtà giovani, start up, escludendo però una lar- ga fetta di possibili beneficiari. «In questo modo la norma non rispetta l’intenzione espressa dal legislatore 4 anni fa di rafforzare il ruolo del mi- crocredito come strumento per politiche attive del lavoro», commenta Mario Baccini. «Il regolamento attuativo introduce una defi- nizione più rigida di microcredito, degli erogatori ammessi e dei beneficiari», spiega Andrea Limo- ne, amministratore delegato di Permicro, la socie- Dopo 4 anni è stato approvato il regolamento attuativo dell’articolo dedicato al microcredito (111 del Tub). Gli esperti esprimono soddisfazione per una norma che diventa operativa. E molte critiche di Elisabetta Tramonto
  • 14. tà torinese che dal 2007 eroga microcredito. «Que- sto da un lato evita che soggetti che in realtà non si occupano di microcredito, usino impropria- mente questo termine – continua Andrea Limone – dall’altro però, introduce una serie di difficoltà anche per chi si occupa davvero di microfinanza». Ma alla domanda chiave: “questi decreti per- metteranno di concedere più microprestiti?” la ri- sposta sembra unanime: no. «Se non ci sono van- taggi significativi per gli erogatori, non nascerà più mercato. E dalla norma attuale non vedo que- sti vantaggi significativi», risponde Andrea Limo- ne. «Di certo la normativa attuale non è sufficien- te per sviluppare il settore», aggiunge Giampietro Pizzo (vedi sotto). «Manca una serie di tasselli per incrementare l’offerta – spiega Mario Baccini – dalla formazione alle agevolazioni fisca- li, dai servizi di accompagnamento a risorse spe- cifiche per il settore». SOLO PER LA FINANZA MUTUALISTICA Chi sta festeggiando per il nuovo regolamento so- no le realtà della finanza mutualistica, come le Mag (Mutue di autogestione), o almeno una par- te di esse. «Mentre nella stesura dell’articolo 111 la finanza mutualistica non era neanche citata, nel regolamento attuativo le viene riservato un in- tero articolo: il 16, intitolato “Operatori di finanza mutualistica e solidale”», spiega Patrizio Monti- celli, presidente di Mag2 Finance. A questa cate- goria il legislatore ha riservato una serie di dero- ghe rispetto agli altri operatori, per esempio nel tetto degli importi erogabili (75mila, invece di 25mila) e nella durata massima del prestito (10 anni, invece di 7). Se le Mag potranno essere “operatori di microcredito” è tutto da vedere («di- penderà anche dalla capacità di rispettare le ri- chieste operative e burocratiche contenute nel regolamento», spiega ancora Monticelli), fatto sta che la valenza simbolica dell’articolo dedicato al- la finanza mutualistica è elevato. ✱ INTERVISTA di Elisabetta Tramonto Il regolamento attuativo è una condizione necessaria, ma non sufficiente per svuluppare il settore del microcredito in Italia «Oggi il 25% degli italiani affronta una condizione di esclusione finanziaria. La cri- si da anni colpisce in particolare le fasce più deboli della popolazione: giovani, don- ne, disoccupati, migranti, che non trovano risposte nel sistema bancario tradizionale. E molti piccoli imprenditori non riescono a ottenete prestiti. Il microcredito è da più parti riconosciuto come un efficace stru- mento di lotta alla povertà e di contrasto al- l’esclusione finanziaria e sociale. Ma non può rimanere riservato a poche migliaia di persone, deve diventare uno strumento ac- cessibile a tutti. È l’Europa a chiederlo. In Italia il microcredito continua a crescere in termini di erogazioni (vedi alla pa- gina precedente, ndr), ma non soddisfa an- cora la crescente domanda, anche a causa delle difficoltà provocate dalla mancanza di un quadro normativo appropriato». Descri- ve così il crescente bisogno di microcredi- to in Italia Giampietro Pizzo, presidente di Ritmi (Rete Italiana Microfinanza). L’approvazione del regolamento attuativo dell’articolo 111 è una buona notizia? Certamente sì, anche se, per come è stato scritto, comporta una serie di limiti. È un fattore positivo, innanzitutto, perché rende operativa una norma che per quattro anni era rimasta sulla carta. E, in secondo luogo, perché consente un salto di qualità nell’of- ferta di servizi finanziari inclusivi in Italia: si passa da una logica a progetto a una logica più istituzionale, capace di garantire una presenza permanente sul territorio. Quali aspetti invece non la convincono? Il regolamento attuativo approvato ha una serie di limiti. Riguardano, per esempio, i be- neficiari dei microprestiti d’impresa: posso- no essere finanziate solo imprese costituite da non più di 5 anni. Una logica che favori- sce le start up, ma esclude tutte le realtà preesistenti, riducendo quindi la portata del microcredito come strumento per politiche del lavoro attive. I beneficiari vengono sele- zionati anche sulla base delle dimensioni, favorendo le microimprese e tagliando fuori le realtà un po’ più grandi, ma comunque piccole. Oltre ad essere stata introdotta una serie di regole macchinose che rendono complesso anche stabilire il tasso di inte- resse da applicare. Ci sarebbe molto da migliorare, quindi… L’articolo 111 è una condizione necessaria, ma non sufficiente per lo sviluppo del setto- re. Occorre al più presto una legislazione specifica, che, per esempio, introduca delle agevolazioni fiscali e preveda adeguate ri- sorse per promuovere la microfinanza. Come Ritmi abbiamo proposto due progetti di leg- ge che ora sono in attesa di discussione alla Camera dei Deputati. L’attenzione riservata dalla Presidente Laura Boldrini al tema del microcredito ci fa ben sperare. ARTICOLO UN PRIMO PASSO, MA C’È ANCORA MOLTO DA FARE VALORITECA I MIGLIORI TWEET DEL MESE Credito erogato +5%, sofferenze 2,5% (media banche italiane 9,5%). Alcuni numeri di @bancaetica nel 2014 15 gennaio @abaranes Basta lamentele, titola @DIEZEIT #Germania ha approfittato dell'euro e della crisi. Ora tocca agli altri Paesi. 23 gennaio @meggio_m MININEWS Gli hedge cinesi dietro al crollo del rame Meno 6,4%. Ovvero il più consistente deprezzamento da più di tre anni a questa parte. È la performance negativa fatta registrare dal rame nella seconda settimana di gennaio. Un tracollo di cui sarebbero largamente responsabili le strategie speculative dei fondi cinesi, sempre più protagonisti nel mercato delle materie prime e dei metalli in particolare. Lo ha sostenuto il Financial Times. NEWS Usa, cresce il “dark trading” sulle azioni 2.560 milioni di dollari, oltre due miliardi e mezzo di biglietti verdi, registrati nel terzo trimestre 2014. È l’ammontare crescente (+3% rispetto allo stesso periodo dell’anno passato) dei volumi medi di scambio giornaliero di azioni nelle piattaforme extra borsistiche (dark pools) americane. Lo riferisce l’ultima ricerca di TABB Group. Una massa di operazioni che copre ormai il 45% degli scambi totali. 27valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 finanza etica un cappotto normativo 26 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015  LIBRI Hyman Philip Minsky COMBATTERE LA POVERTÀ. LAVORO NON ASSISTENZA Ediesse, 2014 Una raccolta di saggi di Minsky ripubblicata oggi con un saggio di Riccardo Bellofiore (economista dell'Università di Bergamo) e Laura Pennacchi (economista ed ex-sottosegretario al Tesoro nel primo Governo Prodi) analizza il ruolo dello Stato nel combattere la povertà. Minsky affronta, negli anni Sessanta e Settanta, il problema delle politiche di contrasto della povertà adottate dalle amministrazioni statunitensi. Riccardo Bellofiore e Laura Pennacchi propongono, come indica il titolo del loro contributo – Crisi capitalistica, socializzazione degli investimenti e lotta all’impoverimento – una riflessione sull’attuale situazione di crisi e sul modo di uscirne che non sia quello regressivo prospettato dalle politiche di austerità. DISEGUAGLIANZA: L’ASCESA DELL’1% La ripartizione della ricchezza globale (per fasce di ricchezza) [percentuale di popolazione adulta] <$10,000 $100,000-1m >$1m 7,9 21,5 69,8 0,7 IL MICROCREDITO IN ITALIA: DOMANDE, PRESTITI CONCESSI E AMMONTARE PER FINALITÀ. ANNO 2013 FONTE: PROGETTO MONITORAGGIO, ENTE NAZIONALE MICROCREDITO - MINISTERO DEL LAVORO Domande valutate Microcrediti concessi Erogati/ domande valutate Ammontare totale erogato Ammontare medio per prestito v.a. % v.a. % Rapporto Euro % Euro Sociale 10.067 42,8 5.958 59,9 59,2 26.014.073 25,4 4.366,2 Produttivo 13.461 57,2 3.983 40,1 29,6 76.323.653 74,6 19.162,4 Totale 23.528 100,0 9.941 100,0 42,3 102.337.726 100,0 10.294,5 $10,000-100,000
  • 15.  129.107  129.338 Pesce  91.336  66.633 [157.969] MONDO  import  export INDIA  4.862  4.209 [9.071]  18.228  7.441 CINA  16.168  41.108 [57.276]  6.278 VIETNAM  2.623  3.086 [5.709]  5.753  17.561 USA  5.108  420 [5.528] RUSSIA  4.262  130 [4.392]  17.991 GIAPPONE  3.611  633 [4.244]  8.912 NORVEGIA  2.150  1.321 [3.471]  53.120  47.000 UE  4.420  1.260 [5.680] INDONESIA  5.814  3.068 [8.882] ISLANDA  1.449  5 [1.454] FRANCIA  461  205 [666] SPAGNA  882  267 [1.149]  3.927  6.428  6.064 ITALIA  196  164 [360]  5.562 CILE  2.573  1.071 [3.644]  4.386 THAILANDIA  1.835  1.234 [3.069]  8.079 29valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 201528 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 Nelle acque DEL MONDO Quasi 160 milioni di tonnellate. È la stima della produzione mondiale di pesce calcolata dalle ultime rilevazioni disponibili della Fao e dai più recenti dati Ue. Un ammontare che si concentra soprattutto in Cina (oltre 57 milioni di tonnellate prodotte), leader globale davanti a India, Indonesia e Vietnam. L’acquacoltura pesa sulla produzione totale per quasi 67 milioni di tonnellate (di cui 41 milioni circa coperte dalla sola industria degli allevamenti cinesi) con un’incidenza pari al 42%, destinata ad aumentare nei prossimi anni a fronte dei forti ritmi di crescita del segmento. Il commercio mondiale dei prodotti ittici, stima ancora la Fao, vale quasi 130 miliardi di dollari, 53 dei quali coperti dalle sole operazioni dei Paesi membri dell’Unione europea (ma si sale a 66 considerando anche il peso di Norvegia e Islanda). Con 47 miliardi di dollari di controvalore l’Unione europea si conferma anche primo importatore del Pianeta davanti al Giappone e agli Stati Uniti. Quarta la Cina (7,4 miliardi), seconda nella graduatoria dell’export (18,2 miliardi). di Matteo Cavallito numeri della terra menù a base di pesce FONTI: NOSTRE ELABORAZIONI DA FAO, "THE STATE OF WORLD FISHERIES AND AQUACULTURE 2014", EUMOFA - EUROPEAN MARKET OBSERVATORY FOR FISHERIES AND AQUACULTURE, "THE EU FISH MARKET 2014 EDITION", EUROSTAT, "FISHERY STATISTICS", MAGGIO 2014. PRODUZIONE: DATI IN MIGLIAIA DI TONNELLATE. IMPORT/EXPORT: DATI IN MILIONI DI DOLLARI. [produzione in migliaia di tonnellate, 2014]  Pesca  Acquacoltura [produzione totale]
  • 16. 30 valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 31valori / ANNO 15 N. 125 / FEBBRAIO 2015 ECONOMIA SOLIDALE IL MONDO HA FAME DI PESCE Le economie emergenti e in via di sviluppo trainano il mercato globale del pesce: fonte di proteine e di lavoro. I consumi volano, ma l’Italia è in controtendenza. Boom per l’acquacoltura U n settore in crescita e non potrebbe essere altrimenti. Comparto alimentare chiave per molte economie emergenti, fonte pri- maria di assimilazione di proteine animali nei Paesi in via di sviluppo, segmento economico fon- damentale per il lavoro nel continente asiatico, il più popoloso del mondo. Bastano queste caratte- ristiche, va da sé, a spiegare l’espansione del mer- cato globale del pesce. Dal 1960 ad oggi, dicono i dati Fao, il consumo annuale pro capite di prodot- ti ittici è passato da 9,9 a 19 chili, con l’Europa – 24 kg secondo Ismea, ma l’Italia è in controtendenza (vedi ) – a guidare la classifica per continenti. La crescita, evidenzia ancora la Fao, si è con- fermata ampiamente anche nell’ultimo quin- quennio rilevato (+12,3%) grazie soprattutto al- l’onda lunga del comparto cinese. Ad oggi Pechino si conferma il primo produttore mondiale con ol- tre 57 milioni di tonnellate di prodotti ittici (vedi alle pagg. 28-29) pari a circa il 36% del tota- BOX MAPPA di Matteo Cavallito