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SOMMARIO
Nei giorni scorsi nel salone del Dipartimento Giustizia ed Economia ( Direttore prof Francesco
Manganaro), si è svolto un interessante Convegno organizzato dall’autore del libro dal titolo
omonimo, Giuseppe Tuccio, magistrato a riposo.
L’attesa per la verità era notevole in Città, data la particolare estimazione che il magistrato si era
assicurata sia per la sua attività giudiziaria in sedi di particolare impegno, Caltanissetta ed
Agrigento, dapprima, e poi Reggio Calabria, Palmi e Catanzaro dopo, sia per l’attività culturale e
sociale spesa sul territorio.
Si ricorda la fondazione da parte di Tuccio della Libera Università Reggina in un’epoca (dopo i fatti
di Reggio) che sollecitava una risposta di civiltà, come reazione proattiva allo stato di disillusione
della cittadinanza reggina e della voglia di un rilancio proprio sul terreno culturale.
Dopo la presentazione del convegno da parte della prof Carmelina Sicari, direttore responsabile
della rivista “Calabria Sconosciuta” fondata da un protagonista indimenticato della cultura reggina
il prof Giuseppe Polimeni, rivista che oggi era al battesimo quale casa editrice reggina , la
prolusione è stata svolta dal senatore prof Avv. Nico D’Ascola.
Veramente toccanti sono state le prime affermazioni del reggino D’Ascola quando ha inteso
evocare la sua prima esperienza nell’arengo forense, esordendo proprio davanti ad una Corte di
Assise presieduta dal dott. Tuccio.
Si celebrava il rinomato procedimento penale contro il Gotha mafioso dell’intera provincia da
Rosarno fino a Reggio Calabria essendo allora imputati tutti i più qualificati esponenti delle
“famiglie” mafiose ( i cui congiunti, fratelli o figli sono poi gli esponenti attuali della ndrangheta
reggina…).
Ma il professore D’Ascola ha inteso approfondire il significato “storico” della sentenza emessa dal
collegio giudicante che rompeva un troppo lungo periodo di sottovalutazione anche da parte della
“magistratura” della fenomenologia mafiosa tanto da suscitare un fermo atto di accusa da parte della
Commissione Antimafia ( Presidente Cattanei).
Ancora oggi quella sentenza è citata nei libri di testo e nelle sedi culturali – scientifiche , quale
primo impegno di una svolta nella ermeneutica della vita associativa ndranghetistica, verso
l’obiettivo di renderla equivalente alla fattispecie di cui all’art 416 cp fino ad allora vigente ed
operativa.
E’ stato questo particolare impegno del relatore della sentenza ( appunto il presidente Tuccio) che,
trasfuso in una elaborata motivazione, venne condiviso dalla Suprema Corte con commenti positivi
delle riviste giuridiche ( Il Foro Italiano, Giurisprudenza Italiana etc).
Si trattava in definitiva di un inedito meccanismo di valorizzazione di una “ costante” dell’agire
mafioso, che era stato posto in rilievo dalle riflessioni della cultura democratica calabrese per
costituire il fondamento delle “ regole di esperienza” ritenute come elemento strutturale della prova
logico-critica, validamente idonea per la particolare riqualificazione delle condotte mafiose fino a
quell’epoca rilevabili soltanto quale contesto storico – ambientale relativo ai singoli reati addebitati
e non quale fattispecie autonoma, appunto l’associazione mafiosa.
La pronuncia reggina è stata qualificata da D’Ascola decisamente come sentenza “storica”, per la
svolta impressa alla evoluzione del pensiero giuridico dell’intero Paese con la conseguente,
coerente svolta ,oltre che sul piano della metodologia acquisitiva della prova, soprattutto del
momento valutativo del contesto indiziario dei fatti.
D’Ascola ha voluto ricordare che proprio l’ampio contesto motivazionale della sentenza è stato
richiamato nella relazione legislativa che ha accompagnato la Legge Antimafia ( Rognoni-La
Torre ) del 1982 , dopo che il dottor Tuccio era stato incaricato da parte del Consiglio Superiore
della Magistratura , unitamente ai compianti colleghi Giovanni Falcone e Rocco Chinnici ed al
Giudice Giuliano Turone a relazionare in una serie di convegni nazionali in varie località della
Penisola.
Approvata dunque la nuova fattispecie di cui all’articolo 416 bis è stato avviato un autentico
rilancio dell’impegno magistratuale reggino (in particolare avvalendosi anche della contestuale
riqualificazione della Polizia Giudiziaria e dei servizi della Intelligence in materia), producendo
una serie di sentenze sempre più apprezzate e confermate dalla Suprema Corte.
Venne l’epoca della inevitabile riorganizzazione degli apparati giudiziari, con la costituzione della
DNA e delle Direzioni Distrettuali Provinciali, purtroppo ancora oggi non adeguatamente attrezzate
nè sul piano delle risorse umane nè su quello strutturale; situazione deficitaria che purtroppo
continua a segnare un limite alla alacrità dei magistrati e dei funzionari addetti a tali uffici,
requirenti e giudicanti.
E’ seguita poi la relazione del dottor Tuccio, il quale ,pur prendendo atto della serie di successi
conseguiti nella intera Corte di Appello di Reggio Calabria ed in quella di Catanzaro nel contrasto
alla criminalità organizzata, ha ritenuto di evidenziare come, purtroppo, ad essi rappresentati da
sentenze esemplari e dalla contestuale straordinaria serie di arresti di latitanti appartenenti alla
ndrangheta , si dovette prendere atto di un errore , “altrettanto storico” costituito dalla scelta operata
da Governanti e Parlamento di” scaricare alla esclusiva responsabilità della strategia giudiziaria il
contrasto” al fenomeno mafioso che era divenuto tra l’altro più complesso perché interessante anche
l’affarismo politico- criminale e la contestuale , strutturale, componente della corruzione politica.
Si è trascurato cioè di esaminare funditus tutti i fondamentali aspetti della criminogenesi
multifattoriale rispetto alle vaste manifestazioni criminodinamiche, oggetto di una infinita
pubblicistica ( narrazioni) che indulgeva nella rappresentazione di riti di iniziazione, liturgie dal
fascino nero , coppole storte, ndrine e quant’altro utile per stimolare le curiosità morbosa dei lettori
e talvolta producendo addirittura una sorta di esaltazione inconsapevole di personaggi privi di onore
quali quelli della “onorata società”, talvolta inconsapevolmente “ mitizzandoli”.
Evocava il dottor Tuccio che, proprio durante la sua permanenza a Caltanissetta , onorato della
amicizia dello scrittore Leonardo Sciascia , dallo stesso ha ricevuto riflessioni tutte ovviamente
condivise in ordine ad un dato fondamentale : la mafia , ancor prima che questione criminale è una
“questione sociale”; e come tale va letta ed interpretata nell’ambito della” questione meridionale”.
Altre pertinenti considerazioni di Sciascia sono state richiamate da Tuccio , escludendo che lo
stesso scrittore avesse affermato la frase che ingiustamente gli è stata attribuita ( “Di mafia si
muore, ma di antimafia si campa e si fanno carriere”).
In verità più ragionevolmente Sciascia non gradiva le manifestazioni pubbliche (l’antimafia
declamativa e marciaiola e nemmeno l’inutile urlo delle sirene in città) ; ma è pur vero che il suo
distacco dal pensiero politico del partito che lo aveva eletto deputato ( Il PCI) è stato netto e
definitivo proprio su queste prese di posizione dello scrittore.
Dopo la partecipazione di Tuccio nel procedimento per la irrogazione della misura del soggiorno
obbligato di Giuseppe Genco-Russo , il capo assoluto di Cosa nostra , (soggiorno obbligato nel
comune di Lovere, Provincia di Bergamo), lo stesso, dopo una breve parentesi al Tribunale di
Agrigento, trasferi il suo impegno nella provincia reggina, presiedendo in particolare la sezione
penale e la Corte di Assise , ma soprattutto continuando a relazionare al CSM in ordine alla
opportunità che si conferisse maggiore impulso alle attività di prevenzione generale e speciale, quali
momenti strategici fondamentali per conferire continuità e profondità allo scontro contro la mafia ,
che sia avvaleva tra l’altro di un pericoloso “ consenso sociale” (addirittura in Sicilia proponendosi
come unico ente datore di lavoro !).
Ma ai Governanti – osserva Tuccio- è stato troppo comodo liberarsi del gravoso problema ,
sbandierando , in occasione di eventi delittuosi , iniziative , inviando “sul fronte “ reparti
dell’Esercito a tutela di edifici pubblici per il dichiarato scopo di recuperare alla polizia giudiziaria
ulteriori risorse personali.
L’accusa di Tuccio a questo punto è stata oltremodo dura: dopo che non si era prestato ascolto alla
esortazione di assicurare alle diseredate classi sociali calabresi il minimo delle sicurezze ( non solo
della incolumità ) e cioè l’affrancazione delle stesse dalle infinite “insostenibilità” , continuando a
trattenere le stesse fin dalla “ Mala Unità Nazionale” (Del Boca) in uno stato di impoverimento
culturale , dopo il salasso finanziario imposto al Sud per la dichiarata difesa dell’intero territorio
( pensiero dominante nella letteratura del compianto Pasquino Crupi)-
Non si è dato luogo ad una effettiva partecipazione popolare nella vita democratica attraverso
l’ineludibile dovere civico di un ricambio della classe politica e quindi di un rafforzamento del
coscienza critica e costituzionale della cittadinanza della nostra terra .
Secondo Crupi proprio tale consenso negato rappresentava una democrazia delegata, che non ha
potuto porsi a fianco dei livelli istituzionali più rappresentativi , quale la magistratura ,
manifestando – è inutile negarlo!- quanto meno un atteggiamento di “indifferenza” , quando non
addirittura di “omertà” , quale manifestazione di sfiducia nel convincimento di doversi impegnare in
un meccanismo che gira a vuoto quanto alla crescita del livello di civiltà della Regione.(“Antonello
Capobrigante”, di Vincenzo Padula)
Su tale invitante “ realtà negativa” si è nutrita la ndrangheta calabrese , che si esprimeva peraltro in
termini di “intimidazioni” nei confronti della diseredata popolazione , iniziando la acquisizione,
dapprima con metodi violenti ( mafia militare ) e poi con metodi subdoli ( usura finalizzata allo
spossessamento effettivo delle aziende ghigliottinate) finendo per impossessarsi delle fragili
strutture aziendali della città e della provincia.
Ne è conseguita la irruzione nelle pubbliche amministrazioni attraverso mirate scelte in favore di
candidati già dichiaratisi disponibili al servizio dei loro poteri deleganti.
Da quanto fin qui esposto, pare evidente quanto sia imprescindibile che, accanto al permanente
impegno giudiziario, profuso con spirito di abnegazione che ha sorretto una apprezzata cultura
giuridica sul territorio, occorre porre mano, da parte del mondo politico competente, alla
formulazione di rinnovati processi formativi sul terreno culturale.
L’esperienza vissuta sul versante della attività giudiziaria ha, infatti, portato in evidenza la
imprescindibile esigenza di un proficuo impegno culturale, che assecondi l’azione repressiva e di
prevenzione generale della Magistratura e della Polizia Giudiziaria, nel convincimento che per
sconfiggere la delinquenza organizzata, la ndrangheta in particolare – come fatto criminale in sé –
occorre isolarla nella coscienza popolare, attraverso la riproposizione forte dei valori portati dalle
identità culturali del nostro territorio euromediterraneo.
La nostra democrazia continua a correre gravi pericoli se oltre alla necessaria repressione non si
creano le condizioni base di carattere culturale per scacciare le logiche di natura mafiosa, formando
una diversa consapevolezza civile e democratica. Ogni violenza trova una prima, decisiva risposta
nel comportamento dei cittadini: nella loro partecipazione consapevole alla cosa comune, nel rifiuto
di qualsiasi imposizione che non risponda alle leggi dello Stato.
Già nel 1885 Pasquale Villari (le Lettere Meridionali ed Altri Scritti), ammoniva che per
distruggere il brigantaggio: “Noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi; ma ai rimedi radicali
abbiamo poco pensato. In questa come in altre cose, l’urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto
mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la produzione di un male, che
certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurghi e pessimi medici,
molte amputazioni abbiamo fatto con il ferro, molti tumori cancerosi estirpati con il fuoco, di rado
abbiamo pensato a purificare il sangue”.
In tal senso vanno richiamate le vibranti espressioni di Pasquino Crupi (“Sfruttati e Sfrattati l’Unità
d’Italia vista dai Magni Spiriti del Meridionalismo” Pellegrino Editore, 2010) “L’Italia post unitaria
inizia il suo cammino con una menzogna calcolata fino al millimetro contro il Mezzogiorno, le
Isole, la Calabria. Questa prima menzogna calcolata è che il fausto sistema fiscale, esteso tal quale
dal Piemonte al Sud, fu dettato, determinato, necessitato, anche sul piano morale, dal fatto che la
savoiarda Regione si era indebitata per finanziare “le liberatrici guerre di indipendenza nazionale (e
per ciò stesso i fratelli del Sud..)”.
Le tragiche conseguenze sono ormai puntualmente ribadite dalla storia (Ciano, Il Massacro dei
Savoia; Del Boca, La Mala Unità; Aprile, Terroni), ma soprattutto dalla pagina vergognosa evocata
dal deputato cattolico Massari, che ha presieduto la prima assemblea nazionale dell’unità di Italia, a
Firenze, nel corso della quale ha denunciato il massacro di decine di migliaia di meridionali,
probabilmente non meno di sessantamila (vedi Civiltà Cattolica n. 11, 1921), per presentare il
biglietto da visita con cui l’Italia liberare si affacciava su Mezzogiorno.
Contestualmente purtroppo si deve prendere atto che nella valutazione delle patologie sociali del
mondo moderno si continua a registrare un marcato divario tra una sempre più estesa
massimizzazione delle proclamazioni (sempre vincenti, come tali) e le lacunosità e comunque la
insufficienza della predisposizione di adeguate misure per drenare l’evoluzione degli effetti delle
patologie stesse nella vita sociale del paese.
Così sicuramente è accaduto per quanto concerne il tema della criminalità organizzata calabrese per
cui si è appunto continuato a “prendere atto, sempre a posteriori, delle manifestazioni clamorose”
delle sue ormai smisurate, incontrollabili potenzialità di espansione ed al tempo stesso a manifestare
preoccupanti incapacità di apportare rimedi definitivi, se è incontestabile la progressiva,
impressionante crescita del fenomeno nel territorio calabrese, nazionale ed internazionale,
nonostante troppe siano state in passato le proclamazioni di buoni propositi e le petizioni di
principio inquadrabili in una sorta di “etica dei buoni propositi” cui non ha fatto seguito però
“l’etica dei comportamenti”, considerando che buona parte dei “dichiaranti” politici antimafiosi di
oggi sono proprio la continuità storica della compromessa classe politica dei dirigente di ieri, che ha
considerato il fenomeno in una ottica riduttiva di “Perenne Emergenza” (S. Moccia, La Perenne
Emergenza, Bari 1993).
Oggi prendiamo atto, quasi notabilmente, che la ndrangheta è l’associazione criminale più ricca, più
inserita nell’economia nazionale e nelle strutture istituzionali, con imponenti infiltrazioni in tutto il
mondo.
Tutto ciò accade e si evolve con una progressione esponenzialmente sempre più elevata e
pericolosa, mentre soprattutto in questi ultimi anni, lo Stato ha messo in campo strategie di
rinnovata efficienza quanto agli strumenti operativi impiegati ma soprattutto quanto alla
professionalità dei funzionari e del personal impegnato.
È evidente che l’obiettivo privilegiato almeno fin ora è stato quello di fronteggiare il fenomeno
come “fatto criminale” in sé, recidendo i rapporti collaterali e facendo “terra bruciata” attorno ad
esso; risultato ampiamente raggiunto soprattutto nelle operazioni di cattura noti, pericolosi latitanti.
Purtroppo tale strategia non ha dato i frutti sperati, stante – come anticipato – la crescita
esponenzialmente dilagante del fenomeno sul territorio.
Sul punto però gli indicatori sociali più avvertiti (ISTAT, Centro Ricerche Informazioni
Documentazioni di Mestre, Confagricoltura, Confesercenti, Confindustria) registrano puntualmente,
a seguito di ogni notizia riguardante operazioni per la Magistratura inquirente, la crescita
esponenzialmente sempre più elevata della progressiva espansione della ndrangheta nel mondo,
lobby tra le lobby nell’era della globalizzazione.
Ed allora ritorna l’eco della migliore cultura meridionalistica (da Pasquale Villari a Giustino
Fortunato, da Gaetano Salvemini a fausto Gullo, da Guido dorso a Francesco Saverio Nitti, da Luigi
Sturzo a Nicola Zitara, Da Umberto Zanotti-Bianco a Gaetano Cingari e Sharo Gambino, fino al
compianto Pasquino Crupi) che, risalente nella storia del Sud Italia, ha individuato ab imis le
ragioni politiche che hanno sospinto il Mezzogiorno, anche a mezzo di violenze, perquisizioni ed
eccidi verso una condizione di impoverimento culturale, ancor prima che patrimoniale e finanziario:
fattori fondamentali per l’insediamento del fenomeno mafioso in Calabria.
Agli inizi della mia carriera a Caltanissetta (anni 60’ ), rammenta il relatore dott. Giuseppe
Tuccio,mentre ero impegnato nella organizzazione del contesto indiziario di pericolosità per la
adozione della misura di soggiorno obbligato nei confronti del capo mafia in assoluto Giuseppe
Genco Russo, una autentica autorità culturale mi onorò di sua amicizia, Leonardo Sciascia, mi
sussurrò: “Dottore, la mafia come la questione meridionale, non è solo questione criminale è
soprattutto questione sociale”.
Ebbi modo negli anni di sperimentare la validità di questo assunto, sovente richiamato da Pasquino
Crupi, soprattutto quando è venuta ad emersione nel Mezzogiorno una piattaforma sociale dominata
dal malaffare e dalla corruttela, sospinte dal capitale nordista, creando per altro verso condizioni di
un inarrestabile sottosviluppo sociale nel Mezzogiorno medesimo (Luigi Sturzo, e più
recentemente, Gaetano Cingari).
Si è preferito però dar luogo, in sede politica, fino ad anni recenti, a scelte sempre più dure sul
terreno della repressione (aumento del carico sanzionatorio, creazione di nuove fattispecie penali,
ricorso alla cultura della premialità in favore di soggetti di marcata pericolosità che avevano scelto
la via, talvolta anche ambigua, della collaborazione, inutile aumento delle afflizioni fisiche per i
detenuti, abuso dello strumento della custodia cautelare divenuta autentica carcerazione preventiva,
ricorso spesso disorganico al sequestro preventivo di aziende agricole o comunque produttive, che
perdurando nel tempo, lasciava allo sbando strutture aziendali con conseguenze negative anche
rispetto ai diritti dei lavoratori; e ciò mentre scorrevano, incontrollati, fiumi di danaro che si
collocavano sotto la tutela internazionale, attraverso sofisticati meccanismi anche extrabancari,
soprattutto mediante il ricorso al riciclaggio).
“Sono stati esplorati con scarsi risultati i santuari della mala sanità, nonché quelli della mala
amministrazione, è stata indagata l’attività bancaria del Vaticano, si sono controllati gli archivi della
stampa e nel contempo si provvedeva alla emanazione di pessime leggi che hanno dato origine ad
inaccettabili interpretazioni giudiziarie, a nulla provvedendosi, con miope, imperdonabile,
valutazione sul versante della prevenzione generale e speciale, disconoscendosi, tra l’altro,
totalmente il ricorso in sede penale e penitenziaria, alle misure alternative”; così ribadiva con forza
il dott. Tuccio.
Concludendo si rimane particolarmente convinti che, pur essendosi proceduto nei precedenti
decenni fino all’attualità (2015), nell’espletamento di un poderoso impegno giudiziario, soprattutto
nei Distretti di Corte di Appello di Reggio Calabria e di Catanzaro, attraverso pronunce sempre più
approfondite ed innovative anche a causa della sempre più perfezionata specializzazione della
Magistratura in materia di criminalità organizzata (si pensi appena alla costituzione del DNA della
DIA e di tutti gli organismi specializzati della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, della
Guardia di Finanza e del Corpo Forestale dello Stato), va ribadito che è assolutamente
imprescindibile riprendere l’itinerario fondamentale degli approfondimenti culturali nei processi
formativi sulla scia della storica cultura meridionalistica che, partendo dall’unità di Italia, fino ai
giorni nostri, pone in maggior misura l’accento sulla esigenza di affiancare l’impegno della
istituzione giustizia e della polizia giudiziaria attraverso un processo di acculturamento delle
comunità per una riedificazione della coscienza civile e costituzionale soprattutto delle categorie
giovanili, interrompendo il percorso perverso di una classe politica che, nel secondo dopoguerra,
dilapidando e sfruttando le risorse comunitarie e nazionali destinate allo sviluppo economico e
sociale della Calabria ha foraggiato l’imprenditoria mafiosa fino a realizzarne un determinante ruolo
nelle scelte elettorali.
Passando poi all’esame di più specifiche tematiche, Tuccio ha ulteriormente sostenuto:
“Vi è la necessità di prendere atto che purtroppo, per quanto attiene all’impegno giudiziario-
repressivo l’esigenza di non rinchiudersi in una torre d’avorio ha finito con il promuovere via via
forme di presenza e impegno verosimilmente sproporzionate per eccesso. In particolare, tra i più
consapevoli magistrati antimafia è maturata la convinzione che allo scopo di contrastare fenomeni
complessi come le mafie sia necessario che gli stessi magistrati si facciano carico di funzioni
divulgativo-pedagogiche volte a informare ed orientare l’opinione pubblica nelle scuole, nei luoghi
di lavoro, nelle associazioni di volontariato, nelle famiglie.
Anche se molti di coloro che condividono la necessità di questo ruolo pedagogico non si
spingerebbero, forse, sino al punto di avallarne un’interpretazione così estremistica da trasformare il
magistrato antimafia in una sorta di nuovo “tribuno del popolo”, non per questo vengono tuttavia
meno ragioni di possibile preoccupazione: in realtà è sempre incombente il rischio che l’attività
pedagogica del magistrato, pur se svolta a fin di bene, ne accentui le valenze politiche nei termini di
un pernicioso populismo giudiziario.
In ogni caso la tentazione di ridurre il processo a strumento di conferma di presunte verità di altra
matrice può comportare una arroganza intellettuale che disdegna il confronto con “l’immane
concretezza della realtà, con la contraddittorietà e la frammentarietà dei fatti, con la frequente
casualità degli accadimenti e la loro irriducibile resistenza a trovare spiegazioni in grande regie o
disegni predeterminati”.
Al contrario, una nuova auspicabile deontologia giudiziaria non può recuperare il valore
irrinunciabile del dubbio cognitivo, quale riflesso della consapevolezza epistemologica del carattere
probabilistico e induttivo della verità processuale.
Per concludere – concludeva Tuccio - queste nostre modeste considerazioni, radicate in esperienze
sempre più diffuse nel nostro Paese, ci è di conforto la illuminante “lezione” di Sabino Cassese (in
una sua intervista al Corriere della Sera del 28 Agosto 2015), ove in termini espressi denuncia
quando sia sproporzionato il posto che il sistema giudiziario è venuto ad occupare nella vita civile,
se rapportato al suo fallimento come erogatore del fondamentale servizio della giustizia.
“Non vengano da ultime, in questo quadro, le proposte formulate dal Prof. Cassese, recentemente
ribadite, relative ad intercettazioni, carcerazione preventivo e separazione delle carriere. Prima
ancora della loro divulgazione, è l’uso a volte eccessivo delle intercettazioni (specialmente di quelle
indirette) come mezzo di prova che andrebbe disciplinato, ricordando che, secondo la Costituzione,
la segretezza delle comunicazioni è inviolabile. La carcerazione preventiva è stata talvolta usata
come mezzo di pressione, per ottenere ammissioni di colpa, anche qui mostrando le debolezze
investigative nella raccolta documentale di prove. Per quanto la sua importanza sia diminuita dopo
la distinzione funzionale, la separazione delle carriere, ambedue con indipendenza garantita, è
dettata molto semplicemente dal fatto che accusa e giudizio sono mestieri diversi, che richiedono
preparazione e professionalità differenti”.
“Il Governo italiano ha finora avuto giudizi molto negativi dalla Corte di Strasburgo e
apprezzamenti sia dai commissari europei per le iniziative intraprese nel campo della giustizia, sia
dal Consiglio d’Europa per la produttività dei giudici”.
“Ma il tempo passa e i risultati più consistenti sono attesi, non solo dai cittadini, ma anche
dall’Unione Europea e dal Consiglio d’Europa”.
“Non dimentichiamo che uno dei punti di decisione dell’Eurosummit del luglio scorso relativa alla
Grecia, presa con la collaborazione dell’Italia, ha riguardato l’accelerazione delle procedure
giudiziarie e la riduzione dei costi della giustizia”.
Le esortazioni del giurista per eccellenza Sabino Cassese risultano realisticamente oggi avallate da
una evidente ripresa da parte del Parlamento italiano e del Governo di orientamenti culturali
assiologici finalizzati all’obiettivo di una proficua utilizzazione del valore della prevenzione
generale, finora totalmente negletti nel dibattito parlamentare e nel disimpegno dei governanti.
In tal senso però, proprio nelle ultime tornate delle Commissioni Giustizia di Senato e della
Camera, circa il riordino generale del codice antimafia, della revisione della legislazione
concernente il sequestro e confisca dei beni di provenienza illecita, nonché dello scioglimento delle
Amministrazioni locali si registrano positivi atteggiamenti di rilancio della cultura della
prevenzione espressa in termini espliciti con proposte fortemente innovative sui temi trattati.
Sono stati particolarmente efficaci gli interventi di Davide Mattiello Relatore PD, Franco Mirabelli
Area Democratica, Raffaele Cantone Responsabile dell’Autorità Anticorruzione, ma soprattutto dal
presidente della Commissione Senato il reggino Prof. Nico D’Ascola, tutti orientati ad una revisione
in profondità dell’intera legislazione compendiata nel codice antimafia, nonché una più penetrante
svolta alle due leggi già formulate in una lettura interpretativa di tipo emergenziale e cioè quella
relativa al sequestro e confisca dei beni di provenienza illecita, nonché la legge per lo scioglimento
dei Consigli Comunali che abbiano subito infiltrazioni mafiose.
Entrambe le leggi finalizzate, come è noto, la prima a restituire alla società civile i beni di cui essa
era stata spoliata dalle strategie mafiose e l’altra tendente a rafforzare la tenuta democratica delle
Amministrazioni locali, sono state letteralmente disarticolate dalle proposte di legge in discussione
per evidenti discrasie, antinomie ed inestricabili aporie, tutte eliminabili in favore del recupero di
più penetranti valorizzazioni di profili di natura preventiva.
“Qualcosa si muove nella giustizia. Le riforme avviate nel giugno 2014, articolate in dodici punti,
dopo una pubblica consultazione, stanno dando qualche magro frutto:calo dell’arresto civile, tempi
più brevi nei processi”, dice Cassese.
Quel che è certo è che tutto va ricondotto all’obiettivo di recidere dalle fondamenta ogni rapporto di
connivenza di contiguità e di occultamenti di attività mafiose.
Il “fatto criminale in sé”, deve essere ancora come sempre duramente perseguito nel rispetto delle
regole del processo penale.
Esse dettano, comunque, l’esigenza di assicurare in ogni stadio dell’articolarsi procedurale, il
rispetto della tutela dei valori costituzionali sottesi ad ogni norma penale, processuale, penitenziaria
“l’arma per combattere la mafia”, affermava Sciascia, “è sempre il diritto”.
Concluso il suo intervento il Presidente Tuccio procedeva all’avvio delle relazioni di base affidate a
Mons. Antonio Foderaro, concernente il ruolo della Chiesa, per come illustrato nell’ampia
documentazione acquisita nel volume e cioè nel rispetto dei principi evangelici.
Di particolare pregio culturale era poi la relazione del professore Giuseppe Trebisacce, Direttore del
Dipartimento di Pedagogia dell’UniCal di Cosenza che poneva al centro della moderna pedagogia il
ruolo da protagonista dei giovani, sottraendolo alle condizioni di subcultura dal retaggio del
familismo amorale (vivere e combattere per il “proprio” e disprezzare il “pubblico”).
Chiudeva il Convegno il Prof. Massimiliano Ferrara, responsabile del corso di Laurea di Economia
nella Facoltà di Giurisprudenza ed Economia di Reggio Calabria.
Inedite quanto documentate affermazioni erano dal noto professore Ferrara tese a rappresentare
l’incredibile esistenza di rapporti di finanziamenti illeciti che per il tramite della mafia (lobby tra le
lobbry) erano destinati i finanziamenti, addirittura, alle forze terroristiche dell’ISIS.
Il Convegno è stato seguito con partecipe interesse da un folto pubblico rappresentato da personalità
di cultura della società civile, docenti universitari, avvocati penalisti ed autorità locali.

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Giuseppe Tuccio sommario "La difficile antimafia"

  • 1. SOMMARIO Nei giorni scorsi nel salone del Dipartimento Giustizia ed Economia ( Direttore prof Francesco Manganaro), si è svolto un interessante Convegno organizzato dall’autore del libro dal titolo omonimo, Giuseppe Tuccio, magistrato a riposo. L’attesa per la verità era notevole in Città, data la particolare estimazione che il magistrato si era assicurata sia per la sua attività giudiziaria in sedi di particolare impegno, Caltanissetta ed Agrigento, dapprima, e poi Reggio Calabria, Palmi e Catanzaro dopo, sia per l’attività culturale e sociale spesa sul territorio. Si ricorda la fondazione da parte di Tuccio della Libera Università Reggina in un’epoca (dopo i fatti di Reggio) che sollecitava una risposta di civiltà, come reazione proattiva allo stato di disillusione della cittadinanza reggina e della voglia di un rilancio proprio sul terreno culturale. Dopo la presentazione del convegno da parte della prof Carmelina Sicari, direttore responsabile della rivista “Calabria Sconosciuta” fondata da un protagonista indimenticato della cultura reggina il prof Giuseppe Polimeni, rivista che oggi era al battesimo quale casa editrice reggina , la prolusione è stata svolta dal senatore prof Avv. Nico D’Ascola. Veramente toccanti sono state le prime affermazioni del reggino D’Ascola quando ha inteso evocare la sua prima esperienza nell’arengo forense, esordendo proprio davanti ad una Corte di Assise presieduta dal dott. Tuccio. Si celebrava il rinomato procedimento penale contro il Gotha mafioso dell’intera provincia da Rosarno fino a Reggio Calabria essendo allora imputati tutti i più qualificati esponenti delle “famiglie” mafiose ( i cui congiunti, fratelli o figli sono poi gli esponenti attuali della ndrangheta reggina…). Ma il professore D’Ascola ha inteso approfondire il significato “storico” della sentenza emessa dal collegio giudicante che rompeva un troppo lungo periodo di sottovalutazione anche da parte della “magistratura” della fenomenologia mafiosa tanto da suscitare un fermo atto di accusa da parte della Commissione Antimafia ( Presidente Cattanei). Ancora oggi quella sentenza è citata nei libri di testo e nelle sedi culturali – scientifiche , quale primo impegno di una svolta nella ermeneutica della vita associativa ndranghetistica, verso l’obiettivo di renderla equivalente alla fattispecie di cui all’art 416 cp fino ad allora vigente ed operativa. E’ stato questo particolare impegno del relatore della sentenza ( appunto il presidente Tuccio) che, trasfuso in una elaborata motivazione, venne condiviso dalla Suprema Corte con commenti positivi delle riviste giuridiche ( Il Foro Italiano, Giurisprudenza Italiana etc). Si trattava in definitiva di un inedito meccanismo di valorizzazione di una “ costante” dell’agire mafioso, che era stato posto in rilievo dalle riflessioni della cultura democratica calabrese per costituire il fondamento delle “ regole di esperienza” ritenute come elemento strutturale della prova logico-critica, validamente idonea per la particolare riqualificazione delle condotte mafiose fino a quell’epoca rilevabili soltanto quale contesto storico – ambientale relativo ai singoli reati addebitati e non quale fattispecie autonoma, appunto l’associazione mafiosa. La pronuncia reggina è stata qualificata da D’Ascola decisamente come sentenza “storica”, per la svolta impressa alla evoluzione del pensiero giuridico dell’intero Paese con la conseguente, coerente svolta ,oltre che sul piano della metodologia acquisitiva della prova, soprattutto del momento valutativo del contesto indiziario dei fatti. D’Ascola ha voluto ricordare che proprio l’ampio contesto motivazionale della sentenza è stato richiamato nella relazione legislativa che ha accompagnato la Legge Antimafia ( Rognoni-La Torre ) del 1982 , dopo che il dottor Tuccio era stato incaricato da parte del Consiglio Superiore della Magistratura , unitamente ai compianti colleghi Giovanni Falcone e Rocco Chinnici ed al Giudice Giuliano Turone a relazionare in una serie di convegni nazionali in varie località della Penisola.
  • 2. Approvata dunque la nuova fattispecie di cui all’articolo 416 bis è stato avviato un autentico rilancio dell’impegno magistratuale reggino (in particolare avvalendosi anche della contestuale riqualificazione della Polizia Giudiziaria e dei servizi della Intelligence in materia), producendo una serie di sentenze sempre più apprezzate e confermate dalla Suprema Corte. Venne l’epoca della inevitabile riorganizzazione degli apparati giudiziari, con la costituzione della DNA e delle Direzioni Distrettuali Provinciali, purtroppo ancora oggi non adeguatamente attrezzate nè sul piano delle risorse umane nè su quello strutturale; situazione deficitaria che purtroppo continua a segnare un limite alla alacrità dei magistrati e dei funzionari addetti a tali uffici, requirenti e giudicanti. E’ seguita poi la relazione del dottor Tuccio, il quale ,pur prendendo atto della serie di successi conseguiti nella intera Corte di Appello di Reggio Calabria ed in quella di Catanzaro nel contrasto alla criminalità organizzata, ha ritenuto di evidenziare come, purtroppo, ad essi rappresentati da sentenze esemplari e dalla contestuale straordinaria serie di arresti di latitanti appartenenti alla ndrangheta , si dovette prendere atto di un errore , “altrettanto storico” costituito dalla scelta operata da Governanti e Parlamento di” scaricare alla esclusiva responsabilità della strategia giudiziaria il contrasto” al fenomeno mafioso che era divenuto tra l’altro più complesso perché interessante anche l’affarismo politico- criminale e la contestuale , strutturale, componente della corruzione politica. Si è trascurato cioè di esaminare funditus tutti i fondamentali aspetti della criminogenesi multifattoriale rispetto alle vaste manifestazioni criminodinamiche, oggetto di una infinita pubblicistica ( narrazioni) che indulgeva nella rappresentazione di riti di iniziazione, liturgie dal fascino nero , coppole storte, ndrine e quant’altro utile per stimolare le curiosità morbosa dei lettori e talvolta producendo addirittura una sorta di esaltazione inconsapevole di personaggi privi di onore quali quelli della “onorata società”, talvolta inconsapevolmente “ mitizzandoli”. Evocava il dottor Tuccio che, proprio durante la sua permanenza a Caltanissetta , onorato della amicizia dello scrittore Leonardo Sciascia , dallo stesso ha ricevuto riflessioni tutte ovviamente condivise in ordine ad un dato fondamentale : la mafia , ancor prima che questione criminale è una “questione sociale”; e come tale va letta ed interpretata nell’ambito della” questione meridionale”. Altre pertinenti considerazioni di Sciascia sono state richiamate da Tuccio , escludendo che lo stesso scrittore avesse affermato la frase che ingiustamente gli è stata attribuita ( “Di mafia si muore, ma di antimafia si campa e si fanno carriere”). In verità più ragionevolmente Sciascia non gradiva le manifestazioni pubbliche (l’antimafia declamativa e marciaiola e nemmeno l’inutile urlo delle sirene in città) ; ma è pur vero che il suo distacco dal pensiero politico del partito che lo aveva eletto deputato ( Il PCI) è stato netto e definitivo proprio su queste prese di posizione dello scrittore. Dopo la partecipazione di Tuccio nel procedimento per la irrogazione della misura del soggiorno obbligato di Giuseppe Genco-Russo , il capo assoluto di Cosa nostra , (soggiorno obbligato nel comune di Lovere, Provincia di Bergamo), lo stesso, dopo una breve parentesi al Tribunale di Agrigento, trasferi il suo impegno nella provincia reggina, presiedendo in particolare la sezione penale e la Corte di Assise , ma soprattutto continuando a relazionare al CSM in ordine alla opportunità che si conferisse maggiore impulso alle attività di prevenzione generale e speciale, quali momenti strategici fondamentali per conferire continuità e profondità allo scontro contro la mafia , che sia avvaleva tra l’altro di un pericoloso “ consenso sociale” (addirittura in Sicilia proponendosi come unico ente datore di lavoro !). Ma ai Governanti – osserva Tuccio- è stato troppo comodo liberarsi del gravoso problema , sbandierando , in occasione di eventi delittuosi , iniziative , inviando “sul fronte “ reparti dell’Esercito a tutela di edifici pubblici per il dichiarato scopo di recuperare alla polizia giudiziaria ulteriori risorse personali. L’accusa di Tuccio a questo punto è stata oltremodo dura: dopo che non si era prestato ascolto alla esortazione di assicurare alle diseredate classi sociali calabresi il minimo delle sicurezze ( non solo della incolumità ) e cioè l’affrancazione delle stesse dalle infinite “insostenibilità” , continuando a trattenere le stesse fin dalla “ Mala Unità Nazionale” (Del Boca) in uno stato di impoverimento
  • 3. culturale , dopo il salasso finanziario imposto al Sud per la dichiarata difesa dell’intero territorio ( pensiero dominante nella letteratura del compianto Pasquino Crupi)- Non si è dato luogo ad una effettiva partecipazione popolare nella vita democratica attraverso l’ineludibile dovere civico di un ricambio della classe politica e quindi di un rafforzamento del coscienza critica e costituzionale della cittadinanza della nostra terra . Secondo Crupi proprio tale consenso negato rappresentava una democrazia delegata, che non ha potuto porsi a fianco dei livelli istituzionali più rappresentativi , quale la magistratura , manifestando – è inutile negarlo!- quanto meno un atteggiamento di “indifferenza” , quando non addirittura di “omertà” , quale manifestazione di sfiducia nel convincimento di doversi impegnare in un meccanismo che gira a vuoto quanto alla crescita del livello di civiltà della Regione.(“Antonello Capobrigante”, di Vincenzo Padula) Su tale invitante “ realtà negativa” si è nutrita la ndrangheta calabrese , che si esprimeva peraltro in termini di “intimidazioni” nei confronti della diseredata popolazione , iniziando la acquisizione, dapprima con metodi violenti ( mafia militare ) e poi con metodi subdoli ( usura finalizzata allo spossessamento effettivo delle aziende ghigliottinate) finendo per impossessarsi delle fragili strutture aziendali della città e della provincia. Ne è conseguita la irruzione nelle pubbliche amministrazioni attraverso mirate scelte in favore di candidati già dichiaratisi disponibili al servizio dei loro poteri deleganti. Da quanto fin qui esposto, pare evidente quanto sia imprescindibile che, accanto al permanente impegno giudiziario, profuso con spirito di abnegazione che ha sorretto una apprezzata cultura giuridica sul territorio, occorre porre mano, da parte del mondo politico competente, alla formulazione di rinnovati processi formativi sul terreno culturale. L’esperienza vissuta sul versante della attività giudiziaria ha, infatti, portato in evidenza la imprescindibile esigenza di un proficuo impegno culturale, che assecondi l’azione repressiva e di prevenzione generale della Magistratura e della Polizia Giudiziaria, nel convincimento che per sconfiggere la delinquenza organizzata, la ndrangheta in particolare – come fatto criminale in sé – occorre isolarla nella coscienza popolare, attraverso la riproposizione forte dei valori portati dalle identità culturali del nostro territorio euromediterraneo. La nostra democrazia continua a correre gravi pericoli se oltre alla necessaria repressione non si creano le condizioni base di carattere culturale per scacciare le logiche di natura mafiosa, formando una diversa consapevolezza civile e democratica. Ogni violenza trova una prima, decisiva risposta nel comportamento dei cittadini: nella loro partecipazione consapevole alla cosa comune, nel rifiuto di qualsiasi imposizione che non risponda alle leggi dello Stato. Già nel 1885 Pasquale Villari (le Lettere Meridionali ed Altri Scritti), ammoniva che per distruggere il brigantaggio: “Noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi; ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato. In questa come in altre cose, l’urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la produzione di un male, che certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurghi e pessimi medici, molte amputazioni abbiamo fatto con il ferro, molti tumori cancerosi estirpati con il fuoco, di rado abbiamo pensato a purificare il sangue”. In tal senso vanno richiamate le vibranti espressioni di Pasquino Crupi (“Sfruttati e Sfrattati l’Unità d’Italia vista dai Magni Spiriti del Meridionalismo” Pellegrino Editore, 2010) “L’Italia post unitaria inizia il suo cammino con una menzogna calcolata fino al millimetro contro il Mezzogiorno, le Isole, la Calabria. Questa prima menzogna calcolata è che il fausto sistema fiscale, esteso tal quale dal Piemonte al Sud, fu dettato, determinato, necessitato, anche sul piano morale, dal fatto che la savoiarda Regione si era indebitata per finanziare “le liberatrici guerre di indipendenza nazionale (e per ciò stesso i fratelli del Sud..)”. Le tragiche conseguenze sono ormai puntualmente ribadite dalla storia (Ciano, Il Massacro dei Savoia; Del Boca, La Mala Unità; Aprile, Terroni), ma soprattutto dalla pagina vergognosa evocata dal deputato cattolico Massari, che ha presieduto la prima assemblea nazionale dell’unità di Italia, a Firenze, nel corso della quale ha denunciato il massacro di decine di migliaia di meridionali,
  • 4. probabilmente non meno di sessantamila (vedi Civiltà Cattolica n. 11, 1921), per presentare il biglietto da visita con cui l’Italia liberare si affacciava su Mezzogiorno. Contestualmente purtroppo si deve prendere atto che nella valutazione delle patologie sociali del mondo moderno si continua a registrare un marcato divario tra una sempre più estesa massimizzazione delle proclamazioni (sempre vincenti, come tali) e le lacunosità e comunque la insufficienza della predisposizione di adeguate misure per drenare l’evoluzione degli effetti delle patologie stesse nella vita sociale del paese. Così sicuramente è accaduto per quanto concerne il tema della criminalità organizzata calabrese per cui si è appunto continuato a “prendere atto, sempre a posteriori, delle manifestazioni clamorose” delle sue ormai smisurate, incontrollabili potenzialità di espansione ed al tempo stesso a manifestare preoccupanti incapacità di apportare rimedi definitivi, se è incontestabile la progressiva, impressionante crescita del fenomeno nel territorio calabrese, nazionale ed internazionale, nonostante troppe siano state in passato le proclamazioni di buoni propositi e le petizioni di principio inquadrabili in una sorta di “etica dei buoni propositi” cui non ha fatto seguito però “l’etica dei comportamenti”, considerando che buona parte dei “dichiaranti” politici antimafiosi di oggi sono proprio la continuità storica della compromessa classe politica dei dirigente di ieri, che ha considerato il fenomeno in una ottica riduttiva di “Perenne Emergenza” (S. Moccia, La Perenne Emergenza, Bari 1993). Oggi prendiamo atto, quasi notabilmente, che la ndrangheta è l’associazione criminale più ricca, più inserita nell’economia nazionale e nelle strutture istituzionali, con imponenti infiltrazioni in tutto il mondo. Tutto ciò accade e si evolve con una progressione esponenzialmente sempre più elevata e pericolosa, mentre soprattutto in questi ultimi anni, lo Stato ha messo in campo strategie di rinnovata efficienza quanto agli strumenti operativi impiegati ma soprattutto quanto alla professionalità dei funzionari e del personal impegnato. È evidente che l’obiettivo privilegiato almeno fin ora è stato quello di fronteggiare il fenomeno come “fatto criminale” in sé, recidendo i rapporti collaterali e facendo “terra bruciata” attorno ad esso; risultato ampiamente raggiunto soprattutto nelle operazioni di cattura noti, pericolosi latitanti. Purtroppo tale strategia non ha dato i frutti sperati, stante – come anticipato – la crescita esponenzialmente dilagante del fenomeno sul territorio. Sul punto però gli indicatori sociali più avvertiti (ISTAT, Centro Ricerche Informazioni Documentazioni di Mestre, Confagricoltura, Confesercenti, Confindustria) registrano puntualmente, a seguito di ogni notizia riguardante operazioni per la Magistratura inquirente, la crescita esponenzialmente sempre più elevata della progressiva espansione della ndrangheta nel mondo, lobby tra le lobby nell’era della globalizzazione. Ed allora ritorna l’eco della migliore cultura meridionalistica (da Pasquale Villari a Giustino Fortunato, da Gaetano Salvemini a fausto Gullo, da Guido dorso a Francesco Saverio Nitti, da Luigi Sturzo a Nicola Zitara, Da Umberto Zanotti-Bianco a Gaetano Cingari e Sharo Gambino, fino al compianto Pasquino Crupi) che, risalente nella storia del Sud Italia, ha individuato ab imis le ragioni politiche che hanno sospinto il Mezzogiorno, anche a mezzo di violenze, perquisizioni ed eccidi verso una condizione di impoverimento culturale, ancor prima che patrimoniale e finanziario: fattori fondamentali per l’insediamento del fenomeno mafioso in Calabria. Agli inizi della mia carriera a Caltanissetta (anni 60’ ), rammenta il relatore dott. Giuseppe Tuccio,mentre ero impegnato nella organizzazione del contesto indiziario di pericolosità per la adozione della misura di soggiorno obbligato nei confronti del capo mafia in assoluto Giuseppe Genco Russo, una autentica autorità culturale mi onorò di sua amicizia, Leonardo Sciascia, mi sussurrò: “Dottore, la mafia come la questione meridionale, non è solo questione criminale è soprattutto questione sociale”. Ebbi modo negli anni di sperimentare la validità di questo assunto, sovente richiamato da Pasquino Crupi, soprattutto quando è venuta ad emersione nel Mezzogiorno una piattaforma sociale dominata
  • 5. dal malaffare e dalla corruttela, sospinte dal capitale nordista, creando per altro verso condizioni di un inarrestabile sottosviluppo sociale nel Mezzogiorno medesimo (Luigi Sturzo, e più recentemente, Gaetano Cingari). Si è preferito però dar luogo, in sede politica, fino ad anni recenti, a scelte sempre più dure sul terreno della repressione (aumento del carico sanzionatorio, creazione di nuove fattispecie penali, ricorso alla cultura della premialità in favore di soggetti di marcata pericolosità che avevano scelto la via, talvolta anche ambigua, della collaborazione, inutile aumento delle afflizioni fisiche per i detenuti, abuso dello strumento della custodia cautelare divenuta autentica carcerazione preventiva, ricorso spesso disorganico al sequestro preventivo di aziende agricole o comunque produttive, che perdurando nel tempo, lasciava allo sbando strutture aziendali con conseguenze negative anche rispetto ai diritti dei lavoratori; e ciò mentre scorrevano, incontrollati, fiumi di danaro che si collocavano sotto la tutela internazionale, attraverso sofisticati meccanismi anche extrabancari, soprattutto mediante il ricorso al riciclaggio). “Sono stati esplorati con scarsi risultati i santuari della mala sanità, nonché quelli della mala amministrazione, è stata indagata l’attività bancaria del Vaticano, si sono controllati gli archivi della stampa e nel contempo si provvedeva alla emanazione di pessime leggi che hanno dato origine ad inaccettabili interpretazioni giudiziarie, a nulla provvedendosi, con miope, imperdonabile, valutazione sul versante della prevenzione generale e speciale, disconoscendosi, tra l’altro, totalmente il ricorso in sede penale e penitenziaria, alle misure alternative”; così ribadiva con forza il dott. Tuccio. Concludendo si rimane particolarmente convinti che, pur essendosi proceduto nei precedenti decenni fino all’attualità (2015), nell’espletamento di un poderoso impegno giudiziario, soprattutto nei Distretti di Corte di Appello di Reggio Calabria e di Catanzaro, attraverso pronunce sempre più approfondite ed innovative anche a causa della sempre più perfezionata specializzazione della Magistratura in materia di criminalità organizzata (si pensi appena alla costituzione del DNA della DIA e di tutti gli organismi specializzati della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e del Corpo Forestale dello Stato), va ribadito che è assolutamente imprescindibile riprendere l’itinerario fondamentale degli approfondimenti culturali nei processi formativi sulla scia della storica cultura meridionalistica che, partendo dall’unità di Italia, fino ai giorni nostri, pone in maggior misura l’accento sulla esigenza di affiancare l’impegno della istituzione giustizia e della polizia giudiziaria attraverso un processo di acculturamento delle comunità per una riedificazione della coscienza civile e costituzionale soprattutto delle categorie giovanili, interrompendo il percorso perverso di una classe politica che, nel secondo dopoguerra, dilapidando e sfruttando le risorse comunitarie e nazionali destinate allo sviluppo economico e sociale della Calabria ha foraggiato l’imprenditoria mafiosa fino a realizzarne un determinante ruolo nelle scelte elettorali. Passando poi all’esame di più specifiche tematiche, Tuccio ha ulteriormente sostenuto: “Vi è la necessità di prendere atto che purtroppo, per quanto attiene all’impegno giudiziario- repressivo l’esigenza di non rinchiudersi in una torre d’avorio ha finito con il promuovere via via forme di presenza e impegno verosimilmente sproporzionate per eccesso. In particolare, tra i più consapevoli magistrati antimafia è maturata la convinzione che allo scopo di contrastare fenomeni complessi come le mafie sia necessario che gli stessi magistrati si facciano carico di funzioni divulgativo-pedagogiche volte a informare ed orientare l’opinione pubblica nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle associazioni di volontariato, nelle famiglie. Anche se molti di coloro che condividono la necessità di questo ruolo pedagogico non si spingerebbero, forse, sino al punto di avallarne un’interpretazione così estremistica da trasformare il magistrato antimafia in una sorta di nuovo “tribuno del popolo”, non per questo vengono tuttavia meno ragioni di possibile preoccupazione: in realtà è sempre incombente il rischio che l’attività pedagogica del magistrato, pur se svolta a fin di bene, ne accentui le valenze politiche nei termini di un pernicioso populismo giudiziario.
  • 6. In ogni caso la tentazione di ridurre il processo a strumento di conferma di presunte verità di altra matrice può comportare una arroganza intellettuale che disdegna il confronto con “l’immane concretezza della realtà, con la contraddittorietà e la frammentarietà dei fatti, con la frequente casualità degli accadimenti e la loro irriducibile resistenza a trovare spiegazioni in grande regie o disegni predeterminati”. Al contrario, una nuova auspicabile deontologia giudiziaria non può recuperare il valore irrinunciabile del dubbio cognitivo, quale riflesso della consapevolezza epistemologica del carattere probabilistico e induttivo della verità processuale. Per concludere – concludeva Tuccio - queste nostre modeste considerazioni, radicate in esperienze sempre più diffuse nel nostro Paese, ci è di conforto la illuminante “lezione” di Sabino Cassese (in una sua intervista al Corriere della Sera del 28 Agosto 2015), ove in termini espressi denuncia quando sia sproporzionato il posto che il sistema giudiziario è venuto ad occupare nella vita civile, se rapportato al suo fallimento come erogatore del fondamentale servizio della giustizia. “Non vengano da ultime, in questo quadro, le proposte formulate dal Prof. Cassese, recentemente ribadite, relative ad intercettazioni, carcerazione preventivo e separazione delle carriere. Prima ancora della loro divulgazione, è l’uso a volte eccessivo delle intercettazioni (specialmente di quelle indirette) come mezzo di prova che andrebbe disciplinato, ricordando che, secondo la Costituzione, la segretezza delle comunicazioni è inviolabile. La carcerazione preventiva è stata talvolta usata come mezzo di pressione, per ottenere ammissioni di colpa, anche qui mostrando le debolezze investigative nella raccolta documentale di prove. Per quanto la sua importanza sia diminuita dopo la distinzione funzionale, la separazione delle carriere, ambedue con indipendenza garantita, è dettata molto semplicemente dal fatto che accusa e giudizio sono mestieri diversi, che richiedono preparazione e professionalità differenti”. “Il Governo italiano ha finora avuto giudizi molto negativi dalla Corte di Strasburgo e apprezzamenti sia dai commissari europei per le iniziative intraprese nel campo della giustizia, sia dal Consiglio d’Europa per la produttività dei giudici”. “Ma il tempo passa e i risultati più consistenti sono attesi, non solo dai cittadini, ma anche dall’Unione Europea e dal Consiglio d’Europa”. “Non dimentichiamo che uno dei punti di decisione dell’Eurosummit del luglio scorso relativa alla Grecia, presa con la collaborazione dell’Italia, ha riguardato l’accelerazione delle procedure giudiziarie e la riduzione dei costi della giustizia”. Le esortazioni del giurista per eccellenza Sabino Cassese risultano realisticamente oggi avallate da una evidente ripresa da parte del Parlamento italiano e del Governo di orientamenti culturali assiologici finalizzati all’obiettivo di una proficua utilizzazione del valore della prevenzione generale, finora totalmente negletti nel dibattito parlamentare e nel disimpegno dei governanti. In tal senso però, proprio nelle ultime tornate delle Commissioni Giustizia di Senato e della Camera, circa il riordino generale del codice antimafia, della revisione della legislazione concernente il sequestro e confisca dei beni di provenienza illecita, nonché dello scioglimento delle Amministrazioni locali si registrano positivi atteggiamenti di rilancio della cultura della prevenzione espressa in termini espliciti con proposte fortemente innovative sui temi trattati. Sono stati particolarmente efficaci gli interventi di Davide Mattiello Relatore PD, Franco Mirabelli Area Democratica, Raffaele Cantone Responsabile dell’Autorità Anticorruzione, ma soprattutto dal presidente della Commissione Senato il reggino Prof. Nico D’Ascola, tutti orientati ad una revisione in profondità dell’intera legislazione compendiata nel codice antimafia, nonché una più penetrante svolta alle due leggi già formulate in una lettura interpretativa di tipo emergenziale e cioè quella relativa al sequestro e confisca dei beni di provenienza illecita, nonché la legge per lo scioglimento dei Consigli Comunali che abbiano subito infiltrazioni mafiose. Entrambe le leggi finalizzate, come è noto, la prima a restituire alla società civile i beni di cui essa era stata spoliata dalle strategie mafiose e l’altra tendente a rafforzare la tenuta democratica delle Amministrazioni locali, sono state letteralmente disarticolate dalle proposte di legge in discussione
  • 7. per evidenti discrasie, antinomie ed inestricabili aporie, tutte eliminabili in favore del recupero di più penetranti valorizzazioni di profili di natura preventiva. “Qualcosa si muove nella giustizia. Le riforme avviate nel giugno 2014, articolate in dodici punti, dopo una pubblica consultazione, stanno dando qualche magro frutto:calo dell’arresto civile, tempi più brevi nei processi”, dice Cassese. Quel che è certo è che tutto va ricondotto all’obiettivo di recidere dalle fondamenta ogni rapporto di connivenza di contiguità e di occultamenti di attività mafiose. Il “fatto criminale in sé”, deve essere ancora come sempre duramente perseguito nel rispetto delle regole del processo penale. Esse dettano, comunque, l’esigenza di assicurare in ogni stadio dell’articolarsi procedurale, il rispetto della tutela dei valori costituzionali sottesi ad ogni norma penale, processuale, penitenziaria “l’arma per combattere la mafia”, affermava Sciascia, “è sempre il diritto”. Concluso il suo intervento il Presidente Tuccio procedeva all’avvio delle relazioni di base affidate a Mons. Antonio Foderaro, concernente il ruolo della Chiesa, per come illustrato nell’ampia documentazione acquisita nel volume e cioè nel rispetto dei principi evangelici. Di particolare pregio culturale era poi la relazione del professore Giuseppe Trebisacce, Direttore del Dipartimento di Pedagogia dell’UniCal di Cosenza che poneva al centro della moderna pedagogia il ruolo da protagonista dei giovani, sottraendolo alle condizioni di subcultura dal retaggio del familismo amorale (vivere e combattere per il “proprio” e disprezzare il “pubblico”). Chiudeva il Convegno il Prof. Massimiliano Ferrara, responsabile del corso di Laurea di Economia nella Facoltà di Giurisprudenza ed Economia di Reggio Calabria. Inedite quanto documentate affermazioni erano dal noto professore Ferrara tese a rappresentare l’incredibile esistenza di rapporti di finanziamenti illeciti che per il tramite della mafia (lobby tra le lobbry) erano destinati i finanziamenti, addirittura, alle forze terroristiche dell’ISIS. Il Convegno è stato seguito con partecipe interesse da un folto pubblico rappresentato da personalità di cultura della società civile, docenti universitari, avvocati penalisti ed autorità locali.