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1. Scenari territoriali, scenari strategici e pianificazione
In anni recenti, la parola scenario è sempre più utilizzata dagli urbani-
sti per descrivere fenomeni, situazioni, prospettive urbane, in contesti
che spesso ne fanno apparire significati e dimensioni che trascendono
i confini strettamente disciplinari.
Conviene ricordare che scenario è parola che ha origine nella letteratura
teatrale ed ha il significato di descrizione del tempo e dello spazio di una
storia, e cioè di sequenze di eventi. Esse sono poi sviluppate con la nar-
razione letteraria da rappresentare in contesti a loro volta descritti con ela-
borati grafici (scenografie). Costituiscono la predisposizione di un proget-
to di comunicazione che sarà attuato con la effettiva rappresentazione.
Una caratteristica importante dello scenario o sceneggiatura è che essa
è solitamente corredata da una “scenografia”, che solitamente è riferi-
ta allo spazio in cui gli eventi vengono rappresentati.
Non ci si allontana molto da questo schema quando si legga la lettera-
tura corrente sull’argomento della pianificazione urbanistica.
Tradizionalmente la descrizione di un piano urbanistico è costituita
da una relazione descrittiva e da un grafico corredato da una spie-
gazione delle regole interpretative dello stesso grafico. Quest’ulti-
mo, nella prassi corrente, viene identificato con lo stesso piano ur-
banistico.
È diffusa ora l’idea che i piani abbiano degli autori, o meglio degli
ispiratori - gli urbanisti -, e che il contributo creativo degli stessi possa
comunicarsi con “scenari” adattati ai contesti di riferimento.
Scenari strategici come
progetto di territorio:
contributi alla definizione
della scuola territorialista
Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-
Doria*
*
Il paragrafo 1 di questo saggio è stato redatto da Bernardo Rossi Doria; il paragrafo 2 da
Giorgio Ferraresi.
16
Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria
Fino a quando il principio della partecipazione non è stato formalmen-
te codificato e raccomandato, gli urbanisti hanno ritenuto che nel solo
linguaggio disciplinare fosse implicito un intento di comunicazione
tendente a coinvolgere il contesto sociale di riferimento, per illustrare
le prospettive proposte dal piano, i suoi contenuti e le sue regole.
Le prime esperienze partecipative hanno spesso avuto per oggetto il
piano urbanistico inteso come mappa con l’indicazione delle trasfor-
mazioni progettate.
Ma è proprio dal diffondersi della domanda di partecipazione che na-
scono le riserve sulla attendibilità del grafico, soprattutto quando si
limita ad essere un documento di registrazione e regolazione con rife-
rimenti temporali solo formali, privo di capacità evocative.
Per favorire l’introduzione di procedimenti partecipativi, la discussio-
ne sulla pianificazione si è orientata in senso processuale, con la rap-
presentazione di una sequenza di passaggi procedurali, spostando l’at-
tenzione dalla descrizione di trasformazioni in atto o progettate alle
modalità di implementazione delle stesse trasformazioni.
Questo cruciale passaggio, che avrebbe dovuto assumere anche il ca-
rattere di articolazione ed integrazione dello statuto disciplinare del-
l’urbanistica, ha però finito per porre gli obiettivi disciplinari in una
posizione secondaria rispetto ad altri di altra natura, nella scala delle
priorità di governo, fino al punto di prefigurarne la secondarietà se
non la inutilità.
In questa forma processuale si conferisce alla pianificazione l’attribu-
to di “strategica”, mutuando terminologie e contenuti da esperienze
extradisciplinari, con qualche confusione.
Alla parola “scenario”, utilizzata per descrivere strategie, è attribuito
uno specifico significato di derivazione anglosassone che non sembra
prevedere rappresentazioni grafiche che non siano diagrammi. Capita
spesso che la pianificazione strategica così concepita sia di tipo eco-
nomico e orientata all’efficienza operativa, e che si ometta di correda-
re la descrizione della sequenza delle azioni e degli eventi in termini di
impatto sulla forma e fisicità o morfologia1
dei luoghi (la scenografia).
L’idea di pianificazione è stata così rielaborata, ma anche ridotta, per
meglio introdurre la dimensione temporale definendo “strategie”, ov-
vero sequenze di azioni analiticamente costruite in vista del pronto
(sollecito) raggiungimento di obiettivi.
Il fatto che, originariamente, l’elaborazione provenga da ambienti mi-
litari e poi imprenditoriali, e successivamente di governo, documenta
e giustifica questo approccio.
In questi casi, anche se l’obiettivo dichiarato è quello dell’efficacia, da
1
Si troverà che in questo testo si è spesso fatto ricorso al termine di “fisicità” del territorio
piuttosto che alla “morfologia” in quanto - come si vedrà più avanti - nella letteratura sulle
strategie di matrice economica si parla spesso di territori come luoghi di accoglimento di
progetti di architetture con morfologie effimere e non radicate.
17
Scenari strategici come progetto di territorio
esprimere in termini di qualità, la dimensione privilegiata è la velocità nel
raggiungimento di obiettivi, anche a scapito di altri possibili valori come
ad esempio quello della lentezza. Per questo, ogni azione che presupponga
tempi lunghi e lentezza viene posta in secondo piano, evitata od omessa.
La pianificazione strategica è in realtà un termine omnicomprensivo,
ed in quanto tale prevede la costruzione di scenari (sequenze di azio-
ni) in cui le azioni di trasformazione fisica dell’ambiente possono ri-
sultare perfino ininfluenti rispetto agli obiettivi di partenza. È stata adot-
tata dapprima in ambienti militari,2
poi in ambienti aziendali solita-
mente multinazionali ed in contesti di governo istituzionale. In questi
contesti, la questione territoriale, ovvero il confronto di queste temati-
che con le problematiche militari o aziendali e perfino di governo isti-
tuzionale, non è mai stata significativa.
Se è vero dunque che la pianificazione urbanistica (anche se di area
vasta) circoscrive e riduce il termine pianificazione, è vero d’altra par-
te che l’idea diffusa di pianificazione strategica, quando non corredata
di una componente territoriale, è anch’essa riduttiva.
Il problema dunque si propone in questi termini: è possibile prefigurare
uno scenario di trasformazione territoriale che non contempli processi
più lenti di altri? E se è possibile, le azioni efficaci, in quanto sollecite,
sono compatibili con lo statuto disciplinare di coerenza ambientale?
O non è proprio la ricerca della trasformazione veloce - che comporta
l’abbandono di pratiche trasformative lente e di pratiche partecipative,
intrinsecamente lente perché capaci di responsabilizzare il corpo so-
ciale nei confronti delle risorse locali - che contraddice il concetto di
assetto (equilibrato) del territorio?
Per esempio, le elaborazioni disciplinari tendenti a distinguere piani
strutturali da piani operativi sono innegabilmente collegate alla indivi-
duazione di processi a diversa velocità. La loro diversa efficacia non è
sempre riferibile alla brevità del tempo di sviluppo quanto a indicatori
altrimenti elaborati.
Questi pochi e semplici riferimenti inducono d’altre parte a ritenere
che, ove si voglia processualizzare l’attività di governo, la pianifica-
zione del territorio sia una componente qualitativa irrinunciabile della
pianificazione strategica, e che questa non ne possa prescindere.
Scenario è dunque descrizione di un processo complesso, cui si è co-
minciato a ricorrere con la pratica della pianificazione strategica. La
pianificazione strategica, pur apparentemente omnicomprensiva, in
realtà spesso non lo è stata.
Per questo il ricorso all’idea di “scenari” di questo tipo prevede solo
marginalmente, ed anzi spesso omette, la elaborazione di “scenogra-
fie” (descrizione del contesto fisico e visuale degli esiti della azioni
programmate) in quanto non rilevanti per gli obiettivi strategici dati.
2
V. ad esempio le storie di sperimentazioni di bombe incendiarie per la distruzione delle città
tedesche attuate nel Nevada in Davis [2004].
18
Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria
Lo scenario militare prefigura la massima distruzione, il massimo con-
trollo, ecc.; quello aziendale il massimo uso e distribuzione di prodotti
e servizi dell’azienda. Quello istituzionale, quando voglia essere stra-
tegico, prefigura spesso un insieme di obiettivi espressi in termini di
somme di vantaggi soggettivi “negoziati” piuttosto che, e raramente,
in termini vantaggi generalmente collettivi.
Ma quello che più generalmente ha caratterizzato, all’origine, questo
tipo di strumento operativo è la sua gerarchizzazione “top-down”, con-
cepita da generali, manager, governanti; eseguita da eserciti, o buro-
crazie; subita dalle popolazioni che compongono le realtà territoriali,
senza verifiche e confronti che non siano poco più che formali. Nasce
dunque come strumento finalizzato al coinvolgimento di soggetti pro-
motori ed esecutori selezionati all’avvio del processo (attori negozia-
tori) e prevede che gli altri soggetti coinvolti siano consultati soltanto
quando ridotti a “consumatori” passivi.
Quando si parla di pianificazione delle città e del territorio in Italia,
l’esperienza dell’ultimo cinquantennio rivela che l’istanza del coin-
volgimento dei cittadini, e l’uso di rappresentazioni grafiche, costitui-
sce un patrimonio di esperimenti spesso dimenticati. Converrà ricor-
dare che un processo di questo tipo è prefigurato già con la legge
urbanistica del 1942, che è tuttora in vigore.
Essa prevede che, su incarico di un ente istituzionale (locale), un ap-
parato tecnico specialista rediga un progetto di piano; che tale piano
sia adottato, e che lo si renda pubblico conferendo a soggetti interessa-
ti la facoltà di richiedere chiarimenti e perfezionamenti; che finalmen-
te sia approvato e vigente.
Anche questo è dunque un processo “top down”, anche se i soggetti
“aventi diritto” possono aver contribuito al suo perfezionamento tecnico.
La forma del piano resa accessibile è un elaborato corredato da regole
scritte, e da elaborati descrittivi (una relazione spesso illustrata) che
potremmo definire un vero e proprio scenario, e da un disegno che
riassume e territorializza le regole. Diciamo pure una “scenografia”.
Durante il secondo cinquantennio del secolo scorso questo processo è
divenuto rituale su quasi tutto il territorio nazionale, a partire dalle
prime esperienze degli anni ’50 e ’60 tra cui vale la pena di ricordare
quella della costruzione del PRG di Roma nel secondo dopoguerra3
che ha fatto da riferimento a molte successive esperienze.
Si ricorderà che ne furono protagonisti illustri specialisti, che si con-
frontarono sulle sorti del territorio romano fin dagli anni ’30 propo-
nendo degli scenari sotto forma di ideogrammi (trasformazione di Roma
in città lineare o radiocentrica, assetto della città in area vasta o assetto
compatto a macchia d’olio, ecc.), che nel dopoguerra in un contesto di
3
Pur non trattandosi di un caso unico, conviene citarlo in questa sede anche perché è
ampiamente documentato - con cronache, valutazioni ed ampia documentazione grafica - nei
numeri 28-29 della rivista Urbanistica edita dall’INU, 1959 e in Insolera [1962].
19
Scenari strategici come progetto di territorio
rinnovamento e di partecipazione democratica furono capaci di evo-
care immagini ed emozioni tra i cittadini e di provocare una domanda
di partecipazione del tutto nuova che non trovò altra regola, per espri-
mersi, che quella della costruzione di “osservazioni” formulate secon-
do le procedure della allora nuova legislazione urbanistica.
Formularono osservazioni non soltanto proprietari ovviamente inte-
ressati (per loro in realtà era previsto l’istituto delle osservazioni), ma
anche associazioni portatrici di una vasta gamma di interessi “colletti-
vi” (le donne, i beni culturali, gli abitanti dei quartieri centrali e perife-
rici, …), creando un primo momento di messa in discussione del crite-
rio “top down” indicato dalla legge.
Duri confronti si svilupparono su questioni di diritto, laddove in sede
giudiziaria si confrontarono opposte tesi. L’una era sostenuta da forti
portatori di interessi fondiari che sostenevano di essere unici soggetti
legittimati ad interferire nella formazione del piano e chiedevano che
le richieste delle associazioni fossero dichiarate non legittime. L’altra
era definita da sostenitori della legittimità delle associazioni a rappre-
sentare interessi “collettivi”.
Il confronto nelle chiuse aule giudiziarie era accompagnato da un si-
gnificativo e vasto, pubblico e partecipato dibattito, che riletto oggi si
concentrava su un confronto di “scenari” grafici che ben esprimevano
i termini della partita partecipativa: città compatta in ampliamento in
tutte le direzioni vs. città aperta al territorio; direttrici di ampliamento
vs. “macchia d’olio” ecc., che trovavano appassionato confronto sulla
stampa, nelle assemblee cittadine, nelle assemblee di quartiere.
In sostanza, nel caso della formazione del piano regolatore del dopo-
guerra a Roma, le “sceneggiature” furono determinanti nell’aprire una
stagione di partecipazione del tutto nuova; esse erano qualcosa di profon-
damente diverso dai veri e propri elaborati grafici del piano che, in sostan-
za, costituivano soltanto la rappresentazione delle regole dello stesso.
È anche vero tuttavia che - come gli stessi protagonisti della vicenda,4
durata oltre un ventennio (1945-1966), hanno chiarito - i contenuti del
piano che fu poi definitivamente approvato non corrispondevano per
nulla a quelli che erano i progetti proposti e raccomandati in sede tec-
nica, né agli scenari discussi nel vasto pubblico.5
Ma proprio questo argomento fu poi utilizzato per avviare un processo
di deregolamentazione, chiamato spesso nei testi legislativi di “sem-
plificazione” delle procedure, che tendeva a ridurre la parte “lenta”
del procedimento che era proprio quella dedicata alla tutela delle risor-
se ambientali e alla costruzione di un contesto partecipato.
* * *
4
V. Piccinato [1959].
5
Una vicenda parallela ed analoga negli esiti e di più breve durata è quella della costru-
zione del PRG del dopoguerra di Milano, a partire dall’esito di un concorso e del Piano
AR (1948-53).
20
Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria
Dopo questa esperienza, le pratiche della costruzione di piani urbani-
stici continuarono ad essere conformi alla legislazione del 1942. Si
fecero tentativi molteplici per evolvere la rappresentazione grafica dei
contenuti del piano dapprima con la sua normazione, poi con la tipiz-
zazione delle zone con intenti di più chiara comunicazione tra i tecni-
ci, senza che tuttavia si riuscisse a farne dei documenti che fossero il
risultato di un’avvenuta partecipazione di interlocutori rappresentanti
di interessi collettivi.
In tutte le esperienze partecipative che pure si sono manifestate nei
processi di costruzione dei piani, l’uso della rappresentazione descrit-
tiva degli stessi è stata sporadica e casuale, in genere molto più parlata
che disegnata. Tanto che abbiamo assistito, alla fine degli anni ’80 e
’90, alla presentazione di elaborati grafici di contenuto tecnico e descritti-
vo (ad esempio con l’uso di simbologie “evocative” dei caratteri ambien-
tali del contesto territoriale) nello stesso tempo definiti - in alcuni casi
- “racconti”, con intenti di comunicazione evidentemente ampliati ri-
spetto al circoscritto ambito degli “interessi legittimi” e soggettivi.
Si sono anche prodotti contributi di analisi di questo tipo classifican-
doli come opere definite “d’autore”, per sottolineare delle individuali
capacità di esternazione verso il mondo dei potenziali soggetti parteci-
panti. Essi furono l’espressione di ottime intenzioni che testimoniano
la volontà, se non il bisogno del versante degli esperti di confrontarsi
con potenziali soggetti partecipanti per ottenere risultati condivisi e
accettati. Senza che tuttavia, salvo eccezioni, si sia manifestato qual-
che processo partecipativo efficace e significativo.
Gli anni ’80 e successivi hanno visto emergere la questione ambienta-
le che, pur essendo maturata anche in maniera autonoma nel nostro
paese, trovò maggior spazio quando fu avviata la discussione in con-
testi internazionali. Dando per conosciuta la vicenda, ci si ritrova ora
con gli esiti della conferenza di Rio de Janeiro (1992) da cui scaturì la
cosiddetta Agenda per il XXI secolo.
L’aspetto nuovo di questo documento internazionale sta nel fatto che
esso è frutto dell’incontro di due tipi di organismi: (a) quelli rappre-
sentativi dell’istanza ambientale che avevano da poco proposto ai go-
verni l’adozione di politiche di sviluppo compatibili con l’ambiente,
ed avevano formulato una precisa definizione: “sostenibili”
(Bruntland); (b) quelli rappresentativi delle comunità locali, i cosid-
detti Enti Locali, che si proponevano come luoghi di pratica democra-
tica comunitaria e come naturali responsabili della gestione e custodi
delle risorse ambientali e territoriali dei contesti di insediamento.
Questo incontro si concluse con l’impulso programmatico alla adozio-
ne di “strategie” definite dapprima di sviluppo (da moderare con l’at-
tributo di sostenibile) entro cui far convergere le politiche nei diversi
contesti territoriali vasti e locali. Fu dunque promossa la formazione di
“Agende Locali” per l’avvio del processo di costruzione di piani.
Di queste furono elaborati dei modelli che contenevano tutti una sfida
21
Scenari strategici come progetto di territorio
di dimensioni politiche molto consistenti. L’agenda (2000) prevedeva
di affidare a processi partecipativi la definizione di obiettivi di piano e
le azioni per implementarli. In Europa si indicava anche che il luogo
della partecipazione dovesse essere frequentato da generici e non de-
scritti “portatori di interessi” - traduzione di “stakeholders”, parola
derivata dalla letteratura sulla pianificazione strategica classica.
Dalla osservazione delle pratiche attuate a seguito della promozione di
questi indirizzi in Europa ed in Italia, due sono le questioni che merita-
no più approfondita discussione.
La prima sta nel fatto - positivo - che si confermi che occorre formula-
re dei piani ovvero darsi delle direttive di comportamento pubblica-
mente dichiarate e condivise nella gestione dell’ambiente di vita. In un
contesto politico orientato ad accreditare modelli di sviluppo globale
ultraliberisti, questo sembrerebbe quasi anacronistico.
Ma parlando di pianificazione e di obiettivi da perseguire, fu subito
osservato - ancor prima che si tenesse la conferenza di Rio - che gli
obiettivi definiti di sviluppo erano quelli dell’economia “dura” ovvero
della crescita: più produzione (trasformazione di risorse) uguale più
benessere. Sono questi gli obiettivi messi in discussione già dagli anni
’70 a partire dal famoso e sempre meno contestato rapporto del Club
di Roma intitolato: The limits of growth (Meadows).
Obiettivi contestati dunque perché insostenibili per il sistema ambien-
tale globale e per questo anche per i sistemi locali. L’aggiunta dell’at-
tributo “sostenibile” sembrava voler cambiare il significato della paro-
la sviluppo, che troppo insistentemente l’economia canonica ha sem-
pre voluto confondere con la crescita.
Inoltre la trasformazione delle risorse corrisponde all’esigenza di al-
lentare ogni controllo sull’uso del territorio, che è di fatto l’insieme
delle risorse necessarie per la produzione di beni materiali.
La seconda questione è che attribuire il ruolo di soggetti legittimati a
partecipare ai processi di definizione degli obiettivi agli “stakeholders”,
titolari di interessi aziendali, proprietari, economici, significa esclude-
re tutti gli altri ed in particolare tutti quelli che non si identificano in
quegli interessi.
Se si pensa alla matrice di formazione dell’idea di Agenda per il XXI
secolo, pare difficile e sospetto individuare come soggetti del confron-
to progettuale dei portatori di interessi presentati come soggetti parti-
colari (portatori di interessi soggettivi) piuttosto che come capaci di
rappresentare l’intero corpo comunitario, l’universo dei cittadini aventi
titolo in quanto insediati sul territorio.
La manualistica elaborata per l’implementazione delle Agende (2000)
indica che si deve formare un Gruppo d’Azione Locale e, almeno in
Italia, le pratiche avviate hanno mostrato - salvo casi sporadici quanto
virtuosi - che la formazione dei GAL, pur non escludendo partecipa-
zioni ampie ed articolate, si è essenzialmente costruita attorno a tavoli
22
Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria
in cui erano rappresentati esponenti generici (nel senso di non neces-
sariamente radicati nei contesti locali) di interessi soggettivi dell’im-
prenditoria, della proprietà fondiaria e immobiliare, e dei governi lo-
cali, titolari nominali di interessi oggettivi ma soprattutto di poteri de-
cisionali in materia di assetto del territorio.
Guardando più da vicino, si deve dire che normalmente si è preso atto
che partecipavano soggetti che già detenevano capacità di negozia-
zione (le imprese), mentre non si è fatto alcuno sforzo per attivare e
legittimare partecipazioni in nome di interessi collettivi, e soprattutto
si è omesso di chiarire che la composizione del luogo della partecipa-
zione non poteva essere occasionale e basata soltanto sul principio
che gli assenti hanno torto.
In sostanza, quando formalmente si sono attivati processi definiti par-
tecipativi, questi erano fondati sul confronto di portatori di interessi
particolari e soggettivi più che collettivi. Con la conseguenza che su
quei tavoli non si sono definiti veri e propri obiettivi di pianificazione,
ma piuttosto si sono negoziate azioni puntuali, regolate da procedure
volte al raggiungimento di un’efficienza operativa intrinseca piuttosto
che alla costruzione di prospettive migliorative della qualità di vita e
dell’ambiente.
Il punto in cui ci troviamo oggi è che la costruzione di agende locali si
è indirizzata secondo due direzioni.
Una prima, formale e burocratica, è sostanzialmente fallita sotto il pro-
filo della attivazione di processi compiuti di partecipazione. Infatti con
le agende locali si sono promosse - ed in pochi casi finanziate ed ese-
guite - opere, alcune delle quali eventualmente e casualmente utili, la
cui coerenza con obiettivi di interesse collettivo non è verificata, in
quanto esse sono concepite ed eseguite al di fuori della pianificazione
ordinaria, che continua o ad essere formalmente definita nell’ambito
della routine dei tradizionali procedimenti. In questi contesti, molto
spesso degli obiettivi non erano nemmeno stati enunciati, in quanto i
veri processi partecipativi erano del tutto mancati.
Eppure dagli enti erogatori dei finanziamenti emanano bollettini di
valutazione più o meno soddisfatta per l’entità e la visibilità degli stes-
si, dati questi che vengono proposti come obiettivi di pianificazione
raggiunti, fino a teorizzarne l’innovazione con slogan del tipo “Piani-
ficar Facendo” (maccheronicamente tradotto in inglese: planning by
doing). In questa maniera si accredita l’idea che le azioni eseguite sia-
no gli obiettivi raggiunti di un piano che non era ancora stato enuncia-
to né tanto meno tradotto in “scenografia” quando le azioni erano pro-
gettate, situazione in cui lo scenario urbanistico è il risultato delle azio-
ni eseguite a prescindere dall’esistenza di un piano; o, più sottilmente,
che il piano abbia ragione di essere costruito solo in quanto è stata
creata la necessità di opere di razionalizzazione con la preventiva rea-
23
Scenari strategici come progetto di territorio
lizzazione di una somma di singoli progetti di cui originariamente non
era apparsa la necessità di coordinamento né di integrazione nei con-
testi: in questo caso il Piano ha prevalentemente per obiettivo il “recu-
pero ambientale” che non avrebbe avuto necessità di essere predispo-
sto se non si fosse creato dissesto.
È lecito pensare che di fatto la mancanza di questo passaggio, oppure
il suo rinvio a dopo che i progetti sono stati eseguiti, si configura agli
occhi dei portatori di interesse come un utile snellimento delle proce-
dure, che rinvia il confronto partecipativo e lo riduce alla discussione
di obiettivi di razionalizzazione.
La seconda direzione è quella di contestazione sostanziale dei proce-
dimenti burocratici ufficiali, ed assume il carattere di movimento poli-
ticamente significativo laddove mette in discussione il ruolo passivo
svolto dagli Enti locali per restituirgli capacità e dovere di indirizzo e
promozione di processi partecipativi. L’esperienza italiana del Nuovo
Municipio,6
e della sperimentazione della costruzione di bilanci parte-
cipati, implementati a partire dalla conferenza di Porto Alegre, costitu-
isce un serio progetto di rimessa in carreggiata dell’istanza della con-
ferenza di Rio de Janeiro. L’aspetto significativo di questa importante
e vitale esperienza sta nel fatto che gli amministratori dei “Nuovi mu-
nicipi” hanno espresso la volontà di riappropriarsi del loro ruolo istitu-
zionale ponendolo in posizione “diversa” e preminente rispetto a quella
dei portatori di interessi soggettivi, e si sono fatti carico di promuovere
movimenti di effettiva partecipazione in nome di interessi collettivi.
L’esperienza ha tra l’altro messo in luce che i tempi di compimento di
simili processi non possono che essere più “lenti” e tendenzialmente
incompatibili con gli obiettivi di efficienza caratteristici della pianifi-
cazione strategica di matrice aziendale.
Processi siffatti richiedono molta preparazione e soprattutto richiedo-
no metodi e strumenti più articolati ed innovativi di quelli della pura
regolamentazione assembleare, a partire da una contaminazione lun-
gimirante dei sistemi educativi operanti sul territorio.
La stessa idea che si assumesse il bilancio come elemento di discussio-
ne ancorché necessario e fondante non è sembrata tuttavia sufficiente.
Una discussione sui numeri abbinati a categorie di spesa ha sicuramente
un impatto formativo in quanto stimola la discussione sulle priorità (cosa
di più, cosa prima): sotto questo profilo, essa è rappresentabile attraverso
lo scenario prefigurato dalle tecniche di pianificazione strategica.
E tuttavia, nel caso della discussione sui bilanci partecipati, se mai è
stato praticato l’uso di “scenari” per dare ordine alle discussioni sulla
definizione di obiettivi di pianificazione, questi non sono stati corre-
dati in maniera significativa da “scenografie” che, probabilmente, sa-
rebbero state capaci di rappresentare i contesti di riferimento degli spazi
pianificati, in maniera tale da mettere in luce in anticipo le contraddizioni
6
Si veda http://www.nuovomunicipio.org.
24
Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria
dei processi avviati e di creare consapevolezza e responsabilizzazione
sia dei portatori di interessi che tra gli aventi titolo alla partecipazione.
In sostanza, il fatto che si utilizzino degli scenari strategici in cui la
dimensione fisica e spaziale non viene descritta né discussa li rende poco
credibili sotto il profilo della sostenibilità, se non altro perché nel ragio-
namento ci si confronta in maniera riduttiva ed inadeguata col tema
delle risorse territoriali che sono centrali nella costruzione dell’immagine
di un ambiente socioeconomico. Si dovrebbe presumere che, in mancan-
za di scenari territoriali, un contesto partecipativo consapevole si trove-
rebbe nella impraticabilità della costruzione di una “vision” attendibile.
E d’altra parte è vero anche l’opposto, e cioè che un piano territoriale
che non sia costruito come componente di un piano strategico sarebbe
inefficace.
La crisi della disciplina urbanistica è infatti determinata proprio dal
fatto che i piani sono spesso autoreferenziali e la loro costruzione non
è validata da un confronto partecipativo.
La pratica della costruzione di “scenari territoriali” che converrebbe a
questo punto distinguere con chiarezza dallo “scenario strategico”, di
cui sarebbe soltanto un necessario tassello, parrebbe uno dei principali
e necessari strumenti di attivazione di processi partecipativi della pia-
nificazione urbanistica e territoriale
Ma a parte la distinta denominazione, utile a far chiarezza sulla natura e
ruolo dell’elaborato, occorre anche dire che lo scenario urbanistico risulta
necessario e diverso in diverse fasi del processo di formazione dei piani
territoriali che vogliano integrarsi in un sistema di pianificazione strategi-
ca, essendo questo caratterizzato da una struttura per cicli ricorrenti.
La definizione partecipata di obiettivi di assetto del territorio non può che
partire da una ricognizione e riconoscimento del territorio di riferimento.
Nessuna definizione di obiettivi è possibile senza questo passaggio ed
occorre che il cittadino ne sia stato partecipe. Occorre che la discussio-
ne si appoggi su una descrizione esauriente che è costruita da un soggetto
esperto per conto del soggetto promotore della formazione del Piano.
Questo documento, che potrebbe essere chiamato per comodità sce-
nario territoriale di primo grado,7
è quello che è costruito da un appa-
rato esperto che raccoglie, ordina e rappresenta in sintesi tutte le infor-
mazioni reperibili sul territorio cui è riferito il piano. È sostanzialmente
un sistema informativo aperto leggibile e reso comprensibile al pub-
blico, da cui possono essere tratte e descritte informazioni sistematiz-
zate ed utili per introdurre la discussione partecipativa sulla definizio-
ne di obiettivi di piano. È in sostanza un essenziale ed esauriente do-
cumento di comunicazione, neutro ma senza omissioni.
7
La differenziazione qui descritta risulta proposta in maniera analoga anche in altri contesti
e contributi, seppure con l’uso di terminologie diverse: i tre livelli qui sopra indicati possono
esser fatti corrispondere, il primo, alle sintesi dei quadri conoscitivi, il secondo alle interpre-
tazioni valoriali degli atlanti del patrimonio, il terzo agli scenari territoriali propriamente detti.
25
Scenari strategici come progetto di territorio
La discussione comporta due fasi.
La prima consiste nella integrazione dello scenario di primo grado con
informazioni aggiuntive la cui acquisizione è promossa con le solleci-
tazioni dei soggetti attori del procedimento partecipativo, tra i quali
non può mancare la categoria “portatori di interessi collettivi” che sia
stata effettivamente costituita e legittimata.
Da scenario ricognitivo a carattere prevalentemente tecnico, esso pas-
sa ad essere scenario territoriale di secondo grado validato dal con-
senso valutativo della comunità partecipante.
Nel gergo della pianificazione strategica è quello che viene definito
come “mission”, che non è traducibile in italiano con la parola missio-
ne in quanto non esprime un obiettivo da perseguire quanto delle pra-
tiche in atto. Ha un valore interpretativo e per questo si configura come
una mappa, che comincia a perdere i connotati razionali del sistema
informativo per assumere quello di un disegno che dovrebbe rappre-
sentare non soltanto una semplice proiezione statistica tendenziale
quanto una prevedibile e condivisa direzione di cambiamento in atto
insita nelle pratiche contingenti di governo.
La discussione partecipativa sullo scenario di secondo grado dovreb-
be poter condurre alla definizione di obiettivi di pianificazione, volti a
perseguire nuovi, diversi e migliori obiettivi, con la costruzione di uno
scenario territoriale di terzo grado.
In questo caso, dalla constatazione dell’andamento evolutivo descritto
nella “mission” dovrebbe scaturire una discussione critica che dovrebbe
a sua volta sfociare nel manifestarsi di istanze di cambiamento volte a
migliorare la qualità di vita della comunità insediata espressa in termi-
ni di miglioramento della gestione delle risorse territoriali e ambienta-
li. Questa fase è chiamata nel gergo strategico “vision”, ovvero descri-
zione dell’insieme delle aspirazioni della collettività. Questo documento
si fonda sullo scenario di secondo grado ma ha un carattere evocativo.
È un documento articolato multimediale che va oltre il carattere tecni-
co dello scenario di primo grado ed il carattere interpretativo dello
scenario di secondo grado e si configura piuttosto come un disegno
del territorio con forti capacità evocative che riconduce a sintesi le
complesse istanze di una comunità che, condividendone i contenuti,
lo fa proprio.
Esso rappresenta la descrizione degli obiettivi di assetto territoriale che
si adottano; consente di definire azioni e priorità concordate, di facile
eseguibilità e di attendibili risultati.
Questo tentativo di chiarificazione sulla collocazione della costruzio-
ne di scenari territoriali nell’ambito dei processi della pianificazione è
reso necessario, in questo caso, per identificarne la praticabilità in di-
versi contesti territoriali.
In questo stesso volume sono documentati diversi casi di studio dove,
in relazione ai contesti di riferimento, si può osservare un diverso “sta-
to dell’arte”, che documenta una diffusa attività di elaborazione cono-
26
Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria
scitiva “esperta” sullo stato dei rispettivi contesti territoriali, a fronte di
un diversa maturazione di processi reali di partecipazione.
Nel caso della Regione Siciliana, ad esempio - come si può vedere più
avanti - la pratica della pianificazione in area vasta, territoriale ha
scarsissima se non nulla tradizione, essendo stata letteralmente omes-
sa per lunghi anni8
e solo recentemente tentata in alcune province sen-
za tuttavia che fosse definito il ruolo istituzionale dell’Ente provincia-
le. In altre regioni si rappresentano invece situazioni diversamente ar-
ticolate. Di conseguenza, anche a livello esperto l’impegno territoriali-
sta può apparire diversamente focalizzato, sebbene riconducibile a
principi condivisi.
È a questa sorta di tassonomia operativa dell’accezione territorialista
degli scenari, articolata fra il comune approccio interpretativo e pro-
positivo e le irrinunciabili declinazioni locali, che questo studio tende
in primo luogo; non tanto per offrire un atlante classificatorio di meto-
di e tecniche (disegno che pure è degno di esser perseguito, e a cui è
stata improntata la prima fase del lavoro di ricerca), quanto per contri-
buire a precisare i contorni della proposta territorialista nel nodo fra
rappresentazione identitaria e progetto di territorio che gli scenari co-
stituiscono; non tanto, dunque, per ricavarne una mappa descrittiva
ma - ancora una volta - uno scenario d’intervento.
2. I caratteri strategici dello scenario progettuale: il territorio come
posta in gioco in un progetto socialmente costruito
2.1 Contesto e radici di una ricerca sugli scenari come progetto di territorio
Questa ricerca ha una storia che si colloca in un contesto teorico ed
empirico ben connotato9
che ha espresso in questi anni una sequenza
di ricerche cofinanziate MIUR su atlanti e rappresentazione del territo-
rio (ed altre di diversa natura che la precedono e l’accompagnano).
Con il presente studio non si intende però semplicemente estendere que-
sta sequenza nel percorso classico ed ovvio dall’analitico al progettuale.
Si tratta piuttosto, complessivamente, di un percorso fondativo di un
modo e di un senso del progetto che muovono da una forte interpreta-
zione del territorio e dalla sua centralità. Questo network di ricerca
condivide infatti, sin dall’inizio, una meta-concezione dello scenario
come “progetto di territorio”, che è bene però sia riconsiderata guar-
dando alle sue radici per essere meglio e più strutturalmente definita e
assunta come “opzione comune” esplicita e fertile.
8
L’argomento è stato approfondito nell’ambito di questa medesima ricerca in Rossi-Doria [2003].
9
Si rimanda ovviamente ai testi fondamentali della scuola territorialista, da “Il territorio
dell’abitare” (Magnaghi [1990]) ma più specificamente la sequenza di ricerche MURST-
MIUR (ed i relativi testi, in parte ripresi nella bibliografia di questo saggio) che vanno dal
tema degli “Atlanti territoriali” a quello della “Rappresentazione identitaria” del territorio e
degli spazi aperti, che introducono più direttamente alla presente ricerca: la quale è seguita dal
PRIN 2005/2007 in corso, sul tema del “Parco agricolo” (su cui si torna anche nel testo).
27
Scenari strategici come progetto di territorio
Tali radici conformano fortemente il discorso sullo scenario come esi-
to di percorsi analitici / interpretativi e di processi interattivi che coin-
volgono la soggettività sociale. In particolare è evidente la correlazio-
ne stretta dello scenario con le questioni analizzate nella ricerca sulla
“Rappresentazione identitaria del territorio” che già esprimeva “sce-
nari/rappresentazione” intesi come fondativi degli “scenari/progetto”.10
Questa ricerca quindi rappresenta la riflessione ulteriore e la sistema-
tizzazione del tema, basate su elementi genetici già strutturati.
Essa si caratterizza cioè prevalentemente come esplicitazione, appro-
fondimento e definizione di strumentazioni di “una tesi” sullo scena-
rio per molti versi “necessitata” dal suo contesto, proprio della scuola
territorialista; e dalle sue assunzioni di ordine interpretativo, propositi-
vo/strategico e metodologico.
Solo secondariamente la ricerca assume natura di esplorazione com-
parativa, anche il complesso panorama di altre pratiche, concezioni e
forme dello scenario è ampiamente preso in considerazione;11
il che
comunque consente di discutere e “collocare” le opzioni assunte.
L’esigenza principale è quella di consolidare una voce ed una posizio-
ne della scuola territorialista che ritiene ineludibile una opzione strategi-
ca di valorizzazione del territorio; e di configurare in termini maturi sce-
nari in tal senso aprendo su questi un confronto più argomentato.
Un nodo fondamentale, sostantivo, caratterizza l’approccio territoria-
lista sin dalle sue prime ricerche: individua come cuore e base del de-
grado ambientale e della stessa forma urbana la destrutturazione del patri-
monio territoriale, la riduzione del territorio a spazio strumentale, omolo-
gato, senza valore specifico; e pone contestualmente un’istanza di proget-
to di nuova “soggettività” del territorio fondata sul riconoscimento dei
suoi caratteri distintivi (valori e criticità) e sulla produzione di valore ag-
giunto territoriale come strategia di futuro (i temi dello sviluppo locale
come alternativa strategica di valorizzazione dei luoghi del territorio).12
Si propone quindi come base fondativa di ogni scenario trasformativo
una mossa interpretativa, un’ermeneutica del territorio che produce
riconoscimento di luogo, atlanti del patrimonio, percezioni di struttura
territoriale, invarianti, statuti; e su ciò costruisce figure di trasforma-
zione coerenti.
Si tratta di un’opzione che indica una posta in gioco: la differenza, il
carattere proprio, il valore locale del territorio; e si correla ad una stra-
tegia di sviluppo locale come valorizzazione territoriale.
10
Per una rilettura di questo ricerca strettamente connessa alla presente su cui si torna
ripetutamente nel teso si veda in particolare: Ferraresi [2005].
11
Si vedano in particolare i contributi specifici in tal senso in altri saggi del testo ed alcuni
passaggi di confronto e comparazione in questo e altri scritti: utili per la comparazione i
contributi di Gibelli e Gabellini.
12
Per una trattazione specifica dei temi dello sviluppo locale e del progetto locale che rilegge
il complesso contributo della scuola territorialista in materia si veda: Magnaghi [2000];
Bonomi, De Rita [1998]. Sulla destrutturazione del territorio postfordista e sui codici del
progetto di ricostruzione di territorio, si rimanda a Ferraresi [2004 b]; si veda inoltre Bonomi,
Abruzzese [2004]; Pasqui [2002]; Palermo [1997]; Indovina [1990].
28
Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria
Da qui nasce un primo carattere ben connotato dello scenario che si
fonda su un processo di riconoscimento del territorio ed esita in un
progetto di espressione/produzione di valore territoriale.
L’ulteriore elemento che connota la concezione dello scenario in que-
sta scuola è la sua fondazione interattiva, partecipativa.
Interpretazione e statuti del territorio, così come gli esiti propositivi,
non sono, nella produzione di scenario (come nel progetto in genera-
le), affare disciplinare, competenza tecnica, produzione di “visioning”
esperto, mappe prospettiche. Sono invece nel codice territorialista, come
è noto, questioni di percorso vivente, interno al territorio, costruzione
sociale e interattiva.
La fondazione di questo approccio è bene farla risalire alla radice (an-
cora una volta) della concezione di territorio come sistema complesso
che comprende anche la società insediata; la quale anzi è la sede, il
soggetto delle azioni antropiche di territorializzazione.
Il processo interpretativo e propositivo di scenario è allora questione
di alta competenza sociale: è luogo e strumento di espressione di sape-
re comune esperienziale ma anche di manifestazione di interesse pri-
mario (esplorazione del proprio contesto di vita, delle risorse e delle
criticità del proprio futuro).
Il percorso ermeneutico che fonda lo scenario è quindi concepibile e
praticabile/praticato come processo di “costruzione di consapevolez-
za di territorio”; ed i suoi statuti, strutture ed elementi genetici sono
socialmente esplorati e assunti come base di conoscenza condivisa; il
che già esprime condivisione di “progetto implicito”.
Il progetto espresso dalle volizioni sociali si configura come il passag-
gio dalla consapevolezza e dal progetto implicito a forme esplicite di
“responsabilità di territorio”, assunzione di responsabilità attuale e dia-
cronica, del destino delle prossime generazioni.
Progetto esplicito come definizione di senso, di direzione di lavoro
riconosciuta, pattuita; lo scenario assume la natura di patto sociale/
istituzionale, ragione sociale di azione solidale e discriminante anche
per la produzione di consenso o la riproposizione di conflitto.
Questi quindi i due nodi su cui le radici di una tradizione di lavoro e
delle esperienze in corso fondano la concezione dello scenario come
progetto (strategico) di territorio e come processo interattivo.
2.2 Una concezione esplicita di scenario: un “costrutto” progettuale
interattivo come opzione strategica condivisa e patto civile
Riferendoci alle considerazioni precedenti su storia, matrici teoriche
ed esperienze, si può allora ben esplicitare su quali basi la ricerca assu-
ma una concezione comune, forte e ben connotata di scenario come
progetto di territorio. Si riprendano sinteticamente i passaggi nodali di
quanto sopra richiamato riordinandoli in modo meno discorsivo ed
esplicitandoli in parole-chiave.
La cultura territorialista:
- definisce il “soggetto territorio” ed il suo ruolo centrale: il suo degra-
29
Scenari strategici come progetto di territorio
do come cuore della crisi della nostra condizione e della insostenibilità
dello sviluppo dominante; la sua valorizzazione come progetto di ri-
nascita;
- individua il “valore territoriale” come posta in gioco e come fonte di
ricchezza duratura e sostenibile;
- indica una strategia di “sviluppo locale” fondata sulla valorizzazione
del territorio e delle sue differenze come alternativa strategica;
- propone quindi un processo di riconoscimento del patrimonio terri-
toriale, una reinterpretazione dei suoi caratteri e statuti come matrice
del progetto in questa strategia; quella che si è definita “la mossa er-
meneutica” è assunta come fondamento del progetto;
- individua il “terzo attore” tra stato e mercato come soggetto necessa-
rio della trasformazione; lo riconosce “risorsa endogena” dello svilup-
po locale;
- introduce processi interattivi con questo attore sociale come percor-
so di formazione del progetto di territorio e di qualità di vita; sia nel-
l’interpretazione (strutture e statuti di territorio) che nella proposta di
valorizzazione (opzioni, immagini e regole);
- il progetto assume quindi, come base e struttura, consapevolezza e
responsabilità sociale di territorio sanciti nella produzione di statuti
condivisi ed in patti civili di scelte strategiche, come base dei processi
di governo e amministrazione.
La concezione di scenario su cui opera la ricerca è quindi luogo e
strumento di espressione di questa complessità di temi, nodi, soggetti,
forme di interazione.
Questo scenario è quindi un costrutto interattivo che esprime progetto
strategico di territorio mediante interpretazioni condivise statuite e
opzioni e figure di trasformazione pattuite; e che si finalizza ad un’at-
tivazione della società insediata come risorsa endogena, in un oriz-
zonte di autosostenibilità.
Si tratta di un’opzione di fondo, assai connotata che può essere consi-
derata, sostanzialmente, come approccio comune di base assunto dal-
la ricerca del network; un approccio che la ricerca conduce al proces-
so di verifica, ed alla definizione di metodi e strumentazione (ed intro-
duce al dialogo maturo, si è detto, con altri approcci).
Un’opzione comune che le diverse sedi assumono e interpretano con
diverse modalità e contributi, anche fortemente differenziati ma co-
munque “lavorando attorno” a questo orizzonte di senso dello scena-
rio ed a questo modo di situarlo nel contesto strategico.
Va aggiunto che questo comune approccio introduce un’altra proprie-
tà della forma dello scenario, anch’essa sostanzialmente condivisa nella
ricerca.
L’approccio che si è configurato tende a definire sin dall’inizio del
processo i termini della posta in gioco (il patrimonio territoriale, i valo-
ri e la criticità, si è detto, le invarianti e gli statuti); ed a giocare appun-
to questa posta “nel processo” interattivo che definisce lo scenario.
Conduce a discutere nel processo le continue alternative, a schierarsi
30
Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria
progressivamente, non a produrre alternative consolidate che riman-
gono aperte artificiosamente.
Lo scenario si pone come un esito definito di progetto (di indirizzi
prevalenti, di opzioni e regole preferenziali, di direzioni di lavoro emer-
genti) di un processo discorsivo, progressivamente costruito dalla ar-
gomentazione sulla base del riconoscimento condiviso dei valori terri-
toriali. Verso “una” opzione riconosciuta, “una” visione comunicabi-
le, una” intenzionalità dichiarata.
Ci si discosta chiaramente, quindi, da ogni concezione della “simula-
zione neutrale” di molti esiti possibili, per convenzione iniziale equi-
valenti, tra cui scegliere in base a criteri o indicatori “oggettivi” o pre-
ordinati fuori del processo definito dal discorso comune e interattivo.
Ciò significa porsi completamente fuori del gioco dello scenario come
produzione di visioni plurime in competizione. Anche se, lo si ripete,
la ricerca esamina anche questi approcci allo scenario plurimo; ma si
tratta di comparazione con “altro” rispetto ai processi in corso analiz-
zati da vicino ed alle radici della ricerca suddette.
Lo scenario di questa ricerca esprime al contrario un quadro di riferi-
mento che pone in discussione ”inizialmente” una discriminante stra-
tegica (distruzione di territorio/produzione di valore territoriale e te-
matiche di “sviluppo” connesse); ed è l’argomentazione nel pro-
cesso a produrre una scelta che è un’assegnazione di senso al pro-
getto e al governo del territorio; su cui si accentra il patto sociale di
indirizzo e attivazione di linee di piano, di politiche, di progetti
specifici.
Si pone in evidenza, infine, che questa concezione di scenario, come
costrutto in un processo discorsivo ed interattivo, comporta per la ri-
cerca una modalità prevalente nella scelta degli oggetti e campi di rife-
rimento dello studio e quindi dei casi considerati.
Si privilegia infatti, in coerenza con quell’assunto di costruzione so-
ciale, l’analisi (autoanalisi) di processi vivi, di sperimentazioni in cor-
so, di ricerche in campo in cui il discorso dello scenario è messo al
lavoro dentro relazioni sociali/istituzionali con cui gli operatori di ri-
cerca stanno dialogando operativamente; dentro cioè “laboratori terri-
toriali” che coinvolgano la ricerca nella sperimentazione diretta, “den-
tro” l’interazione.
E si tratta spesso di casi già in parte esplorati dalle precedenti ricerche
sulla interpretazione del territorio, dei suoi atlanti e statuti e delle loro
rappresentazioni che sfociano qui nella rappresentazione di scenario;
sviluppando quindi verso il progetto i temi già depositati di conoscen-
za/coscienza di territorio, generando prodotti sul terreno arato: oppure
sviluppando altrove o in contesti più larghi percorsi e questioni emersi
da casi precedenti.
Appunto questa tipologia e collocazione dei casi non solo consente di
praticare l’interazione come fondazione dello scenario ma anche di
con-vivere la storia dei territori e dei patrimoni teorici ed esperienziali
acquisiti in quei contesti.
31
Scenari strategici come progetto di territorio
2.3 L’articolazione dentro un quadro comune
Questa concezione dello scenario viene quindi proposta, argomentata
e articolata nelle diverse strutture territoriali di cui le ricerche di sede
trattano; affrontando una generale condizione (che tende ad essere
pervasiva) di degrado, frammentazione e negazione dei caratteri distinti-
vi dei luoghi verso processi di ricostruzione del valore territoriale.
In alcuni contesti questi processi di frammentazione e diffusione per-
vasiva assumono caratteri estremi e quasi paradigmatici di una meta-
condizione comune, come nel caso delle regioni urbane estese del nord
ove i caratteri “strutturali” del postfordismo sono più espliciti e domi-
nanti e dove la concezione dello scenario territorialista risulta più di-
rettamente “antagonista” (cfr. p.es. Ferraresi [2004a]).
Ma le espressioni di questa condizione sono comunque plurime, se-
condo differenze locali e d’aree regionali.
La ricerca interpreta questa differenze e quindi produce approcci dif-
ferenziati, nelle ricerche di sede, allo scenario territorialista entro un
approccio fondamentale condiviso.
Riferimenti bibliografici
Bonomi A., De Rita G. [1998], Manifesto per lo sviluppo locale, Bollati Borin-
ghieri, Torino.
Bonomi A., Abruzzese A. (a cura di) [2004], La città infinita, Triennale di Milano,
materiali rielaborati negli atti del seminario DiAP, Politecnico di Milano.
Davis M. [2004], Città morte. Storie di inferno metropolitano, Feltrinelli, Milano.
Ferraresi G. [2004a], “Dopo il modello metropolitano. La regione milanese come
territorio delle differenze: le reti del locale strategico”, Territorio, n. 29/30,
numero doppio speciale.
Ferraresi G. [2004b], “Il paesaggio volontario”, in Pagani L. (a cura di) [2004],
Corsi d’acqua ed aree di sponda: per un progetto di valorizzazione, Quaderni
della Università degli studi di Bergamo, Centro Studi sul Territorio, Bergamo
University Press, Edizioni Sestante.
Ferraresi G. [2005], “Forma e figurazione di mappe per la costruzione condivisa di
consapevolezza del territorio; una tesi sulla rappresentazione identitaria del
locale strategico: quadro problematico, metodo, linguaggio, efficacia”, in Ma-
gnaghi A. (a cura di), La rappresentazione identitaria del territorio. Atlanti,
codici, figure, paradigmi per il progetto locale, Alinea, Firenze.
Indovina F. (a cura di) [1990], La città diffusa, DAEST, Venezia.
Insolera I. [1962], Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Einaudi, Torino.
Magnaghi A. (a cura di) [1990], Il Territorio dell’Abitare. Lo sviluppo locale come
alternativa strategica, Franco Angeli, Milano.
Magnaghi A. [2000], Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino.
Palermo P.C. (a cura di) [1997], Linee di assetto e scenari evolutivi della regione
urbana milanese. Atlante delle trasformazioni insediative, quaderni del Dipar-
timento di scienze del territorio, Franco Angeli, Milano.
Pasqui G. [2002], Confini milanesi Processi territoriali e pratiche di governo,
Franco Angeli, Milano.
Piccinato L. [1959]. “L’esperienza del PRG di Roma”, Urbanistica, n. 28-29.
Urbanistica 28-29 [1959], INU, Roma.
Rossi-Doria B. [2003], “La Sicilia: da Regione del Mezzogiorno a periferia del-
l’Europa forte”, in A sud di Brodbignagh, F. Angeli, Milano.

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Giorgio Ferraresi, Bernardo RossiDoria - Scenari strategici come progetto di territorio: contributi alla definizione della scuola territorialista

  • 1. 15 1. Scenari territoriali, scenari strategici e pianificazione In anni recenti, la parola scenario è sempre più utilizzata dagli urbani- sti per descrivere fenomeni, situazioni, prospettive urbane, in contesti che spesso ne fanno apparire significati e dimensioni che trascendono i confini strettamente disciplinari. Conviene ricordare che scenario è parola che ha origine nella letteratura teatrale ed ha il significato di descrizione del tempo e dello spazio di una storia, e cioè di sequenze di eventi. Esse sono poi sviluppate con la nar- razione letteraria da rappresentare in contesti a loro volta descritti con ela- borati grafici (scenografie). Costituiscono la predisposizione di un proget- to di comunicazione che sarà attuato con la effettiva rappresentazione. Una caratteristica importante dello scenario o sceneggiatura è che essa è solitamente corredata da una “scenografia”, che solitamente è riferi- ta allo spazio in cui gli eventi vengono rappresentati. Non ci si allontana molto da questo schema quando si legga la lettera- tura corrente sull’argomento della pianificazione urbanistica. Tradizionalmente la descrizione di un piano urbanistico è costituita da una relazione descrittiva e da un grafico corredato da una spie- gazione delle regole interpretative dello stesso grafico. Quest’ulti- mo, nella prassi corrente, viene identificato con lo stesso piano ur- banistico. È diffusa ora l’idea che i piani abbiano degli autori, o meglio degli ispiratori - gli urbanisti -, e che il contributo creativo degli stessi possa comunicarsi con “scenari” adattati ai contesti di riferimento. Scenari strategici come progetto di territorio: contributi alla definizione della scuola territorialista Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi- Doria* * Il paragrafo 1 di questo saggio è stato redatto da Bernardo Rossi Doria; il paragrafo 2 da Giorgio Ferraresi.
  • 2. 16 Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria Fino a quando il principio della partecipazione non è stato formalmen- te codificato e raccomandato, gli urbanisti hanno ritenuto che nel solo linguaggio disciplinare fosse implicito un intento di comunicazione tendente a coinvolgere il contesto sociale di riferimento, per illustrare le prospettive proposte dal piano, i suoi contenuti e le sue regole. Le prime esperienze partecipative hanno spesso avuto per oggetto il piano urbanistico inteso come mappa con l’indicazione delle trasfor- mazioni progettate. Ma è proprio dal diffondersi della domanda di partecipazione che na- scono le riserve sulla attendibilità del grafico, soprattutto quando si limita ad essere un documento di registrazione e regolazione con rife- rimenti temporali solo formali, privo di capacità evocative. Per favorire l’introduzione di procedimenti partecipativi, la discussio- ne sulla pianificazione si è orientata in senso processuale, con la rap- presentazione di una sequenza di passaggi procedurali, spostando l’at- tenzione dalla descrizione di trasformazioni in atto o progettate alle modalità di implementazione delle stesse trasformazioni. Questo cruciale passaggio, che avrebbe dovuto assumere anche il ca- rattere di articolazione ed integrazione dello statuto disciplinare del- l’urbanistica, ha però finito per porre gli obiettivi disciplinari in una posizione secondaria rispetto ad altri di altra natura, nella scala delle priorità di governo, fino al punto di prefigurarne la secondarietà se non la inutilità. In questa forma processuale si conferisce alla pianificazione l’attribu- to di “strategica”, mutuando terminologie e contenuti da esperienze extradisciplinari, con qualche confusione. Alla parola “scenario”, utilizzata per descrivere strategie, è attribuito uno specifico significato di derivazione anglosassone che non sembra prevedere rappresentazioni grafiche che non siano diagrammi. Capita spesso che la pianificazione strategica così concepita sia di tipo eco- nomico e orientata all’efficienza operativa, e che si ometta di correda- re la descrizione della sequenza delle azioni e degli eventi in termini di impatto sulla forma e fisicità o morfologia1 dei luoghi (la scenografia). L’idea di pianificazione è stata così rielaborata, ma anche ridotta, per meglio introdurre la dimensione temporale definendo “strategie”, ov- vero sequenze di azioni analiticamente costruite in vista del pronto (sollecito) raggiungimento di obiettivi. Il fatto che, originariamente, l’elaborazione provenga da ambienti mi- litari e poi imprenditoriali, e successivamente di governo, documenta e giustifica questo approccio. In questi casi, anche se l’obiettivo dichiarato è quello dell’efficacia, da 1 Si troverà che in questo testo si è spesso fatto ricorso al termine di “fisicità” del territorio piuttosto che alla “morfologia” in quanto - come si vedrà più avanti - nella letteratura sulle strategie di matrice economica si parla spesso di territori come luoghi di accoglimento di progetti di architetture con morfologie effimere e non radicate.
  • 3. 17 Scenari strategici come progetto di territorio esprimere in termini di qualità, la dimensione privilegiata è la velocità nel raggiungimento di obiettivi, anche a scapito di altri possibili valori come ad esempio quello della lentezza. Per questo, ogni azione che presupponga tempi lunghi e lentezza viene posta in secondo piano, evitata od omessa. La pianificazione strategica è in realtà un termine omnicomprensivo, ed in quanto tale prevede la costruzione di scenari (sequenze di azio- ni) in cui le azioni di trasformazione fisica dell’ambiente possono ri- sultare perfino ininfluenti rispetto agli obiettivi di partenza. È stata adot- tata dapprima in ambienti militari,2 poi in ambienti aziendali solita- mente multinazionali ed in contesti di governo istituzionale. In questi contesti, la questione territoriale, ovvero il confronto di queste temati- che con le problematiche militari o aziendali e perfino di governo isti- tuzionale, non è mai stata significativa. Se è vero dunque che la pianificazione urbanistica (anche se di area vasta) circoscrive e riduce il termine pianificazione, è vero d’altra par- te che l’idea diffusa di pianificazione strategica, quando non corredata di una componente territoriale, è anch’essa riduttiva. Il problema dunque si propone in questi termini: è possibile prefigurare uno scenario di trasformazione territoriale che non contempli processi più lenti di altri? E se è possibile, le azioni efficaci, in quanto sollecite, sono compatibili con lo statuto disciplinare di coerenza ambientale? O non è proprio la ricerca della trasformazione veloce - che comporta l’abbandono di pratiche trasformative lente e di pratiche partecipative, intrinsecamente lente perché capaci di responsabilizzare il corpo so- ciale nei confronti delle risorse locali - che contraddice il concetto di assetto (equilibrato) del territorio? Per esempio, le elaborazioni disciplinari tendenti a distinguere piani strutturali da piani operativi sono innegabilmente collegate alla indivi- duazione di processi a diversa velocità. La loro diversa efficacia non è sempre riferibile alla brevità del tempo di sviluppo quanto a indicatori altrimenti elaborati. Questi pochi e semplici riferimenti inducono d’altre parte a ritenere che, ove si voglia processualizzare l’attività di governo, la pianifica- zione del territorio sia una componente qualitativa irrinunciabile della pianificazione strategica, e che questa non ne possa prescindere. Scenario è dunque descrizione di un processo complesso, cui si è co- minciato a ricorrere con la pratica della pianificazione strategica. La pianificazione strategica, pur apparentemente omnicomprensiva, in realtà spesso non lo è stata. Per questo il ricorso all’idea di “scenari” di questo tipo prevede solo marginalmente, ed anzi spesso omette, la elaborazione di “scenogra- fie” (descrizione del contesto fisico e visuale degli esiti della azioni programmate) in quanto non rilevanti per gli obiettivi strategici dati. 2 V. ad esempio le storie di sperimentazioni di bombe incendiarie per la distruzione delle città tedesche attuate nel Nevada in Davis [2004].
  • 4. 18 Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria Lo scenario militare prefigura la massima distruzione, il massimo con- trollo, ecc.; quello aziendale il massimo uso e distribuzione di prodotti e servizi dell’azienda. Quello istituzionale, quando voglia essere stra- tegico, prefigura spesso un insieme di obiettivi espressi in termini di somme di vantaggi soggettivi “negoziati” piuttosto che, e raramente, in termini vantaggi generalmente collettivi. Ma quello che più generalmente ha caratterizzato, all’origine, questo tipo di strumento operativo è la sua gerarchizzazione “top-down”, con- cepita da generali, manager, governanti; eseguita da eserciti, o buro- crazie; subita dalle popolazioni che compongono le realtà territoriali, senza verifiche e confronti che non siano poco più che formali. Nasce dunque come strumento finalizzato al coinvolgimento di soggetti pro- motori ed esecutori selezionati all’avvio del processo (attori negozia- tori) e prevede che gli altri soggetti coinvolti siano consultati soltanto quando ridotti a “consumatori” passivi. Quando si parla di pianificazione delle città e del territorio in Italia, l’esperienza dell’ultimo cinquantennio rivela che l’istanza del coin- volgimento dei cittadini, e l’uso di rappresentazioni grafiche, costitui- sce un patrimonio di esperimenti spesso dimenticati. Converrà ricor- dare che un processo di questo tipo è prefigurato già con la legge urbanistica del 1942, che è tuttora in vigore. Essa prevede che, su incarico di un ente istituzionale (locale), un ap- parato tecnico specialista rediga un progetto di piano; che tale piano sia adottato, e che lo si renda pubblico conferendo a soggetti interessa- ti la facoltà di richiedere chiarimenti e perfezionamenti; che finalmen- te sia approvato e vigente. Anche questo è dunque un processo “top down”, anche se i soggetti “aventi diritto” possono aver contribuito al suo perfezionamento tecnico. La forma del piano resa accessibile è un elaborato corredato da regole scritte, e da elaborati descrittivi (una relazione spesso illustrata) che potremmo definire un vero e proprio scenario, e da un disegno che riassume e territorializza le regole. Diciamo pure una “scenografia”. Durante il secondo cinquantennio del secolo scorso questo processo è divenuto rituale su quasi tutto il territorio nazionale, a partire dalle prime esperienze degli anni ’50 e ’60 tra cui vale la pena di ricordare quella della costruzione del PRG di Roma nel secondo dopoguerra3 che ha fatto da riferimento a molte successive esperienze. Si ricorderà che ne furono protagonisti illustri specialisti, che si con- frontarono sulle sorti del territorio romano fin dagli anni ’30 propo- nendo degli scenari sotto forma di ideogrammi (trasformazione di Roma in città lineare o radiocentrica, assetto della città in area vasta o assetto compatto a macchia d’olio, ecc.), che nel dopoguerra in un contesto di 3 Pur non trattandosi di un caso unico, conviene citarlo in questa sede anche perché è ampiamente documentato - con cronache, valutazioni ed ampia documentazione grafica - nei numeri 28-29 della rivista Urbanistica edita dall’INU, 1959 e in Insolera [1962].
  • 5. 19 Scenari strategici come progetto di territorio rinnovamento e di partecipazione democratica furono capaci di evo- care immagini ed emozioni tra i cittadini e di provocare una domanda di partecipazione del tutto nuova che non trovò altra regola, per espri- mersi, che quella della costruzione di “osservazioni” formulate secon- do le procedure della allora nuova legislazione urbanistica. Formularono osservazioni non soltanto proprietari ovviamente inte- ressati (per loro in realtà era previsto l’istituto delle osservazioni), ma anche associazioni portatrici di una vasta gamma di interessi “colletti- vi” (le donne, i beni culturali, gli abitanti dei quartieri centrali e perife- rici, …), creando un primo momento di messa in discussione del crite- rio “top down” indicato dalla legge. Duri confronti si svilupparono su questioni di diritto, laddove in sede giudiziaria si confrontarono opposte tesi. L’una era sostenuta da forti portatori di interessi fondiari che sostenevano di essere unici soggetti legittimati ad interferire nella formazione del piano e chiedevano che le richieste delle associazioni fossero dichiarate non legittime. L’altra era definita da sostenitori della legittimità delle associazioni a rappre- sentare interessi “collettivi”. Il confronto nelle chiuse aule giudiziarie era accompagnato da un si- gnificativo e vasto, pubblico e partecipato dibattito, che riletto oggi si concentrava su un confronto di “scenari” grafici che ben esprimevano i termini della partita partecipativa: città compatta in ampliamento in tutte le direzioni vs. città aperta al territorio; direttrici di ampliamento vs. “macchia d’olio” ecc., che trovavano appassionato confronto sulla stampa, nelle assemblee cittadine, nelle assemblee di quartiere. In sostanza, nel caso della formazione del piano regolatore del dopo- guerra a Roma, le “sceneggiature” furono determinanti nell’aprire una stagione di partecipazione del tutto nuova; esse erano qualcosa di profon- damente diverso dai veri e propri elaborati grafici del piano che, in sostan- za, costituivano soltanto la rappresentazione delle regole dello stesso. È anche vero tuttavia che - come gli stessi protagonisti della vicenda,4 durata oltre un ventennio (1945-1966), hanno chiarito - i contenuti del piano che fu poi definitivamente approvato non corrispondevano per nulla a quelli che erano i progetti proposti e raccomandati in sede tec- nica, né agli scenari discussi nel vasto pubblico.5 Ma proprio questo argomento fu poi utilizzato per avviare un processo di deregolamentazione, chiamato spesso nei testi legislativi di “sem- plificazione” delle procedure, che tendeva a ridurre la parte “lenta” del procedimento che era proprio quella dedicata alla tutela delle risor- se ambientali e alla costruzione di un contesto partecipato. * * * 4 V. Piccinato [1959]. 5 Una vicenda parallela ed analoga negli esiti e di più breve durata è quella della costru- zione del PRG del dopoguerra di Milano, a partire dall’esito di un concorso e del Piano AR (1948-53).
  • 6. 20 Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria Dopo questa esperienza, le pratiche della costruzione di piani urbani- stici continuarono ad essere conformi alla legislazione del 1942. Si fecero tentativi molteplici per evolvere la rappresentazione grafica dei contenuti del piano dapprima con la sua normazione, poi con la tipiz- zazione delle zone con intenti di più chiara comunicazione tra i tecni- ci, senza che tuttavia si riuscisse a farne dei documenti che fossero il risultato di un’avvenuta partecipazione di interlocutori rappresentanti di interessi collettivi. In tutte le esperienze partecipative che pure si sono manifestate nei processi di costruzione dei piani, l’uso della rappresentazione descrit- tiva degli stessi è stata sporadica e casuale, in genere molto più parlata che disegnata. Tanto che abbiamo assistito, alla fine degli anni ’80 e ’90, alla presentazione di elaborati grafici di contenuto tecnico e descritti- vo (ad esempio con l’uso di simbologie “evocative” dei caratteri ambien- tali del contesto territoriale) nello stesso tempo definiti - in alcuni casi - “racconti”, con intenti di comunicazione evidentemente ampliati ri- spetto al circoscritto ambito degli “interessi legittimi” e soggettivi. Si sono anche prodotti contributi di analisi di questo tipo classifican- doli come opere definite “d’autore”, per sottolineare delle individuali capacità di esternazione verso il mondo dei potenziali soggetti parteci- panti. Essi furono l’espressione di ottime intenzioni che testimoniano la volontà, se non il bisogno del versante degli esperti di confrontarsi con potenziali soggetti partecipanti per ottenere risultati condivisi e accettati. Senza che tuttavia, salvo eccezioni, si sia manifestato qual- che processo partecipativo efficace e significativo. Gli anni ’80 e successivi hanno visto emergere la questione ambienta- le che, pur essendo maturata anche in maniera autonoma nel nostro paese, trovò maggior spazio quando fu avviata la discussione in con- testi internazionali. Dando per conosciuta la vicenda, ci si ritrova ora con gli esiti della conferenza di Rio de Janeiro (1992) da cui scaturì la cosiddetta Agenda per il XXI secolo. L’aspetto nuovo di questo documento internazionale sta nel fatto che esso è frutto dell’incontro di due tipi di organismi: (a) quelli rappre- sentativi dell’istanza ambientale che avevano da poco proposto ai go- verni l’adozione di politiche di sviluppo compatibili con l’ambiente, ed avevano formulato una precisa definizione: “sostenibili” (Bruntland); (b) quelli rappresentativi delle comunità locali, i cosid- detti Enti Locali, che si proponevano come luoghi di pratica democra- tica comunitaria e come naturali responsabili della gestione e custodi delle risorse ambientali e territoriali dei contesti di insediamento. Questo incontro si concluse con l’impulso programmatico alla adozio- ne di “strategie” definite dapprima di sviluppo (da moderare con l’at- tributo di sostenibile) entro cui far convergere le politiche nei diversi contesti territoriali vasti e locali. Fu dunque promossa la formazione di “Agende Locali” per l’avvio del processo di costruzione di piani. Di queste furono elaborati dei modelli che contenevano tutti una sfida
  • 7. 21 Scenari strategici come progetto di territorio di dimensioni politiche molto consistenti. L’agenda (2000) prevedeva di affidare a processi partecipativi la definizione di obiettivi di piano e le azioni per implementarli. In Europa si indicava anche che il luogo della partecipazione dovesse essere frequentato da generici e non de- scritti “portatori di interessi” - traduzione di “stakeholders”, parola derivata dalla letteratura sulla pianificazione strategica classica. Dalla osservazione delle pratiche attuate a seguito della promozione di questi indirizzi in Europa ed in Italia, due sono le questioni che merita- no più approfondita discussione. La prima sta nel fatto - positivo - che si confermi che occorre formula- re dei piani ovvero darsi delle direttive di comportamento pubblica- mente dichiarate e condivise nella gestione dell’ambiente di vita. In un contesto politico orientato ad accreditare modelli di sviluppo globale ultraliberisti, questo sembrerebbe quasi anacronistico. Ma parlando di pianificazione e di obiettivi da perseguire, fu subito osservato - ancor prima che si tenesse la conferenza di Rio - che gli obiettivi definiti di sviluppo erano quelli dell’economia “dura” ovvero della crescita: più produzione (trasformazione di risorse) uguale più benessere. Sono questi gli obiettivi messi in discussione già dagli anni ’70 a partire dal famoso e sempre meno contestato rapporto del Club di Roma intitolato: The limits of growth (Meadows). Obiettivi contestati dunque perché insostenibili per il sistema ambien- tale globale e per questo anche per i sistemi locali. L’aggiunta dell’at- tributo “sostenibile” sembrava voler cambiare il significato della paro- la sviluppo, che troppo insistentemente l’economia canonica ha sem- pre voluto confondere con la crescita. Inoltre la trasformazione delle risorse corrisponde all’esigenza di al- lentare ogni controllo sull’uso del territorio, che è di fatto l’insieme delle risorse necessarie per la produzione di beni materiali. La seconda questione è che attribuire il ruolo di soggetti legittimati a partecipare ai processi di definizione degli obiettivi agli “stakeholders”, titolari di interessi aziendali, proprietari, economici, significa esclude- re tutti gli altri ed in particolare tutti quelli che non si identificano in quegli interessi. Se si pensa alla matrice di formazione dell’idea di Agenda per il XXI secolo, pare difficile e sospetto individuare come soggetti del confron- to progettuale dei portatori di interessi presentati come soggetti parti- colari (portatori di interessi soggettivi) piuttosto che come capaci di rappresentare l’intero corpo comunitario, l’universo dei cittadini aventi titolo in quanto insediati sul territorio. La manualistica elaborata per l’implementazione delle Agende (2000) indica che si deve formare un Gruppo d’Azione Locale e, almeno in Italia, le pratiche avviate hanno mostrato - salvo casi sporadici quanto virtuosi - che la formazione dei GAL, pur non escludendo partecipa- zioni ampie ed articolate, si è essenzialmente costruita attorno a tavoli
  • 8. 22 Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria in cui erano rappresentati esponenti generici (nel senso di non neces- sariamente radicati nei contesti locali) di interessi soggettivi dell’im- prenditoria, della proprietà fondiaria e immobiliare, e dei governi lo- cali, titolari nominali di interessi oggettivi ma soprattutto di poteri de- cisionali in materia di assetto del territorio. Guardando più da vicino, si deve dire che normalmente si è preso atto che partecipavano soggetti che già detenevano capacità di negozia- zione (le imprese), mentre non si è fatto alcuno sforzo per attivare e legittimare partecipazioni in nome di interessi collettivi, e soprattutto si è omesso di chiarire che la composizione del luogo della partecipa- zione non poteva essere occasionale e basata soltanto sul principio che gli assenti hanno torto. In sostanza, quando formalmente si sono attivati processi definiti par- tecipativi, questi erano fondati sul confronto di portatori di interessi particolari e soggettivi più che collettivi. Con la conseguenza che su quei tavoli non si sono definiti veri e propri obiettivi di pianificazione, ma piuttosto si sono negoziate azioni puntuali, regolate da procedure volte al raggiungimento di un’efficienza operativa intrinseca piuttosto che alla costruzione di prospettive migliorative della qualità di vita e dell’ambiente. Il punto in cui ci troviamo oggi è che la costruzione di agende locali si è indirizzata secondo due direzioni. Una prima, formale e burocratica, è sostanzialmente fallita sotto il pro- filo della attivazione di processi compiuti di partecipazione. Infatti con le agende locali si sono promosse - ed in pochi casi finanziate ed ese- guite - opere, alcune delle quali eventualmente e casualmente utili, la cui coerenza con obiettivi di interesse collettivo non è verificata, in quanto esse sono concepite ed eseguite al di fuori della pianificazione ordinaria, che continua o ad essere formalmente definita nell’ambito della routine dei tradizionali procedimenti. In questi contesti, molto spesso degli obiettivi non erano nemmeno stati enunciati, in quanto i veri processi partecipativi erano del tutto mancati. Eppure dagli enti erogatori dei finanziamenti emanano bollettini di valutazione più o meno soddisfatta per l’entità e la visibilità degli stes- si, dati questi che vengono proposti come obiettivi di pianificazione raggiunti, fino a teorizzarne l’innovazione con slogan del tipo “Piani- ficar Facendo” (maccheronicamente tradotto in inglese: planning by doing). In questa maniera si accredita l’idea che le azioni eseguite sia- no gli obiettivi raggiunti di un piano che non era ancora stato enuncia- to né tanto meno tradotto in “scenografia” quando le azioni erano pro- gettate, situazione in cui lo scenario urbanistico è il risultato delle azio- ni eseguite a prescindere dall’esistenza di un piano; o, più sottilmente, che il piano abbia ragione di essere costruito solo in quanto è stata creata la necessità di opere di razionalizzazione con la preventiva rea-
  • 9. 23 Scenari strategici come progetto di territorio lizzazione di una somma di singoli progetti di cui originariamente non era apparsa la necessità di coordinamento né di integrazione nei con- testi: in questo caso il Piano ha prevalentemente per obiettivo il “recu- pero ambientale” che non avrebbe avuto necessità di essere predispo- sto se non si fosse creato dissesto. È lecito pensare che di fatto la mancanza di questo passaggio, oppure il suo rinvio a dopo che i progetti sono stati eseguiti, si configura agli occhi dei portatori di interesse come un utile snellimento delle proce- dure, che rinvia il confronto partecipativo e lo riduce alla discussione di obiettivi di razionalizzazione. La seconda direzione è quella di contestazione sostanziale dei proce- dimenti burocratici ufficiali, ed assume il carattere di movimento poli- ticamente significativo laddove mette in discussione il ruolo passivo svolto dagli Enti locali per restituirgli capacità e dovere di indirizzo e promozione di processi partecipativi. L’esperienza italiana del Nuovo Municipio,6 e della sperimentazione della costruzione di bilanci parte- cipati, implementati a partire dalla conferenza di Porto Alegre, costitu- isce un serio progetto di rimessa in carreggiata dell’istanza della con- ferenza di Rio de Janeiro. L’aspetto significativo di questa importante e vitale esperienza sta nel fatto che gli amministratori dei “Nuovi mu- nicipi” hanno espresso la volontà di riappropriarsi del loro ruolo istitu- zionale ponendolo in posizione “diversa” e preminente rispetto a quella dei portatori di interessi soggettivi, e si sono fatti carico di promuovere movimenti di effettiva partecipazione in nome di interessi collettivi. L’esperienza ha tra l’altro messo in luce che i tempi di compimento di simili processi non possono che essere più “lenti” e tendenzialmente incompatibili con gli obiettivi di efficienza caratteristici della pianifi- cazione strategica di matrice aziendale. Processi siffatti richiedono molta preparazione e soprattutto richiedo- no metodi e strumenti più articolati ed innovativi di quelli della pura regolamentazione assembleare, a partire da una contaminazione lun- gimirante dei sistemi educativi operanti sul territorio. La stessa idea che si assumesse il bilancio come elemento di discussio- ne ancorché necessario e fondante non è sembrata tuttavia sufficiente. Una discussione sui numeri abbinati a categorie di spesa ha sicuramente un impatto formativo in quanto stimola la discussione sulle priorità (cosa di più, cosa prima): sotto questo profilo, essa è rappresentabile attraverso lo scenario prefigurato dalle tecniche di pianificazione strategica. E tuttavia, nel caso della discussione sui bilanci partecipati, se mai è stato praticato l’uso di “scenari” per dare ordine alle discussioni sulla definizione di obiettivi di pianificazione, questi non sono stati corre- dati in maniera significativa da “scenografie” che, probabilmente, sa- rebbero state capaci di rappresentare i contesti di riferimento degli spazi pianificati, in maniera tale da mettere in luce in anticipo le contraddizioni 6 Si veda http://www.nuovomunicipio.org.
  • 10. 24 Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria dei processi avviati e di creare consapevolezza e responsabilizzazione sia dei portatori di interessi che tra gli aventi titolo alla partecipazione. In sostanza, il fatto che si utilizzino degli scenari strategici in cui la dimensione fisica e spaziale non viene descritta né discussa li rende poco credibili sotto il profilo della sostenibilità, se non altro perché nel ragio- namento ci si confronta in maniera riduttiva ed inadeguata col tema delle risorse territoriali che sono centrali nella costruzione dell’immagine di un ambiente socioeconomico. Si dovrebbe presumere che, in mancan- za di scenari territoriali, un contesto partecipativo consapevole si trove- rebbe nella impraticabilità della costruzione di una “vision” attendibile. E d’altra parte è vero anche l’opposto, e cioè che un piano territoriale che non sia costruito come componente di un piano strategico sarebbe inefficace. La crisi della disciplina urbanistica è infatti determinata proprio dal fatto che i piani sono spesso autoreferenziali e la loro costruzione non è validata da un confronto partecipativo. La pratica della costruzione di “scenari territoriali” che converrebbe a questo punto distinguere con chiarezza dallo “scenario strategico”, di cui sarebbe soltanto un necessario tassello, parrebbe uno dei principali e necessari strumenti di attivazione di processi partecipativi della pia- nificazione urbanistica e territoriale Ma a parte la distinta denominazione, utile a far chiarezza sulla natura e ruolo dell’elaborato, occorre anche dire che lo scenario urbanistico risulta necessario e diverso in diverse fasi del processo di formazione dei piani territoriali che vogliano integrarsi in un sistema di pianificazione strategi- ca, essendo questo caratterizzato da una struttura per cicli ricorrenti. La definizione partecipata di obiettivi di assetto del territorio non può che partire da una ricognizione e riconoscimento del territorio di riferimento. Nessuna definizione di obiettivi è possibile senza questo passaggio ed occorre che il cittadino ne sia stato partecipe. Occorre che la discussio- ne si appoggi su una descrizione esauriente che è costruita da un soggetto esperto per conto del soggetto promotore della formazione del Piano. Questo documento, che potrebbe essere chiamato per comodità sce- nario territoriale di primo grado,7 è quello che è costruito da un appa- rato esperto che raccoglie, ordina e rappresenta in sintesi tutte le infor- mazioni reperibili sul territorio cui è riferito il piano. È sostanzialmente un sistema informativo aperto leggibile e reso comprensibile al pub- blico, da cui possono essere tratte e descritte informazioni sistematiz- zate ed utili per introdurre la discussione partecipativa sulla definizio- ne di obiettivi di piano. È in sostanza un essenziale ed esauriente do- cumento di comunicazione, neutro ma senza omissioni. 7 La differenziazione qui descritta risulta proposta in maniera analoga anche in altri contesti e contributi, seppure con l’uso di terminologie diverse: i tre livelli qui sopra indicati possono esser fatti corrispondere, il primo, alle sintesi dei quadri conoscitivi, il secondo alle interpre- tazioni valoriali degli atlanti del patrimonio, il terzo agli scenari territoriali propriamente detti.
  • 11. 25 Scenari strategici come progetto di territorio La discussione comporta due fasi. La prima consiste nella integrazione dello scenario di primo grado con informazioni aggiuntive la cui acquisizione è promossa con le solleci- tazioni dei soggetti attori del procedimento partecipativo, tra i quali non può mancare la categoria “portatori di interessi collettivi” che sia stata effettivamente costituita e legittimata. Da scenario ricognitivo a carattere prevalentemente tecnico, esso pas- sa ad essere scenario territoriale di secondo grado validato dal con- senso valutativo della comunità partecipante. Nel gergo della pianificazione strategica è quello che viene definito come “mission”, che non è traducibile in italiano con la parola missio- ne in quanto non esprime un obiettivo da perseguire quanto delle pra- tiche in atto. Ha un valore interpretativo e per questo si configura come una mappa, che comincia a perdere i connotati razionali del sistema informativo per assumere quello di un disegno che dovrebbe rappre- sentare non soltanto una semplice proiezione statistica tendenziale quanto una prevedibile e condivisa direzione di cambiamento in atto insita nelle pratiche contingenti di governo. La discussione partecipativa sullo scenario di secondo grado dovreb- be poter condurre alla definizione di obiettivi di pianificazione, volti a perseguire nuovi, diversi e migliori obiettivi, con la costruzione di uno scenario territoriale di terzo grado. In questo caso, dalla constatazione dell’andamento evolutivo descritto nella “mission” dovrebbe scaturire una discussione critica che dovrebbe a sua volta sfociare nel manifestarsi di istanze di cambiamento volte a migliorare la qualità di vita della comunità insediata espressa in termi- ni di miglioramento della gestione delle risorse territoriali e ambienta- li. Questa fase è chiamata nel gergo strategico “vision”, ovvero descri- zione dell’insieme delle aspirazioni della collettività. Questo documento si fonda sullo scenario di secondo grado ma ha un carattere evocativo. È un documento articolato multimediale che va oltre il carattere tecni- co dello scenario di primo grado ed il carattere interpretativo dello scenario di secondo grado e si configura piuttosto come un disegno del territorio con forti capacità evocative che riconduce a sintesi le complesse istanze di una comunità che, condividendone i contenuti, lo fa proprio. Esso rappresenta la descrizione degli obiettivi di assetto territoriale che si adottano; consente di definire azioni e priorità concordate, di facile eseguibilità e di attendibili risultati. Questo tentativo di chiarificazione sulla collocazione della costruzio- ne di scenari territoriali nell’ambito dei processi della pianificazione è reso necessario, in questo caso, per identificarne la praticabilità in di- versi contesti territoriali. In questo stesso volume sono documentati diversi casi di studio dove, in relazione ai contesti di riferimento, si può osservare un diverso “sta- to dell’arte”, che documenta una diffusa attività di elaborazione cono-
  • 12. 26 Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria scitiva “esperta” sullo stato dei rispettivi contesti territoriali, a fronte di un diversa maturazione di processi reali di partecipazione. Nel caso della Regione Siciliana, ad esempio - come si può vedere più avanti - la pratica della pianificazione in area vasta, territoriale ha scarsissima se non nulla tradizione, essendo stata letteralmente omes- sa per lunghi anni8 e solo recentemente tentata in alcune province sen- za tuttavia che fosse definito il ruolo istituzionale dell’Ente provincia- le. In altre regioni si rappresentano invece situazioni diversamente ar- ticolate. Di conseguenza, anche a livello esperto l’impegno territoriali- sta può apparire diversamente focalizzato, sebbene riconducibile a principi condivisi. È a questa sorta di tassonomia operativa dell’accezione territorialista degli scenari, articolata fra il comune approccio interpretativo e pro- positivo e le irrinunciabili declinazioni locali, che questo studio tende in primo luogo; non tanto per offrire un atlante classificatorio di meto- di e tecniche (disegno che pure è degno di esser perseguito, e a cui è stata improntata la prima fase del lavoro di ricerca), quanto per contri- buire a precisare i contorni della proposta territorialista nel nodo fra rappresentazione identitaria e progetto di territorio che gli scenari co- stituiscono; non tanto, dunque, per ricavarne una mappa descrittiva ma - ancora una volta - uno scenario d’intervento. 2. I caratteri strategici dello scenario progettuale: il territorio come posta in gioco in un progetto socialmente costruito 2.1 Contesto e radici di una ricerca sugli scenari come progetto di territorio Questa ricerca ha una storia che si colloca in un contesto teorico ed empirico ben connotato9 che ha espresso in questi anni una sequenza di ricerche cofinanziate MIUR su atlanti e rappresentazione del territo- rio (ed altre di diversa natura che la precedono e l’accompagnano). Con il presente studio non si intende però semplicemente estendere que- sta sequenza nel percorso classico ed ovvio dall’analitico al progettuale. Si tratta piuttosto, complessivamente, di un percorso fondativo di un modo e di un senso del progetto che muovono da una forte interpreta- zione del territorio e dalla sua centralità. Questo network di ricerca condivide infatti, sin dall’inizio, una meta-concezione dello scenario come “progetto di territorio”, che è bene però sia riconsiderata guar- dando alle sue radici per essere meglio e più strutturalmente definita e assunta come “opzione comune” esplicita e fertile. 8 L’argomento è stato approfondito nell’ambito di questa medesima ricerca in Rossi-Doria [2003]. 9 Si rimanda ovviamente ai testi fondamentali della scuola territorialista, da “Il territorio dell’abitare” (Magnaghi [1990]) ma più specificamente la sequenza di ricerche MURST- MIUR (ed i relativi testi, in parte ripresi nella bibliografia di questo saggio) che vanno dal tema degli “Atlanti territoriali” a quello della “Rappresentazione identitaria” del territorio e degli spazi aperti, che introducono più direttamente alla presente ricerca: la quale è seguita dal PRIN 2005/2007 in corso, sul tema del “Parco agricolo” (su cui si torna anche nel testo).
  • 13. 27 Scenari strategici come progetto di territorio Tali radici conformano fortemente il discorso sullo scenario come esi- to di percorsi analitici / interpretativi e di processi interattivi che coin- volgono la soggettività sociale. In particolare è evidente la correlazio- ne stretta dello scenario con le questioni analizzate nella ricerca sulla “Rappresentazione identitaria del territorio” che già esprimeva “sce- nari/rappresentazione” intesi come fondativi degli “scenari/progetto”.10 Questa ricerca quindi rappresenta la riflessione ulteriore e la sistema- tizzazione del tema, basate su elementi genetici già strutturati. Essa si caratterizza cioè prevalentemente come esplicitazione, appro- fondimento e definizione di strumentazioni di “una tesi” sullo scena- rio per molti versi “necessitata” dal suo contesto, proprio della scuola territorialista; e dalle sue assunzioni di ordine interpretativo, propositi- vo/strategico e metodologico. Solo secondariamente la ricerca assume natura di esplorazione com- parativa, anche il complesso panorama di altre pratiche, concezioni e forme dello scenario è ampiamente preso in considerazione;11 il che comunque consente di discutere e “collocare” le opzioni assunte. L’esigenza principale è quella di consolidare una voce ed una posizio- ne della scuola territorialista che ritiene ineludibile una opzione strategi- ca di valorizzazione del territorio; e di configurare in termini maturi sce- nari in tal senso aprendo su questi un confronto più argomentato. Un nodo fondamentale, sostantivo, caratterizza l’approccio territoria- lista sin dalle sue prime ricerche: individua come cuore e base del de- grado ambientale e della stessa forma urbana la destrutturazione del patri- monio territoriale, la riduzione del territorio a spazio strumentale, omolo- gato, senza valore specifico; e pone contestualmente un’istanza di proget- to di nuova “soggettività” del territorio fondata sul riconoscimento dei suoi caratteri distintivi (valori e criticità) e sulla produzione di valore ag- giunto territoriale come strategia di futuro (i temi dello sviluppo locale come alternativa strategica di valorizzazione dei luoghi del territorio).12 Si propone quindi come base fondativa di ogni scenario trasformativo una mossa interpretativa, un’ermeneutica del territorio che produce riconoscimento di luogo, atlanti del patrimonio, percezioni di struttura territoriale, invarianti, statuti; e su ciò costruisce figure di trasforma- zione coerenti. Si tratta di un’opzione che indica una posta in gioco: la differenza, il carattere proprio, il valore locale del territorio; e si correla ad una stra- tegia di sviluppo locale come valorizzazione territoriale. 10 Per una rilettura di questo ricerca strettamente connessa alla presente su cui si torna ripetutamente nel teso si veda in particolare: Ferraresi [2005]. 11 Si vedano in particolare i contributi specifici in tal senso in altri saggi del testo ed alcuni passaggi di confronto e comparazione in questo e altri scritti: utili per la comparazione i contributi di Gibelli e Gabellini. 12 Per una trattazione specifica dei temi dello sviluppo locale e del progetto locale che rilegge il complesso contributo della scuola territorialista in materia si veda: Magnaghi [2000]; Bonomi, De Rita [1998]. Sulla destrutturazione del territorio postfordista e sui codici del progetto di ricostruzione di territorio, si rimanda a Ferraresi [2004 b]; si veda inoltre Bonomi, Abruzzese [2004]; Pasqui [2002]; Palermo [1997]; Indovina [1990].
  • 14. 28 Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria Da qui nasce un primo carattere ben connotato dello scenario che si fonda su un processo di riconoscimento del territorio ed esita in un progetto di espressione/produzione di valore territoriale. L’ulteriore elemento che connota la concezione dello scenario in que- sta scuola è la sua fondazione interattiva, partecipativa. Interpretazione e statuti del territorio, così come gli esiti propositivi, non sono, nella produzione di scenario (come nel progetto in genera- le), affare disciplinare, competenza tecnica, produzione di “visioning” esperto, mappe prospettiche. Sono invece nel codice territorialista, come è noto, questioni di percorso vivente, interno al territorio, costruzione sociale e interattiva. La fondazione di questo approccio è bene farla risalire alla radice (an- cora una volta) della concezione di territorio come sistema complesso che comprende anche la società insediata; la quale anzi è la sede, il soggetto delle azioni antropiche di territorializzazione. Il processo interpretativo e propositivo di scenario è allora questione di alta competenza sociale: è luogo e strumento di espressione di sape- re comune esperienziale ma anche di manifestazione di interesse pri- mario (esplorazione del proprio contesto di vita, delle risorse e delle criticità del proprio futuro). Il percorso ermeneutico che fonda lo scenario è quindi concepibile e praticabile/praticato come processo di “costruzione di consapevolez- za di territorio”; ed i suoi statuti, strutture ed elementi genetici sono socialmente esplorati e assunti come base di conoscenza condivisa; il che già esprime condivisione di “progetto implicito”. Il progetto espresso dalle volizioni sociali si configura come il passag- gio dalla consapevolezza e dal progetto implicito a forme esplicite di “responsabilità di territorio”, assunzione di responsabilità attuale e dia- cronica, del destino delle prossime generazioni. Progetto esplicito come definizione di senso, di direzione di lavoro riconosciuta, pattuita; lo scenario assume la natura di patto sociale/ istituzionale, ragione sociale di azione solidale e discriminante anche per la produzione di consenso o la riproposizione di conflitto. Questi quindi i due nodi su cui le radici di una tradizione di lavoro e delle esperienze in corso fondano la concezione dello scenario come progetto (strategico) di territorio e come processo interattivo. 2.2 Una concezione esplicita di scenario: un “costrutto” progettuale interattivo come opzione strategica condivisa e patto civile Riferendoci alle considerazioni precedenti su storia, matrici teoriche ed esperienze, si può allora ben esplicitare su quali basi la ricerca assu- ma una concezione comune, forte e ben connotata di scenario come progetto di territorio. Si riprendano sinteticamente i passaggi nodali di quanto sopra richiamato riordinandoli in modo meno discorsivo ed esplicitandoli in parole-chiave. La cultura territorialista: - definisce il “soggetto territorio” ed il suo ruolo centrale: il suo degra-
  • 15. 29 Scenari strategici come progetto di territorio do come cuore della crisi della nostra condizione e della insostenibilità dello sviluppo dominante; la sua valorizzazione come progetto di ri- nascita; - individua il “valore territoriale” come posta in gioco e come fonte di ricchezza duratura e sostenibile; - indica una strategia di “sviluppo locale” fondata sulla valorizzazione del territorio e delle sue differenze come alternativa strategica; - propone quindi un processo di riconoscimento del patrimonio terri- toriale, una reinterpretazione dei suoi caratteri e statuti come matrice del progetto in questa strategia; quella che si è definita “la mossa er- meneutica” è assunta come fondamento del progetto; - individua il “terzo attore” tra stato e mercato come soggetto necessa- rio della trasformazione; lo riconosce “risorsa endogena” dello svilup- po locale; - introduce processi interattivi con questo attore sociale come percor- so di formazione del progetto di territorio e di qualità di vita; sia nel- l’interpretazione (strutture e statuti di territorio) che nella proposta di valorizzazione (opzioni, immagini e regole); - il progetto assume quindi, come base e struttura, consapevolezza e responsabilità sociale di territorio sanciti nella produzione di statuti condivisi ed in patti civili di scelte strategiche, come base dei processi di governo e amministrazione. La concezione di scenario su cui opera la ricerca è quindi luogo e strumento di espressione di questa complessità di temi, nodi, soggetti, forme di interazione. Questo scenario è quindi un costrutto interattivo che esprime progetto strategico di territorio mediante interpretazioni condivise statuite e opzioni e figure di trasformazione pattuite; e che si finalizza ad un’at- tivazione della società insediata come risorsa endogena, in un oriz- zonte di autosostenibilità. Si tratta di un’opzione di fondo, assai connotata che può essere consi- derata, sostanzialmente, come approccio comune di base assunto dal- la ricerca del network; un approccio che la ricerca conduce al proces- so di verifica, ed alla definizione di metodi e strumentazione (ed intro- duce al dialogo maturo, si è detto, con altri approcci). Un’opzione comune che le diverse sedi assumono e interpretano con diverse modalità e contributi, anche fortemente differenziati ma co- munque “lavorando attorno” a questo orizzonte di senso dello scena- rio ed a questo modo di situarlo nel contesto strategico. Va aggiunto che questo comune approccio introduce un’altra proprie- tà della forma dello scenario, anch’essa sostanzialmente condivisa nella ricerca. L’approccio che si è configurato tende a definire sin dall’inizio del processo i termini della posta in gioco (il patrimonio territoriale, i valo- ri e la criticità, si è detto, le invarianti e gli statuti); ed a giocare appun- to questa posta “nel processo” interattivo che definisce lo scenario. Conduce a discutere nel processo le continue alternative, a schierarsi
  • 16. 30 Giorgio Ferraresi, Bernardo Rossi-Doria progressivamente, non a produrre alternative consolidate che riman- gono aperte artificiosamente. Lo scenario si pone come un esito definito di progetto (di indirizzi prevalenti, di opzioni e regole preferenziali, di direzioni di lavoro emer- genti) di un processo discorsivo, progressivamente costruito dalla ar- gomentazione sulla base del riconoscimento condiviso dei valori terri- toriali. Verso “una” opzione riconosciuta, “una” visione comunicabi- le, una” intenzionalità dichiarata. Ci si discosta chiaramente, quindi, da ogni concezione della “simula- zione neutrale” di molti esiti possibili, per convenzione iniziale equi- valenti, tra cui scegliere in base a criteri o indicatori “oggettivi” o pre- ordinati fuori del processo definito dal discorso comune e interattivo. Ciò significa porsi completamente fuori del gioco dello scenario come produzione di visioni plurime in competizione. Anche se, lo si ripete, la ricerca esamina anche questi approcci allo scenario plurimo; ma si tratta di comparazione con “altro” rispetto ai processi in corso analiz- zati da vicino ed alle radici della ricerca suddette. Lo scenario di questa ricerca esprime al contrario un quadro di riferi- mento che pone in discussione ”inizialmente” una discriminante stra- tegica (distruzione di territorio/produzione di valore territoriale e te- matiche di “sviluppo” connesse); ed è l’argomentazione nel pro- cesso a produrre una scelta che è un’assegnazione di senso al pro- getto e al governo del territorio; su cui si accentra il patto sociale di indirizzo e attivazione di linee di piano, di politiche, di progetti specifici. Si pone in evidenza, infine, che questa concezione di scenario, come costrutto in un processo discorsivo ed interattivo, comporta per la ri- cerca una modalità prevalente nella scelta degli oggetti e campi di rife- rimento dello studio e quindi dei casi considerati. Si privilegia infatti, in coerenza con quell’assunto di costruzione so- ciale, l’analisi (autoanalisi) di processi vivi, di sperimentazioni in cor- so, di ricerche in campo in cui il discorso dello scenario è messo al lavoro dentro relazioni sociali/istituzionali con cui gli operatori di ri- cerca stanno dialogando operativamente; dentro cioè “laboratori terri- toriali” che coinvolgano la ricerca nella sperimentazione diretta, “den- tro” l’interazione. E si tratta spesso di casi già in parte esplorati dalle precedenti ricerche sulla interpretazione del territorio, dei suoi atlanti e statuti e delle loro rappresentazioni che sfociano qui nella rappresentazione di scenario; sviluppando quindi verso il progetto i temi già depositati di conoscen- za/coscienza di territorio, generando prodotti sul terreno arato: oppure sviluppando altrove o in contesti più larghi percorsi e questioni emersi da casi precedenti. Appunto questa tipologia e collocazione dei casi non solo consente di praticare l’interazione come fondazione dello scenario ma anche di con-vivere la storia dei territori e dei patrimoni teorici ed esperienziali acquisiti in quei contesti.
  • 17. 31 Scenari strategici come progetto di territorio 2.3 L’articolazione dentro un quadro comune Questa concezione dello scenario viene quindi proposta, argomentata e articolata nelle diverse strutture territoriali di cui le ricerche di sede trattano; affrontando una generale condizione (che tende ad essere pervasiva) di degrado, frammentazione e negazione dei caratteri distinti- vi dei luoghi verso processi di ricostruzione del valore territoriale. In alcuni contesti questi processi di frammentazione e diffusione per- vasiva assumono caratteri estremi e quasi paradigmatici di una meta- condizione comune, come nel caso delle regioni urbane estese del nord ove i caratteri “strutturali” del postfordismo sono più espliciti e domi- nanti e dove la concezione dello scenario territorialista risulta più di- rettamente “antagonista” (cfr. p.es. Ferraresi [2004a]). Ma le espressioni di questa condizione sono comunque plurime, se- condo differenze locali e d’aree regionali. La ricerca interpreta questa differenze e quindi produce approcci dif- ferenziati, nelle ricerche di sede, allo scenario territorialista entro un approccio fondamentale condiviso. Riferimenti bibliografici Bonomi A., De Rita G. [1998], Manifesto per lo sviluppo locale, Bollati Borin- ghieri, Torino. Bonomi A., Abruzzese A. (a cura di) [2004], La città infinita, Triennale di Milano, materiali rielaborati negli atti del seminario DiAP, Politecnico di Milano. Davis M. [2004], Città morte. Storie di inferno metropolitano, Feltrinelli, Milano. Ferraresi G. [2004a], “Dopo il modello metropolitano. La regione milanese come territorio delle differenze: le reti del locale strategico”, Territorio, n. 29/30, numero doppio speciale. Ferraresi G. [2004b], “Il paesaggio volontario”, in Pagani L. (a cura di) [2004], Corsi d’acqua ed aree di sponda: per un progetto di valorizzazione, Quaderni della Università degli studi di Bergamo, Centro Studi sul Territorio, Bergamo University Press, Edizioni Sestante. Ferraresi G. [2005], “Forma e figurazione di mappe per la costruzione condivisa di consapevolezza del territorio; una tesi sulla rappresentazione identitaria del locale strategico: quadro problematico, metodo, linguaggio, efficacia”, in Ma- gnaghi A. (a cura di), La rappresentazione identitaria del territorio. Atlanti, codici, figure, paradigmi per il progetto locale, Alinea, Firenze. Indovina F. (a cura di) [1990], La città diffusa, DAEST, Venezia. Insolera I. [1962], Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Einaudi, Torino. Magnaghi A. (a cura di) [1990], Il Territorio dell’Abitare. Lo sviluppo locale come alternativa strategica, Franco Angeli, Milano. Magnaghi A. [2000], Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino. Palermo P.C. (a cura di) [1997], Linee di assetto e scenari evolutivi della regione urbana milanese. Atlante delle trasformazioni insediative, quaderni del Dipar- timento di scienze del territorio, Franco Angeli, Milano. Pasqui G. [2002], Confini milanesi Processi territoriali e pratiche di governo, Franco Angeli, Milano. Piccinato L. [1959]. “L’esperienza del PRG di Roma”, Urbanistica, n. 28-29. Urbanistica 28-29 [1959], INU, Roma. Rossi-Doria B. [2003], “La Sicilia: da Regione del Mezzogiorno a periferia del- l’Europa forte”, in A sud di Brodbignagh, F. Angeli, Milano.