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L’ETICA DI SOCRATE
(adattato da: Abbagnano N., Fornero G., I nodi del pensiero, vol.1, Pearson 2017)
Anche l’etica socratica, presentata talvolta come un “miracolo spirituale” rispetto
all’epoca in cui visse il filosofo e alle posizioni dei sofisti, affonda in realtà le proprie
radici nel tessuto culturale dell’Atene del V secolo a.C., pur giungendo a esiti nuovi
e originali.
La virtù come ricerca del bene e come scienza
Il punto-chiave della morale di Socrate è la sua nuova concezione della “virtù”. Con
questo termine (in greco areté) i Greci intendevano, in generale, il modo di essere
ottimale di qualcosa: ad esempio, la forza era la virtù del leone. Riferito alle
persone, il concetto di virtù indicava dunque la maniera ottimale di essere uomini
e, quindi, il modo migliore di comportarsi nella vita (incarnato, secondo la
tradizione omerica, nei valori del coraggio in battaglia, della vigoria fisica e
dell’onore).
Tradizionalmente, inoltre, la virtù veniva considerata come qualcosa di dato, ossia
di garantito dalla nascita o dagli dèi. I sofisti invece avevano sostenuto che la virtù
non è un dono, ma un valore o un fine che deve essere umanamente cercato e
conquistato con sforzo e impegno. Virtuosi non si nasce, ma si diventa attraverso la
paidéia, cioè attraverso l’educazione e la cultura. Anche Socrate afferma che la virtù
è una faticosa conquista, in quanto l’essere pienamente uomini è il frutto di un’arte
che è la più difficile da apprendere.
Socrate sostiene inoltre che la virtù è sempre “scienza”, cioè una forma di sapere o
un prodotto della mente. Secondo il suo punto di vista, per essere uomini nel modo
migliore è indispensabile riflettere, cercare e ragionare: ovvero è indispensabile fare
filosofia nel senso più vasto del termine.
Tanto più che, secondo Socrate, non esistono il Bene e la Giustizia come entità
metafisiche già costituite, poiché il bene e il giusto sono valori umani che
scaturiscono di volta in volta dal nostro lucido ragionare.
La concezione della virtù come scienza e come ricerca intellettuale, e della vita come
avventura disciplinata dalla ragione, rappresenta il senso profondo dell’etica
socratica, che per questo è stata riconosciuta come una forma di razionalismo
morale.
Con l’espressione «razionalismo morale» si indica la dottrina filosofica che
assegna alla ragione ed all’intelligenza la direzione della vita, nella convinzione che
per agire moralmente bene siano indispensabili la conoscenza e la riflessione.
La virtù socratica può essere insegnata e comunicata a tutti e deve costituire il
patrimonio di ogni uomo. Secondo Socrate, infatti, non basta che ciascuno conosca il
proprio mestiere, poiché bisogna che ciascuno impari bene anche il mestiere di
vivere ossia la scienza del bene e del male.
Virtù, felicità e politica
Dalla propria concezione della virtù Socrate trae alcune conclusioni di fondo.
In primo luogo, la virtù è unica, in quanto quelle che gli uomini chiamano le virtù
non sono altro che modi di essere al plurale di quell’unica virtù che è la scienza del
bene.
In secondo luogo, Socrate tende a far coincidere il campo delle virtù umane con i
valori dell’interiorità e della ragione, cioè con quella sfera che Platone chiamerà
“anima”.
Socrate ha operato una rivoluzione della tradizionale tavola dei valori, poiché per
lui i valori veri non sono quelli legati alle cose esteriori (come la ricchezza, la
potenza, la fama) e nemmeno quelli legati al corpo (come la salute fisica e la
bellezza), ma solamente i valori dell’anima.
Tuttavia, la virtù socratica non va interpretata in senso ascetico, ma come un modo
di essere che mira all’utilità e alla felicità. In questo senso la morale di Socrate è
una forma di eudaimonismo (dal greco eudaimonía, “felicità”), perché vede nel
raggiungimento della felicità lo scopo ultimo di ogni azione umana.
In altre parole, per Socrate la virtù non è una negazione della vita, ma un suo
potenziamento tramite la ragione, ossia un calcolo intelligente finalizzato a
rendere migliore e più felice la nostra vita. Infatti, secondo Socrate, solo il virtuoso
(che segue i dettami della ragione) è felice, mentre il non virtuoso si abbandona a
istinti che alla lunga lo rendono infelice. Di fronte al caos degli istinti, Socrate ha
voluto proporre all’uomo l’ordine della ragione, senza abolire i valori vitali ma
semplicemente sottoponendoli alla disciplina della ragione.
In terzo luogo, la virtù di cui parla Socrate tende a risolversi nella politicità, poiché
l’arte del saper vivere (essendo l’uomo un essere sociale) si concretizza nel saper
vivere con gli altri. Una politica così intesa consiste nel “ragionare insieme” sulle
cose della città per farne scaturire il bene comune.
Presso i Greci la parola eudaimonía (letteralmente “un buon dèmone”) indicava
una condizione di felicità dovuta allo star bene con se stessi, ovvero con il proprio
“dèmone” interiore. Il termine «eudaimonismo» indica ogni dottrina che, come
quella socratica, assume come principio e movente della vita morale la felicità,
facendo coincidere la virtù con il bene capace di rendere felice l’uomo.
I paradossi dell’etica socratica
Dalla concezione socratica della virtù come scienza derivano due “paradossi” che
rimarranno celebri nella storia del pensiero morale.
Il primo è l’idea secondo cui nessuno compie il male volontariamente, pertanto chi
fa il male lo fa per ignoranza del bene. Socrate intende dire che nessuno compie il
male in modo consapevole, ossia sapendo davvero che si tratta di un male, poiché
chi opera il male è soltanto un individuo che ignora quale sia il vero bene. Quando
si agisce, infatti, si fa sempre ciò che si ritiene essere per noi un bene, e se si scambia
un vizio per un bene, ciò è dovuto all’ignoranza.
A causa delle equazioni virtù=conoscenza e vizio=ignoranza, Socrate è stato
accusato nei secoli di sopravvalutare la funzione dell’intelletto nel comportamento
umano, dimenticando il ruolo della volontà e la forza della parte istintivo-affettiva
della nostra psiche. Talvolta, in effetti, sappiamo lucidamente quale sia il bene, ma
poi agiamo male: per questo è stato accusato di “intellettualismo etico” poiché, non
dando sufficiente importanza ai fattori emotivi, avrebbe esagerato la potenza della
ragione.
Un altro paradosso del socratismo, almeno rispetto alla mentalità greca del tempo, è
la massima secondo cui è preferibile subire il male piuttosto che commetterlo.
Questo principio, che è sembrato di sapore pre-cristiano, è basato sulla convinzione
che solo la virtù e la giustizia rendono l’uomo felice, mentre l’immoralità e
l’ingiustizia gli portano, alla lunga, solo infelicità.
Con l’espressione «intellettualismo etico» si intende la posizione di quei filosofi secondo i
quali la condotta morale dell’uomo dipende essenzialmente dalla ragione e dalla
conoscenza: chi conosce il bene agisce anche bene, mentre chi non sa cos’è il vero bene
tende ad agire male. A questa posizione si contrappone il «volontarismo etico», secondo
cui il comportamento morale dipende invece non dalle convinzioni dell’intelletto, ma da
una scelta della volontà: pertanto chi commette il male non lo fa per ignoranza del bene,
ma perché, pur sapendo qual è il bene, decide ugualmente di scegliere il male.

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  • 1. L’ETICA DI SOCRATE (adattato da: Abbagnano N., Fornero G., I nodi del pensiero, vol.1, Pearson 2017) Anche l’etica socratica, presentata talvolta come un “miracolo spirituale” rispetto all’epoca in cui visse il filosofo e alle posizioni dei sofisti, affonda in realtà le proprie radici nel tessuto culturale dell’Atene del V secolo a.C., pur giungendo a esiti nuovi e originali. La virtù come ricerca del bene e come scienza Il punto-chiave della morale di Socrate è la sua nuova concezione della “virtù”. Con questo termine (in greco areté) i Greci intendevano, in generale, il modo di essere ottimale di qualcosa: ad esempio, la forza era la virtù del leone. Riferito alle persone, il concetto di virtù indicava dunque la maniera ottimale di essere uomini e, quindi, il modo migliore di comportarsi nella vita (incarnato, secondo la tradizione omerica, nei valori del coraggio in battaglia, della vigoria fisica e dell’onore). Tradizionalmente, inoltre, la virtù veniva considerata come qualcosa di dato, ossia di garantito dalla nascita o dagli dèi. I sofisti invece avevano sostenuto che la virtù non è un dono, ma un valore o un fine che deve essere umanamente cercato e conquistato con sforzo e impegno. Virtuosi non si nasce, ma si diventa attraverso la paidéia, cioè attraverso l’educazione e la cultura. Anche Socrate afferma che la virtù è una faticosa conquista, in quanto l’essere pienamente uomini è il frutto di un’arte che è la più difficile da apprendere. Socrate sostiene inoltre che la virtù è sempre “scienza”, cioè una forma di sapere o un prodotto della mente. Secondo il suo punto di vista, per essere uomini nel modo migliore è indispensabile riflettere, cercare e ragionare: ovvero è indispensabile fare filosofia nel senso più vasto del termine. Tanto più che, secondo Socrate, non esistono il Bene e la Giustizia come entità metafisiche già costituite, poiché il bene e il giusto sono valori umani che scaturiscono di volta in volta dal nostro lucido ragionare. La concezione della virtù come scienza e come ricerca intellettuale, e della vita come avventura disciplinata dalla ragione, rappresenta il senso profondo dell’etica socratica, che per questo è stata riconosciuta come una forma di razionalismo morale. Con l’espressione «razionalismo morale» si indica la dottrina filosofica che assegna alla ragione ed all’intelligenza la direzione della vita, nella convinzione che per agire moralmente bene siano indispensabili la conoscenza e la riflessione.
  • 2. La virtù socratica può essere insegnata e comunicata a tutti e deve costituire il patrimonio di ogni uomo. Secondo Socrate, infatti, non basta che ciascuno conosca il proprio mestiere, poiché bisogna che ciascuno impari bene anche il mestiere di vivere ossia la scienza del bene e del male. Virtù, felicità e politica Dalla propria concezione della virtù Socrate trae alcune conclusioni di fondo. In primo luogo, la virtù è unica, in quanto quelle che gli uomini chiamano le virtù non sono altro che modi di essere al plurale di quell’unica virtù che è la scienza del bene. In secondo luogo, Socrate tende a far coincidere il campo delle virtù umane con i valori dell’interiorità e della ragione, cioè con quella sfera che Platone chiamerà “anima”. Socrate ha operato una rivoluzione della tradizionale tavola dei valori, poiché per lui i valori veri non sono quelli legati alle cose esteriori (come la ricchezza, la potenza, la fama) e nemmeno quelli legati al corpo (come la salute fisica e la bellezza), ma solamente i valori dell’anima. Tuttavia, la virtù socratica non va interpretata in senso ascetico, ma come un modo di essere che mira all’utilità e alla felicità. In questo senso la morale di Socrate è una forma di eudaimonismo (dal greco eudaimonía, “felicità”), perché vede nel raggiungimento della felicità lo scopo ultimo di ogni azione umana. In altre parole, per Socrate la virtù non è una negazione della vita, ma un suo potenziamento tramite la ragione, ossia un calcolo intelligente finalizzato a rendere migliore e più felice la nostra vita. Infatti, secondo Socrate, solo il virtuoso (che segue i dettami della ragione) è felice, mentre il non virtuoso si abbandona a istinti che alla lunga lo rendono infelice. Di fronte al caos degli istinti, Socrate ha voluto proporre all’uomo l’ordine della ragione, senza abolire i valori vitali ma semplicemente sottoponendoli alla disciplina della ragione. In terzo luogo, la virtù di cui parla Socrate tende a risolversi nella politicità, poiché l’arte del saper vivere (essendo l’uomo un essere sociale) si concretizza nel saper vivere con gli altri. Una politica così intesa consiste nel “ragionare insieme” sulle cose della città per farne scaturire il bene comune. Presso i Greci la parola eudaimonía (letteralmente “un buon dèmone”) indicava una condizione di felicità dovuta allo star bene con se stessi, ovvero con il proprio “dèmone” interiore. Il termine «eudaimonismo» indica ogni dottrina che, come quella socratica, assume come principio e movente della vita morale la felicità, facendo coincidere la virtù con il bene capace di rendere felice l’uomo.
  • 3. I paradossi dell’etica socratica Dalla concezione socratica della virtù come scienza derivano due “paradossi” che rimarranno celebri nella storia del pensiero morale. Il primo è l’idea secondo cui nessuno compie il male volontariamente, pertanto chi fa il male lo fa per ignoranza del bene. Socrate intende dire che nessuno compie il male in modo consapevole, ossia sapendo davvero che si tratta di un male, poiché chi opera il male è soltanto un individuo che ignora quale sia il vero bene. Quando si agisce, infatti, si fa sempre ciò che si ritiene essere per noi un bene, e se si scambia un vizio per un bene, ciò è dovuto all’ignoranza. A causa delle equazioni virtù=conoscenza e vizio=ignoranza, Socrate è stato accusato nei secoli di sopravvalutare la funzione dell’intelletto nel comportamento umano, dimenticando il ruolo della volontà e la forza della parte istintivo-affettiva della nostra psiche. Talvolta, in effetti, sappiamo lucidamente quale sia il bene, ma poi agiamo male: per questo è stato accusato di “intellettualismo etico” poiché, non dando sufficiente importanza ai fattori emotivi, avrebbe esagerato la potenza della ragione. Un altro paradosso del socratismo, almeno rispetto alla mentalità greca del tempo, è la massima secondo cui è preferibile subire il male piuttosto che commetterlo. Questo principio, che è sembrato di sapore pre-cristiano, è basato sulla convinzione che solo la virtù e la giustizia rendono l’uomo felice, mentre l’immoralità e l’ingiustizia gli portano, alla lunga, solo infelicità. Con l’espressione «intellettualismo etico» si intende la posizione di quei filosofi secondo i quali la condotta morale dell’uomo dipende essenzialmente dalla ragione e dalla conoscenza: chi conosce il bene agisce anche bene, mentre chi non sa cos’è il vero bene tende ad agire male. A questa posizione si contrappone il «volontarismo etico», secondo cui il comportamento morale dipende invece non dalle convinzioni dell’intelletto, ma da una scelta della volontà: pertanto chi commette il male non lo fa per ignoranza del bene, ma perché, pur sapendo qual è il bene, decide ugualmente di scegliere il male.