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IO E MARCELLO
Una sua breve scheda
Marcello Marchesi. Giornalista, sceneggiatore (insieme all’inseparabile Metz,
ha scritto quasi tutti i film di Totò), regista cinematografico e teatrale, paroliere
e comico durante le prime, storiche esperienze televisive nazionali (fra tutte, Il
Signore di Mezza’età). Intellettuale curioso, secondo molti il primo, vero
esemplare italiano di moderno copywriter. Autore di oltre 4.000 caroselli e
slogan pubblicitari, alcuni dei quali rimasti nella storia della televisione
nazionale (da Basta la Parola, per il lassativo Falqui, a Contro il logorio della
vita moderna per Cinar, da Non è vero che tutto fra brodo per il dado
Lombardi al Brandy che crea un’atmosfera per Vecchia Romagna ). Come
talent scout ha scoperto e lanciato Walter Chiari, Mike Bongiorno, Gino
Bramieri, Mario Riva, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Gianni Morandi e Age
e Scarpelli. E’ stato una delle figure d‘intellettuale più avanzate del novecento,
eclettico e curioso dei più disparati saperi. Ha coniato epiteti celeberrimi per
personaggi famosi (Chi non muore si risiede per Giulio Andreotti; Il Petto
Atlantico per Gina Lollobrigida , il Dottor Divago per Aldo Moro ) e ha lasciato
memorabili aforismi (Tra tutti :).Di sé diceva: ho una carriera così lunga da
farmi venire il sospetto che in realtà io sia mio figlio.
Il MIO RICORDO DI LUI in un’intervista rilasciata a Rinaldo Vignati,
docente di sociologia politica ed esperto di storia del cinema che, dopo aver
letto gli inediti di Marcello Marchesi, su concessione del figlio Massimo,
ha voluto saperne di più.
L’intervista s’intitola:
MARCELLO MARCHESI: IL DIFETTO DELLA FACILITÀ
Premessa
Uno dei misteri del cinema italiano riguarda i motivi che hanno portato Marcello Marchesi,
sceneggiatore di grande successo, ad abbandonare il cinema negli anni ‘70 (mentre il suo
amico e collega Vittorio Metz continuava a gran ritmo a firmare nuove commedie). Ne
abbiamo parlato con Gino Capone, sceneggiatore di numerosi film di genere (soprattutto
commedie), che nella prima metà di quel decennio frequentò Marchesi e scrisse con lui
diversi soggetti rimasti inediti (oggi sono custoditi dall’Associazione Marcello Marchesi e
usciranno dei saggi che li esaminano su “Cabiria”, la rivista del Cinit, a partire dal n. 189).
2. 2
Quando ha conosciuto Marchesi?
Ho conosciuto Marcello nel ’72, tra la primavera e l’estate. Cenammo in uno dei ristoranti
che affacciano su piazza Navona. A volere l’incontro era stato il produttore e attore Mauro
Parenti. Per lui avevo già scritto due film [Fhenonemal e Zenabel, di Ruggero Deodato, ndr].
Non ricordo come avesse conosciuto Marchesi, ma stava progettando di realizzare un film
scritto da lui e voleva che io collaborassi alla sceneggiatura. Doveva essere una sorta di satira
sul Vaticano che, se non ricordo male, s’intitolava Le Tre dita (quelle benedicenti) del
Potere. Credo che oltre al titolo e all’idea di farne una satira non ci fosse altro. Ne parlammo
un po’ quella sera ma poi non se ne fece più nulla. Con Marcello però mi vidi ancora.
Avevamo fraternizzato subito e, nonostante una rilevante differenza di età, continuammo a
frequentarci.
E quando iniziaste a scrivere qualcosa assieme?
Al ritorno dalle vacanze ci rivedemmo e gli mostrai un Super8 che avevo girato in estate
per il trastullo di amici e compaesani in Puglia. S’intitolava Cilindri e Scarponi ed era la
storia di un ricco signore (il “cilindro”) e di un contadino (gli “scarponi”) che morivano e si
ritrovavano, a sorpresa, in un aldilà completamente diverso da quello propagandato dalle
fonti competenti. Era collocato in una cava di tufo, con un clown (Pagnotta) al posto di San
Pietro; un Cristo, circondato dagli apostoli e incazzato nero con i preti, e un San Giuseppe
con Signora sempre impegnati a far le prove per il presepe. Non s’istruivano giudizi di sorta,
né individuali né universali, per cui non si comminavano castighi né si elargivano premi, di
conseguenza niente Purgatorio e niente Inferno. C’erano solo tre Parche, che si limitavano a
prendere atto dell’autocertificazione che le anime rilasciavano all’arrivo. Il contadino, però,
chiede a Pagnotta di poter tornare giù dalla moglie e ottiene di incontrarla entrando nei suoi
sogni. Ha così modo di constatare che moglie e figli hanno conservato i valori che lui aveva
inculcato loro. Gli eredi del ricco signore, invece, liberatisi della sua presenza ingombrante,
sperperano quanto lui aveva accumulato.
Avevo letto il soggetto proposto a Celentano (mi ha consentito di leggerlo il figlio di
Marchesi, Massimo) ma non sapevo che nascesse da un suo Super8. Esiste ancora
questo filmino?
Certamente. Esiste e come.
E Marchesi che ne disse?
Marcello rimase entusiasta del filmino, anche, bontà sua, per come era girato, e mi disse
che lo avrebbe proposto a Celentano. Poi mi disse che lo aveva raccontato a Gaber e poi…
e poi passammo ad altro.
Cioè? A quali altri progetti vi dedicaste?
A La Donna Prete, un mio soggetto che avremmo dovuto sviluppare insieme. Questo
mancò poco che lo realizzassimo, con Sofia Loren come protagonista e prodotto da Carlo
Ponti che ce lo opzionò dandoci anche un assegno, che io conservo ancora (in fotocopia). In
quell’occasione Ponti ci riferì un episodio che la dice lunga sul mestiere dello sceneggiatore.
Riguardava una sceneggiatura che Ponti aveva commissionato, non ricordo se a Benvenuti
e De Bernardi o ad Age e Scarpelli, ma poco importa. Dopo aver ricevuto il copione, Ponti
convoca i due sceneggiatori in ufficio. Dice che l’ha letto e che trova il primo tempo perfetto,
mentre nel secondo sente che c’è qualcosa che non va. Cosa? Qualcosa. E invita i due a
rimettere mano al copione. I due lo fanno e dopo dieci giorni gli rimandano la nuova versione
con un’unica modifica. Ogni venti pagine ne hanno aggiunta una con su scritto: Ponti è uno
stronzo. Dopo qualche giorno, come i due sceneggiatori avevano previsto, Ponti li chiama,
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soddisfatto, e gli dice che il copione è perfetto. Ovviamente, tempo dopo i due gli dissero la
verità e Ponti, che era uomo di mondo tanto da raccontare l’episodio senza problemi, si fece
una gran risata.
Ne ho letti diversi di episodi simili a questo…
Gli sceneggiatori sono autentici figli di gran puttana. Marchesi e Metz andavano agli incontri
con il produttore di turno provvisti ciascuno di un blocco-notes, spacciato come ricco di
appunti ma in realtà in bianco, che sfogliavano improvvisando la storia richiesta, ma
modificandola al momento a seconda dell’espressione o della reazione del produttore a
questo o a quello snodo narrativo. Se sobbalzava quando, per esempio, raccontavano che ad
un certo punto della storia il protagonista moriva, ecco che inventavano al momento la
trovata per farlo resuscitare nella scena successiva. E così uscivano dall’ufficio del
produttore con in mano il canovaccio del film, già approvato, e in tasca l’assegno per
completarlo.
Tornando a La Donna Prete, come andò?
Ponti ci disse che Sofia voleva una regia francese per cui bisognava cercare un regista
d’oltralpe. Non so quanto fu fatto per trovarlo ma su questa ricerca il progetto si arenò. Lo
ribattezzammo La Ragazza Prete (sottotitolo Francesca) per proporlo a un’attrice più
giovane (la Melato?), ma neanche questo sortì alcun effetto. Credo che nello stesso periodo,
a cavallo tra il ’74 e il ’75, scrivemmo insieme Quattro Donne. L’intento era quello di
coinvolgere quattro “grosse” attrici, ma neanche questo diventò mai una sceneggiatura.
Intanto con Marcello continuavamo a frequentarci anche con le rispettive famiglie, la mia
certificata e già con prole, la sua ancora in attesa di un timbro che la certificasse. E così nella
primavera del ’75 mi raggiunse in Puglia con Enrica, la sua deliziosa promessa sposa, dove
io, annualmente, realizzavo nel mio antico paese d’origine (Oria) una rievocazione storica,
da me ideata, imperniata su Federico II e i quattro rioni cittadini. Si tiene ancora oggi con
successo, ma in agosto ed è diretta da altri. Nello stesso anno sviluppammo a livello di
trattamento un soggetto di Marcello, bellissimo, Il Leone e la Gazzella, che aveva qualcosa
di autobiografico. Era la storia di un uomo molto maturo, e anche un po’ superficiale, che,
non credendo all’amore assoluto che gli dichiarava una giovanissima ragazza, incontrata
casualmente e poi portata in casa, pensa che sia la Morte, presentatasi sotto mentite spoglie,
e la uccide. Volevamo come interprete Tognazzi, o in seconda battuta Mastroianni, ma anche
questo progetto non vide la luce, come gli altri.
Ma a che stadio arrivarono questi progetti? Ci furono dei tentativi di realizzarli o
rimasero solo sulla carta?
È incredibile. Escluso La Donna Prete, non ricordo se gli altri li proponemmo a qualcuno
o meno. Mi sa che ci accontentavamo di progettarli e basta. Viene anche da chiedersi quale
fosse la molla inconscia, o conscia, che spingeva un “numero uno” come Marcello, grande
quanto mio padre, ad interagire con me, giovane neo sceneggiatore con un solo film di
successo, e a voler collaborare allo sviluppo dei miei lavori. A volte mi confidava che gli
ero piaciuto subito come sceneggiatore per la capacità di riflettere, di ponderare. Per questo
gli piacevano le mie storie.
Ci sono altri lavori?
Sempre nel ‘75 gli proposi un altro mio soggetto, Il Brutto Anatroccolo. Era la storia di
un uomo brutto, sfigato ed emarginato, clown in un circo, che però aveva tali e tante doti
umane da trasformarsi in un cigno nell’incontro con una bellissima funambola innamoratasi
perdutamente di lui. L’avevo scritto pensando di utilizzare Alvaro Vitali, affidandogli un
4. 4
ruolo un po’ più impegnato dei suoi soliti. Lo ribattezzammo Con Quella Faccia perché
Marcello, sempre con il proposito di lanciare in A un attore di B, ne parlò a Franco Franchi,
che rimase folgorato dall’idea ma contropropose di trasformarlo in un testo teatrale per Il
Sistina, e con Gina Lollobrigida come sua partner. Sembrava fatta, invece si arenò anche
quel progetto, mi pare per il rifiuto della Lollobrigida di fare coppia con Franco Franchi. Il
brutto anatroccolo diventa cigno solo nelle favole.
L’anno successivo, gli proposi un’altra storia, sempre da sceneggiare insieme.
S’intitolava Violino Tzigano ed era la storia di una zingara, una ragazza rom (sempre la
Melato) che entrava in conflitto con i suoi pur di integrarsi e diventare “gagè”, termine
dispregiativo con cui i Rom definiscono chi non è come loro. Ma ricordo che Marcello mi
venne a trovare a casa, e mi disse che, causa impegni televisivi pressanti, non poteva
collaborare allo sviluppo di quel progetto.
Da allora mi pare che non avete più scritto nulla assieme…
Successivamente, lui sempre più preso dagli impegni televisivi, io da un genere di film
(il poliziesco) che avevo accettato di cominciare a frequentare per motivi puramente
alimentari, non progettammo più nessun lavoro da fare insieme, ma continuammo a
frequentarci come amici. Presenziai al suo matrimonio con Enrica (grande abbuffata
all’Antica pesa, l’ancora mitico ristorante romano in via Garibaldi) e ho assistito anche al
suo momento forse più bello: quando è diventato padre del piccolo Massimo.
Mi pare che il vostro non fosse un legame solo professionale ma anche umano…
Era un grande. Ricordo come fosse ieri la sera che andammo a vedere uno spettacolo di
cabaret diretto da Eros Macchi, un regista televisivo, e interpretato da Lucretia Love, che ci
aveva invitati. Si addormentò, a ragion veduta, alle prime battute e si risvegliò all’ultima ma
subito dopo, quando nei camerini, protagonista e regista gli chiesero cosa ne pensasse, parlò
per mezz’ora dello spettacolo facendo un’analisi dettagliata e dando anche dei suggerimenti.
Davvero grande. Posso dirlo con cognizione di causa. In quei pochi anni che ci siamo
frequentati ho avuto modo di apprezzare non solo l’artista (indiscusso) ma soprattutto
l’uomo (immenso). Era intelligenza pura e gli riusciva facile un’impresa apparentemente
impossibile. Impregnava le sue battute di grande cinismo senza essere cinico, a differenza di
Metz, suo co-sceneggiatore storico. Mi diceva che glielo ricordavo. Non per il cinismo, dote
carente anche in me, ma perché quando lavoravamo, causa i perfidi capricci del mio nervo
sciatico, ero costretto a prendermi tra le mani il ginocchio per sollevare l’anca dalla sedia e
lenire il dolore. Espediente empirico usato anche da Metz, afflitto come me da un nervo
sciatico capriccioso, quando lui e Marcello vivevano chiusi in albergo a scrivere
contemporaneamente svariati film.
Questo del cinismo mi sembra un punto chiave. Gianni Turchetta, un critico letterario
che ha studiato i testi di Marchesi, parlava di “sorprendente, esibita crudeltà”. Filippo
La Porta, parlava di “smascheramento del buonismo (anche se allora non si chiamava
così)”. Molte delle battute di Marchesi stanno sul crinale tra cinismo e satira del
cinismo: non si sa mai come vadano prese. Ed è questo che le rende irresistibili…
Ritornando al percorso di Marchesi, la domanda a cui non so darmi una risposta
precisa è perché dalla metà degli anni ’60 non firma più film che arrivano sugli schermi
(il suo ultimo titolo è La più bella coppia del mondo, 1967)…
Con Marcello, nottetempo, ci attardavamo spesso a chiacchierare, scambiandoci anche
confidenze intime. In alcune di queste capitò anche che Marcello esternasse punte di
rammarico legate al suo percorso professionale e umano, impensabili in un uomo di
indiscutibile successo come lui. Marcello vendette l’anima (intelletto e creatività) al
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commercio e alla Dea Pubblicità che gli hanno dato grande successo e compensi stratosferici
come creatore di slogan diventati pietre miliari. Ma la pubblicità è un altro mondo, lontano
anni luce dal pianeta cinema, e Marcello ne ha sempre sofferto l’astinenza. A un certo punto
lascia Milano, la pubblicità, i contratti milionari, e se ne torna a Roma esternando ne Il
Malloppo tutto il suo malessere per il vissuto da cui è appena fuggito.
Il malloppo è probabilmente il suo capolavoro. L’accumulo di battute, tra il geniale e il
triviale, si trasforma in un libro quasi sperimentale…
È un libro straordinario, in cui Marcello immagina di essere in ospedale afflitto da un
“malloppo” costituito dalle tante, tantissime parole che ha dovuto violentare, distorcere,
vivisezionare, per asservirle ai tassativi bisogni di estrema sintesi degli slogan. Parole che
ora si ribellano e scalciano in maniera violenta dentro di lui. Con Il Malloppo si era sfogato
ma non aveva detto tutto. Il suo vero rimpianto, ciò che più gli stava sullo stomaco me lo
confidò quasi di sfuggita, sempre durante uno di quei flash notturni. Si rammaricava che il
suo percorso artistico, sebbene costellato di successi su successi, fosse stato condizionato in
negativo dalla facilità con cui gli venivano le battute, gli aforismi, le gag. Una prerogativa
che, a suo dire, gli aveva interdetto la possibilità di approfondire temi, stati d’animo,
psicologie, condannandolo a una produzione di opere solo ed esclusivamente di facile
consumo. Era un’ammissione forte che solo un grande può arrivare a fare. E lui, lo ripeto,
era un grande. Un grande amico, un grande affetto, che è venuto a mancare troppo presto,
che tutt’ora mi manca e mi mancherà sempre.
Ho conosciuto Marcello nel '72 , tra la primavera e l'estate.
Cenammo all'aperto, in uno dei ristoranti che affacciano su
piazza Navona. A volere l'incontro era stato Mauro Parenti,
produttore e attore scomparso da tempo. Per lui avevo già
scritto due film, uno nel '67 , l'altro nel '69. Non ricordo
come avesse conosciuto Marchesi, ma stava progettando di
realizzare un film scritto da lui e voleva che io collaborassi alla
sceneggiatura. Doveva essere una sorta di satira sul Vaticano
che, se non ricordo male , s'intitolava Le Tre dita (quelle
benedicenti) del Potere. Credo che oltre al titolo e all'idea di farne
una satira non ci fosse altro. Ne parlammo un pò quella sera ma
poi non se ne fece più nulla. Con Marcello però mi vidi ancora.
Avevamo fraternizzato subito e, nonostante una rilevante
differenza di età, continuammo a frequentarci.
6. 6
Organizzammo anche una cena pugliese (mia regione natale) sul
suo bellissimo superattico in via Frattina, angolo via del Corso,
con orecchiette al sugo, preparate da mia moglie, e un bel pò di
gente, tra cui lo stesso Mauro Parenti con la moglie attrice ,
Lucretia Love, Maurizio Costanzo e due grossi personaggi RAI
che non sono più tra noi: Giovanni Salvi, un dirigente allora
molto importante, e Antonello Falqui, il re dei registi televisivi.
Al ritorno dalle vacanze estive, io in Puglia e Marcello in
Sardegna, ci rivedemmo e gli mostrai un film in Super8 ( allora
detto filmino) che avevo girato in estate su imput e per il
trastullo di amici e compaesani. S'intitolava Cilindri e Scarponi ed
era la storia di un ricco signore (il cilindro) e di un contadino (gli
scarponi) che morivano e si ritrovavano,a sorpresa , in un al di
là completamente diverso da quello propagandato dalle fonti
competenti. Era collocato in una cava di tufo e al posto di San
Pietro c'era un clown (Pagnotta);un Cristo, circondato dagli
apostoli e incazzato nero con i preti, e un San Giuseppe con
Signora sempre impegnati a far le prove per il presepe. Non
s'istruivano giudizi di sorta, nè individuali nè universali, per cui
non si comminavano castighi nè si elargivano premi, di
conseguenza niente Purgatorio e niente Inferno. C'erano solo
tre Parche , che si limitavano a prendere atto
dell'autocertificazione che le anime rilasciavano all'arrivo.
Olindo, però, il contadino, chiese a Pagnotta di poter tornare giù
dalla moglie, ma ottenne solo di incontrarla entrando nei suoi
sogni. Ebbe così modo di constatare che moglie e figli avevano
conservato e tiravano ancora avanti con i valori che lui aveva
inculcato loro. Gli eredi del ricco signore,invece, liberatisi della
sua presenza ingombrante , disattesero le sue imposizioni e
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vissero la vita che volevano sperperando quanto lui aveva
accumulato. Marcello rimase entusiasta del filmino , anche,
bontà sua, per come era girato, e mi disse che lo avrebbe
proposto a Celentano. Poi mi disse che lo aveva raccontato a
Gaber e poi..e poi passammo ad altro. Anche la Donna Prete, era
un mio soggetto che avremmo dovuto sviluppare insieme.
Questo mancò poco che lo realizzassimo, con Sofia Loren come
protagonista e prodotto da Carlo Ponti che ce lo opzionò
dandoci anche un assegno, che io conservo ancora (in
fotocopia). In quell'occasione Ponti ci riferì un'esipodio (termine
usato da Totò in qualche film firmato Marchesi & Metz) che la
dice lunga sul mestiere dello sceneggiatore. Lo riporto perché
rimanda in qualche modo ad un altro episodio, con protagonisti
sempre Marchesi & Metz , che dirò più avanti. Riguardava una
sceneggiatura che Ponti aveva commissionato , non ricordo se
a Benvenuti e De Bernardi o ad Age e Scarpelli , ma poco
importa. Entrambe le coppie erano grandi firme della commedia
all'italiana. Dopo aver ricevuto il copione, Ponti li convoca in
ufficio. Dice che l'ha letto e che trova il primo tempo perfetto,
mentre nel secondo sente che c'è qualcosa che non va. Cosa?
Qualcosa. E invita i due sceneggiatori a rimettere mano al
copione. I due lo fanno e dopo dieci giorni gli rimandano la
nuova versione con un'unica modifica. Ogni venti pagine ne
hanno aggiunta una con su scritto: Ponti è uno stronzo. Dopo
qualche giorno, come i due sceneggiatori avevano previsto ,
Ponti li chiama, soddisfatto, e gli dice che il copione è perfetto.
Ovviamente, tempo dopo i due gli dissero la verità e Ponti, che
era uomo di mondo tanto da raccontarla senza problemi, si fece
una gran risata. Tornando a La Donna Prete, invece, Ponti ci disse
8. 8
che Sofia voleva una regia francese per cui bisognava cercare un
regista d'oltralpe. Non so quanto fu fatto per trovarlo ma su
questa ricerca il progetto si arenò. Lo ribattezzammo La
Ragazza Prete (sottotitolo Francesca) per proporlo a un'attrice più
giovane (la Melato?) , ma neanche questo sortì alcun effetto.
Credo che nello stesso periodo, a cavallo tra il '74 e il '75,
scrivemmo insieme Quattro Donne. L'intento era quello di
coinvolgere quattro "grosse" attrici, ma neanche questo diventò
mai una sceneggiatura. Intanto con Marcello continuavamo a
frequentarci anche con le rispettive famiglie, la mia certificata e
già con prole (due bambine, di cui una nata da poco), la sua
ancora in attesa di un timbro che la certificasse. E così nella
primavera del '75 mi raggiunse in Puglia con Enrica, la sua
deliziosa promessa sposa, dove io, annualmente , realizzavo nel
mio antico paese d'origine (Oria) una rievocazione storica, da
me ideata, imperniata su Federico II e i quattro rioni cittadini.
Si tiene ancora oggi con successo, ma in agosto e diretta da altri.
Nello stesso anno sviluppammo a livello di trattamento un suo
soggetto, bellissimo, Il Leone e la Gazzella, che aveva qualcosa di
autobiografico. Era la storia di un uomo molto maturo, e anche
un po’ superficiale, che, non credendo all'amore assoluto che le
dichiarava una giovanissima ragazza, incontrata casualmente e
poi portata in casa, pensa che sia la Morte, presentatasi sotto
mentite spoglie, e la uccide. Volevamo come interprete
Tognazzi, o in seconda battuta Mastroianni, ma anche questo
progetto non vide la luce, come gli altri. E' incredibile, escluso
La Donna Prete, non ricordo se gli altri li proponemmo a
qualcuno o meno. Mi sa che ci accontentavamo di progettarli e
basta. Viene anche da chiedersi quale fosse la molla inconscia, o
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conscia, che spingeva un number one come Marcello, grande
quanto mio padre, ad interagire con me, giovane neo
sceneggiatore con un solo film di successo, e con i miei lavori
tanto da voler collaborare al loro sviluppo? Una ragione c'è , ed
è profonda. Forse si potrebbe anche intuire ma emergerà
chiaramente più avanti . Sempre nel '75 gli proposi un altro mio
soggetto, IL Brutto Anatroccolo . Era la storia di un uomo brutto,
sfigato ed emarginato, figlio di un nano ,clown in un circo, che
però aveva tali e tante doti umane da trasformarsi in un cigno
nell'incontro con una bellissima funambola innamoratasi
perdutamente di lui. L'avevo scritto pensando di utilizzare un
attore popolarissimo, Alvaro Vitali, impegnandolo in un film un
po’ più impegnato dei suoi. Lo ribattezzammo Con Quella Faccia
perché Marcello, sempre con il proposito di lanciare in A un
attore di B , ne parlò a Franco Franchi, che impazzì (gergo
cinematografico) ma contropropose di trasformarlo in un testo
teatrale per Il Sistina, e con Gina Lollobrigida come sua partner.
Sembrava fatta, invece si arenò anche quel progetto, mi pare per
il rifiuto della Lollobrigida di fare coppia con Franco Franchi. Il
brutto anatroccolo diventa cigno solo nelle favole. L'anno
successivo , gli proposi un'altra storia , sempre da sceneggiare
insieme. S'intitolava Violino Tzigano ed era la storia di una
zingara, una ragazza Rom (sempre la Melato) che entrava in
conflitto con i suoi pur di integrarsi e diventare Gagè, termine
dispregiativo con cui i Rom definiscono chi non è come loro.
Ma ricordo che Marcello mi venne a trovare a casa, dove
l'infiammo del nervo sciatico mi teneva inchiodato, e mi disse
che, causa impegni televisivi pressanti , non poteva collaborare
allo sviluppo di quel progetto, scusandosi poi con un'epistola
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consegnatami a mano dall'indimenticabile Luigi, suo fido
autista-tuttofare , dove mi pare che tra le righe emergesse una
motivazione diversa di quella addotta, come se accusasse un
certo disagio a trattare quella materia. Successivamente , lui
sempre più preso dagli impegni televisivi , io da un genere di
film (il poliziesco) che avevo accettato di cominciare a
frequentare per motivi puramente alimentari , non
progettammo più nessun lavoro da fare insieme, ma
continuammo a frequentarci come amici. Presenziai al suo
matrimonio con Enrica (grande abbuffata all' Antica pesa
,l'ancora mitico ristorante romano in via Garibaldi) e ho
assistito anche al suo momento forse più bello: quando è
diventato padre del piccolo Massimo che , sciaguratamente, lui
non ha avuto il piacere di veder crescere , così come il figlio
quello di conoscere cotanto padre. Un grande. Ricordo come
fosse ieri la sera che andammo a vedere uno spettacolo di
cabaret diretto da Eros Macchi, un regista televisivo, e
interpretato da Lucretia Love, che ci aveva invitati . Si
addormentò, a ragion veduta, alle prime battute e si risvegliò
all'ultima ma subito dopo, quando nei camerini , protagonista e
regista gli chiesero cosa ne pensasse, parlò per mezz'ora dello
spettacolo facendo un'analisi dettagliata e dando anche dei
suggerimenti. Davvero grande. Posso dirlo con cognizione di
causa. In quei pochi anni che ci siamo frequentati ho avuto
modo di apprezzare non tanto l'artista (indiscusso) quanto
l'uomo (immenso). Era intelligenza pura e gli riusciva facile
un'impresa apparentemente impossibile. Impregnava le sue
battute di grande cinismo senza essere cinico, a differenza di
Metz, suo cosceneggiatore storico. Mi diceva che glielo
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ricordavo. Non per il cinismo, dote carente anche in me, ma
perchè quando lavoravamo, causa i perfidi capricci del mio
nervo sciatico, ero costretto a prendermi tra le mani il ginocchio
per sollevare l'anca dalla sedia e lenire il dolore. Espediente
empirico usato anche Metz , afflitto come me da un nervo
sciatico capriccioso , quando lui e Marcello vivevano chiusi in
albergo a scrivere contemporaneamente un paio di film, come
minimo. Impresa in cui riuscivano benissimo perchè, autentici
figli di gran puttana come sceneggiatori, andavano agli incontri
con il produttore di turno provvisti ciascuno di un blocco-
notes, spacciato come ricco di appunti ma in realtà in bianco,
che sfogliavano improvvisando la storia richiesta, ma
modificandola al momento a seconda dell'espressione o della
reazione del produttore a questo o a quello snodo narrativo . Se
sobbalzava quando , per esempio, raccontavano che ad un certo
punto della storia il protagonista moriva, ecco che inventavano
al momento la trovata per farlo resuscitare nella scena
successiva. E così uscivano dall'ufficio del produttore con in
mano il canovaccio del film, già approvato, e in tasca l'assegno
per completarlo. Riporto quest'aneddoto, raccontatomi da
Marcello, per dire che nottetempo ci attardavamo spesso a
chiacchierare, scambiandoci anche confidenze intime. In alcune
delle quali capitò anche che Marcello esternasse punte di
rammarico legate al suo percorso professionale e umano ,
impensabili in un uomo di indiscusso e indiscutibile successo
come lui . La prima, quando negli anni '60 , abbagliato da una
nobildonna meneghina, lascia Roma ,e quindi il cinema ,per
trasferire la sua residenza a Milano e vendere l'anima (intelletto
e creatività ) ad un'altra anima nascente ma meno nobile , quella
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del commercio : la Dea Pubblicità. Sono anni di grande successo
e anche di compensi stratosferici come creatore di slogan
pubblicitari diventati pietre miliari, ma la meneghina , oltre ad
avere da sempre come amante segreto il classico amico di
famiglia, convince Marcello che è diventato un vecchio e lo
spinge a vivere di conseguenza. Ho visto con i miei occhi una
sua foto di quegli anni che lo ritrae seduto in poltrona, con un
plaid sulle gambe e la papalina in testa. E poi c'è la pubblicità,
che è un altro mondo lontano anni luce dal pianeta cinema, e
Marcello ne soffre l'astinenza. Ne soffre così tanto che un bel
giorno lancia in aria plaid e papalina , da un bel calcio alla
fedifraga meneghina e molla tutto: Milano , la pubblicità , i
contratti milionari , e se ne torna a Roma esternando ne Il
Malloppo tutto il suo malessere per il vissuto da cui è appena
fuggito. E' un libro geniale , in cui Marcello immagina di essere
in ospedale afflitto da un malloppo, appunto, annidatosi nello
stomaco e costituito dalle tante, tantissime parole che lui ha
dovuto violentare, distorcere, vivisezionare, per asservirle ai
tassativi bisogni di estrema sintesi degli slogan. Parole che ora si
ribellano e scalciano in maniera violenta dentro la sua pancia.
Con Il Malloppo si era sfogato ma non aveva detto tutto. Il suo
vero rammarico, ciò che più gli stava sullo stomaco me lo
confidò quasi di sfuggita, en passant, sempre durante uno di quei
flash notturni. A dire il vero più che en passant me lo disse di
carambola. Mentre mi confidava che gli ero piaciuto subito
come sceneggiatore per quella capacità di riflettere, di ponderare
che, bontà sua, mi riconosceva e mi invidiava , mi diceva,
rammaricandosene, che il suo percorso artistico, sebbene
costellato di successi su successi , era stato condizionato in
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negativo dalla facilità con cui gli venivano le battute , gli
aforismi, le gag . Una prerogativa che , a suo dire, gli aveva
interdetto la possibilità di approfondire temi, stati d'animo,
psicologie, condannandolo a una produzione di opere solo ed
esclusivamente di facile consumo. Ecco perché gli piacevano
anche le mie storie. Non erano di facile consumo. Infatti, sono
rimaste integre. Comunque era un'ammissione forte che solo un
grande può arrivare a fare . E lui, lo ripeto, era un grande. Un
grande amico , un grande affetto, che è venuto a mancare troppo
presto.. che tutt'ora mi manca e mi mancherà sempre.