La coltura del grano saraceno tra tradizione
e presente in Valtellina
Le tipicità sono determinate dall’insieme delle caratteristiche di un luogo e dagli adattamenti che l’uomo ha operato in esso.
le nostre piante economiche ve ne sono poche che diano al paesaggio una nota più lieta; le campagne coperte di grano saraceno assomigliano ad un vasto giardino di fiori bianchi e rosati, o variegati di verde, di rosso, di bianco, riuniti in diversi ciuffi sul sommo degli steli”.
– V. Giacomini -1955-”E noi pure raccogliamo la stessa impressione percorrendo d’autunno alcuni tratti della Valtellina, del Poschavino, dell’Alto Adige, e di altre valli alpine, dove biancheggiano vaste fioriture di Saraceno su tanta parte dei fianchi delle montagne.”
1. La coltura del grano saraceno tra tradizione
e presente in Valtellina
Dottoressa Giancarla Maestroni
Teglio
Le tipicità sono determinate dall’insieme delle caratteristiche di un
luogo e dagli adattamenti che l’uomo ha operato in esso.
Le caratteristiche fisiche del territorio valtellinese non hanno presentato elementi
favorevoli all’insediamento umano. Infatti a partire dal fondovalle dell’Adda, il forte
dislivello tra questo e i più comodi terrazzi in quota, in condizioni climatiche stagionali
avverse, ha determinato in passato l’isolamento delle sedi umane.
La stessa morfologia delle valli laterali con versanti ripidi, difficilmente sfruttabili, sono
tutti elementi che hanno offerto più difficoltà che vantaggi allo stanziamento umano.
Le coltivazioni, sul versante retico favorite dalla naturale esposizione soliva, si sono
sviluppate grazie all’opera ciclopica dei contadini. Occorre infatti ricordare che la terra
coltivabile fu portata su dal basso a spalle e consolidata mediante la costruzione di
muretti a secco, andando così a costituire i tipici terrazzamenti che ancora oggi si
possono ammirare.
In passato era diffusa la pratica, corrispondente alla logica dello sfruttamento
massimo del terreno coltivabile, di seminare il grano saraceno fra i filari della vite.
Le descritte condizioni ambientali sfavorevoli sono del resto testimoniate dalla
espressione “Incidimus in mala tempora” (trad.: Viviamo in tempi avversi) nelle
Memorie (1813-1836) di G.Lavizzari, ove si riferisce che l’8 ottobre 1814 la brina
caduta comportò la totale distruzione del formentone coltivato tra i filari più alti.
A documentare quanto fossero temute le incursioni improvvise, tra settembre/
ottobre, di brine e gelate che allettavano le coltivazioni di saraceno e ne impedivano il
raccolto troviamo un’altra “Cronaca”del Bormiese (1762-1787) di G.A.Zamboni.
Ci riferisce l’autore che nel 1764, dopo uno scarso raccolto di segale, seminato
il formentone e vista la bella fioritura a settembre si sperava in un buon raccolto, ma
una “grande borasca” di freddo rigoroso con brine e gelo provocarono “il più danno si
fu delli formentoni ch’ erano alla montagna”.
Fino a qualche decennio fa, in agosto e settembre le fioriture bianco rosate della
coltura del formentone – termine più in uso a livello locale di quello di grano saraceno
– ricoprivano la sponda retica della Valtellina e costituivano un elemento pittoresco del
suo paesaggio.
2. A PROPOSITO DI FIORITURE DI QUESTA POLIGONACEA COSÌ SI
ESPRESSERO ALCUNI IMPORTANTI BOTANICI:
- Haller 1742...”Sub extremum autumnum eleganti florum spectaculo
agros exhilarat” (“al termine dell’autunno questo grano allieta i campi con
l’elegante spettaccolo della sua fioritura”)
– Poiret nella sua Storia delle piante d’Europa (1827) che:
“Tra le nostre piante economiche ve ne sono poche che diano al paesaggio una
nota più lieta; le campagne coperte di grano saraceno assomigliano ad un vasto
giardino di fiori bianchi e rosati, o variegati di verde, di rosso, di bianco,
riuniti in diversi ciuffi sul sommo degli steli”.
– V. Giacomini -1955-”E noi pure raccogliamo la stessa impressione
percorrendo d’autunno alcuni tratti della Valtellina, del Poschavino, dell’Alto
Adige, e di altre valli alpine, dove biancheggiano vaste fioriture di Saraceno su
tanta parte dei fianchi delle montagne.”
Ma l’aspetto estetico di questa pianta erbacea non è il solo elemento significativo,
visto che essa per quasi cinque secoli ha rappresentato una fonte di sostentamento
per le popolazioni montane .
La presenza abbondante in Europa centrale, e specialmente in Germania
settentrionale, già nel sec.XV, supporta l’ipotesi che la principale via di diffusione sia
stata l’Asia, attraverso le vie comunemente percorse dai Mongoli.
Secondo gli studi del botanico italianoV. Giacomini non ci sono notizie sulla presenza di
coltivazione del saraceno antecedenti al ‘400. Il primo documento ove se ne fa
menzione – segnalato dal Pritzel – risale al 1436: si tratta di un registro proveniente
dalla zona di Gadebusch, in Mecklemburgo, che tra gli altri prodotti agricoli contiene
un riferimento al “Bukweten” (termine antico tedesco del saraceno).
Anche l’ipotesi della sua introduzione agli inizi del XVI Sec. attraverso il porto
di Venezia, ove affluivano tante derrate dal vicino Oriente, appare altrettanto
verosimile, soprattutto se si considera che il “formentone” risulta conosciuto
nel Veneto abbastanza anticamente.
Ne riferisce tra i primi, nella metà del Cinquecento, Pietro Andrea Mattioli, studioso e
medico della Signora di Cles, ne “I Discorsi”, opera pubblicata in Venezia nel 1568.
L’opera del Mattioli viene segnalata anche da Luigi Messedaglia, attento studioso della
storia dell’agricoltura nel nostro Paese, che riferisce tra l’altro come solo dopo il 1630
il mais cominciò a diventare comune in Lombardia, mentre “i contadini delle zone più
alte della Lombardia usavano allora per le polente, oltre che i soliti vecchi cereali, uno
arrivato relativamente tardi, ossia il grano saraceno”.
Un alimento popolare, legato all’economia di sussistenza del mondo contadino,
tanto da essere definito dal Messedaglia “A proposito di grano saraceno e polenta -
Note manzoniane” (Milano, 1931) il “grano dei famelichi”.
Infatti, in un passo dei Promessi Sposi (capitolo VI) si racconta di Renzo, che,
alla ricerca di Tonio, “lo trovò con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo
con una mano, l’orlo di un paiolo ... dimenava, col mattarello ricurvo, una piccola
polenta bigia, di gran saraceno”. Secondo il Messedaglia, “la scena è del 1628, il mais
in Lombardia allora non era usato, come il Manzoni sapeva benissimo.
Ma era conosciuto da un secolo e più, il grano saraceno, che nella zona collinosa
e montana serviva all’alimentazione dei contadini: solo dopo l’anno della peste e della
fame, 1630, il mais cominciò a diventare comune in Lombardia, e ad entrare
nell’alimentazione delle classi rurali”.
3. INTRODUZIONE DEL SARACENO NEL TERRITORIO VALTELLINESE
Date le comunicazioni con il Trentino e la Svizzera è possibile che nell’Alta
Valtellina già da tempo ci fosse stato un qualche tentativo di coltivazione, ma
è solo tra la fine ‘600 inizio ‘700 che la coltivazione si afferma e se ne trova
riscontro nei documenti.
Fonti documentali
La prima testimonianza scritta risale al 1616, anno in cui Giovanni Guler Von Weinech,
governatore grigionese della Valle dell’Adda, stila una relazione sui principali prodotti
della cosiddetta valle nel Terziere di Mezzo.
Fin dalla comparsa nella valle dell’Adda, nei rari documenti a partire dalla
seconda metà del XVII sec. i termini riferiti al grano saraceno sono formentone o
fraina (Furmentùn nel dialetto locale).
Formentone è voce accrescitiva del comune frumento, quasi a sottolineare
la diversità di questo grano atipico.
In proposito, è interessante notare come nelle voci Heiden e Heidekorn, usati
da due autori elvetici , G. GULER(1616)e H.L.Lehmann(1797) si riassumano due
distinti ambiti semantici che richiamano l’origine esotica. L’ambiente naturale:
la brughiera stepposa, (die) Heide–korn (grano della steppa); Heiden (= etnici Pagani)
per indicare i non cristiani; dunque equivalente al nostro grano saraceno.
Viene in tal modo posto l’accento sulla lontana provenienza di questo vegetale,
esotico rispetto al mondo germanico, portato da oriente ove era coltivato
diffusamente presso gente “heiden”, cioè non cristiana.
In un atto datato 14 agosto 1654 sui “Beni Incantati al Signor Paulo Besta” a cura del
notaio Faij Pietro, viene nominato in forma abbreviata il “form.ne”, coltivato nel campo
“in la Della, acquistato dalli signori De Bernardini” (Carta 40, atto not. Faij Pietro,
anno 1653-1654, Teglio 5004 - Archivio di Stato di Sondrio).” Le Delle “è la
denominazione di una località di Teglio ancora oggi agricola.
Il documento riveste un certo interesse, in quanto attesta l’esistenza della coltivazione
a Teglio in quel periodo. Momento storico cruciale per la comunità valtellinese, travolta
dalle guerre di religione tra cattolici e protestanti e percorsa da frequenti carestie e
pestilenze durante la prima fase di dominio dei Grigioni.
Tuttavia le condizioni critiche in cui versavano le comunità rurali si protrarranno
fino al nuovo assetto geopolitico disegnato dalle conquiste napoleoniche prima e dalla
Restaurazione poi. Le trasformazioni economiche dell’età moderna, connesse in special
modo alla crescente diffusione della viticoltura e alle conseguenti difficoltà di
approvvigionamento dei cereali, avevano in questa fase imposto la necessità di
ricorrere alle colture alternative del grano saraceno e del mais. La diffusione delle
colture di grano saraceno ebbe inevitabili conseguenze sulle abitudini alimentari della
popolazione valtellinese e, in particolare, della massa dei contadini.
L’utilizzazione dei prodotti (cereali) di importazione era prevista solo in funzione di
integrazione, nei periodi durante i quali la produzione locale non era sufficiente.
Pertanto, il modello di sistema alimentare era basato sull’autoconsumo. Per supplire
parzialmente al grave disagio derivante dalla carenza di granaglie, fu inizialmente
istituita in alcune comunità della Valtellina (Ponte, Teglio, Montagna, Sondalo, Dazio e
Talamona) una sorta di Monti di Pietà agrari, che prestavano, a tassi di interesse assai
diversi, limitate quantità di cereali nella stagione invernale o primaverile, per
ottenerne la restituzione a raccolto avvenuto. In questi casi il grano saraceno,
coltivato in seconda turnazione, serviva almeno in parte ad affrontare la carestia.
Da un documento d’archivio, il Bilancio del grano del Sacro Monte di Pietà di
Sondrio cominciando dall’Anno 1730, a tutto l’anno 1760 risultano l’entrata e
4. l’uscita di formenturco, formentone, turco, segale e miglio.
INTERESSANTE NOTARE COME DALLE “TARIFFE DEL DAZIO DELLE ECCELSE TRE
LEGHE CHE SI SCODE NELLA VALTELINA”-1710-IL FORMENTONE È SOGGETTO AD
UNA TASSAZIONE INFERIORE RISPETTO LE ALTRE GRANAGLIE. ( LA VALTELLINA E’
SUDDITA DEI GRIGIONI DAL 1512 AL 1797)
*Soma: unità di misura usata prima dell’introduzione del S.M.D., che
localmente equivaleva a 144 litri/28staia/140 chilogrammi circa.
LA DIETA DEL CONTADINO
Nella relazione di un medico di Teglio del 1798, Bartolomeo Besta, sono riportate le
pietanze principali della dieta del contadino, tutte aventi come ingrediente
fondamentale il grano saraceno: “... Nella loro varietà i piatti forniti
dalla farina di fagopiro (Fagopyrum Sagittatum) forniscono il cibo di magro
preferito dal devoto benestante, e la pietanza di invito del contadino”.
La speciale pietanza per entrambi era rappresentata o da grossolane tagliatelle
dette pizzoccheri, bollite nell’acqua con ortaggi (verze e, a partire dall’inizio
dell’Ottocento, patate) e poi scolate e condite con buona dose di cacio e
butirro (burro), oppure dalla polenta.
Ad ogni modo, è nel corso del Settecento che i piatti tradizionali assunsero
una forma simile a quella odierna, attraverso la preparazione di polente più
sostanziose e soprattutto della pietanza simbolo della cucina valtellinese: i
“pizzoccheri di Teglio”, di cui si fa menzione per la prima volta in un atto
testamentario dell’epoca.
IL CONTRATTO DI LIVELLO
Per comprendere meglio le effettive condizioni di vita dei contadini in passato,
occorre infine menzionare brevemente l’importanza del contratto di livello.
Per molti versi simile all’enfiteusi, questo istituto consentiva di costituire un
diritto perpetuo su un fondo rustico (cedibile e trasmissibile agli eredi), in maniera che
il livellario aveva le stesse facoltà di godimento spettanti al proprietario, ma con due
obblighi specifici assai onerosi: 1) di apportare migliorie al fondo; 2) di corrispondere
al proprietario un canone periodico. In questo modo, il livellario assumeva l’impegno
di effettuare costosi e faticosi lavori (tra i quali, il riporto di terreno fertile).
Appare evidente come costi e fatiche non fossero adeguatamente compensati
dalla quota di prodotto di propria spettanza, il cui valore non era comunque
sufficiente per acquistare la quantità di cereali, in gran parte importati,
necessari all’alimentazione.
D’altro canto, nelle testimonianze di alcuni anziani del posto che hanno continuato
ininterrottamente la coltivazione , è ancora vivo il ricordo del “livel” e delle fatiche che
comportava l’assolvimento degli obblighi derivanti da questo contratto.
Interessante è il modo in cui conferivano i grani per la molitura : al molino si
portavano 5 stai (lo staio, nella misura locale, equivaleva a circa 5 Kg) alla
volta, che in base al consumo medio familiare DURAVA DA UN MESE A UN MESE E
MEZZO CIRCA.
LA SITUAZIONE ATTUALE
Il grano saraceno coltivato nelle nostre Valli, sulla sponda soliva, è andato
incontro a una drastica riduzione di superficie nel periodo successivo all’ultimo
conflitto mondiale.
In particolare, a partire da tale momento, viene introdotta una nuova e più
redditizia varietà della pianta, denominata localmente “furest”.
Le principali cause di simile fenomeno di progressivo rischio di scomparsa della
coltura tradizionale vanno ricondotte a: