Realtà e prospettive dei Dottorati di Ricerca in Storia
Valentina perozzo
1. REALTA' E PROSPETTIVE DEL DOTTORATO DI RICERCA IN STORIA
Università coinvolte
Università degli Studi di Padova
Università “Ca ' foscari” di Venezia
Università degli studi di Verona
Università degli studi di Siena
Università degli studi di Pisa
Scuola Normale Superiore
Università degli studi di Firenze
Università degli studi di Napoli “Federico II”
Università degli studi di Milano
Università degli studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”
Università degli studi di Torino
Università della Tuscia
Università degli Studi di Bologna
Università degli Studi di Urbino “Carlo bo”
Università della Calabria
• breve introduzione su come sono stati raccolti gli interventi
• Criticità principali emerse dal racconto delle esperienze dei dottorandi
1) la didattica “passiva” è spesso non inerente ai temi della ricerca
2) assenza di o scarso coinvolgimento del dottorando nella vita del dipartimento che ospita la scuola
di dottorato (rapporto con il tutor)
3) assenza di prospettive future
1) Trasversalmente viene rilevata dai dottorandi una quasi completa assenza di convergenze tra
le tematiche dei seminari organizzati dalle scuole di dottorato e le ricerche dei dottorandi (la
questione diventa centrale soprattutto per i dottorandi fuori sede che impiegano tempo,
denaro ed energie per un'attività che sembra spezzare anziché accompagnare la ricerca).
Ovviamente per questioni pratiche (che riguardano anche i costi oltre che l'interdisciplinarità
delle diverse scuole) ci si rende conto che non si possono organizzare seminari ad personam,
dunque le proposte che i dottorandi avanzano per risolvere questa divergenza sono:
• organizzazione, tra le altre, di “lezioni pratiche” che affrontino questioni che non afferiscono
direttamente con la ricerca storica e che interessano normalmente tutte le discipline: per
esempio come si scrive un progetto di ricerca in inglese o comunque in ambito europeo,
come si scrive un abstract, un curriculum accademico, una presentazione in lingua inglese,
come si usano le banche dati e gli elementi di statistica, quali sono i siti dove si possono
trovare call for paper, proposte di vario genere. Tutte nozioni che i dottorandi imparano
comunque da soli ma che se fornite dalla scuola aiuterebbero a far scemare in parte la
sensazione di una didattica spesso disorientante.
• Creazione di una rete che trascenda la singola università e che permetta al dottorando di
usufruire anche dell'offerta formativa di altri dipartimenti qualora fosse più prossima ai suoi
interessi, e che certificata possa entrare a far parte della sua formazione (qui bisognerebbe
pensare alla messa a punto di strumenti che permettano di essere informati su cosa si fa dove
---> Calenda francese. Forse qualcosa si sta muovendo).
• La proposta più significativa che trascende dal problema della didattica passiva è quello di
un maggior coinvolgimento del dottorando nell'organizzazione di queste iniziative, tenendo
conto quindi dei filoni di ricerca che ci sono all'interno della scuola, per trasformare quindi
la didattica in un'occasione formativa più diretta (sono stati rilevati dei miglioramenti in
2. questo senso).
2) Per rimanere su questo punto, i dottorandi che mi hanno scritto (che non rappresentano i
dottorandi nel loro complesso visto che la maggior parte delle persone contattate non mi ha
risposto) hanno sottolineato con forza la necessità di pensare al dottorando non come a un
vecchio studente ma come a un giovane ricercatore. (cit. : dobbiamo produrre una buona
ricerca o diventare buoni ricercatori? Non sono due finalità antitetiche ma non sono
nemmeno sovrapponibili). La gran parte dei miei interlocutori crede che sarebbe giusto
coinvolgere i dottorandi nell'organizzazione di corsi, di una parte di essi o almeno di qualche
lezione, in modo da fornire la possibilità di fare esperienze di didattica attiva, che oltre ad
essere un feedback per il proprio lavoro, sono anche estremamente spendibili sul curriculum
(paragone con l'estero dove stando alle esperienze singole dei dottorandi questo avviene
comunemente). Alcuni dottorandi parlano anche della possibilità di cominciare a seguire
delle tesi triennali, mettendo in campo delle competenze che sono state acquisite durante gli
anni di università. Credo che questa necessità fortemente sentita da chi mi ha scritto (che si
può riassumente con un brutale: ci sono, mi paghi, usami) sia anche dovuta al fatto che,
essendo la ricerca storica già di per sé solitaria per ragioni intrinseche, e dato che spesso i
dottorandi che la praticano convivono con colleghi che si occupano di materie
completamente diverse, non sono molto numerose le possibilità di confrontarsi sulle loro
tematiche all'interno della scuola di dottorato. Oltre alle lezioni, vengono infatti a questo
proposito citate dai dottorandi altre iniziative, talvolta già presenti come la reciproca
esposizione dello stato dei progetti di ricerca che avviene in alcune scuole, che sono tutte
occasioni di confronto. Allo stesso modo si sottolinea l'imprescindibilità della figura del
tutor, che diventa sia in senso negativo che positivo il punto di riferimento della riuscita di
un dottorato, tanto che i dottorandi stessi sottolineano la necessità di non accettare proposte
di ricerca qualora non ci fossero specialisti all'interno del dipartimento o almeno la volontà
e la possibilità di cercare appoggi esterni. Altri dottorandi suggeriscono la necessità di creare
gruppi di ricerca sulle medesime tematiche in modo da inserire il lavoro di un dottorando
all'interno di un filone che non esaurisca la sua presenza nei tre anni di corso ma che sia
incardinato in un discorso più ampio. In generale si può riassumere dicendo che quello che i
dottorandi chiedono è una maggiore responsabilità all'interno dei vari collegi, che riguardi
entrambe le parti.
3) La terza tematica che più chiaramente fuoriesce dai racconti dei dottorandi è quella delle
prospettive future. Ovviamente ce ne sono molte altre, come per esempio la perplessità nei
riguardi dei posti senza borsa (che dovrebbero essere messi a bando solo qualora ci fosse la
certezza di poter usufruire di altri finanziamenti), oppure una maggiore valorizzazione dei
soggiorni all'estero durante il triennio (possibilità già ampiamente sfruttata da buona parte di
coloro che mi hanno risposto), ma in fondo sono tutte tematiche legate a doppio filo con
quest'ultimo punto, ovvero cosa fare dopo. Ci tengo a specificare che in questo paese, nella
situazione attuale, con una laurea umanistica, avere un'entrata certa e sostanziosa per tre
anni e per fare quello che più si ama, è un privilegio. I dottorandi con borsa quindi non
hanno particolari rilievi da fare sul trattamento economico, ma hanno moltissime perplessità
rispetto al senso di un percorso che, per ragioni che evidentemente non si possono imputare
né ad un singolo dipartimento né ad un'unica università, non ha sufficienti sbocchi. I
dottorandi sono coscienti che non si può chiedere che ogni scuola di dottorato licenzi 5 o 6
dottori all'anno e che questi vadano tutti a fare ricerca all'interno dell'università, ma allo
stesso tempo si domandano come si possa non immaginare una più pratica ed effettiva
sfruttabilità del titolo in ambiti diversificati rispetto a quello universitario, che darebbe un
senso più strutturato a quel privilegio di cui si diceva sopra.