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Fabio Piselli
Singole esperienze collettive
Piselli scritti 12008
www.fabiopiselli.com
a mio padre...
5
Introduzione
Ho riflettuto a lungo prima di decidere di scrivere un libro, mi sono posto
molte domande alle quali non sono stato capace di trovare le degne rispo-
ste, ho compreso che una risposta sarebbe potuta nascere proprio dalla
stesura di questo libro.
Una singola traccia lasciata nel cammino del confronto collettivo, stimola-
ta dalle mie esperienze; questo è lo scopo del mio scrivere, lasciare tracce,
delle parole ferme per pensieri fluttuanti, per stimolare delle nuove parole,
dei nuovi pensieri, il cui contenuto darà vita a dei nuovi confronti.
Non sono uno scrittore ma uno scrivente, non in terza persona come nei
rapporti giudiziari ma in prima persona nel mio sfogo emotivo, nel con-
fronto con la mia storia, guardando me stesso come un soggetto terzo per
meglio vedere il tutt’uno che voglio essere e restare.
Non sono uno scrittore ma un uomo che scrive ciò che ha vissuto, ciò che
ha visto, ciò che ritiene di aver conosciuto e riconosciuto della vita, con il
desiderio di comprendere quello che ancora non ha capito, scrivendo ad
una platea di lettori capaci di confronto.
Non cerco delle verità sulle stragi, sugli omicidi, sugli attentanti; voglio
invece capire il perché delle non verità sulle stragi, sugli omicidi, sugli
attentati; non cerco delle responsabilità se non in me stesso, come persona
singola e come membro di una collettività composta da molti singoli che
non sanno ancora costituire un insieme compatto e unito tanto da chie-
dere a gran voce la presenza di una responsabilità per l’assenza di molte,
troppe verità.
Questo libro mi consente di comprendere prima di tutto le mie responsa-
6
Singole Esperienze collettive
bilità, di uomo, di cittadino, di membro di una comunità, di una società
civile che ha permesso l’occultamento e l’inquinamento di quelle verità
mai svelate. Mi consente di offrire e di ricevere il confronto sulle nostre
collettive responsabilità rispetto alla singola morte di ogni singolo indivi-
duo, rispetto ai singoli attentati ed alle stragi che hanno mietuto centinaia
di vittime.
Non cerco perciò di scoprire dei colpevoli occulti laddove tutti noi siamo
i palesi responsabili dello sfascio della nostra società, della Giustizia alla
deriva all’interno di uno Stato sfasciato che manifesta sempre più spesso
dei rigurgiti di fascismo.
Questo è lo scopo del mio libro, del mio sfogo, del mio confronto; com-
prendere cosa posso e cosa possiamo fare per difendere la legalità, per
rinforzare la Giustizia, per tutelare la collettività ed i milioni di singoli
cittadini che ne fanno parte contro le stragi, contro gli omicidi, contro gli
attentati posti in essere da mani ignote per conto di ombre grigie, proiet-
tate da figure di mafiosi, di politici collusi con le mafie, di massoni deviati,
da infedeli uomini dello Stato dei quali non si vede mai la faccia, nascosta
dai cappucci, dal mefisto, dalla barba finta.
La nostra storia democratica è costellata di attentati alla Democrazia fino a
mutarne la storia stessa, invertendone il significato, trasformandone il pro-
cesso evolutivo in uno Stato caratterizzato da rari momenti di Democrazia in
una storia di attentati. Inevitabile perciò parlare di trauma, di uno Stato afflit-
to dal trauma nascente dalla violenza patita, Stato che ha proiettato la propria
sindrome nei suoi cittadini, come le madri sofferenti fanno con i figli.
Cittadini che non hanno mai avuto la possibilità di elaborare questo trau-
ma ricevuto in prestito a causa della debolezza della verità, acquisito solo
per essere dei cittadini figli dello Stato malato in cui sono nati.
Siamo tutti legati al segreto che nasconde la verità di cui abbiamo bi-
sogno per svincolarci dalle maglie di quelle catene che debbono essere
7
Introduzione
spezzate per permetterci di crescere, di incamminarci verso un indirizzo
democratico, invece che restare fermi, passivi all’interno di un presunto
clima di Democrazia.
Questo legame porta spesso il sigillo del segreto di Stato.
Rompere le catene significa violare il segreto, recidere quel cordone om-
belicale che ci lega alla Patria vilipesa dal suo stesso segreto; significa tra-
sformarci in civili soldati di un esercito di cittadini composto da una col-
lettività senza uniforme, forte e compatta con il proprio Stato, forte di
Democrazia, armata di tolleranza, difesa da occhi attenti e non guardinghi,
da orecchie capaci di ascoltare e non solo di sentire.
Collettività che ha le mani sporche del sangue versato dagli uccisi dal se-
greto, dal segno della morte che non si ripulisce, la morte infatti si può
solo elaborare con la scoperta della verità, oppure si può rimuovere con la
menzogna psichica o con quella di Stato.
Collettività che desidera comprendere la verità per elaborare il suo lutto,
per crescere ed essere capace di scegliere di capire e non di punire, per cam-
biare la propria morfologia da Stato strutturato in una struttura civile che
forma lo Stato, senza più il traumatico timore delle strutture deviate dello
Stato, quelle che nascondono i segreti.
Non sono uno scrittore ma uno scrivente che parla della propria esperienza
come se parlasse ad un altro da se, riconoscendo se stesso negli altri.
Mi confronto con le mie parole, mi riconosco frase dopo frase con la mia
storia, divento il critico lettore di quel me stesso scrivente e non scrittore,
di quel me stesso cittadino e non soldato, di quel me stesso membro di una
collettività e non più un alibi dell’egoismo collettivo che indica il singolo
soggetto come capro espiatorio delle responsabilità condivise.
Sono compatto con la mia storia caratterizzata dai pezzi di vita slegati
fra loro, che hanno necessità di riconoscere il proprio percorso per non
spezzarsi mai più.
8
Singole Esperienze collettive
Sono cosciente che è impossibile sanare dei pezzi rotti, come sono co-
sciente che è impossibile rendere Giustizia a chi è morto ingiustamente,
per questo non cerco colpe ma cause, per questo non cerco colpevoli ma
responsabili, per questo non cerco segreti ma verità.
Desidero comprendere collettivamente i motivi delle zone grigie del mio
Stato per colorarne i contorni e far luce al suo interno, sperando di con-
tribuire a dare nuova vita al colore bianco come quello di un foglio nel
quale ognuno può scrivere la propria storia in piena libertà, in completa
Democrazia, senza più il trauma degli omicidi, delle stragi, degli attentati
di Stato, senza timore ma con la gioia di rappresentare se stessi membri e
parte di una comunità che forma lo Stato.
Desidero essere un singolo parte di una collettività responsabile e parte-
cipativa, essere dei cittadini coscienti e non coscienziosi, compatti e non
riuniti, liberi dal segreto e non prigionieri di verità rese segrete.
Cittadini che sanno e che possono perciò comprendere le proprie scelte po-
litiche, sociali e personali all’interno di uno Stato che gli permette e gli con-
sente di scegliere tramite la conoscenza della verità. Cittadini di ogni razza,
colore e religione che fanno politica per la sola ragione di esistere e respirare,
senza dover dimostrare di esistere e di respirare soffocando il respiro altrui.
In questo la nostra storia democratica ci ha trasformato, in ladri di aria, in
rapinatori di spazio, in estorsori di verità da mantenere segrete per conti-
nuare il ricatto del segreto, dando vita a flotte di dimostranti di un qualcosa
mai chiesto per dimostrare di non chiedere per paura delle dimostrazioni
delle richieste fatte.
Siamo ormai un insieme di questuanti di favori, di deboli membri di una
collettività accattona regolata da magnaccia, da re nudi di un regno vestito
di stracci, controllati da gendarmi violenti, tali per nascondere la propria
paura di indossare gli stessi stracci dei controllati.
Siamo ormai perduti nella morte che colpisce a caso, con una bomba, con
9
Introduzione
un colpo vagante, in un traghetto in fiamme, timorosi di viaggiare per stra-
da e pronti a rincorrere le viuzze del potere, convinti di essere così immuni
e invulnerabili per poi scoprirci vittime quando la morte ci tocca da vicino,
mentre in realtà siamo già vittime quando allontaniamo la morte altrui.
Per questo scrivo, per liberarmi dal trauma, dalla paura che non nasce da
un clima di tensione bensì dalla calma apparente del caos democratico,
che diversamente da un blitz di regime addormenta le coscienze e non
risveglia la nostra ribellione; in fondo mi ribello a me stesso, non al pre-
sunto regime o alla cattiva Democrazia, perché sono il presunto regime e
sono la cattiva Democrazia.
Rinuncio perciò alla questua dei favori per essere libero, rinuncio a cono-
scere un segreto per non essere estorsore, rinuncio alla viuzza del potere
per restare apertamente in piazza, insieme agli altri e parte degli altri senza
braccia tese o pugni chiusi ma con la sola pesante responsabilità della vo-
lontà di conoscere la verità.
Per questo dobbiamo essere pronti a pagare un prezzo alto in termini di
sacrificio, dobbiamo essere capaci di porci in discussione senza cercare dei
colpevoli negli altri da noi, ma cercando noi stessi nella colpevolezza altrui.
è colpevole il solo mafioso quando mi elargisce il favore che gli chiedo?
è colpevole il solo politico quando mi assume grazie allo scambio del mio voto?
è colpevole il solo poliziotto che mi spacca la testa con il suo manganello
perché non ho il coraggio di denunciarlo?
è colpevole il singolo morto ammazzato perché permetto al mafioso di
ucciderlo con la mia omertà?
La verità è un male incurabile con il quale possiamo solo convivere, liberi
e leggeri mentre il segreto è un cancro per il quale stiamo lentamente
morendo nella non conoscenza, nella irresponsabilità, convinti di star
bene in un mondo di malati, felici di credere di star meglio perché siamo
circondati da altri e più gravi malati. Questo siamo ormai, dei benestan-
10
Singole Esperienze collettive
ti immaginari, dei malati incoscienti appesantiti dalla fuga dalla verità,
vuoti e non leggeri.
Scrivo sperando di riuscire a dire agli altri quel che dico a me stesso, ascol-
tandomi attraverso gli occhi dei lettori per vedere quel che sento di me,
senza più la paura di ascoltare, senza più il timore di capire ma con il co-
raggio della ricerca della verità senza volerla attribuire a nessuno, perché la
verità stessa ci libera dalla colpevolezza, riconoscendoci colpevoli detentori
dei segreti altrui dei quali siamo le prime vittime.
Questo libro parla delle mie esperienze nelle quali riconoscere le tracce del-
le proprie e forse quel confronto mai riconosciuto con il quale specchiarsi,
leggendolo come se fossero la descrizione dei percorsi di vite comuni vissu-
te da una singola persona, le cui emozioni, le cui sensazioni sono parte di
una intelligenza collettiva.
Questo mio primo libro non ha un preciso ordine cronologico, escluso i
primi capitoli che descrivono il mio percorso fino all’inizio della carriera
militare, poi prende forma allo stesso modo in cui si materializzano i ri-
cordi intrusivi, che riportano alla mente un evento, doloroso o meno; è un
libro fatto di ricordi che rimbalzano nella memoria raschiandone via dei
pezzi fatti di emozioni vissute che mi hanno permesso di crescere.
Questo libro è la chiave che apre una cella, è la mano che carezza la testa di
un bambino, è il braccio armato che difende dalla paura, parla di me, della
mia vita, ampia e non necessariamente lunga.
11
INIZIO
Sono nato a Livorno da genitori laziali, cresciuto sul mare, nel mare e con
il mare, che come una immensa placenta mi ha accolto nel suo ventre.
L’elemento acqua è stato alla base della mia vita, il fuoco ha invece cercato
di estinguerla durante la mia ultima esperienza con la morte, avvenuta nel
Novembre del 2007.
Ho iniziato a lavorare sin da bambino, figlio di un marittimo e di una
casalinga, figlio di una cultura nella quale imparare un mestiere significava
la prospettiva di un futuro lavorativo assicurato. Sin dalla metà degli anni
settanta ho fatto il garzone in un vetusto magazzino al servizio di un vec-
chio artigiano siciliano, un reduce della seconda guerra mondiale che si
rifugiò a Livorno dopo la fine del conflitto con un carretto a pedali, con il
quale nel corso degli anni ha fatto il venditore ambulante dei suoi prodotti,
fra cui spiccavano le statuine segnatempo che avevo imparato a costruire, a
decorare, a rifinire a mano con il trincetto e la fantasia.
Questo fino a quando nei primissimi anni ottanta il vecchio artigiano fu
arrestato per violenze sessuali contro i minori. Ancora non sapevo che
avrei rivisto il venditore fiorentino dei suoi trincetti molti anni dopo,
oggetto di attenzione da parte degli inquirenti nelle indagini per i delitti
del cosiddetto mostro di Firenze.
Non ancora diciassettenne mi sono arruolato volontario nell’Esercito Ita-
liano, presso la scuola allievi sottufficiali (SAS), con il desiderio di diventa-
re un pilota di elicotteri.
Desiderio compensato in parte, in quanto effettivamente ho volato, ma
come paracadutista e non pilotando un elicottero come avrei voluto.
12
Singole Esperienze collettive
Ancora non sapevo che ciò che avrei vissuto nei tre anni in uniforme avreb-
be condizionato la mia vita da civile nel corso del successivo ventennio.
La mia storia professionale inizia nel 1985, la quale, nel corso di questi
ventitre anni, mi ha visto vivere delle esperienze tali da rappresentare un
valido confronto collettivo per comprendere alcune dinamiche adottate
all’interno di certi settori dello Stato che sviluppano quei meccanismi di
depistaggio, di collusione mafiosa, di connivenza massonica, che costitui-
scono quella zona grigia ove sbiadiscono i colori della Democrazia e della
legalità fino al punto di rendere opaca la Giustizia e daltonici i cittadini,
costretti a seguire le varie correnti cromatiche per individuare un sostegno
alle proprie speranze, per rinforzare il concetto della propria libertà.
Desidero capire la verità dei fatti affinché possa comprendere il vero, il fal-
so ed il verosimile nei fatti stessi, senza subire il condizionamento da parte
di chi la verità la occulta e la gestisce per difendere il proprio schieramento,
la propria fratellanza, il proprio ufficio, i propri interessi.
Ho cercato di capire per difendermi dagli attacchi ai quali non ho trovato
la giusta difesa, pagando la mia lotta con la sconfitta.
Proprio la sconfitta mi ha reso cosciente dell’assenza di una auspicata vit-
toria all’interno di una guerriglia di sconfitti, di affratellati soggetti dipinti
di emblemi, uniformi, medaglie e pentalfiani segreti. Tutti caratterizzati
dall’essere sconfitti dall’esistenza del segreto che come tale vince sulla ve-
rità. Un segreto che tutto tace, un silente protagonista circondato da degli
urlanti attori e da delle ambiziose comparse all’interno di un film che dura
sin dalla fine della seconda guerra mondiale, i cui registi usano nomi d’ar-
te dai quali è impossibile risalire alla loro vera identità. Come in un film
ne intravediamo le sagome, vediamo la proiezione della loro ombra senza
mai vederne il viso. Come in un film ci sono eroi e vittime, persecutori e
corrotti, moventi e manovratori, opportunità e opportunisti. Un film che
dura da troppo per il quale è giunto il momento di scrivere la parola fine.
13
Inizio
Fine che giungerà quando sarà calato il sipario sui tanti segreti che na-
scondono le troppe verità, quando sarà tolto il cappuccio ed il passamon-
tagna dal viso delle ombre, quando le ombre si dissiperanno alla luce del
sole che ci consentirà di vedere, di conoscere, di riconoscere, di sapere e di
capire le verità della nostra storia di paese che ha avuto ed ha tuttora una
Democrazia a scartamento ridotto. Democrazia lenta, traumatizzata, pa-
tologica, affetta da ingerenze esterne che come nei deliri dei pazzi vede le
presenze, sente le voci, patisce una sorta di sindrome persecutoria tale da
non permetterne la crescita, la maturità, restando prigioniera dei propri
mostri, della propria sofferenza causata dall’autismo dei propri pensieri,
dal riflesso del buio che ha inghiottito i suoi cittadini, oscurati anch’essi
dalla pazzia della Democrazia stessa che ha fatto nascere milioni di insicu-
ri italiani con un trauma in prestito, le cui complicanze sono state aggra-
vate dai segreti che hanno impedito di conoscere la fonte della malattia
e di trovare così una cura, restando schiavi dei presunti guaritori i quali
hanno somministrato solo pillole di ipocrisia che hanno ucciso migliaia
di innocenti per rinforzare la paura della malattia e per continuare ad
affidarsi alle loro cure, alla loro gestione.
Ogni volta che un malato cittadino ha espresso il desiderio di capire si è
sviluppato un aggravamento, con l’improvvisa morte di altri innocenti svi-
luppando in realtà le uniche patologie di cui tutti noi siamo effettivamente
affetti, il terrore e la paura.
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L’ETà UNIFORMATA
Nel 1985 non avevo l’età per guidare una automobile ma potevo sparare
con un’arma, maneggiare esplosivi, apprendere e conoscere delle tecniche
di combattimento, partecipare ai servizi di ordine pubblico, svolgere la
sorveglianza armata in anni in cui la eco del terrorismo si stava appena
spegnendo, con gli attacchi alle caserme, il furto delle armi dei soldati da
parte dei componenti dei vari gruppi eversivi dalle tante sigle che hanno
caratterizzato la fine degli anni settanta e la prima metà di quelli ottanta.
Non avevo l’età per votare ma potevo prendere delle decisioni importanti
con il dito sul grilletto delle mie armi, che avrei potuto rivolgere contro
me stesso oppure contro gli altri; anni nei quali le munizioni erano vere, i
colpi erano in canna e la pressione psicologica che un adolescente subiva
all’interno dell’ambiente militare rappresentava la peggiore arma, l’ effetti-
va minaccia, il reale rischio di rottura, causata dallo stress, dall’ esaurimen-
to nervoso con tutte le sue potenziali conseguenze, come avvenne in alcune
caserme con dei casi di suicidio e di omicidio commessi da giovani militari,
da carabinieri, da poliziotti.
Ero un adolescente che non aveva ancora compiuto diciassette anni di età,
ero un soldato, un sottufficiale volontario dell’Esercito Italiano, prove-
niente da una vita civile fatta di sport come quello della lotta libera, fatta
di lavoro, fatta di scuola, fatta di ragazzine con cui scoprire gli umori ed
il gioco dell’amore.
Fatta di cocomeri rubati ai cocomerai ladri, fatta di fughe dalla Polizia con
i motorini truccati, fatta di mare, di scoperte che permettevano di capire,
conoscere, sapere e saper scegliere il proprio futuro, con le scelte a breve
termine come quelle compiute da un adolescente. Futuro fatto a tappe,
16
Singole Esperienze collettive
fatto di idee repentinamente cambiate, fatto di condizionamenti esterni
provenienti da mille fonti e da quelli interni nascenti dalla naturale fase
evolutiva nella ricerca della identificazione all’esterno della famiglia, alme-
no così avrebbe dovuto essere.
Indossando l’uniforme ho uniformato la mia età a quella degli altri soldati
della scuola allievi sottufficiali che frequentavo, che era di ventiquattro
anni, tutti ragazzi che in molti casi avevano già avuto delle esperienze mi-
litari, inoltre si era appena conclusa la prima missione italiana svolta in
Libano, quella del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, del colon-
nello Franco Angioni e del piccolo Mustafà, la mascotte libanese; grazie
alla quale numerosi reduci, fra cui molti paracadutisti, avevano deciso di
scegliere la carriera militare arruolandosi con il primo corso utile, il 58°, il
nostro corso, quello dei sottufficiali comandato da un colonnello che pro-
prio in Libano era stato capo di Stato Maggiore del contingente; il quale
aveva proiettato sul corso tutta la sua psicologia militare, la sua mentalità e
soprattutto il suo personalissimo modo di comandare, di educare, di istru-
ire, di condizionare tutti noi giovani allievi che vedevamo in lui una guida
supportata da un altro ufficiale, un paracadutista che per noi rappresentava
un esempio da seguire ed una sorta di specchio futuro nel quale vedere ciò
che saremmo stati negli anni a venire proseguendo la carriera militare.
Sono stato inserito in mezzo al ristretto gruppo di allievi che aspiravano
di entrare al “nono”. Cioè al 9° battaglione “Col Moschin” della Folgore, gli
incursori, le forze d’élite dei paracadutisti. Gruppetto di allievi formato dai
reduci del Libano, dagli ex parà della Folgore, dagli ex marò del battaglione
San Marco, con i quali mi sono amalgamato e dai quali sono stato accettato
nonostante non fossi già stato un paracadutista come loro. La mia grinta,
la mia prestanza fisica forgiata dalla lotta libera, la mia “istintiva” attitudine
militare ed anche la mia parentela con due impiegati civili dell’ambasciata
americana di Roma, in servizio presso gli uffici della Defense Intelligence
17
L’età uniformata
Agency, il controspionaggio militare americano, hanno certamente contri-
buito a costruire il personaggio di quel giovanissimo allievo che emergeva
per autorevolezza, qualità fisiche e morali e rendimento negli studi, questo
fu scritto in alcuni encomi ricevuti durante lo svolgimento del corso.
Il condizionamento psicologico quotidiano aveva ritmi incalzanti, con i
periodi di addestramento, con i servizi armati e lo studio, aggiunti al fatto
che, come aspiranti paracadutisti, ci eravamo eretti a gruppo elitario che
aveva il dovere di dare il massimo in ogni materia, in ogni attività; gruppo
sostanzialmente autoreferenziale, isolato dal resto degli allievi, estrema-
mente politicizzato nel quale il riferimento al Duce era costante in ogni
espressione fisica e verbale.
Non ancora diciassettenne, mi comportavo come un giovane uomo, vivevo
e mi relazionavo con dei ragazzi molto più adulti e maturi di me, alcuni
dei quali con esperienze specifiche nella lotta politica, specialmente i ro-
mani che provenivano in gran parte dalle sezioni del Movimento Sociale
Italiano e dal fronte della gioventù che durante la fine degli anni settanta
e l’inizio di quelli ottanta erano stati protagonisti dei gravi e feroci scontri
fra i ragazzini romani delle opposte fazioni. Gli altri ufficiali ed i sottuf-
ficiali che ci addestravano e comandavano, uomini adulti con famiglia,
coloro non paracadutisti, ci sembravano soggetti lontani dalla realtà in cui
eravamo immersi, i nostri referenti erano solo ed esclusivamente quelli che
provenivano dalla Folgore e che erano transitati alla SAS come istruttori o
come aggregati.
La mortificazione è stata un’arma per selezionare e per dividere, non i bravi
dai meno bravi oppure i deboli dai forti, ma noi da noi stessi, dalla nostra
dignità, dalla nostra personalità di giovani in crescita, specialmente i po-
chissimi adolescenti presenti in quel corso, i nati nel 1968 o poco prima.
La mortificazione era costantemente patita e costantemente perpetrata, in
ogni frase, azione, momento della giornata, sia nei termini dispregiativi
18
Singole Esperienze collettive
che nelle punizioni fisiche e psicologiche inflitte per le più paradossali ra-
gioni, specialmente all’interno del gruppetto di ex parà, ragazzi che ave-
vano introdotto la stessa mentalità che questi avevano vissuto ed appreso
durante il tempo trascorso alla Folgore.
Sembrava che solo coloro capaci di resistere fossero i più forti, i più capaci
per affrontare chissà quali missioni in una ipotetica guerra, altra parola che
caratterizzava il contenuto dei nostri colloqui, mediati dai racconti dei re-
duci del Libano che in qualche modo la guerra l’avevano vista, soprattutto
coloro coinvolti negli scontri a fuoco con le varie fazioni libanesi in lotta
avvenuti nel periodo in cui il contingente italiano è stato presente a Beirut
e nelle altre località.
Fortunatamente i miei parenti presso l’ambasciata americana mi hanno
fornito il confronto necessario per non farmi lavare il cervello più di tanto,
consigliandomi sempre di pensare con la mia propria testa e soprattutto
permettendomi di conoscere i loro datori di lavoro, gli ufficiali del servizio
americano i quali avevano effettivamente conosciuto la guerra, molti di
loro provenivano dai reparti militari che avevano combattuto in VietNam,
erano persone che, diversamente dagli italiani, avevano vissuto esperienze
dirette nei vari fronti nei quali gli Stati Uniti erano stati militarmente pre-
senti a vario titolo.
Ho imparato perciò a riconoscere gli occhi di chi aveva visto una guerra
rispetto a quelli di chi raccontava di averla vista, riconoscendo perciò i
tanti italiani che millantavano storie di guerra libanese di cui esageravano
i contenuti in favore di noi allievi, felici anche di ascoltare le loro gesta
seppur poco credibili, pur di avere un riferimento con la guerra.
Le mie visite all’ambasciata americana di Roma non passarono inosserva-
te, d’altronde i miei colleghi erano interessati a conoscere qualche reduce
americano, un Rambo vero come quello del cinema, la voce si sparse e fui
contattato anche da un capitano paracadutista e da un maggiore in servizio
19
L’età uniformata
presso “l’ufficio I” della SAS che vollero sapere notizie sul tipo di lavoro dei
miei parenti e sulle mie visite presso le basi militari americane alle quali
accedevo durante i periodi di licenza, in particolare quella di Camp Darby
vicino Livorno.
Dopo oltre otto mesi di corso, ormai diciassettenne, ormai esperto, con il
grado appena inferiore a quello di Sergente, cioè quello di caporale mag-
giore allievo sottufficiale, iniziai a comprendere il tipo di ambiente, il tipo
di lavoro che avevo scelto, a confrontarmi con quelli che allora erano i
miei desideri e con i risultati della scelta che avevo davanti agli occhi; con
l’esperienza acquisita in quei mesi duri e faticosi, nei quali ero cresciuto,
immerso nella mentalità militare, caratterizzata dalle parole onore e fedel-
tà, coraggio e ardimento, paura e viltà.
Ero felice di quanto avevo raggiunto, mi piaceva il lavoro, ero gratificato e
stimolato a finire il corso e raggiungere le scuole di specializzazione presso
la Folgore insieme ai miei colleghi, con i quali sapevamo di essere ad un
passo dal traguardo con risultati eccellenti. Un giorno accadde qualcosa
mentre stavo svolgendo il periodo di servizio di sorveglianza armata presso
una grande polveriera dislocata in Umbria, notai insieme ad altri due miei
colleghi la presenza di alcuni uomini in abiti civili intenti a movimentare
delle casse dentro il perimetro della zona militare; allarmammo perciò il
nostro livello superiore ma ci risposero evasivamente, dicendoci che era-
no solo dei bracconieri, perché la polveriera era ubicata all’interno di un
enorme bosco, una riserva di caccia, che questi probabilmente stavano solo
portando via dei cinghiali catturati con delle trappole.
Nelle casse? mi chiesi ricordandomi i trascorsi parentali con gli zii cac-
ciatori di cinghiali.
Tornato alla SAS segnalai il fatto ad uno degli ufficiali de “l’ufficio I” e
poco dopo iniziarono gli strani congedi di coloro che come me avevano
relazionato gli stessi episodi. Le ragioni furono le più disparate, dal ritro-
20
Singole Esperienze collettive
vamento di sostanze stupefacenti in un caso, alle relazioni sessuali con mi-
norenni nell’altro, oppure dalle manifestazioni contrarie al regolamento
nel rapporto con le insegnanti civili in servizio presso la scuola, sostanzial-
mente con l’accusa di aver avuto con queste dei rapporti sessuali.
Alcuni allievi furono espulsi fra i quali due del mio gruppo elitario, quello
dei paracadutisti, entrambi reduci dal Libano ed entrambi sorpresi e soffe-
renti per il loro allontanamento dal corso.
Nell’Ottobre del 1985 mentre ero di pattuglia armata in caserma sono
stato colpito in faccia, presumibilmente da un altro allievo di guardia che
si svegliò improvvisamente e reagì in modo istintivo usando il suo fucile
come un bastone, per questo il mio naso iniziò a sanguinare, sono stato
portato all’ospedale civile ove certificarono dei semplici episodi di epistassi,
sangue dal naso appunto, causati dal colpo ricevuto. Successivamente mi
inviarono all’ospedale militare di Roma per essere ricoverato, nel quale gli
episodi di epistassi si trasformarono in una patologia cardiaca che causò il
mio proscioglimento dal corso, congedo che avvenne nel giro di un po-
meriggio nonostante i miei sforzi di avere dei maggiori chiarimenti e di
parlare con i superiori; certo di un errore chiesi a gran voce di incontrare il
comandante, di poter parlare con qualche ufficiale, con quelli che erano i
miei riferimenti militari ma anche psicologici da mesi ormai.
Mi misero alla porta ma paradossalmente dovettero avvisare mio padre che
sarei stato dimesso perché ero ancora minorenne.
A diciassette anni, seppur intelligente, non avevo la capacità di elaborare
una situazione simile, non avevo la conoscenza storica dell’epoca che stavo
vivendo, non avevo gli strumenti per poter ricostruire il quadro d’insieme
dei fatti in cui ero coinvolto.
Vivevo il dolore di vedere tutti i miei sacrifici andare in fumo, la soffe-
renza di patire una ingiustizia, il distacco da quel mondo che era il mio
mondo, nel quale avevo vissuto in una psicologia condizionante per mesi
21
L’età uniformata
e mesi ventiquattro ore al giorno, armato e con ruoli di responsabilità per
ritrovarmi di fronte ad un cancello, costretto a riprendere i panni di un
minorenne, di un civile.
Ricordo infatti il mio dolore, il senso di vuoto che mi attanagliava, l’assen-
za di un perché certo con cui potermi confrontare, la velocità e l’imposi-
zione verso l’uscita che mi sembrò un lutto.
In poche ore tutti i miei riferimenti furono perduti, ero solo, costretto a
tornare civile in un mondo di civili che vedevano in me solo un muscoloso
ragazzino, un minorenne.
Ricordo la paura che provai quando, salito sul treno che mi portava a
Roma, in abiti civili, indossavo infatti una orribile camicia hawaiana che
un collega mi dette insieme ad un paio di jeans, parlando con una bella
ragazza presente nello scompartimento questa mi chiese che lavoro facessi.
Domanda alla quale non seppi rispondere prendendo coscienza di quel che
avevo subito, il furto della mia professione, del ruolo in cui mi ero identifi-
cato, nel quale stavo crescendo e con cui mi confrontavo quotidianamente
da mesi. Non risposi, non seppi cosa rispondere.
Ricordò che questa giovane bella ragazza, aveva venticinque anni, si chia-
mava Tatiana, mi guardò, mi sorrise e mi chiese l’età, quando le dissi che
avevo diciassette anni rimase a bocca aperta, disse che me ne dava almeno
ventisette e che sembravo uno “sbirro”, una “guardia” disse con esattezza
in romanesco, con quel fisico, con quello sguardo diretto e l’atteggiamen-
to attento, costruito nei mesi e condizionato proprio dal tipo di lavoro,
dall’ambiente nel quale lo sguardo fiero e l’occhio da duro era un marcato-
re di valenza fra un soldato per scelta ed un soldato per disoccupazione.
Capii in quel preciso momento che sarebbe stato difficile tornare ad essere
un adolescente e soprattutto tornare ad essere un civile.
Pochi giorni dopo il mio rientro a casa mi ero già attivato per dimostrare
l’errore che aveva causato il mio congedo.
22
Singole Esperienze collettive
Nel Novembre del 1985 un ufficiale medico della Folgore accertò la com-
pleta assenza di una patologia del mio cuore, quando sono stato invitato
a raggiungere Camp Darby perché uno dei miei parenti stava transitando
da quelle parti con qualche americano dell’ambasciata che desiderava sa-
lutarmi.
Il colloquio fu di grande rinforzo, specialmente quando mi dissero di non
preoccuparmi perché presto avrei indossato di nuovo l’uniforme, nel frat-
tempo mi invitarono a prendere contatto con un sottufficiale americano
della base con il quale iniziai un rapporto di amicizia che si protrasse per
lungo tempo, che mi insegnò molto, cose militari e non, mi offrì un con-
fronto umano fino a quando il telefono squillò con l’invito di raggiungere
di nuovo la scuola allievi sottufficiali dell’Esercito Italiano per essere final-
mente arruolato per la seconda volta.
Questo avvenne nella primavera del 1986, nel periodo in cui Reagan bom-
bardò Gheddafi come ritorsione militare per gli attentati imputati alla Li-
bia contro gli interessi americani, quando la Folgore raggiunse Lampedusa
perché furono lanciati dei missili dalla Libia; ero ormai cosciente dello
scenario internazionale, dei blocchi, dei ruoli.
Il periodo trascorso a Camp Darby mi aveva consentito di capire e di cre-
scere, di addestrarmi e di confrontarmi con chi, in prima persona, viveva le
scelte del proprio governo laddove inviava le truppe in operazioni militari,
con i ragazzi e gli uomini della 82° divisione delle forze speciali americane,
con quelli dello spionaggio elettronico della sezione di Coltano, località fra
Pisa e Livorno da dove Guglielmo Marconi stabilì le prime comunicazio-
ni in cui sorgeva un centro dell’intelligence americana della presunta rete
denominata “echelon”, le cui aliquote di operatori erano impiegate nei vari
teatri e nelle basi presenti in tutti il mondo, specialmente in Germania.
Dovetti rinunciare ai gradi ed alle qualifiche che avevo precedentemente
raggiunto, iniziando tutto di nuovo da zero, come se non fossi mai stato
23
L’età uniformata
un militare prima di allora, fui così inserito con il nuovo corso allievi
sottufficiali, il 60°.
I miei colleghi del 58° corso erano ormai giunti alle scuole di specializza-
zione, una volta concluso quel corso che mi fu impedito di terminare a
causa di un certificato medico risultato immediatamente strano, errato alla
prima visita medica di riscontro che effettuai presso vari ospedali militari.
Mi informarono che anche i due miei amici e colleghi, che subirono il mio
stesso trattamento con l’espulsione dal 58° corso, erano stati entrambi di
nuovo arruolati, uno presso la scuola sottufficiali della Marina e l’altro in
quella dell’Aeronautica Militare, entrambi furono, come me successiva-
mente inseriti nelle truppe d’elite, il primo trovò la morte contro le pale di
un rotore di un elicottero, il secondo è ancora un incursore della Marina.
Questo fatto mi rese felice ma confermò la mia ipotesi che quegli eventi
non furono una serie di singolari errori ma parte di un qualcosa che avrei
tentato di comprendere e che desideravo capire per conoscere la causa del
mio proscioglimento. Questo non per ragioni particolarmente eroiche ma
ben più pratiche, avrei dovuto essere un sergente paracadutista con uno
stipendio ben più elevato ed un corretto percorso di carriera, esattamente
come lo erano i miei colleghi, mentre invece a causa di quel presunto erro-
re medico ero stato costretto ad iniziare tutto daccapo.
Infatti dedicai ogni istante a cercare di conoscere i motivi per i quali av-
vennero quei congedi, individuandone le ragioni nella presenza dei civili
all’interno del perimetro del deposito munizioni in cui facevamo sorve-
glianza, alla polveriera, quelli che cacciavano i cinghiali nelle casse du-
rante le loro presunte battute di caccia, come mi disse qualche superiore
quando relazionai l’evento.
Non avevo più quella sudditanza nei confronti dei superiori o della isti-
tuzione stessa, i mesi trascorsi a Camp Darby mi avevano consentito di
comprendere molte cose, molte ipocrisie, molte differenze fra quel che
24
Singole Esperienze collettive
avrebbe dovuto sembrare e quel che effettivamente era la forza armata e le
sue componenti. Dentro la base avevo conosciuto gli operatori delle forze
speciali italiane ed americane, avevo compreso che esistevano strutture non
ortodosse, respiravo il clima di quel periodo che caratterizzava l’atmosfera
di Camp Darby; base che era molto importante, inserita negli equilibri
mondiali mantenuti dai due blocchi contrapposti fra est ed ovest. Il muro
di Berlino era ben saldo e nessuno ancora poteva immaginare che pochi
anni dopo sarebbe crollato e con lui i due blocchi che hanno caratterizzato
la guerra fredda per decenni.
Il mio diciottesimo compleanno lo festeggiai con quella ragazza incontra-
ta sul treno il giorno del mio congedo, Tatiana, divenni maggiorenne e
questo la sollevò da ogni eventuale complicanza penale. Ripresi il normale
percorso scolastico e di addestramento fino a quando sono stato di nuovo
prosciolto, questa volta senza tante scuse, mi fu detto che era un fatto che
avrei dovuto accettare le cui ragioni le avrei comprese successivamente.
I miei parenti all’ambasciata americana mi confermarono infatti che presto
sarei stato di nuovo arruolato, direttamente alla Folgore e che nel frattem-
po avrei soltanto dovuto riprendere i contatti con Camp Darby. Così feci
fino a quando nel Settembre del 1987 sono stato arruolato nella Brigata
Paracadutisti Folgore, nella quale dovetti simulare di non aver mai avuto
esperienze militari prima di allora, dovetti comportarmi come un normale
diciannovenne chiamato alle armi, come tutti gli altri giovani che si affac-
ciavano per la prima volta alla vita militare.
Sono stato inviato alla “Smipar” (scuola militare di paracadutismo) per ac-
quisire il brevetto di paracadutista militare, una volta ottenuto sono stato
quindi inviato al reparto operativo a Livorno, al 185°, ove transitai nei ruo-
li di carriera. Paradossalmente mi accolse proprio un sottufficiale che aveva
fatto il 58° corso con me, che con me era parte di quel gruppo elitario di
aspiranti paracadutisti, che con me aveva condiviso dieci mesi, gomito a
25
L’età uniformata
gomito. Il quale mi riconobbe ma non fece domande, aveva già visto cose
simili, colleghi che scomparivano per lungo tempo per poi tornare con gra-
di diversi e con il foglio matricolare in bianco, ormai era dentro il mestiere
e pensava che anche io fossi inserito in qualcosa del genere.
Al reparto non esistevo, nel senso che c’ero ma non partecipavo alle sue
attività, dopo l’alzabandiera andavo a Camp Darby fino al pomeriggio
quando tornavo in caserma e quindi me ne andavo a casa mia, vivevo
ancora con i miei.
Fino a quando nel Gennaio del 1988 sono stato definitivamente congeda-
to dall’Esercito Italiano, dopo tre anni di una singolare carriera, dopo tre
diversi arruolamenti e tre diversi congedi.
Parlavo correttamente inglese e ancora non avevo ben compreso per chi
lavorassi o che cosa avrei dovuto fare, il congedo fu la fine di una sorta di
corso, durato ben tre anni.
è stato in questo periodo che ho potuto apprendere ed imparare a pedi-
nare, ad attivare delle contromisure di sorveglianza, ad usare le armi, gli
apparati radio, ad apprendere le tecniche e le procedure per operare in
modo diverso dal classico militare di caserma, in modo ambiguo, strano,
marginale ed emarginato, solitario.
Alla Folgore mi sono sentito un fantasma, avevo atteso tanto per farne par-
te ed ora che c’ero ero praticamente invisibile, inserito fra gli invisibili, lon-
tano dal gruppo, dalla squadra, dal plotone, dagli altri. Parte di qualcosa
di sconosciuto ai più, di qualcosa di non facilmente interpretabile e molto
difficile da spiegare, qualcosa che era definito una sorta di dispositivo del
quale nulla sapevo.
Diciannove anni erano pochi, ma come diceva mio zio Domenico, i miei po-
chi anni contenevano già molto perché avevo vissuto in quegli ultimi tre delle
esperienze importanti che avevano consentito di concretizzare le mie qualità
interne ed esterne, maturando una consapevolezza fuori dal comune.
26
Singole Esperienze collettive
Per il resto del mondo ero un giovanissimo paracadutista, uno dei tanti,
anonimo e assolutamente compatibile con quell’ambiente, per altri ero un
sicuro e fidato collaboratore, come appare da alcuni rapporti informativi
della Difesa che mi riguardano. Ero felice di aver comunque raggiunto il
traguardo che mi ero prefissato, di aver superato le difficoltà e gli ostacoli,
sapevo che la Folgore era impegnata in tante operazioni non tutte cono-
sciute ed alcune riservate, sapevo dell’operazione in corso in Perù e di altre,
ero un giovane uomo pieno di energia, concentrato in particolare verso
ciò che la mia età mi stimolava, come le donne, la scoperta dei sentimenti,
della passione, l’autonomia lavorativa, l’indipendenza economica, la moto
ed i viaggi, cose da giovani.
Mi aspettavo di essere chiamato a fare quelle missioni delle quali sentivo
parlare dai colleghi più anziani e dagli americani, quelle dove sparisci per
un pò per andare in qualche zona calda, d’altronde i miei parenti mi ave-
vano consentito di comprendere la serietà del lavoro dell’ufficio ove erano
impiegati e m’immaginavo una sorta di attività del genere nel mio prossi-
mo futuro, anche se avevo dismesso l’uniforme, ma in fondo non ero così
interessato a fare la vita di caserma. Un ufficiale mi disse sarcasticamente
che ero un ottimo soldato ma un pessimo militare.
Non mi sarei mai aspettato invece quel che è accaduto nel Marzo del 1988,
quando sette carabinieri hanno suonato alla mia porta e mi hanno arresta-
to. Diciannove anni erano pochi, anche se ne dimostravo ventisette, erano
pochi per vedermi ammanettato.
27
ARIA O SALETTA?
Il carcere è un contenitore di libertà. Non c’è nulla di poetico in carcere se
non la poesia dei carcerati per evadere dalla propria detenzione. Ogni cosa
dentro il carcere è psicologicamente studiata, dai colori delle mura alla ge-
stione dei rumori delle sbarre e delle porte blindate. Non c’è nulla dentro
il carcere se non la psicologia pura nella espressione dei suoi meccanismi
difensivi per fuggire da quella realtà dolorosa quale è la consapevolezza
della propria prigionia.
“vieni dalla libertà?” Mi chiese una guardia mentre mi stavano introducen-
do all’interno del carcere nel quale sarei rimasto per settantasette giorni.
Non risposi come non risposi mai più a nessuna domanda, a nessuna of-
fesa, a nessuna provocazione, se non con cenni facciali e accenni gutturali
per rispondere positivamente o negativamente alle sole domande che mi
hanno fatto mentre stavo dentro una gabbia, “aria o saletta?”.
19 anni erano pochi per essere contenuto dentro una cella, erano il fulcro
della libertà per qualsiasi adolescente in evoluzione, proteso verso la vita
e le scoperte che la vita consentiva di esperire. Mi sono accorto di essere
un ragazzo, un ragazzo di diciannove anni mentre la cella mi fu chiusa alle
spalle della sezione in cui mi parcheggiarono, nel momento in cui la guar-
dia chiuse la blindata con le mandate, il cui suono mi è rimasto impresso
nella memoria per anni. Da quell’esatto momento non ho più avuto ter-
rore di nulla, da quel momento la paura non è stata più il mio sensore ma
una sorta di siringa per adrenalina.
Il carcere è un contenitore di libertà. Parola che non avevo mai effettiva-
mente preso in esame; sembrava così scontata la libertà durante le mie
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Singole Esperienze collettive
lunghe passeggiate nei boschi, le mie nuotate in mare aperto, le mie gite in
motocicletta, i miei voli con il paracadute, durante l’espressione dei senti-
menti e della passione dell’amore.
Non ero più libero ma un detenuto contenuto dentro un contenitore di
detenuti, oggetti e non più soggetti, cose di una casa circondariale.
Dei prigionieri.
Ero e mi consideravo un prigioniero e non un detenuto, il mio essere sol-
dato non era venuto meno solo perché poche settimane prima ero stato
posto in licenza illimitata senza assegni dall’Esercito, in attesa di congedo.
I giorni passavano nel nulla più assoluto, caratterizzato dalla mia scelta di
andare in saletta o all’aria durante l’ora consentita per uscire da quei centi-
metri della cella. Niente se non la mortificazione dei toni delle guardie, le
botte che prendevo per il mio rifiuto di chiamare “superiore” le guardie stes-
se. Infatti questo era il termine con il quale pretendevano di essere appellate
altrimenti non rispondevano a nessuna richiesta, che doveva essere obbliga-
toriamente fatta per scritto attraverso il modulo detto “la domandina”, da
richiedere alla guardia tramite la manifestazione di sudditanza chiamando-
lo appunto “superiore”. Ero stato un soldato per oltre tre anni, un paraca-
dutista, assistere a uomini in uniforme che si comportavano da persecutori
mi rendeva solo rabbioso e non vittima delle loro angherie, anche laddove
prendevo le botte o quando mi portavano alle cellette per somministrarmi
una serie di trattamenti molto violenti, soprattutto psicologicamente vio-
lenti. Fortunatamente l’addestramento ricevuto e le mortificazioni vissute
durante gli anni in uniforme mi hanno consentito di affrontare quella espe-
rienza, alla quale non era possibile reagire ma solo resistere.
La minaccia costante che mi veniva fatta era quella di una relazione negati-
va o di una denuncia da parte di una guardia, che avrebbe potuto non solo
peggiorare la situazione attuale ma anche svilupparne nuove e ben peggiori
fino ad allungare la permanenza in carcere.
29
Aria o saletta?
I giorni passavano ed io giocavo alla libertà, immaginandomi gli spazi
amati, immaginandone i colori che mi hanno fatto innamorare degli spazi
liberi come il verde del prato, l’azzurro del cielo ed il blu del mare. Giocavo
alla libertà mentre scrivevo parole piene d’amore alla fidanzatina che avevo,
un’amica d’infanzia, una compagna di scuola, una vicina di casa che poco
dopo divenne una poliziotta. Non smetterò mai di ringraziarla, perché se
sono riuscito a resistere dentro quella gabbia lo devo anche a lei ed al suo
meraviglioso modo di amare l’amore, con l’intelligenza e l’ironia, anche
nei momenti terribili come quelli, per due diciannovenni che eravamo;
affacciati alla finestra della vita, già decisi sul nostro futuro, incapaci di re-
agire a quel trauma se non con la fantasia dell’amore che abbiamo espresso
in tanti fogli bianchi colorati di emozioni, con i quali ci scambiavamo i
pensieri autistici dell’amore contenuto dentro una gabbia, nella quale ero
solo un cane e non avevo nemmeno il diritto di abbaiare.
Dopo un paio di settimane una guardia mi portò dentro una stanza, ogni
volta che uscivo dalla mia gabbia, ad ogni passaggio attraverso ogni singola
porta, cancello o blindata che fosse subivo una perquisizione. “Collega” così
si chiamavano fra di loro le guardie nell’avvisarsi mentre raggiungevamo
un filtro, un cancello o un ufficio. Non ho mai sentito o saputo un loro
nome se non quello di una guardia che avevo conosciuto prima del mio
arresto, il quale quando mi ha visto giungere in carcere mi ha guardato con
gli occhi sorpresi e sofferenti, in silenzio, in quei pochi secondi in cui ci
siamo guardati abbiamo deciso di non esserci mai conosciuti prima.
Nella stanza incontrai un uomo che avrà avuto più o meno una quarantina
di anni, aspetto militare, che non avevo mai visto prima. Mi chiese infatti
se avessi avuto l’impressione di conoscerlo o di averlo visto da qualche
parte durante il mio servizio militare. Mi chiamava per nome, Fabio, stra-
no per un militare pensai, generalmente si rivolgevano nei miei confronti
sempre con il cognome, col grado oppure con qualche simpatico sopran-
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Singole Esperienze collettive
nome stimolato dal mio stesso cognome, con tutte le sue possibili interpre-
tazioni. Non si qualificò, non disse a quale reparto apparteneva, non disse
nemmeno di essere parte di una amministrazione dello Stato, quel giorno
si limitò a guardarmi, a chiamarmi per nome e ad osservarmi. Ascoltò il
mio silenzio per una decina di minuti poi se ne andò.
Avevo deciso di non avere alcun rapporto con gli altri detenuti, nessu-
na forma di amicizia, nessun contatto oltre quelli obbligatori o necessari,
nessuna relazione. D’altronde per loro ero una sorta di sbirro e non mi
vedevano di buon occhio, capirono solo che non ero amato dalle guardie
dalle volte in cui prendevo le botte o quando tornavo dalle cellette con il
viso gonfio di “schiaffi e solette”.
La saletta era una stanza di poco più grande della cella, ma sempre troppo
piccola per contenere tutti i detenuti di quel braccio, nella quale avevamo
la possibilità di giocare a scacchi oppure di leggere qualcosa. L’aria era
semplicemente un cortile murato ove muoversi, correre in circolo come i
topi, giocare a calcio. La saletta era anche il luogo ove assemblarci durante
le perquisizioni generali, quelle grosse, fatte in ogni cella con l’ausilio dei
cani; rinchiusi in questa saletta, nudi, mentre le guardie, che non erano
le solite della sezione ma di un altro reparto, controllavano e devastavano
quel poco che avevamo nelle celle. In cella d’altronde era possibile ave-
re ben poco oltre la chiave del piccolo armadietto situato all’esterno, per
aprire il quale occorreva chiamare un “superiore” e chiedere gli oggetti per
l’uso quotidiano che vi erano riposti, il cibo comprato a caro prezzo dallo
“spesino” ed altre cose.
Qualche giorno più tardi sono stato di nuovo portato al cospetto dello
stesso uomo, il quale questa volta mi disse quel che avrei dovuto fare, cioè
la “spugna”, semplicemente la spugna. Assorbire notizie ed informazioni
e riportarle a lui o a qualche altro suo delegato. Non si qualificò, non
disse nulla altro se non le indicazioni relative ai due detenuti dai quali
31
Aria o saletta?
avrei dovuto captare notizie, senza cercarle, solo assorbirle laddove sentite;
erano due uomini coinvolti in fatti di sangue, di armi e di eversione, con
omicidi sulla coscienza e senza coscienza sugli omicidi commessi in danno
di altri detenuti.
Anni dopo riconobbi quest’uomo in un ufficiale paracadutista, transitato
dalla Folgore al Sismi, indicato da una fonte qualificata, un ambasciatore,
di essere un appartenente alla Falange Armata, un operatore dell’ufficio
“K” della settima divisione del Sismi, quella di Gladio.
33
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
I ferri da campagna, così erano chiamati i braccialetti di metallo con le
maglie e la catena, mi stringevano i polsi tanto da farmi male mentre le
guardie mi trasferivano dal cellulare al tribunale per essere processato. La
lunga catena mi teneva legato a loro come un guinzaglio che sembrava non
finire mai. Mi misero dentro una gabbia nell’aula del Tribunale, offerto
agli occhi di tutti coloro presenti. Iniziò il dibattimento che ripercorse le
varie fasi dei presunti fatti che causarono il mio arresto, degne di essere
valutate e comprese per capire quanto era facile, per chiunque, finire in
galera con il vecchio codice penale, quello prima della riforma del 1989,
anche senza particolari intenzioni di incastrare qualcuno da parte di qual-
che poliziotto ossessionato dal proprio ruolo, dal bisogno di emergere e di
raccogliere encomi.
Nel Dicembre del 1986 un noto transessuale, prostituta abituale, raggiun-
se una piccola stazione dei Carabinieri per denunciare che la notte prima
aveva subito un furto, uno stereo portatile e 300.000 lire, da parte di un
giovane con il quale aveva avuto un rapporto sessuale dentro la sua abi-
tazione. Indicò il giovane come un militare, un amico del suo fidanzato,
anche questo militare, che il transessuale disse essere un carabiniere, un
carabiniere paracadutista.
Nel corso di pochi giorni egli cambiò per tre volte i contenuti della sua de-
nuncia senza mai indicarmi o segnalare nulla che potesse essere ricondotto
a me, fino a quando disse di avermi riconosciuto dentro un pub. Indicò ai
Carabinieri il mio nome ed il mio cognome che asserì di averli estratti da
un mio documento d’identità che qualcuno gli mostrò. In effetti ricordo
che una sera del marzo 1987, mentre mi trovavo dentro un noto pub cit-
34
Singole Esperienze collettive
tadino, in compagnia di due incursori paracadutisti, notai la presenza di
questo transessuale, molto noto in città, insieme ad un ragazzo che sapevo
essere un carabiniere paracadutista.
Mi fu presentato e mi chiese notizie circa un altro carabiniere paracadutista
che avevo probabilmente conosciuto, chiedendomi se avessi saputo qual-
cosa circa la sua attuale destinazione che indicò in una caserma di Bologna,
nella quale poco tempo dopo avverrà un massacro di Carabinieri.
Qualche giorno dopo alcuni carabinieri perquisirono la mia abitazione
dicendomi che ero stato accusato di rapina in danno del transessuale
e che cercavano lo stereo ed i soldi che secondo questi gli avrei rubato
durante il rapporto sessuale che, sempre secondo quanto detto dal tran-
sessuale, avremmo avuto il 16 Dicembre 1986. Negai ogni addebito e
accompagnai i carabinieri, diretti dal comandante della stazione nella
quale il transessuale aveva sporto la denuncia nella mia stanza, ove trova-
rono e sequestrarono un pugnale tipo militare ed una pistola giocattolo,
la riproduzione di quella vera, ma a salve. Non fu trovato nessun oggetto
riconducibile alla presunta rapina.
Nel frattempo proseguivo la mia strana carriera militare presso i vari reparti,
non seppi più nulla per un anno fino al giorno del mio arresto avvenuto nel
mese di marzo dell’anno successivo, giustificato dalla richiesta della custodia
cautelare in carcere per il pericolo di fuga e d’inquinamento delle prove.
Arresto richiesto con queste motivazioni a distanza di quindici mesi dal
presunto evento, mesi nei quali sarei potuto fuggire o avrei avuto il modo
di inquinare qualsiasi prova. Mesi nei quali ho servito lo Stato ricevendo
rapporti informativi e note caratteristiche più che positive.
Il processo fu caratterizzato dalla ilarità da parte degli astanti per gli argo-
menti trattati e per il modo che il transessuale aveva di raccontare i fatti,
contraddicendosi molto spesso, incalzato dalle domande del mio avvocato,
un principe del foro livornese grande amante de “il Vernacoliere”.
35
In nome del popolo italiano
L’evento che fece realmente ridere tutti fu quando il giudice chiese al tran-
sessuale di riconoscermi ed indicarmi, il quale aveva la scelta di indivi-
duarmi fra me ed una ragazza di colore che mi stava accanto, non sbagliò.
Questo fatto stimolò quella mia reazione emotiva che avevo contenuto
nei lunghi mesi di prigionia.
Sono stato condannato al massimo della pena, anni tre e mesi uno di
reclusione con l’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque, per i
reati di rapina e di armi.
Avevo già trascorso settantasette giorni in carcere e la prospettiva di pas-
sarci degli altri anni mi gelò il sangue.
Non rimasi soltanto colpito dalla condanna, per armi in special modo,
ma dalla sua entità, il massimo della pena per un diciannovenne incensu-
rato, che fino ad allora aveva fatto il militare di carriera, che nel periodo
nel quale fu consumato il presunto reato aveva compiuto diciotto anni da
pochi mesi. Soprattutto ero deluso dal fatto che non riuscii a dimostrare
che nei giorni in cui il transessuale disse che avvenne il fatto, ero alla base
americana Ederle di Vicenza.
Durante il viaggio di rientro in carcere sviluppai con l’immaginazione un
piano di fuga, avrei potuto colpire la guardia alla mia destra, disarmarla
e minacciare l’altra per togliermi i ferri, quindi evadere e raggiungere la
Francia. Purtroppo il tragitto fu più breve della mia fantasia e arrivammo
al carcere prima della fine della mia fantasiosa fuga. Ero scioccato, condan-
nato al massimo delle pena per qualcosa che non solo non avevo mai fatto,
ma che da quanto emerse al processo era evidente che non fosse mai av-
venuto. Pensai che probabilmente quella era una sorta di missione, pensai
che da fare solo la spugna sarei stato inoltrato in qualche altro carcere per
infiltrarmi in chissà quale gruppo eversivo, che la condanna per armi era
probabilmente una sorta di biglietto da visita per accreditarmi in qualche
modo verso la criminalità che avrei dovuto infiltrare. Volli pensare questo
36
Singole Esperienze collettive
per non affrontare il pensiero che ero stato condannato a tre anni ed un
mese di galera, che non ero più un incensurato, che la mia fedina penale
era stata sporcata. Avevo solo diciannove anni.
Qualche ora dopo, mentre ero nella mia gabbia subendo le grida degli altri
detenuti enfatizzati dalla notizia della mia condanna, mi raggiunse una
guardia dicendomi che era giunto l’ordine di scarcerazione e che sarei stato
trasferito agli arresti domiciliari, ove rimasi per altri cinque mesi.
Il carcere è stato il contenitore della mia libertà mentre gli arresti domici-
liari furono la mia libertà contenuta.
Vedevo tutto ciò che non potevo fare, dalla semplice passeggiata alla possi-
bilità di evadere. Erano una vera tortura psicologica, ove avevo tutto rispet-
to al nulla del carcere, mangiavo, avevo i miei affetti vicino, non c’erano le
guardie a prendermi a botte, ma sono stati ben peggiori del carcere perché ai
domiciliari ero la guardia di me stesso, ero il mio principale persecutore.
Ho festeggiato i miei venti anni di età da prigioniero, fu un complean-
no triste con le candele spente. Un giorno squillò il telefono e qualcuno
dall’altra parte della cornetta mi disse che ero stato rimesso in libertà.
Nonostante la mia giovane età ed il trauma che avevo vissuto, iniziato sin
dal mio primo strano congedo del 1985 fino al giorno del mio arresto,
cercai di capire in cosa ero stato coinvolto, sforzandomi di analizzare ogni
fatto al quale avevo partecipato o che avevo potuto sapere durante la mia
permanenza nelle varie caserme italiane oppure a Camp Darby.
Dal 1985 al 1988 la mia vita è stata caratterizzata dalla carriera militare,
dalle basi americane, dai paracadutisti. In qualche modo il soggetto che
mi aveva denunciato era riconducibile a questi elementi. Era un informa-
tore dei carabinieri, il suo fidanzato come egli ha ammesso e dichiarato in
atti era un carabiniere paracadutista, che avevo conosciuto dentro Camp
Darby. La sera che lo incontrai al pub ero con due incursori che lo co-
noscevano, anch’essi presenti spesso a Camp Darby i quali assistettero al
37
In nome del popolo italiano
nostro colloquio, mentre era in compagnia di un altro carabiniere para-
cadutista spesso presente alla base americana. Ancora non sapevo che uno
di questi due incursori, entrambi transitati dal Col Moschin al Sismi, era
un collaboratore del soggetto che mi chiese di fare la spugna. Ancora non
sapevo che l’altro incursore lo avrei rivisto durante il confronto che avrei
svolto alla Procura di Livorno venti anno dopo, relativo le indagini della
tragedia del traghetto Moby Prince. Ancora non sapevo che il giudice che
dispose il mio arresto sarebbe stato a sua volta arrestato e che un altro
giudice aveva il figlio tossicodipendente che prendeva la roba dallo stesso
fornitore del transessuale e di suo nipote, quest’ultimo poi morto per
overdose, tutti confidenti della polizia e dei carabinieri.
Nel momento in cui appena liberato andai a tuffarmi in mare aperto, men-
tre nuotavo, sapevo solo che avrei impiegato ogni mia risorsa per dimostra-
re la mia innocenza, per dire ai miei genitori che loro figlio aveva patito
quella tortura, e loro con me, senza colpa.
Il mare mi accolse ancora una volta con tutta la sua energia, era freddo,
provai una profonda sensazione di benessere, ad ogni bracciata l’acqua si
mischiava con le mie lacrime, le mie lacrime erano libere ed io con loro.
Quando incontrai i miei due parenti che lavoravano all’interno dell’am-
basciata americana di Roma, mio cugino Massimo e mio zio Domenico
impiegati al controspionaggio militare, mi dissero che quanto mi era acca-
duto era terribile, ma che ero stato considerato dai loro amici positivamen-
te per come avevo reagito, resistito e superato l’evento senza mai perdere la
calma. Che presto avrei avuto modo di riprendere la mia vita, di fare il mio
lavoro, l’unico che sapevo fare e che avevo fatto negli ultimi quattro anni
dei miei venti anagrafici, il lavoro del soldato.
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LEGIO PATRIA NOSTRA
Aubagne mi ha visto arrivare a bordo di una motocicletta con la pioggia
d’inverno, che abbandonai poco prima il cancello d’entrata del quartier
generale della Legione Straniera francese, il quale sembrava la bocca di un
imbuto che ingoiava centinaia di vite, per farle sparire e rinascere con un
kepì blanc calzato in testa, dopo aver distrutto e ricostruito la personalità
e la persona che aveva scelto di arruolarsi in questo mitico e mitizzato
reparto militare.
Mi accolse un legionario di origine ispanica, il quale dopo avermi intro-
dotto all’interno di alcuni locali mi prese i documenti, mi guardò, sorrise
beffardamente e mi salutò in francese. Dentro la caserma la vita era simile
a tutte le altre organizzazioni militari, cambiava solo il tipo di uniforme
ed i toni della cadenza che guidava la marcia, che nella Legione era molto
più lenta rispetto agli altri reparti, con un passo dolce, cantato, leggero. Mi
dettero una tuta ginnica con i colori della Legione, rosso e verde, raggiunsi
uno stanzone dove trovai gli altri aspiranti legionari, provenienti da mezzo
mondo, molti giovani, alcuni giovanissimi, qualcuno giunto in gruppo,
altri, come me, da soli.
La giornata era strutturata con adunate generali, chiamate con un fischio,
nelle quali alcuni legionari ci spiegavano, in francese, le attività da svol-
gere, quindi dall’attesa dietro il piazzale, ove c’era un grosso albero ed
una sorta di cortile sterrato, nel quale ci radunavamo in attesa del fischio,
senza nessun legionario a controllarci; le risse erano frequenti, qualche
cazzotto volava sempre fra i più nervosi, forse i più indecisi. C’era di tutto,
ragazzi in fuga da mandati di cattura, uomini in cerca di una nuova vita,
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Singole Esperienze collettive
ex militari innamorati del proprio lavoro, sognatori, frustrati, delinquen-
ti, vittime, varia umanità che la Legione avrebbe accolto, forgiato e reso
strumento per il governo francese.
La “gestapò” era la sezione della polizia militare della Legione Straniera,
ove incontrai un ufficiale che mi fece alcune domande, mi presero le im-
pronte, non ricordo se mi fecero anche la fotografia, ricordo invece il
commento di un legionario che sorridendo disse che sapevo come usare il
tampone dell’inchiostro, facendomi così capire che le informazioni su di
me le avevano già prese.
C’era un giovane ragazzo bianco proveniente dal Sud Africa, che parlava
uno strano inglese ed uno strano francese, avrà avuto diciotto anni, con
il quale feci coppia sia in camerata che nel cortile d’attesa, difendendoci
uno con l’altro contro qualche scatto di rabbia di uno dei tanti disperati,
specialmente quelli che non avevano scelto la Legione ma che non aveva-
no altra scelta nella vita, forse inseriti nella lista catturandi del loro paese
d’origine, forse semplicemente disperati che mal digerivano gli ordini e
l’inquadramento militare, specialmente quello della Legione Straniera che
non era certo un luogo di educande.
Alla momento della firma del contratto parlai con un ufficiale che mi spie-
gò che per i prossimi cinque anni sarei stato proprietà della Legione Stra-
niera francese, che avrei potuto cambiare il mio nome, che al termine della
ferma avrei potuto continuare la carriera militare oppure tornare alla vita
civile con un nome nuovo e la nazionalità francese, che il fatto che ero già
stato un paracadutista non contava nulla e che per diventare un parà della
Legione avrei dovuto eccellere in ogni attività. Nell’ufficio c’era anche un
legionario che mi parlò in italiano, infatti era italiano, il quale dopo che fir-
mai il contratto mi portò alla vestizione, ove ricevetti una uniforme verde
da lavoro per affrontare le settimane successive, caratterizzate da un colore
di un nastrino che cambiava in base al superamento di alcune selezioni,
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Legio Patria Nostra
fino a raggiungere l’arruolamento e l’invio presso la scuola di addestra-
mento nella quale dopo alcuni mesi di corso i soldati avrebbero ricevuto
l’emblema della Legione Straniera, il kepì blanc, con una caratteristica ce-
rimonia, fra canti e falò, fino al grido del motto “legio patria nostra” che
suggellava l’entrata nel mito.
Non raggiunsi mai quel momento, me ne andai prima, nonostante avessi
già firmato il contratto, ma ebbi modo di scambiare due parole con un
americano che, portandomi i saluti di mio cugino Massimo, mi propose di
entrare in alcune strutture private, ove portare la mia esperienza e la mia
voglia di imparare, ove avrei potuto continuare a fare il soldato senza le
costrizioni di un reparto militare.
Londra sembrava un grosso nuvolone con la gente sotto, non mi piaceva, era
fredda, umida e soprattutto grigia, mi mancava il mare, il sole che in quella
città non ho mai visto; fortunatamente il tempo era poco perché lo impe-
gnavo tutto nell’imparare questo mio nuovo lavoro, quello del consulente
privato per la sicurezza, inserito all’interno di un dedalo di società private in-
ternazionali, la maggior parte americane ed israeliane, che offrivano i più vari
servizi di sicurezza e di intelligence alle grandi industrie, a qualche governo,
ai grandi finanzieri, agli investitori nei paesi considerati ad elevato rischio,
quelli nei quali c’era una guerra in corso, c’era stata oppure avrebbe potuto
esserci in base ai rapporti della valutazione del rischio stilati dagli operatori in
teatro che misuravano la febbre ai vari leaders delle fazioni in lotta, special-
mente nei paesi africani. Stavo imparando l’arte della captazione, del pedi-
namento e delle contromisure di sorveglianza, stavo imparando a dossierare,
a compilare e valutare i rapporti informativi descriventi persone e strutture,
fatti e situazioni, mi addestravo fisicamente e mentalmente per affrontare le
difficoltà che avrei incontrato nei teatri operativi, stavo imparando le lingue
in attesa di raggiungere il prossimo paese di destinazione, la Germania Est;
era il 1989, avevo ventuno anni e stavo ringiovanendo.
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CHECK POINT CHARLIE 1989
Il treno era freddo, molto freddo, stavo viaggiando di notte in Germa-
nia diretto a Berlino, quando vidi per la prima volta due guardie della
Germania Est che erano salite a bordo per il controllo dei documenti dei
viaggiatori, era così strano vedere di persona il simbolo della guerra fred-
da, il nemico che mi avevano insegnato a temere, quello protagonista dei
tanti film nei quali Berlino era sempre stata rappresentata con un velo di
romanticismo e di tristezza; in realtà l’unico film che ben mi ricordavo era
stato “noi i ragazzi dello zoo di Berlino” e tanto romantica quella città non
mi apparse, come poco gentili furono i due militari della Germania Est,
che marciavano in modo così marziale anche mentre camminavano; pensai
per questo a quanto doveva essere stato pressante il condizionamento che
avevano subito e che probabilmente doveva essere costante durante tutta
la loro giornata.
Al mattino raggiunsi Berlino Ovest, lo “zoo” del film, cioè la stazione ferro-
viaria; la città era divisa nei settori inglese, americano, francese e quindi la
Berlino Est, d’influenza sovietica, triste.
Provai delle sensazioni strane, non avevo mai patito tanto freddo quanto
quel giorno, capii di essere molto lontano da casa, capii di essere immerso
nella parentesi della storia, al centro dell’asse che equilibrava gli scenari
mondiali, in una città distrutta e ricostruita sopra quella vecchia; la palude,
questo significava Berlino, un tempo sede di quella pazzia che era stato il
nazismo i cui simboli potevo vederli ancora in alcuni vecchi angoli della
città mai ricostruiti, le cui conseguenze erano davanti ai miei occhi, una
città divisa, fredda, grigia e triste, molto triste.
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Singole Esperienze collettive
I giorni trascorsero e piano piano imparai a muovermi all’interno della città,
fra i vari settori, specialmente imparai a capire che il Check Point Charlie chiu-
deva alle ventitre e che dopo sarebbe stato molto difficile tornare nel settore
occidentale senza incappare negli incessanti controlli della polizia dell’est,
molto simile ai personaggi dei film, con i loro vestiti neri di finta pelle,
le espressioni serie e quell’atteggiamento di perenne incazzatura, d’altronde
non è che facessero una vita particolarmente brillante oltre quel muro.
Conobbi Sabine, una meravigliosa giovane ragazza di Berlino Est che ama-
va pattinare, la incontrai in uno dei miei primi passi dall’altra parte del
muro, diffidandone subito convinto che fosse una sorta di guardia intenta
a capire i motivi delle mie visite, con la quale imparai l’arte della terribile
colazione dell’est formata da cibo dagli strani sapori, forti ed acuti. Nel
settore ovest mi spacciavo per un bisessuale italiano in cerca di libertà, in
fuga dalla oppressione italiana e speranzoso di trovare nella città aperta di
Berlino l’accoglienza gradita fra la numerosa comunità gay, bisex, lesbo
presente in città, con i suoi locali, le sue strade a tema, la sua atmosfera di
libertà come se fosse l’ultimo giorno sulla terra.
Il mio lavoro consisteva nel mettere in pratica quello che avevo imparato
a Londra, cioè penetrare gli obiettivi d’interesse, di volta in volta indicati
da coloro con cui collaboravo; obiettivi, cioè persone, di cui poco sapevo,
che frequentavano quei locali bisex nei quali io stesso mi ero inserito, che
avvicinavo fino a farmi portare nella loro casa o nella loro auto, ove poter
piazzare degli ambientali, prima di abbandonarli senza averne soddisfatto
i desideri, con uno dei migliori metodi per non stimolare la loro ira o la
loro curiosità, il vomito, bastava infatti simulare di vomitare e sputacchiare
qua e là per ridurre ogni velleità sessuale nei miei confronti, giustificando
che come italiano non ero abituato a bere tutta quella birra, scoraggiandoli
così dal persistere ogni approccio sessuale, da rimandare a tempo indeter-
minato, mai. Un pomeriggio mentre ero nel settore est ho assistito a come
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Check Point Charlie 1989
la storia può cambiare in un secondo, vidi la gente radunarsi come mai
prima, con le guardie che avevano delle espressioni fra il sorpreso ed il cu-
rioso, Sabine abbandonò i suoi pattini, mi prese la mano e mi disse di cor-
rere via, di tornare all’ovest perché non capiva quel che stava accadendo ma
sapeva quanto era elevato il rischio di finire in mezzo ad una sparatoria, co-
nosceva la violenza delle guardie, riconobbe le macchine degli uomini della
famigerata Stasi, corse dai suoi genitori che nel frattempo la raggiunsero
con la loro piccola Trabant, un’auto strana e buffa, simile alla Nsu Prinz
che aveva avuto mia madre prima di rinunciare a guidarla, dopo averla
battuta contro ogni cosa in movimento. Le dissero che non sapevano cosa
stava accadendo ma che era qualcosa di grande, mi sembrava di essere stato
proiettato in un passato remoto, con i colori, gli abiti, l’atteggiamento ed il
comportamento di quella gente, i cui sguardi esprimevano tanta paura ma
anche la speranza che qualcosa potesse cambiare. Entrai anche io in quella
strana scatola di metallo con le ruote piccole, che puzzava di miscela, ricor-
dandomi la mia vespa 125 ET3 primavera che avevo avuto qualche anno
prima, ereditata da mio fratello.
Raggiungemmo una fila di altre macchine, molte Trabant e qualche altra
appena più grande, piene di gente, non era mai accaduto prima che a
Berlino Est si potessero riunire così tante persone senza che le guardie ini-
ziassero a sparare, anche se lanciavano l’acqua con gli idranti, che si gelava
addosso dal freddo che c’era, stimolando delle danze spontanee simili a
quelle che facevano i deportati nei capi di concentramento.
Era il 9 Novembre 1989.
Quella sera ho avuto l’opportunità di fare la pace con la mia libertà, perduta
dentro un carcere italiano e mai ritrovata nonostante l’apertura della cella,
perché la libertà è uno stato d’animo e non solo la possibilità di muoversi.
La folla cresceva di ora in ora, sfidando quei pochi poliziotti che ancora
non si erano resi conto che anche loro erano di fronte alla possibilità di la-
46
Singole Esperienze collettive
sciare quel luogo triste e grigio, i quali manganellavano qualcuno di tanto
in tanto, fino a comprendere la stupidità di quel gesto, fino a diventare essi
stessi folla, che premeva contro un muro orribile, il quale dividendo Berli-
no aveva diviso il mondo intero; sparirono le armi ed apparsero i picconi,
le mazze, qualcuno arrivò con una ruspa vecchia, ma non riuscì a fare nulla
perché nel frattempo si guastò.
Da una parte e dall’altra del muro la gente si radunava, chiedendone a gran
voce l’abbattimento, le guardie sopra il muro stesso avevano riposto le armi
ed ormai erano solo il simbolo di un’epoca finita, caduta come stava per
cadere il muro, non crollato ma smembrato pezzo per pezzo, parete per
parete, sgranellato dalle tante unghiate di libertà, come piccoli morsi di
topi ansiosi di fuggire dalla gabbia.
Sabine piangeva e rideva, il padre aveva sognato di poter rivedere la sorella
rimasta all’ovest durante la costruzione del muro, la madre era invece fer-
ma, immobile dentro la piccola macchina, incredula; c’erano stati molti
morti prima di allora a causa degli spari delle guardie che colpivano chiun-
que avesse tentato di superare quel muro, ed ora quel mostro si era aperto,
crollato sotto il suo stesso peso, pronto ad accogliere le speranze ed i sogni
dei tanti berlinesi dell’est che in fretta e furia avevano caricato le piccole
macchine e si erano messi in fila per passare all’ovest, fuggire via da quel
mondo vincolante e pressante, dal controllo della Stasi, dalle delazioni, dai
comitati, dalla burocrazia, dalla povertà e soprattutto dal contenimento
fisico e culturale opprimente e deprimente.
Con Sabine ci perdemmo nella folla, non l’ho più rivista, non ho più sa-
puto nulla di lei e della sua famiglia, ogni tanto m’immagino che starà pat-
tinando in qualche città tedesca con i suoi figli, ai quali racconterà come
crollò il muro di Berlino, in compagnia di quel ragazzo italiano che parlava
tedesco con un terribile accento toscaneggiante, che riuscì a cucinare degli
spaghetti alla carbonara all’interno di una bettola dalle parti di Alexander
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Check Point Charlie 1989
Platz, per dei palati che poco capirono del gusto ma che apprezzarono il
coraggio della libertà trasformato in una mangiata collettiva, la quale era
vietata e che mi costrinse a restare clandestinamente all’est perché avevo
ormai superato le ventitre, l’ora del rientro dal Check Point Charlie, da
dove passai il giorno dopo con tutta la folla senza più tanti controlli, infatti
molti occidentali approfittarono di quel momento per rientrare all’ovest
dopo essere stati clandestinamente all’est, ognuno per le proprie ragioni.
Poi la vita riprese il suo corso, con altri controlli, meno marziali ma pre-
senti, fino allo smantellamento dei settori in cui era stata divisa Berlino e
la sua progressiva ricostruzione.
Berlino è stata la città più ricostruita al mondo, che nasconde un’altra città
nel suo sottosuolo, quella città che il nazismo avrebbe voluto più grande
ed imperiale di Roma per manifestare il dominio sul mondo, dopo aver
sterminato i nemici, dopo aver distrutto la vita di milioni di persone; un
sottosuolo ancora pieno di bunker, di dedali di viuzze costruite per difen-
dersi dagli incessanti bombardamenti degli alleati durante la seconda guerra
mondiale, con cucine, ospedali, caserme, uffici postali, birrerie, tutte nasco-
ste sottoterra, compreso il bunker nel quale Hitler pose fine alla sua vita.
La caduta di quel muro mi ha consentito di elaborare parte del trauma
patito con la mia prigionia, ho ritrovato il senso della libertà, la gioia della
libertà e soprattutto la capacità di crescere, di riconoscere la mia età, quella
di un ragazzo di ventuno anni, felice anche di giocare all’interno di un
lavoro serio, all’interno di fatti molto più grandi di me, nei quali ero parte,
comparsa, spettatore. Man mano che i giorni passavano iniziai a capire
che la caduta di quel muro fu troppo repentina per non rappresentare un
rischio di ulteriori crolli, come la storia poco dopo confermò.
Una sera incontrai un vecchio berlinese, che aveva bevuto molto, eravamo
seduti sui gradini delle fontane dell’Europa Palace, mi piaceva ascoltarlo,
conosceva qualche parola di italiano perché aveva combattuto sul fronte di
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Singole Esperienze collettive
Cassino durante la guerra, mi raccontò la sua storia, simile a quella di tanti
giovani berlinesi di allora; parlava del potere di Hitler, dell’enorme mac-
china del nazismo, delle sfilate nei viali nei quali si radunavano centinaia
di migliaia di persone inneggianti, di quei soldati alti e fieri, delle mille
bandiere, dei cavalli, dei canti, descriveva i fatti come se quella bottiglia di
un liquore indefinito fosse una sorta di macchina del tempo, i suoi occhi
erano una cinepresa capace di mostrarmi le immagini dei suoi ricordi, che
potevo vedere oltre che ascoltarli dalle sue parole alcolizzate. Mi raccontò
la guerra del pane, quando, poco dopo la presa di Berlino i sovietici lancia-
vano il pane alla folla di civili affamati, poco alla volta perché si divertivano
a vederli scannare fra loro, spinti dalla fame. Mi raccontò quando una sua
amica gli fornì i vestiti del marito morto sotto le bombe, ancora sporchi di
sangue, permettendogli così di non essere ucciso sul posto se avesse ancora
indossato la sua uniforme di soldato tedesco.
Mi raccontò quando, dopo la guerra, si sposò ed ebbe i suoi figli, poi la sua
sconfitta come marito e come padre ed ora stava lì, accanto ad un perfetto
sconosciuto, solo, in attesa che la cirrosi epatica se lo portasse via, ormai
vecchio e stanco anche dei suoi stessi ricordi. Si chiamava Peter, morì tre
mesi dopo, trovato assiderato non lontano dallo zoo di Berlino, che dava
il nome alla stazione ed al giardino zoologico, formato anche da tante per-
sone che si erano perse, diventando animali, perdendo il ruolo di uomini
per restare solo delle presenze, che si estinguevano per droga, per fame,
per freddo ed anche per quella vecchiaia che si portava via la memoria di
un’epoca fatta di uomini alti e biondi, cavalli e mille bandiere, troppe per
restare al vento, i cui drappi coprono ancora gli occhi sulla storia dalla
quale non abbiamo imparato nulla.
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IL SORRISO DI UN PADRE CHE MUORE
Nel 1991 tornai in Italia per qualche tempo, mio padre aveva scoperto di
essere il contenitore di un terribile tumore che se lo stava mangiando ed
intendevo stargli vicino, come al resto della mia famiglia nel percorso che
dovemmo affrontare fino alla sua morte, fatto di chemioterapia, di radio-
terapia, di dolore, di medicazioni, di speranze e di delusioni, di negazione
e di realtà, fino alla fine dei suoi giorni.
Ho sempre conosciuto mio padre, che si chiamava Mario, come un uomo
attivo, impegnato nel suo lavoro, faceva il capo draga, fumava tantissi-
mo, troppo, tanto che ha nutrito il suo tumore per anni, aggiunto a tutto
l’amianto che ha inalato, toccato e respirato nel corso del suo lavoro e chis-
sà cos’altro. Vederlo in quel letto d’ospedale, con il suo pigiama celeste era
una tortura, di tanto in tanto fuggiva dalla stanza per raggiungere la vicina
piazza dei miracoli ove si mischiava coi turisti, per fumarsi le sue sigarette
in pace; era ricoverato a Pisa, faceva la cavia in pratica, ma così riceveva una
migliore assistenza, ormai si era affezionato ai suoi medici ed aveva fiducia
in loro, sarebbe stato peggio convincerlo diversamente.
Era un uomo dei suoi tempi, nato e cresciuto sotto il fascismo, costretto a
crescere in fretta dalla guerra e dalla miseria, chiuso e riservato, non espri-
meva le sue emozioni ma era capace di amore, di bontà e di quell’altruismo
che lo caratterizzava, quasi come se volesse trasmettermi le sue carezze at-
traverso gli altri, che mi parlavano di lui con dolcezza.
Ricordo che da bambino mi portava a bordo delle sue draghe, delle bet-
toline, in darsena toscana ove aveva l’attracco proprio sotto la torre del
Marzocco, all’interno di una sorta di cantiere nel quale c’erano due pastori
50
Singole Esperienze collettive
tedeschi bellissimi, con cui giocavo, in attesa che papà avesse controllato
gli ormeggi e le apparecchiature di bordo. Salivo spesso sulla draga, amavo
l’odore di mare, di olio bruciato, di ferro reso rovente dal calore del sole, di
ruggine, di resine marine, di pesce.
Quando lo salutavo lasciandolo solo all’ospedale sentivo lo stomaco chiu-
dersi, non tanto per la paura di non vederlo più, ma perché sapevo bene
a cosa andava incontro, la chemioterapia, la radioterapia e tutto il resto,
con il tumore che gli stava mangiando le ossa, che sparivano letteralmente
dalle lastre, sostituite da collari, da ferri, da impalcature che trasformavano
mio padre in una sorta di cantiere umano. Era andato da poco in pensione
quando scoprì la malattia, aveva un orto che coltivava con passione e con-
tinuò a farlo fino a quando non fu costretto in ospedale, era ritornato alle
sue origini di contadino, dopo tanti anni in mare.
Ogni tanto mi sdraiavo sul letto, restavo immobile guardando il soffit-
to bianco, isolandomi dal resto del mondo, rifiutavo l’ipotesi che potesse
morire, cacciandola via con la coscienza di fuggire la realtà, per la quale
non ero ancora pronto come non lo erano mia madre e mio fratello; lui,
mio padre, lo aveva capito e manifestava il suo solito spavaldo coraggio
perché non aveva mai imparato ad avere paura nella sua vita, non che non
la provasse, non la sapeva esprimere come non riusciva ad esprimere i suoi
sentimenti, le sue emozioni; era il primo ad incoraggiare tutti noi quando
doveva affrontare delle terapie dolorose che gli marchiavano il corpo, che
mia madre curava con tutta la devozione e l’amore che aveva donato a mio
padre per tutta la vita, rinunciando a se stessa, senza farsi troppe domande,
vivendo il suo destino di moglie e di madre per come la sua cultura l’aveva
cresciuta e predisposta.
Vedere papà sdraiato sul divano di casa quando non era ricoverato in ospe-
dale era un sollievo, per quanto il colore del suo viso ed i segni nel suo
corpo non lasciavano spazio a grandi fantasie di guarigione, ma ero felice
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Il sorriso di un padre che muore
di saperlo a casa, con la famiglia, con il suo cane, Bigol, che non lo abban-
donava un attimo, che lo riscaldava con il suo corpo quando papà aveva le
crisi di freddo, sdraiandosi su di lui.
La notte che morì non feci in tempo a chiamare la mamma e mio fratello,
papà alternava momenti di coscienza con momenti nei quali dondolava la
testa da un lato all’altro dal dolore, il suo corpo era distrutto dal tumore,
non riuscivo nemmeno a potergli accarezzare la testa perché sentivo le ossa
muoversi, era tenuto insieme da una sorta di busto metallico che gli sorreg-
geva il mento per evitare che morisse soffocato, non aveva più le vertebre
cervicali, si era fatto così piccolo, così magro, così vecchio. Riprese co-
scienza e mi sorrise, gli detti da bere, togliendogli quell’orribile macchina
succhia bava, gli feci la barba e lo pulii ovunque, donandogli quella dignità
alla quale teneva tanto.
Morì poco dopo, in silenzio, sereno, forte, tanto forte da sconfiggere il do-
lore rinunciando fino all’ultimo alle smorfie della sofferenza e regalandomi
quello che nella sua vita rare volte era riuscito a fare, un sorriso, il sorriso
di un uomo che muore di fronte a suo figlio.
Questa immagine di mio padre ha cancellato in un attimo il nostro con-
flitto, la nostra difficoltà di relazionarci, le nostre difese, la nostra stupidità
per non esserci mai lasciati abbracciare, la nostra reciproca coscienza di
amarci, di essere vicini quando eravamo lontani, preoccupati uno dell’altro
in un tacito mutuale abbraccio; con quel sorriso mi ha donato la gioia del
suo ricordo che porto con me ormai da tanti anni, pronto a raccontare la
sua storia ai miei figli per tramandarne il coraggio di fronte al dolore, di
fronte alla morte che l’ha trovato vivo, anche nella coscienza che la sua vita
era giunta al termine.
Restai per alcune ore di quella notte a vegliare il corpo di mio padre, gli
legai il mento e le gambe con un drappo bianco, gli smontai quell’orribile
busto con tutti i suoi accessori, quindi chiamai mia madre e mio fratello
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Singole Esperienze collettive
che mi raggiunsero in ospedale, con i quali mi sentivo in colpa per non
essere riuscito ad avvisarli in tempo, affinché avessero potuto godere di
quello stesso sorriso.
Qualche settimana dopo la sua morte, mentre ero già tornato nella mia
casa, vivevo ormai da solo all’Isola d’Elba, con il mare fuori dalla porta, ero
nel letto che dormivo quando mi svegliai all’improvviso, mi misi a piange-
re chiamando mio padre, tutta la notte, belando come un bambino, come
quel bambino che si era ricordato il sorriso di suo padre che la memoria e
gli anni avevano nascosto. Mi ricordai infatti il sorriso che mi regalò mio
padre quando imparai ad andare in bicicletta, a cavallo di una graziella blu
con il contro pedale, sulla quale anche mio fratello aveva mosso le prime
pedalate: per tutta la notte mi ricordai che mio padre m’insegnò tante cose,
che mi regalò tanti sorrisi, mi addormentai solo al mattino, per poi risve-
gliarmi poco dopo, sorridente.
Aprii la porta, feci due passi e mi fermai in riva al mare per sentirne il
sapore, per ascoltare il vento, per guardare oltre la vita che per mio padre
era ormai finita.
Mi tuffai per farmi accogliere ancora una volta dall’energia del mare.
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GLI ORCHI A BANGKOK
Bangkok era una caotica città fatta di caotici silenzi alternati a rumori in-
fernali dei clacson, dei motori, dei cantieri. Mi rifugiavo spesso lungo il
fiume prendendo una barca per trovare quella quiete di cui avevo bisogno.
In quella città ho imparato a riconoscere i predatori di bambini, nei suoi
quartieri ove il sesso ed il turismo si confondevano in una unica offerta. Visi
occidentali, tedeschi, danesi, italiani, australiani, americani, francesi, quin-
di espressioni orientali dei giapponesi e dei coreani, tutti intenti alla scelta
della bambina o del bambino di turno con cui fare sesso, nel modo più gra-
dito, senza regole, senza umanità, solo oggetti di piacere fatti d’infanzia.
Tutti anonimi cittadini, gente comune che avrei potuto incontrare in qual-
siasi altro luogo, nessuna espressione a tradimento della loro pulsione, del-
la loro cultura pedofilica, nulla che potesse anche marginalmente renderli
diversi da me o dagli altri.
Raggiunsi il confine con la Cambogia per incontrare i miei committenti,
per i quali condussi un lavoro, quindi mi presi qualche giorno di relax a
Pukhet, mangiando frutta fresca in compagnia di una amica americana
che avevo conosciuto da poco e che mi raggiunse, Allison, impegnata in
una nascente associazione che anni dopo divenne il punto di riferimento
della lotta allo sfruttamento dei minori nel turismo sessuale, la quale
conduceva una ricerca proprio sulla prostituzione minorile e sulla richie-
sta da parte degli occidentali di bambini molto piccoli, prepuberi, anche
sotto i sei anni di età.
Aiutarla nel suo lavoro mi ha consentito di confrontarmi con una realtà che
conoscevo ma che non riconoscevo nella sua crudeltà, ove lo sfruttamento
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Singole Esperienze collettive
sessuale era alla base di un traffico e di un commercio dell’infanzia di più
ampio respiro. Riuscì a parlare con un pedofilo italiano, un bresciano in
pensione che si era trasferito in Thailandia da qualche mese, felicissimo
della sua scelta, al suo fianco c’erano tre bambine, molto piccole, dieci
al massimo dodici anni, occhi furbi e sorriso esperto, gergo classico delle
puttane, abbigliamento composto da capi da donne adulte indossati da
bambine, i capelli bellissimi, neri e lisci, curati, le mani stanche e gli occhi
di un solo colore, questo ricordo di quelle tre bambine.
L’uomo si sentiva paradossalmente un benefattore perché le aveva compra-
te da un bordello, le nutriva e le curava in ogni loro esigenza, ripagato dalle
attenzioni che le bambine avevano imparato a vendere per mantenersi quel
tutore gradito e ormai amato, con il quale la confidenza era così palese negli
ammicchi sessualizzati che non lasciavano spazio a dubbi di alcun genere.
Non provai particolari sensazioni di disagio, mi limitai ad osservare ed
imparare, guardando ed ascoltando l’uomo nei suoi racconti di caccia, nei
suoi dubbi durante la scelta delle bambine, preoccupato che fossero state
violate anche nell’orifizio anale, che egli desiderava integro, le aveva fatte
visitare per scongiurare il pericolo di malattie veneree, come fanno i fattori
alla scelta dei maiali nelle fiere agricole.
Allison lo osservava dall’alto verso il basso, era una ragazza molto bella,
proveniente dallo stato dello Utah, era una mormona, i capelli lunghi,
castano chiari e gli occhi di un blu profondo, intenso, preparata nella sua
materia, laureata in psicologia; dopo aver lavorato negli USA per qualche
tempo, decise di darsi alla cura dei bambini nei paesi del terzo mondo sce-
gliendo quell’associazione che gli aveva proposto alcuni incarichi.
Le traducevo quelle parole che anche io facevo fatica a comprendere a
causa del forte accento bresciano e del dialetto che mischiava all’italiano,
Fabrizio, questo era il suo nome, sembrava divertito dal mio interesse,
che comprese come una sorta di interesse diretto verso le bambine, verso
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Gli orchi a Bangkok
quel mondo senza regole ove potevi acquistare una bambina di sei anni
per meno di mille dollari americani.
Mi raccontò, vantandosene, delle sue esperienze con numerose minori tai-
landesi, delle fotografie che aveva scattato e che collezionava, degli incontri
con gli altri pedofili all’interno di una sorta di club nato spontaneamente nei
bar gestiti dai tedeschi che circondavano il quartiere del sesso di Bangkok.
Diffidava dei giapponesi che egli considerava dei sadici perché era risaputo
che i gestori dei bordelli preferivano vendergli direttamente le bambine ed i
bambini ad un prezzo elevato, coscienti che erano dei “vuoti a perdere”, che
li avrebbero maltrattati a tal punto da non essere più commercialmente uti-
li. Quando l’uomo ci lasciò lo osservammo andar via con le sue prede, tre
bambine molto piccole e molto basse, tutte capelli e profumo, ancheggianti
e paradossalmente felici di essere schiave di un solo uomo.
Allison mi raccontò che ben conosceva quel mondo, che la miseria, il de-
grado e soprattutto la richiesta avevano fatto crescere l’offerta in modo
esponenziale in tutto il paese, concentrando sulle maggiori località turisti-
che numerose bambine e adolescenti provenienti sia dalla Thailandia che
dalla Cambogia, dal Laos, dal VietNam. Mi disse che una grande responsa-
bilità in quel commercio l’avevano gli americani, i quali durante la guerra
con il VietNam trovavano in Bangkok l’isola felice ove sfogare i desideri
più perversi, aggravati dalla brutalità di quella guerra, città in cui trovava-
no l’offerta di quelle piccole donne.
Il giorno dopo mi portò in un villaggio nel nord del paese, molto picco-
lo, nel quale aveva iniziato un’opera di alfabetizzazione contro le malattie
veneree, una vera piaga per moltissime ragazzine, spesso ripudiate dalla fa-
miglia e costrette a tornare alla vendita del proprio corpo per sopravvivere,
oppure al procacciamento di altre bambine per soddisfare le richieste del
proprio padrone.
Incontrai una bambina con un sorriso smagliante, un viso molto bello,
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Singole Esperienze collettive
gli occhi profondi e le labbra che sembravano disegnate, con dei modi
gentili che le donavano una energia meravigliosa, aveva tredici anni, non
ricordo più il suo nome ma ricordo bene la sua storia, venduta a soli sei
anni dalla famiglia di origine ad un uomo che disse che l’avrebbe tenuta
come tuttofare a casa propria, invece la rivendette ad un primo bordello e
da lì ad altri fino a quando Allison la incontrò in un ospedale della carità
dopo che aveva partorito il suo bambino, che morì poco dopo, almeno
così le fu detto.
Allison mi spiegò che, quel che io stesso avevo notato e di cui ero rimasto
colpito nella bambina, era esattamente quello che gli occidentali cerca-
vano, la purezza della bellezza e la gentilezza in queste bambine e più in
generale nelle ragazze tailandesi, che facevano di loro delle amanti gradite,
delle schiave rassegnate, delle puttane ricercate. Mi spiegò quanto era faci-
le camuffarne l’età trasformando in bambine quelle ragazzine più grandi,
oppure in donne quelle bambine più piccole, in base ai gusti del cliente.
Chiesi se c’erano dei controlli di Polizia ma si mise a ridere dandomi con
il suo splendido sorriso la risposta più esauriente, continuammo il giro
delle visite sia in quel villaggio che in altri per tutto il resto della giornata,
successivamente tornammo a Bangkok ove avevamo appuntamento con
Fabrizio in un bar gestito da un tedesco.
Karl era un cinquantenne proveniente da Flensburg, nel nord della Ger-
mania, viveva in Thailandia da oltre venti anni, prima era stato in Bir-
mania e prima ancora in Malesia, ove aveva lavorato per una azienda
tedesca per poi mollare tutto e raggiungere Bangkok, il paradiso, diceva
lui. Guardava Allison con sospetto, aveva capito che non era una turista
e nemmeno una donna interessata ai massaggi tailandesi, lo rassicurai di-
cendo che era la mia ragazza e che le piacevano le donne, molto giovani;
Karl rise di gusto e mi strizzò l’occhio esclamando una frase in tedesco
alla quale risposi nella stessa lingua, iniziando così una conversazione più
57
Gli orchi a Bangkok
amichevole grazie alla quale ne conquistai la fiducia.
Mangiammo delle ottime aragoste alla piastra servite con tante e diverse
salse piccanti, bevendo finalmente una vera birra tedesca, apprezzata anche
da Allison che era interessata a capire i livelli di commercio dei bambini in
quel quartiere, nel quale i bordelli erano tanti, con le bambine in vetrina o
esposte in ampie aule per essere scelte dai clienti.
Fabrizio parlava solo bresciano, con qualche parola in inglese, mi colpì
quando gli chiesi come faceva a farsi capire, rispondendomi che molti
bambini parlavano italiano, confermandomi così l’importanza della pre-
senza degli italiani in quel paese, in quel commercio, talvolta gestito anche
da cittadini provenienti dal nostro bel paese, italiani brava gente pensai.
Karl ci introdusse all’interno del quartiere, indicandoci in quale locale an-
dare ed in quale non entrare, quale mafia temere e quale invece no, quanto
pagare e quanto pretendere, era un esperto di quel mondo in cui era ormai
immerso da anni. Allison sapeva manipolare la conversazione portandola
sulla richiesta di soggetti più raffinati, meno commerciali, una sorta di
mercato nero dei bambini, più riservato. Karl rispose che avremmo dovu-
to seguire i giapponesi per trovare qualche specialità particolare, Allison
rispose semplicemente che voleva comprare delle bambine per crescerle
come le sue schiave, per giocarci come le bambole, più o meno quello che
aveva fatto Fabrizio e le altre migliaia di uomini come lui. Le chiesi quante
donne erano inserite in quel circuito, mi dette una risposta agghiacciante
dicendomi il numero delle donne che raggiungevano quel paese per com-
prare le bambine per immetterle nella tratta delle schiave in favore dei
ricchi uomini arabi e del medio oriente. Quella sera capii quanto potevo
essere utile alla lotta contro la pedofilia e contro lo sfruttamento sessuale
dei bambini, non solo orientali, perché ero cosciente, anche ascoltando i
commenti di Fabrizio, di Karl e degli altri occidentali presenti nel locale,
di quanti bambini erano ormai stati inseriti nel circuito della prostitu-
58
Singole Esperienze collettive
zione minorile; anche in Europa, specialmente a Berlino, città che ben
conoscevo ove i bambini non avevano il viso orientale ma gli occhi chiari
degli slavi, dei russi. Rividi Allison qualche settimana dopo, rientrando
dal confine con la Cambogia, era stanca e si apprestava a tornare negli USA
per un evento che riguardava la sua comunità, composta da mormoni.
Rimanemmo in contatto per qualche tempo, poi si è sposata, ha avuto dei
figli ed ora è una brava analista, lavora nella sua comunità di mormoni,
nello Utah. Debbo ringraziarla perché è stata lei a stimolarmi nella scelta di
prestare la mia esperienza contro la predazione dei minori, insegnandomi
a comprendere la differenza fra il pedofilo e la pedofilia, fra l’abusante ed
il predatore di bambini.
59
EX JUGOSLAVIA
Non ho mai amato molto il freddo, Zagabria in quella prima metà degli
anni novanta mi presentò una giornata di vento teso e gelido, contro il
quale la mia sciarpa si arrese subito paralizzando la mia schiena ormai resa
marmo dalla rigidità fisica; fortunatamente arrivò la donna che mi accom-
pagnò all’International Hotel Zagreb. Era l’assistente di un ex colonnello
delle forze armate britanniche che si era riciclato in un dirigente di una so-
cietà privata che offriva consulenze per la sicurezza alle varie organizzazioni
presenti su tutto il territorio della ex Jugoslavia, martoriato dal conflitto
che era iniziato tre anni prima, poco dopo la caduta del muro di Berlino.
Non sapevo bene che tipo di servizio stava prestando per l’ UNPROFOR,
la forza delle Nazioni Unite, ma sapevo che avrei dovuto incontrarlo per
programmare la mia attività da condurre all’interno dei territori fra Mo-
star e Sarajevo, nei quali le feroci battaglie fra le parti in lotta avevano già
contribuito a smaltire la generazione dei giovani croati, serbi e bosniaci, fra
cristiani, ortodossi e musulmani.
Era in corso una delle tante tregue, fragile come le altre, condizionata ora
da un colpo di mortaio contro dei civili in fila per il pane o per l’acqua, ora
da un massacro di civili compiuto dalle varie bande paramilitari formate
da mercenari, da delinquenti, da presunti leader provenienti da mere espe-
rienze di ultras da stadio, ottimi catalizzatori di criminali e di avventurieri,
capaci di uccidere ma non di combattere in quella guerra civile, nella quale
le vittime maggiori sono state appunto i civili, mietuti dall’inciviltà colpe-
vole della civile Europa, resa cieca dalla propria ignavia e sorda alle grida di
chi aveva visto quell’orrore proprio al centro di una comunità, cui la storia
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Singole esperienze collettive di fabio piselli 2008

  • 1. Fabio Piselli Singole esperienze collettive Piselli scritti 12008
  • 4.
  • 5. 5 Introduzione Ho riflettuto a lungo prima di decidere di scrivere un libro, mi sono posto molte domande alle quali non sono stato capace di trovare le degne rispo- ste, ho compreso che una risposta sarebbe potuta nascere proprio dalla stesura di questo libro. Una singola traccia lasciata nel cammino del confronto collettivo, stimola- ta dalle mie esperienze; questo è lo scopo del mio scrivere, lasciare tracce, delle parole ferme per pensieri fluttuanti, per stimolare delle nuove parole, dei nuovi pensieri, il cui contenuto darà vita a dei nuovi confronti. Non sono uno scrittore ma uno scrivente, non in terza persona come nei rapporti giudiziari ma in prima persona nel mio sfogo emotivo, nel con- fronto con la mia storia, guardando me stesso come un soggetto terzo per meglio vedere il tutt’uno che voglio essere e restare. Non sono uno scrittore ma un uomo che scrive ciò che ha vissuto, ciò che ha visto, ciò che ritiene di aver conosciuto e riconosciuto della vita, con il desiderio di comprendere quello che ancora non ha capito, scrivendo ad una platea di lettori capaci di confronto. Non cerco delle verità sulle stragi, sugli omicidi, sugli attentanti; voglio invece capire il perché delle non verità sulle stragi, sugli omicidi, sugli attentati; non cerco delle responsabilità se non in me stesso, come persona singola e come membro di una collettività composta da molti singoli che non sanno ancora costituire un insieme compatto e unito tanto da chie- dere a gran voce la presenza di una responsabilità per l’assenza di molte, troppe verità. Questo libro mi consente di comprendere prima di tutto le mie responsa-
  • 6. 6 Singole Esperienze collettive bilità, di uomo, di cittadino, di membro di una comunità, di una società civile che ha permesso l’occultamento e l’inquinamento di quelle verità mai svelate. Mi consente di offrire e di ricevere il confronto sulle nostre collettive responsabilità rispetto alla singola morte di ogni singolo indivi- duo, rispetto ai singoli attentati ed alle stragi che hanno mietuto centinaia di vittime. Non cerco perciò di scoprire dei colpevoli occulti laddove tutti noi siamo i palesi responsabili dello sfascio della nostra società, della Giustizia alla deriva all’interno di uno Stato sfasciato che manifesta sempre più spesso dei rigurgiti di fascismo. Questo è lo scopo del mio libro, del mio sfogo, del mio confronto; com- prendere cosa posso e cosa possiamo fare per difendere la legalità, per rinforzare la Giustizia, per tutelare la collettività ed i milioni di singoli cittadini che ne fanno parte contro le stragi, contro gli omicidi, contro gli attentati posti in essere da mani ignote per conto di ombre grigie, proiet- tate da figure di mafiosi, di politici collusi con le mafie, di massoni deviati, da infedeli uomini dello Stato dei quali non si vede mai la faccia, nascosta dai cappucci, dal mefisto, dalla barba finta. La nostra storia democratica è costellata di attentati alla Democrazia fino a mutarne la storia stessa, invertendone il significato, trasformandone il pro- cesso evolutivo in uno Stato caratterizzato da rari momenti di Democrazia in una storia di attentati. Inevitabile perciò parlare di trauma, di uno Stato afflit- to dal trauma nascente dalla violenza patita, Stato che ha proiettato la propria sindrome nei suoi cittadini, come le madri sofferenti fanno con i figli. Cittadini che non hanno mai avuto la possibilità di elaborare questo trau- ma ricevuto in prestito a causa della debolezza della verità, acquisito solo per essere dei cittadini figli dello Stato malato in cui sono nati. Siamo tutti legati al segreto che nasconde la verità di cui abbiamo bi- sogno per svincolarci dalle maglie di quelle catene che debbono essere
  • 7. 7 Introduzione spezzate per permetterci di crescere, di incamminarci verso un indirizzo democratico, invece che restare fermi, passivi all’interno di un presunto clima di Democrazia. Questo legame porta spesso il sigillo del segreto di Stato. Rompere le catene significa violare il segreto, recidere quel cordone om- belicale che ci lega alla Patria vilipesa dal suo stesso segreto; significa tra- sformarci in civili soldati di un esercito di cittadini composto da una col- lettività senza uniforme, forte e compatta con il proprio Stato, forte di Democrazia, armata di tolleranza, difesa da occhi attenti e non guardinghi, da orecchie capaci di ascoltare e non solo di sentire. Collettività che ha le mani sporche del sangue versato dagli uccisi dal se- greto, dal segno della morte che non si ripulisce, la morte infatti si può solo elaborare con la scoperta della verità, oppure si può rimuovere con la menzogna psichica o con quella di Stato. Collettività che desidera comprendere la verità per elaborare il suo lutto, per crescere ed essere capace di scegliere di capire e non di punire, per cam- biare la propria morfologia da Stato strutturato in una struttura civile che forma lo Stato, senza più il traumatico timore delle strutture deviate dello Stato, quelle che nascondono i segreti. Non sono uno scrittore ma uno scrivente che parla della propria esperienza come se parlasse ad un altro da se, riconoscendo se stesso negli altri. Mi confronto con le mie parole, mi riconosco frase dopo frase con la mia storia, divento il critico lettore di quel me stesso scrivente e non scrittore, di quel me stesso cittadino e non soldato, di quel me stesso membro di una collettività e non più un alibi dell’egoismo collettivo che indica il singolo soggetto come capro espiatorio delle responsabilità condivise. Sono compatto con la mia storia caratterizzata dai pezzi di vita slegati fra loro, che hanno necessità di riconoscere il proprio percorso per non spezzarsi mai più.
  • 8. 8 Singole Esperienze collettive Sono cosciente che è impossibile sanare dei pezzi rotti, come sono co- sciente che è impossibile rendere Giustizia a chi è morto ingiustamente, per questo non cerco colpe ma cause, per questo non cerco colpevoli ma responsabili, per questo non cerco segreti ma verità. Desidero comprendere collettivamente i motivi delle zone grigie del mio Stato per colorarne i contorni e far luce al suo interno, sperando di con- tribuire a dare nuova vita al colore bianco come quello di un foglio nel quale ognuno può scrivere la propria storia in piena libertà, in completa Democrazia, senza più il trauma degli omicidi, delle stragi, degli attentati di Stato, senza timore ma con la gioia di rappresentare se stessi membri e parte di una comunità che forma lo Stato. Desidero essere un singolo parte di una collettività responsabile e parte- cipativa, essere dei cittadini coscienti e non coscienziosi, compatti e non riuniti, liberi dal segreto e non prigionieri di verità rese segrete. Cittadini che sanno e che possono perciò comprendere le proprie scelte po- litiche, sociali e personali all’interno di uno Stato che gli permette e gli con- sente di scegliere tramite la conoscenza della verità. Cittadini di ogni razza, colore e religione che fanno politica per la sola ragione di esistere e respirare, senza dover dimostrare di esistere e di respirare soffocando il respiro altrui. In questo la nostra storia democratica ci ha trasformato, in ladri di aria, in rapinatori di spazio, in estorsori di verità da mantenere segrete per conti- nuare il ricatto del segreto, dando vita a flotte di dimostranti di un qualcosa mai chiesto per dimostrare di non chiedere per paura delle dimostrazioni delle richieste fatte. Siamo ormai un insieme di questuanti di favori, di deboli membri di una collettività accattona regolata da magnaccia, da re nudi di un regno vestito di stracci, controllati da gendarmi violenti, tali per nascondere la propria paura di indossare gli stessi stracci dei controllati. Siamo ormai perduti nella morte che colpisce a caso, con una bomba, con
  • 9. 9 Introduzione un colpo vagante, in un traghetto in fiamme, timorosi di viaggiare per stra- da e pronti a rincorrere le viuzze del potere, convinti di essere così immuni e invulnerabili per poi scoprirci vittime quando la morte ci tocca da vicino, mentre in realtà siamo già vittime quando allontaniamo la morte altrui. Per questo scrivo, per liberarmi dal trauma, dalla paura che non nasce da un clima di tensione bensì dalla calma apparente del caos democratico, che diversamente da un blitz di regime addormenta le coscienze e non risveglia la nostra ribellione; in fondo mi ribello a me stesso, non al pre- sunto regime o alla cattiva Democrazia, perché sono il presunto regime e sono la cattiva Democrazia. Rinuncio perciò alla questua dei favori per essere libero, rinuncio a cono- scere un segreto per non essere estorsore, rinuncio alla viuzza del potere per restare apertamente in piazza, insieme agli altri e parte degli altri senza braccia tese o pugni chiusi ma con la sola pesante responsabilità della vo- lontà di conoscere la verità. Per questo dobbiamo essere pronti a pagare un prezzo alto in termini di sacrificio, dobbiamo essere capaci di porci in discussione senza cercare dei colpevoli negli altri da noi, ma cercando noi stessi nella colpevolezza altrui. è colpevole il solo mafioso quando mi elargisce il favore che gli chiedo? è colpevole il solo politico quando mi assume grazie allo scambio del mio voto? è colpevole il solo poliziotto che mi spacca la testa con il suo manganello perché non ho il coraggio di denunciarlo? è colpevole il singolo morto ammazzato perché permetto al mafioso di ucciderlo con la mia omertà? La verità è un male incurabile con il quale possiamo solo convivere, liberi e leggeri mentre il segreto è un cancro per il quale stiamo lentamente morendo nella non conoscenza, nella irresponsabilità, convinti di star bene in un mondo di malati, felici di credere di star meglio perché siamo circondati da altri e più gravi malati. Questo siamo ormai, dei benestan-
  • 10. 10 Singole Esperienze collettive ti immaginari, dei malati incoscienti appesantiti dalla fuga dalla verità, vuoti e non leggeri. Scrivo sperando di riuscire a dire agli altri quel che dico a me stesso, ascol- tandomi attraverso gli occhi dei lettori per vedere quel che sento di me, senza più la paura di ascoltare, senza più il timore di capire ma con il co- raggio della ricerca della verità senza volerla attribuire a nessuno, perché la verità stessa ci libera dalla colpevolezza, riconoscendoci colpevoli detentori dei segreti altrui dei quali siamo le prime vittime. Questo libro parla delle mie esperienze nelle quali riconoscere le tracce del- le proprie e forse quel confronto mai riconosciuto con il quale specchiarsi, leggendolo come se fossero la descrizione dei percorsi di vite comuni vissu- te da una singola persona, le cui emozioni, le cui sensazioni sono parte di una intelligenza collettiva. Questo mio primo libro non ha un preciso ordine cronologico, escluso i primi capitoli che descrivono il mio percorso fino all’inizio della carriera militare, poi prende forma allo stesso modo in cui si materializzano i ri- cordi intrusivi, che riportano alla mente un evento, doloroso o meno; è un libro fatto di ricordi che rimbalzano nella memoria raschiandone via dei pezzi fatti di emozioni vissute che mi hanno permesso di crescere. Questo libro è la chiave che apre una cella, è la mano che carezza la testa di un bambino, è il braccio armato che difende dalla paura, parla di me, della mia vita, ampia e non necessariamente lunga.
  • 11. 11 INIZIO Sono nato a Livorno da genitori laziali, cresciuto sul mare, nel mare e con il mare, che come una immensa placenta mi ha accolto nel suo ventre. L’elemento acqua è stato alla base della mia vita, il fuoco ha invece cercato di estinguerla durante la mia ultima esperienza con la morte, avvenuta nel Novembre del 2007. Ho iniziato a lavorare sin da bambino, figlio di un marittimo e di una casalinga, figlio di una cultura nella quale imparare un mestiere significava la prospettiva di un futuro lavorativo assicurato. Sin dalla metà degli anni settanta ho fatto il garzone in un vetusto magazzino al servizio di un vec- chio artigiano siciliano, un reduce della seconda guerra mondiale che si rifugiò a Livorno dopo la fine del conflitto con un carretto a pedali, con il quale nel corso degli anni ha fatto il venditore ambulante dei suoi prodotti, fra cui spiccavano le statuine segnatempo che avevo imparato a costruire, a decorare, a rifinire a mano con il trincetto e la fantasia. Questo fino a quando nei primissimi anni ottanta il vecchio artigiano fu arrestato per violenze sessuali contro i minori. Ancora non sapevo che avrei rivisto il venditore fiorentino dei suoi trincetti molti anni dopo, oggetto di attenzione da parte degli inquirenti nelle indagini per i delitti del cosiddetto mostro di Firenze. Non ancora diciassettenne mi sono arruolato volontario nell’Esercito Ita- liano, presso la scuola allievi sottufficiali (SAS), con il desiderio di diventa- re un pilota di elicotteri. Desiderio compensato in parte, in quanto effettivamente ho volato, ma come paracadutista e non pilotando un elicottero come avrei voluto.
  • 12. 12 Singole Esperienze collettive Ancora non sapevo che ciò che avrei vissuto nei tre anni in uniforme avreb- be condizionato la mia vita da civile nel corso del successivo ventennio. La mia storia professionale inizia nel 1985, la quale, nel corso di questi ventitre anni, mi ha visto vivere delle esperienze tali da rappresentare un valido confronto collettivo per comprendere alcune dinamiche adottate all’interno di certi settori dello Stato che sviluppano quei meccanismi di depistaggio, di collusione mafiosa, di connivenza massonica, che costitui- scono quella zona grigia ove sbiadiscono i colori della Democrazia e della legalità fino al punto di rendere opaca la Giustizia e daltonici i cittadini, costretti a seguire le varie correnti cromatiche per individuare un sostegno alle proprie speranze, per rinforzare il concetto della propria libertà. Desidero capire la verità dei fatti affinché possa comprendere il vero, il fal- so ed il verosimile nei fatti stessi, senza subire il condizionamento da parte di chi la verità la occulta e la gestisce per difendere il proprio schieramento, la propria fratellanza, il proprio ufficio, i propri interessi. Ho cercato di capire per difendermi dagli attacchi ai quali non ho trovato la giusta difesa, pagando la mia lotta con la sconfitta. Proprio la sconfitta mi ha reso cosciente dell’assenza di una auspicata vit- toria all’interno di una guerriglia di sconfitti, di affratellati soggetti dipinti di emblemi, uniformi, medaglie e pentalfiani segreti. Tutti caratterizzati dall’essere sconfitti dall’esistenza del segreto che come tale vince sulla ve- rità. Un segreto che tutto tace, un silente protagonista circondato da degli urlanti attori e da delle ambiziose comparse all’interno di un film che dura sin dalla fine della seconda guerra mondiale, i cui registi usano nomi d’ar- te dai quali è impossibile risalire alla loro vera identità. Come in un film ne intravediamo le sagome, vediamo la proiezione della loro ombra senza mai vederne il viso. Come in un film ci sono eroi e vittime, persecutori e corrotti, moventi e manovratori, opportunità e opportunisti. Un film che dura da troppo per il quale è giunto il momento di scrivere la parola fine.
  • 13. 13 Inizio Fine che giungerà quando sarà calato il sipario sui tanti segreti che na- scondono le troppe verità, quando sarà tolto il cappuccio ed il passamon- tagna dal viso delle ombre, quando le ombre si dissiperanno alla luce del sole che ci consentirà di vedere, di conoscere, di riconoscere, di sapere e di capire le verità della nostra storia di paese che ha avuto ed ha tuttora una Democrazia a scartamento ridotto. Democrazia lenta, traumatizzata, pa- tologica, affetta da ingerenze esterne che come nei deliri dei pazzi vede le presenze, sente le voci, patisce una sorta di sindrome persecutoria tale da non permetterne la crescita, la maturità, restando prigioniera dei propri mostri, della propria sofferenza causata dall’autismo dei propri pensieri, dal riflesso del buio che ha inghiottito i suoi cittadini, oscurati anch’essi dalla pazzia della Democrazia stessa che ha fatto nascere milioni di insicu- ri italiani con un trauma in prestito, le cui complicanze sono state aggra- vate dai segreti che hanno impedito di conoscere la fonte della malattia e di trovare così una cura, restando schiavi dei presunti guaritori i quali hanno somministrato solo pillole di ipocrisia che hanno ucciso migliaia di innocenti per rinforzare la paura della malattia e per continuare ad affidarsi alle loro cure, alla loro gestione. Ogni volta che un malato cittadino ha espresso il desiderio di capire si è sviluppato un aggravamento, con l’improvvisa morte di altri innocenti svi- luppando in realtà le uniche patologie di cui tutti noi siamo effettivamente affetti, il terrore e la paura.
  • 14.
  • 15. 15 L’ETà UNIFORMATA Nel 1985 non avevo l’età per guidare una automobile ma potevo sparare con un’arma, maneggiare esplosivi, apprendere e conoscere delle tecniche di combattimento, partecipare ai servizi di ordine pubblico, svolgere la sorveglianza armata in anni in cui la eco del terrorismo si stava appena spegnendo, con gli attacchi alle caserme, il furto delle armi dei soldati da parte dei componenti dei vari gruppi eversivi dalle tante sigle che hanno caratterizzato la fine degli anni settanta e la prima metà di quelli ottanta. Non avevo l’età per votare ma potevo prendere delle decisioni importanti con il dito sul grilletto delle mie armi, che avrei potuto rivolgere contro me stesso oppure contro gli altri; anni nei quali le munizioni erano vere, i colpi erano in canna e la pressione psicologica che un adolescente subiva all’interno dell’ambiente militare rappresentava la peggiore arma, l’ effetti- va minaccia, il reale rischio di rottura, causata dallo stress, dall’ esaurimen- to nervoso con tutte le sue potenziali conseguenze, come avvenne in alcune caserme con dei casi di suicidio e di omicidio commessi da giovani militari, da carabinieri, da poliziotti. Ero un adolescente che non aveva ancora compiuto diciassette anni di età, ero un soldato, un sottufficiale volontario dell’Esercito Italiano, prove- niente da una vita civile fatta di sport come quello della lotta libera, fatta di lavoro, fatta di scuola, fatta di ragazzine con cui scoprire gli umori ed il gioco dell’amore. Fatta di cocomeri rubati ai cocomerai ladri, fatta di fughe dalla Polizia con i motorini truccati, fatta di mare, di scoperte che permettevano di capire, conoscere, sapere e saper scegliere il proprio futuro, con le scelte a breve termine come quelle compiute da un adolescente. Futuro fatto a tappe,
  • 16. 16 Singole Esperienze collettive fatto di idee repentinamente cambiate, fatto di condizionamenti esterni provenienti da mille fonti e da quelli interni nascenti dalla naturale fase evolutiva nella ricerca della identificazione all’esterno della famiglia, alme- no così avrebbe dovuto essere. Indossando l’uniforme ho uniformato la mia età a quella degli altri soldati della scuola allievi sottufficiali che frequentavo, che era di ventiquattro anni, tutti ragazzi che in molti casi avevano già avuto delle esperienze mi- litari, inoltre si era appena conclusa la prima missione italiana svolta in Libano, quella del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, del colon- nello Franco Angioni e del piccolo Mustafà, la mascotte libanese; grazie alla quale numerosi reduci, fra cui molti paracadutisti, avevano deciso di scegliere la carriera militare arruolandosi con il primo corso utile, il 58°, il nostro corso, quello dei sottufficiali comandato da un colonnello che pro- prio in Libano era stato capo di Stato Maggiore del contingente; il quale aveva proiettato sul corso tutta la sua psicologia militare, la sua mentalità e soprattutto il suo personalissimo modo di comandare, di educare, di istru- ire, di condizionare tutti noi giovani allievi che vedevamo in lui una guida supportata da un altro ufficiale, un paracadutista che per noi rappresentava un esempio da seguire ed una sorta di specchio futuro nel quale vedere ciò che saremmo stati negli anni a venire proseguendo la carriera militare. Sono stato inserito in mezzo al ristretto gruppo di allievi che aspiravano di entrare al “nono”. Cioè al 9° battaglione “Col Moschin” della Folgore, gli incursori, le forze d’élite dei paracadutisti. Gruppetto di allievi formato dai reduci del Libano, dagli ex parà della Folgore, dagli ex marò del battaglione San Marco, con i quali mi sono amalgamato e dai quali sono stato accettato nonostante non fossi già stato un paracadutista come loro. La mia grinta, la mia prestanza fisica forgiata dalla lotta libera, la mia “istintiva” attitudine militare ed anche la mia parentela con due impiegati civili dell’ambasciata americana di Roma, in servizio presso gli uffici della Defense Intelligence
  • 17. 17 L’età uniformata Agency, il controspionaggio militare americano, hanno certamente contri- buito a costruire il personaggio di quel giovanissimo allievo che emergeva per autorevolezza, qualità fisiche e morali e rendimento negli studi, questo fu scritto in alcuni encomi ricevuti durante lo svolgimento del corso. Il condizionamento psicologico quotidiano aveva ritmi incalzanti, con i periodi di addestramento, con i servizi armati e lo studio, aggiunti al fatto che, come aspiranti paracadutisti, ci eravamo eretti a gruppo elitario che aveva il dovere di dare il massimo in ogni materia, in ogni attività; gruppo sostanzialmente autoreferenziale, isolato dal resto degli allievi, estrema- mente politicizzato nel quale il riferimento al Duce era costante in ogni espressione fisica e verbale. Non ancora diciassettenne, mi comportavo come un giovane uomo, vivevo e mi relazionavo con dei ragazzi molto più adulti e maturi di me, alcuni dei quali con esperienze specifiche nella lotta politica, specialmente i ro- mani che provenivano in gran parte dalle sezioni del Movimento Sociale Italiano e dal fronte della gioventù che durante la fine degli anni settanta e l’inizio di quelli ottanta erano stati protagonisti dei gravi e feroci scontri fra i ragazzini romani delle opposte fazioni. Gli altri ufficiali ed i sottuf- ficiali che ci addestravano e comandavano, uomini adulti con famiglia, coloro non paracadutisti, ci sembravano soggetti lontani dalla realtà in cui eravamo immersi, i nostri referenti erano solo ed esclusivamente quelli che provenivano dalla Folgore e che erano transitati alla SAS come istruttori o come aggregati. La mortificazione è stata un’arma per selezionare e per dividere, non i bravi dai meno bravi oppure i deboli dai forti, ma noi da noi stessi, dalla nostra dignità, dalla nostra personalità di giovani in crescita, specialmente i po- chissimi adolescenti presenti in quel corso, i nati nel 1968 o poco prima. La mortificazione era costantemente patita e costantemente perpetrata, in ogni frase, azione, momento della giornata, sia nei termini dispregiativi
  • 18. 18 Singole Esperienze collettive che nelle punizioni fisiche e psicologiche inflitte per le più paradossali ra- gioni, specialmente all’interno del gruppetto di ex parà, ragazzi che ave- vano introdotto la stessa mentalità che questi avevano vissuto ed appreso durante il tempo trascorso alla Folgore. Sembrava che solo coloro capaci di resistere fossero i più forti, i più capaci per affrontare chissà quali missioni in una ipotetica guerra, altra parola che caratterizzava il contenuto dei nostri colloqui, mediati dai racconti dei re- duci del Libano che in qualche modo la guerra l’avevano vista, soprattutto coloro coinvolti negli scontri a fuoco con le varie fazioni libanesi in lotta avvenuti nel periodo in cui il contingente italiano è stato presente a Beirut e nelle altre località. Fortunatamente i miei parenti presso l’ambasciata americana mi hanno fornito il confronto necessario per non farmi lavare il cervello più di tanto, consigliandomi sempre di pensare con la mia propria testa e soprattutto permettendomi di conoscere i loro datori di lavoro, gli ufficiali del servizio americano i quali avevano effettivamente conosciuto la guerra, molti di loro provenivano dai reparti militari che avevano combattuto in VietNam, erano persone che, diversamente dagli italiani, avevano vissuto esperienze dirette nei vari fronti nei quali gli Stati Uniti erano stati militarmente pre- senti a vario titolo. Ho imparato perciò a riconoscere gli occhi di chi aveva visto una guerra rispetto a quelli di chi raccontava di averla vista, riconoscendo perciò i tanti italiani che millantavano storie di guerra libanese di cui esageravano i contenuti in favore di noi allievi, felici anche di ascoltare le loro gesta seppur poco credibili, pur di avere un riferimento con la guerra. Le mie visite all’ambasciata americana di Roma non passarono inosserva- te, d’altronde i miei colleghi erano interessati a conoscere qualche reduce americano, un Rambo vero come quello del cinema, la voce si sparse e fui contattato anche da un capitano paracadutista e da un maggiore in servizio
  • 19. 19 L’età uniformata presso “l’ufficio I” della SAS che vollero sapere notizie sul tipo di lavoro dei miei parenti e sulle mie visite presso le basi militari americane alle quali accedevo durante i periodi di licenza, in particolare quella di Camp Darby vicino Livorno. Dopo oltre otto mesi di corso, ormai diciassettenne, ormai esperto, con il grado appena inferiore a quello di Sergente, cioè quello di caporale mag- giore allievo sottufficiale, iniziai a comprendere il tipo di ambiente, il tipo di lavoro che avevo scelto, a confrontarmi con quelli che allora erano i miei desideri e con i risultati della scelta che avevo davanti agli occhi; con l’esperienza acquisita in quei mesi duri e faticosi, nei quali ero cresciuto, immerso nella mentalità militare, caratterizzata dalle parole onore e fedel- tà, coraggio e ardimento, paura e viltà. Ero felice di quanto avevo raggiunto, mi piaceva il lavoro, ero gratificato e stimolato a finire il corso e raggiungere le scuole di specializzazione presso la Folgore insieme ai miei colleghi, con i quali sapevamo di essere ad un passo dal traguardo con risultati eccellenti. Un giorno accadde qualcosa mentre stavo svolgendo il periodo di servizio di sorveglianza armata presso una grande polveriera dislocata in Umbria, notai insieme ad altri due miei colleghi la presenza di alcuni uomini in abiti civili intenti a movimentare delle casse dentro il perimetro della zona militare; allarmammo perciò il nostro livello superiore ma ci risposero evasivamente, dicendoci che era- no solo dei bracconieri, perché la polveriera era ubicata all’interno di un enorme bosco, una riserva di caccia, che questi probabilmente stavano solo portando via dei cinghiali catturati con delle trappole. Nelle casse? mi chiesi ricordandomi i trascorsi parentali con gli zii cac- ciatori di cinghiali. Tornato alla SAS segnalai il fatto ad uno degli ufficiali de “l’ufficio I” e poco dopo iniziarono gli strani congedi di coloro che come me avevano relazionato gli stessi episodi. Le ragioni furono le più disparate, dal ritro-
  • 20. 20 Singole Esperienze collettive vamento di sostanze stupefacenti in un caso, alle relazioni sessuali con mi- norenni nell’altro, oppure dalle manifestazioni contrarie al regolamento nel rapporto con le insegnanti civili in servizio presso la scuola, sostanzial- mente con l’accusa di aver avuto con queste dei rapporti sessuali. Alcuni allievi furono espulsi fra i quali due del mio gruppo elitario, quello dei paracadutisti, entrambi reduci dal Libano ed entrambi sorpresi e soffe- renti per il loro allontanamento dal corso. Nell’Ottobre del 1985 mentre ero di pattuglia armata in caserma sono stato colpito in faccia, presumibilmente da un altro allievo di guardia che si svegliò improvvisamente e reagì in modo istintivo usando il suo fucile come un bastone, per questo il mio naso iniziò a sanguinare, sono stato portato all’ospedale civile ove certificarono dei semplici episodi di epistassi, sangue dal naso appunto, causati dal colpo ricevuto. Successivamente mi inviarono all’ospedale militare di Roma per essere ricoverato, nel quale gli episodi di epistassi si trasformarono in una patologia cardiaca che causò il mio proscioglimento dal corso, congedo che avvenne nel giro di un po- meriggio nonostante i miei sforzi di avere dei maggiori chiarimenti e di parlare con i superiori; certo di un errore chiesi a gran voce di incontrare il comandante, di poter parlare con qualche ufficiale, con quelli che erano i miei riferimenti militari ma anche psicologici da mesi ormai. Mi misero alla porta ma paradossalmente dovettero avvisare mio padre che sarei stato dimesso perché ero ancora minorenne. A diciassette anni, seppur intelligente, non avevo la capacità di elaborare una situazione simile, non avevo la conoscenza storica dell’epoca che stavo vivendo, non avevo gli strumenti per poter ricostruire il quadro d’insieme dei fatti in cui ero coinvolto. Vivevo il dolore di vedere tutti i miei sacrifici andare in fumo, la soffe- renza di patire una ingiustizia, il distacco da quel mondo che era il mio mondo, nel quale avevo vissuto in una psicologia condizionante per mesi
  • 21. 21 L’età uniformata e mesi ventiquattro ore al giorno, armato e con ruoli di responsabilità per ritrovarmi di fronte ad un cancello, costretto a riprendere i panni di un minorenne, di un civile. Ricordo infatti il mio dolore, il senso di vuoto che mi attanagliava, l’assen- za di un perché certo con cui potermi confrontare, la velocità e l’imposi- zione verso l’uscita che mi sembrò un lutto. In poche ore tutti i miei riferimenti furono perduti, ero solo, costretto a tornare civile in un mondo di civili che vedevano in me solo un muscoloso ragazzino, un minorenne. Ricordo la paura che provai quando, salito sul treno che mi portava a Roma, in abiti civili, indossavo infatti una orribile camicia hawaiana che un collega mi dette insieme ad un paio di jeans, parlando con una bella ragazza presente nello scompartimento questa mi chiese che lavoro facessi. Domanda alla quale non seppi rispondere prendendo coscienza di quel che avevo subito, il furto della mia professione, del ruolo in cui mi ero identifi- cato, nel quale stavo crescendo e con cui mi confrontavo quotidianamente da mesi. Non risposi, non seppi cosa rispondere. Ricordò che questa giovane bella ragazza, aveva venticinque anni, si chia- mava Tatiana, mi guardò, mi sorrise e mi chiese l’età, quando le dissi che avevo diciassette anni rimase a bocca aperta, disse che me ne dava almeno ventisette e che sembravo uno “sbirro”, una “guardia” disse con esattezza in romanesco, con quel fisico, con quello sguardo diretto e l’atteggiamen- to attento, costruito nei mesi e condizionato proprio dal tipo di lavoro, dall’ambiente nel quale lo sguardo fiero e l’occhio da duro era un marcato- re di valenza fra un soldato per scelta ed un soldato per disoccupazione. Capii in quel preciso momento che sarebbe stato difficile tornare ad essere un adolescente e soprattutto tornare ad essere un civile. Pochi giorni dopo il mio rientro a casa mi ero già attivato per dimostrare l’errore che aveva causato il mio congedo.
  • 22. 22 Singole Esperienze collettive Nel Novembre del 1985 un ufficiale medico della Folgore accertò la com- pleta assenza di una patologia del mio cuore, quando sono stato invitato a raggiungere Camp Darby perché uno dei miei parenti stava transitando da quelle parti con qualche americano dell’ambasciata che desiderava sa- lutarmi. Il colloquio fu di grande rinforzo, specialmente quando mi dissero di non preoccuparmi perché presto avrei indossato di nuovo l’uniforme, nel frat- tempo mi invitarono a prendere contatto con un sottufficiale americano della base con il quale iniziai un rapporto di amicizia che si protrasse per lungo tempo, che mi insegnò molto, cose militari e non, mi offrì un con- fronto umano fino a quando il telefono squillò con l’invito di raggiungere di nuovo la scuola allievi sottufficiali dell’Esercito Italiano per essere final- mente arruolato per la seconda volta. Questo avvenne nella primavera del 1986, nel periodo in cui Reagan bom- bardò Gheddafi come ritorsione militare per gli attentati imputati alla Li- bia contro gli interessi americani, quando la Folgore raggiunse Lampedusa perché furono lanciati dei missili dalla Libia; ero ormai cosciente dello scenario internazionale, dei blocchi, dei ruoli. Il periodo trascorso a Camp Darby mi aveva consentito di capire e di cre- scere, di addestrarmi e di confrontarmi con chi, in prima persona, viveva le scelte del proprio governo laddove inviava le truppe in operazioni militari, con i ragazzi e gli uomini della 82° divisione delle forze speciali americane, con quelli dello spionaggio elettronico della sezione di Coltano, località fra Pisa e Livorno da dove Guglielmo Marconi stabilì le prime comunicazio- ni in cui sorgeva un centro dell’intelligence americana della presunta rete denominata “echelon”, le cui aliquote di operatori erano impiegate nei vari teatri e nelle basi presenti in tutti il mondo, specialmente in Germania. Dovetti rinunciare ai gradi ed alle qualifiche che avevo precedentemente raggiunto, iniziando tutto di nuovo da zero, come se non fossi mai stato
  • 23. 23 L’età uniformata un militare prima di allora, fui così inserito con il nuovo corso allievi sottufficiali, il 60°. I miei colleghi del 58° corso erano ormai giunti alle scuole di specializza- zione, una volta concluso quel corso che mi fu impedito di terminare a causa di un certificato medico risultato immediatamente strano, errato alla prima visita medica di riscontro che effettuai presso vari ospedali militari. Mi informarono che anche i due miei amici e colleghi, che subirono il mio stesso trattamento con l’espulsione dal 58° corso, erano stati entrambi di nuovo arruolati, uno presso la scuola sottufficiali della Marina e l’altro in quella dell’Aeronautica Militare, entrambi furono, come me successiva- mente inseriti nelle truppe d’elite, il primo trovò la morte contro le pale di un rotore di un elicottero, il secondo è ancora un incursore della Marina. Questo fatto mi rese felice ma confermò la mia ipotesi che quegli eventi non furono una serie di singolari errori ma parte di un qualcosa che avrei tentato di comprendere e che desideravo capire per conoscere la causa del mio proscioglimento. Questo non per ragioni particolarmente eroiche ma ben più pratiche, avrei dovuto essere un sergente paracadutista con uno stipendio ben più elevato ed un corretto percorso di carriera, esattamente come lo erano i miei colleghi, mentre invece a causa di quel presunto erro- re medico ero stato costretto ad iniziare tutto daccapo. Infatti dedicai ogni istante a cercare di conoscere i motivi per i quali av- vennero quei congedi, individuandone le ragioni nella presenza dei civili all’interno del perimetro del deposito munizioni in cui facevamo sorve- glianza, alla polveriera, quelli che cacciavano i cinghiali nelle casse du- rante le loro presunte battute di caccia, come mi disse qualche superiore quando relazionai l’evento. Non avevo più quella sudditanza nei confronti dei superiori o della isti- tuzione stessa, i mesi trascorsi a Camp Darby mi avevano consentito di comprendere molte cose, molte ipocrisie, molte differenze fra quel che
  • 24. 24 Singole Esperienze collettive avrebbe dovuto sembrare e quel che effettivamente era la forza armata e le sue componenti. Dentro la base avevo conosciuto gli operatori delle forze speciali italiane ed americane, avevo compreso che esistevano strutture non ortodosse, respiravo il clima di quel periodo che caratterizzava l’atmosfera di Camp Darby; base che era molto importante, inserita negli equilibri mondiali mantenuti dai due blocchi contrapposti fra est ed ovest. Il muro di Berlino era ben saldo e nessuno ancora poteva immaginare che pochi anni dopo sarebbe crollato e con lui i due blocchi che hanno caratterizzato la guerra fredda per decenni. Il mio diciottesimo compleanno lo festeggiai con quella ragazza incontra- ta sul treno il giorno del mio congedo, Tatiana, divenni maggiorenne e questo la sollevò da ogni eventuale complicanza penale. Ripresi il normale percorso scolastico e di addestramento fino a quando sono stato di nuovo prosciolto, questa volta senza tante scuse, mi fu detto che era un fatto che avrei dovuto accettare le cui ragioni le avrei comprese successivamente. I miei parenti all’ambasciata americana mi confermarono infatti che presto sarei stato di nuovo arruolato, direttamente alla Folgore e che nel frattem- po avrei soltanto dovuto riprendere i contatti con Camp Darby. Così feci fino a quando nel Settembre del 1987 sono stato arruolato nella Brigata Paracadutisti Folgore, nella quale dovetti simulare di non aver mai avuto esperienze militari prima di allora, dovetti comportarmi come un normale diciannovenne chiamato alle armi, come tutti gli altri giovani che si affac- ciavano per la prima volta alla vita militare. Sono stato inviato alla “Smipar” (scuola militare di paracadutismo) per ac- quisire il brevetto di paracadutista militare, una volta ottenuto sono stato quindi inviato al reparto operativo a Livorno, al 185°, ove transitai nei ruo- li di carriera. Paradossalmente mi accolse proprio un sottufficiale che aveva fatto il 58° corso con me, che con me era parte di quel gruppo elitario di aspiranti paracadutisti, che con me aveva condiviso dieci mesi, gomito a
  • 25. 25 L’età uniformata gomito. Il quale mi riconobbe ma non fece domande, aveva già visto cose simili, colleghi che scomparivano per lungo tempo per poi tornare con gra- di diversi e con il foglio matricolare in bianco, ormai era dentro il mestiere e pensava che anche io fossi inserito in qualcosa del genere. Al reparto non esistevo, nel senso che c’ero ma non partecipavo alle sue attività, dopo l’alzabandiera andavo a Camp Darby fino al pomeriggio quando tornavo in caserma e quindi me ne andavo a casa mia, vivevo ancora con i miei. Fino a quando nel Gennaio del 1988 sono stato definitivamente congeda- to dall’Esercito Italiano, dopo tre anni di una singolare carriera, dopo tre diversi arruolamenti e tre diversi congedi. Parlavo correttamente inglese e ancora non avevo ben compreso per chi lavorassi o che cosa avrei dovuto fare, il congedo fu la fine di una sorta di corso, durato ben tre anni. è stato in questo periodo che ho potuto apprendere ed imparare a pedi- nare, ad attivare delle contromisure di sorveglianza, ad usare le armi, gli apparati radio, ad apprendere le tecniche e le procedure per operare in modo diverso dal classico militare di caserma, in modo ambiguo, strano, marginale ed emarginato, solitario. Alla Folgore mi sono sentito un fantasma, avevo atteso tanto per farne par- te ed ora che c’ero ero praticamente invisibile, inserito fra gli invisibili, lon- tano dal gruppo, dalla squadra, dal plotone, dagli altri. Parte di qualcosa di sconosciuto ai più, di qualcosa di non facilmente interpretabile e molto difficile da spiegare, qualcosa che era definito una sorta di dispositivo del quale nulla sapevo. Diciannove anni erano pochi, ma come diceva mio zio Domenico, i miei po- chi anni contenevano già molto perché avevo vissuto in quegli ultimi tre delle esperienze importanti che avevano consentito di concretizzare le mie qualità interne ed esterne, maturando una consapevolezza fuori dal comune.
  • 26. 26 Singole Esperienze collettive Per il resto del mondo ero un giovanissimo paracadutista, uno dei tanti, anonimo e assolutamente compatibile con quell’ambiente, per altri ero un sicuro e fidato collaboratore, come appare da alcuni rapporti informativi della Difesa che mi riguardano. Ero felice di aver comunque raggiunto il traguardo che mi ero prefissato, di aver superato le difficoltà e gli ostacoli, sapevo che la Folgore era impegnata in tante operazioni non tutte cono- sciute ed alcune riservate, sapevo dell’operazione in corso in Perù e di altre, ero un giovane uomo pieno di energia, concentrato in particolare verso ciò che la mia età mi stimolava, come le donne, la scoperta dei sentimenti, della passione, l’autonomia lavorativa, l’indipendenza economica, la moto ed i viaggi, cose da giovani. Mi aspettavo di essere chiamato a fare quelle missioni delle quali sentivo parlare dai colleghi più anziani e dagli americani, quelle dove sparisci per un pò per andare in qualche zona calda, d’altronde i miei parenti mi ave- vano consentito di comprendere la serietà del lavoro dell’ufficio ove erano impiegati e m’immaginavo una sorta di attività del genere nel mio prossi- mo futuro, anche se avevo dismesso l’uniforme, ma in fondo non ero così interessato a fare la vita di caserma. Un ufficiale mi disse sarcasticamente che ero un ottimo soldato ma un pessimo militare. Non mi sarei mai aspettato invece quel che è accaduto nel Marzo del 1988, quando sette carabinieri hanno suonato alla mia porta e mi hanno arresta- to. Diciannove anni erano pochi, anche se ne dimostravo ventisette, erano pochi per vedermi ammanettato.
  • 27. 27 ARIA O SALETTA? Il carcere è un contenitore di libertà. Non c’è nulla di poetico in carcere se non la poesia dei carcerati per evadere dalla propria detenzione. Ogni cosa dentro il carcere è psicologicamente studiata, dai colori delle mura alla ge- stione dei rumori delle sbarre e delle porte blindate. Non c’è nulla dentro il carcere se non la psicologia pura nella espressione dei suoi meccanismi difensivi per fuggire da quella realtà dolorosa quale è la consapevolezza della propria prigionia. “vieni dalla libertà?” Mi chiese una guardia mentre mi stavano introducen- do all’interno del carcere nel quale sarei rimasto per settantasette giorni. Non risposi come non risposi mai più a nessuna domanda, a nessuna of- fesa, a nessuna provocazione, se non con cenni facciali e accenni gutturali per rispondere positivamente o negativamente alle sole domande che mi hanno fatto mentre stavo dentro una gabbia, “aria o saletta?”. 19 anni erano pochi per essere contenuto dentro una cella, erano il fulcro della libertà per qualsiasi adolescente in evoluzione, proteso verso la vita e le scoperte che la vita consentiva di esperire. Mi sono accorto di essere un ragazzo, un ragazzo di diciannove anni mentre la cella mi fu chiusa alle spalle della sezione in cui mi parcheggiarono, nel momento in cui la guar- dia chiuse la blindata con le mandate, il cui suono mi è rimasto impresso nella memoria per anni. Da quell’esatto momento non ho più avuto ter- rore di nulla, da quel momento la paura non è stata più il mio sensore ma una sorta di siringa per adrenalina. Il carcere è un contenitore di libertà. Parola che non avevo mai effettiva- mente preso in esame; sembrava così scontata la libertà durante le mie
  • 28. 28 Singole Esperienze collettive lunghe passeggiate nei boschi, le mie nuotate in mare aperto, le mie gite in motocicletta, i miei voli con il paracadute, durante l’espressione dei senti- menti e della passione dell’amore. Non ero più libero ma un detenuto contenuto dentro un contenitore di detenuti, oggetti e non più soggetti, cose di una casa circondariale. Dei prigionieri. Ero e mi consideravo un prigioniero e non un detenuto, il mio essere sol- dato non era venuto meno solo perché poche settimane prima ero stato posto in licenza illimitata senza assegni dall’Esercito, in attesa di congedo. I giorni passavano nel nulla più assoluto, caratterizzato dalla mia scelta di andare in saletta o all’aria durante l’ora consentita per uscire da quei centi- metri della cella. Niente se non la mortificazione dei toni delle guardie, le botte che prendevo per il mio rifiuto di chiamare “superiore” le guardie stes- se. Infatti questo era il termine con il quale pretendevano di essere appellate altrimenti non rispondevano a nessuna richiesta, che doveva essere obbliga- toriamente fatta per scritto attraverso il modulo detto “la domandina”, da richiedere alla guardia tramite la manifestazione di sudditanza chiamando- lo appunto “superiore”. Ero stato un soldato per oltre tre anni, un paraca- dutista, assistere a uomini in uniforme che si comportavano da persecutori mi rendeva solo rabbioso e non vittima delle loro angherie, anche laddove prendevo le botte o quando mi portavano alle cellette per somministrarmi una serie di trattamenti molto violenti, soprattutto psicologicamente vio- lenti. Fortunatamente l’addestramento ricevuto e le mortificazioni vissute durante gli anni in uniforme mi hanno consentito di affrontare quella espe- rienza, alla quale non era possibile reagire ma solo resistere. La minaccia costante che mi veniva fatta era quella di una relazione negati- va o di una denuncia da parte di una guardia, che avrebbe potuto non solo peggiorare la situazione attuale ma anche svilupparne nuove e ben peggiori fino ad allungare la permanenza in carcere.
  • 29. 29 Aria o saletta? I giorni passavano ed io giocavo alla libertà, immaginandomi gli spazi amati, immaginandone i colori che mi hanno fatto innamorare degli spazi liberi come il verde del prato, l’azzurro del cielo ed il blu del mare. Giocavo alla libertà mentre scrivevo parole piene d’amore alla fidanzatina che avevo, un’amica d’infanzia, una compagna di scuola, una vicina di casa che poco dopo divenne una poliziotta. Non smetterò mai di ringraziarla, perché se sono riuscito a resistere dentro quella gabbia lo devo anche a lei ed al suo meraviglioso modo di amare l’amore, con l’intelligenza e l’ironia, anche nei momenti terribili come quelli, per due diciannovenni che eravamo; affacciati alla finestra della vita, già decisi sul nostro futuro, incapaci di re- agire a quel trauma se non con la fantasia dell’amore che abbiamo espresso in tanti fogli bianchi colorati di emozioni, con i quali ci scambiavamo i pensieri autistici dell’amore contenuto dentro una gabbia, nella quale ero solo un cane e non avevo nemmeno il diritto di abbaiare. Dopo un paio di settimane una guardia mi portò dentro una stanza, ogni volta che uscivo dalla mia gabbia, ad ogni passaggio attraverso ogni singola porta, cancello o blindata che fosse subivo una perquisizione. “Collega” così si chiamavano fra di loro le guardie nell’avvisarsi mentre raggiungevamo un filtro, un cancello o un ufficio. Non ho mai sentito o saputo un loro nome se non quello di una guardia che avevo conosciuto prima del mio arresto, il quale quando mi ha visto giungere in carcere mi ha guardato con gli occhi sorpresi e sofferenti, in silenzio, in quei pochi secondi in cui ci siamo guardati abbiamo deciso di non esserci mai conosciuti prima. Nella stanza incontrai un uomo che avrà avuto più o meno una quarantina di anni, aspetto militare, che non avevo mai visto prima. Mi chiese infatti se avessi avuto l’impressione di conoscerlo o di averlo visto da qualche parte durante il mio servizio militare. Mi chiamava per nome, Fabio, stra- no per un militare pensai, generalmente si rivolgevano nei miei confronti sempre con il cognome, col grado oppure con qualche simpatico sopran-
  • 30. 30 Singole Esperienze collettive nome stimolato dal mio stesso cognome, con tutte le sue possibili interpre- tazioni. Non si qualificò, non disse a quale reparto apparteneva, non disse nemmeno di essere parte di una amministrazione dello Stato, quel giorno si limitò a guardarmi, a chiamarmi per nome e ad osservarmi. Ascoltò il mio silenzio per una decina di minuti poi se ne andò. Avevo deciso di non avere alcun rapporto con gli altri detenuti, nessu- na forma di amicizia, nessun contatto oltre quelli obbligatori o necessari, nessuna relazione. D’altronde per loro ero una sorta di sbirro e non mi vedevano di buon occhio, capirono solo che non ero amato dalle guardie dalle volte in cui prendevo le botte o quando tornavo dalle cellette con il viso gonfio di “schiaffi e solette”. La saletta era una stanza di poco più grande della cella, ma sempre troppo piccola per contenere tutti i detenuti di quel braccio, nella quale avevamo la possibilità di giocare a scacchi oppure di leggere qualcosa. L’aria era semplicemente un cortile murato ove muoversi, correre in circolo come i topi, giocare a calcio. La saletta era anche il luogo ove assemblarci durante le perquisizioni generali, quelle grosse, fatte in ogni cella con l’ausilio dei cani; rinchiusi in questa saletta, nudi, mentre le guardie, che non erano le solite della sezione ma di un altro reparto, controllavano e devastavano quel poco che avevamo nelle celle. In cella d’altronde era possibile ave- re ben poco oltre la chiave del piccolo armadietto situato all’esterno, per aprire il quale occorreva chiamare un “superiore” e chiedere gli oggetti per l’uso quotidiano che vi erano riposti, il cibo comprato a caro prezzo dallo “spesino” ed altre cose. Qualche giorno più tardi sono stato di nuovo portato al cospetto dello stesso uomo, il quale questa volta mi disse quel che avrei dovuto fare, cioè la “spugna”, semplicemente la spugna. Assorbire notizie ed informazioni e riportarle a lui o a qualche altro suo delegato. Non si qualificò, non disse nulla altro se non le indicazioni relative ai due detenuti dai quali
  • 31. 31 Aria o saletta? avrei dovuto captare notizie, senza cercarle, solo assorbirle laddove sentite; erano due uomini coinvolti in fatti di sangue, di armi e di eversione, con omicidi sulla coscienza e senza coscienza sugli omicidi commessi in danno di altri detenuti. Anni dopo riconobbi quest’uomo in un ufficiale paracadutista, transitato dalla Folgore al Sismi, indicato da una fonte qualificata, un ambasciatore, di essere un appartenente alla Falange Armata, un operatore dell’ufficio “K” della settima divisione del Sismi, quella di Gladio.
  • 32.
  • 33. 33 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO I ferri da campagna, così erano chiamati i braccialetti di metallo con le maglie e la catena, mi stringevano i polsi tanto da farmi male mentre le guardie mi trasferivano dal cellulare al tribunale per essere processato. La lunga catena mi teneva legato a loro come un guinzaglio che sembrava non finire mai. Mi misero dentro una gabbia nell’aula del Tribunale, offerto agli occhi di tutti coloro presenti. Iniziò il dibattimento che ripercorse le varie fasi dei presunti fatti che causarono il mio arresto, degne di essere valutate e comprese per capire quanto era facile, per chiunque, finire in galera con il vecchio codice penale, quello prima della riforma del 1989, anche senza particolari intenzioni di incastrare qualcuno da parte di qual- che poliziotto ossessionato dal proprio ruolo, dal bisogno di emergere e di raccogliere encomi. Nel Dicembre del 1986 un noto transessuale, prostituta abituale, raggiun- se una piccola stazione dei Carabinieri per denunciare che la notte prima aveva subito un furto, uno stereo portatile e 300.000 lire, da parte di un giovane con il quale aveva avuto un rapporto sessuale dentro la sua abi- tazione. Indicò il giovane come un militare, un amico del suo fidanzato, anche questo militare, che il transessuale disse essere un carabiniere, un carabiniere paracadutista. Nel corso di pochi giorni egli cambiò per tre volte i contenuti della sua de- nuncia senza mai indicarmi o segnalare nulla che potesse essere ricondotto a me, fino a quando disse di avermi riconosciuto dentro un pub. Indicò ai Carabinieri il mio nome ed il mio cognome che asserì di averli estratti da un mio documento d’identità che qualcuno gli mostrò. In effetti ricordo che una sera del marzo 1987, mentre mi trovavo dentro un noto pub cit-
  • 34. 34 Singole Esperienze collettive tadino, in compagnia di due incursori paracadutisti, notai la presenza di questo transessuale, molto noto in città, insieme ad un ragazzo che sapevo essere un carabiniere paracadutista. Mi fu presentato e mi chiese notizie circa un altro carabiniere paracadutista che avevo probabilmente conosciuto, chiedendomi se avessi saputo qual- cosa circa la sua attuale destinazione che indicò in una caserma di Bologna, nella quale poco tempo dopo avverrà un massacro di Carabinieri. Qualche giorno dopo alcuni carabinieri perquisirono la mia abitazione dicendomi che ero stato accusato di rapina in danno del transessuale e che cercavano lo stereo ed i soldi che secondo questi gli avrei rubato durante il rapporto sessuale che, sempre secondo quanto detto dal tran- sessuale, avremmo avuto il 16 Dicembre 1986. Negai ogni addebito e accompagnai i carabinieri, diretti dal comandante della stazione nella quale il transessuale aveva sporto la denuncia nella mia stanza, ove trova- rono e sequestrarono un pugnale tipo militare ed una pistola giocattolo, la riproduzione di quella vera, ma a salve. Non fu trovato nessun oggetto riconducibile alla presunta rapina. Nel frattempo proseguivo la mia strana carriera militare presso i vari reparti, non seppi più nulla per un anno fino al giorno del mio arresto avvenuto nel mese di marzo dell’anno successivo, giustificato dalla richiesta della custodia cautelare in carcere per il pericolo di fuga e d’inquinamento delle prove. Arresto richiesto con queste motivazioni a distanza di quindici mesi dal presunto evento, mesi nei quali sarei potuto fuggire o avrei avuto il modo di inquinare qualsiasi prova. Mesi nei quali ho servito lo Stato ricevendo rapporti informativi e note caratteristiche più che positive. Il processo fu caratterizzato dalla ilarità da parte degli astanti per gli argo- menti trattati e per il modo che il transessuale aveva di raccontare i fatti, contraddicendosi molto spesso, incalzato dalle domande del mio avvocato, un principe del foro livornese grande amante de “il Vernacoliere”.
  • 35. 35 In nome del popolo italiano L’evento che fece realmente ridere tutti fu quando il giudice chiese al tran- sessuale di riconoscermi ed indicarmi, il quale aveva la scelta di indivi- duarmi fra me ed una ragazza di colore che mi stava accanto, non sbagliò. Questo fatto stimolò quella mia reazione emotiva che avevo contenuto nei lunghi mesi di prigionia. Sono stato condannato al massimo della pena, anni tre e mesi uno di reclusione con l’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque, per i reati di rapina e di armi. Avevo già trascorso settantasette giorni in carcere e la prospettiva di pas- sarci degli altri anni mi gelò il sangue. Non rimasi soltanto colpito dalla condanna, per armi in special modo, ma dalla sua entità, il massimo della pena per un diciannovenne incensu- rato, che fino ad allora aveva fatto il militare di carriera, che nel periodo nel quale fu consumato il presunto reato aveva compiuto diciotto anni da pochi mesi. Soprattutto ero deluso dal fatto che non riuscii a dimostrare che nei giorni in cui il transessuale disse che avvenne il fatto, ero alla base americana Ederle di Vicenza. Durante il viaggio di rientro in carcere sviluppai con l’immaginazione un piano di fuga, avrei potuto colpire la guardia alla mia destra, disarmarla e minacciare l’altra per togliermi i ferri, quindi evadere e raggiungere la Francia. Purtroppo il tragitto fu più breve della mia fantasia e arrivammo al carcere prima della fine della mia fantasiosa fuga. Ero scioccato, condan- nato al massimo delle pena per qualcosa che non solo non avevo mai fatto, ma che da quanto emerse al processo era evidente che non fosse mai av- venuto. Pensai che probabilmente quella era una sorta di missione, pensai che da fare solo la spugna sarei stato inoltrato in qualche altro carcere per infiltrarmi in chissà quale gruppo eversivo, che la condanna per armi era probabilmente una sorta di biglietto da visita per accreditarmi in qualche modo verso la criminalità che avrei dovuto infiltrare. Volli pensare questo
  • 36. 36 Singole Esperienze collettive per non affrontare il pensiero che ero stato condannato a tre anni ed un mese di galera, che non ero più un incensurato, che la mia fedina penale era stata sporcata. Avevo solo diciannove anni. Qualche ora dopo, mentre ero nella mia gabbia subendo le grida degli altri detenuti enfatizzati dalla notizia della mia condanna, mi raggiunse una guardia dicendomi che era giunto l’ordine di scarcerazione e che sarei stato trasferito agli arresti domiciliari, ove rimasi per altri cinque mesi. Il carcere è stato il contenitore della mia libertà mentre gli arresti domici- liari furono la mia libertà contenuta. Vedevo tutto ciò che non potevo fare, dalla semplice passeggiata alla possi- bilità di evadere. Erano una vera tortura psicologica, ove avevo tutto rispet- to al nulla del carcere, mangiavo, avevo i miei affetti vicino, non c’erano le guardie a prendermi a botte, ma sono stati ben peggiori del carcere perché ai domiciliari ero la guardia di me stesso, ero il mio principale persecutore. Ho festeggiato i miei venti anni di età da prigioniero, fu un complean- no triste con le candele spente. Un giorno squillò il telefono e qualcuno dall’altra parte della cornetta mi disse che ero stato rimesso in libertà. Nonostante la mia giovane età ed il trauma che avevo vissuto, iniziato sin dal mio primo strano congedo del 1985 fino al giorno del mio arresto, cercai di capire in cosa ero stato coinvolto, sforzandomi di analizzare ogni fatto al quale avevo partecipato o che avevo potuto sapere durante la mia permanenza nelle varie caserme italiane oppure a Camp Darby. Dal 1985 al 1988 la mia vita è stata caratterizzata dalla carriera militare, dalle basi americane, dai paracadutisti. In qualche modo il soggetto che mi aveva denunciato era riconducibile a questi elementi. Era un informa- tore dei carabinieri, il suo fidanzato come egli ha ammesso e dichiarato in atti era un carabiniere paracadutista, che avevo conosciuto dentro Camp Darby. La sera che lo incontrai al pub ero con due incursori che lo co- noscevano, anch’essi presenti spesso a Camp Darby i quali assistettero al
  • 37. 37 In nome del popolo italiano nostro colloquio, mentre era in compagnia di un altro carabiniere para- cadutista spesso presente alla base americana. Ancora non sapevo che uno di questi due incursori, entrambi transitati dal Col Moschin al Sismi, era un collaboratore del soggetto che mi chiese di fare la spugna. Ancora non sapevo che l’altro incursore lo avrei rivisto durante il confronto che avrei svolto alla Procura di Livorno venti anno dopo, relativo le indagini della tragedia del traghetto Moby Prince. Ancora non sapevo che il giudice che dispose il mio arresto sarebbe stato a sua volta arrestato e che un altro giudice aveva il figlio tossicodipendente che prendeva la roba dallo stesso fornitore del transessuale e di suo nipote, quest’ultimo poi morto per overdose, tutti confidenti della polizia e dei carabinieri. Nel momento in cui appena liberato andai a tuffarmi in mare aperto, men- tre nuotavo, sapevo solo che avrei impiegato ogni mia risorsa per dimostra- re la mia innocenza, per dire ai miei genitori che loro figlio aveva patito quella tortura, e loro con me, senza colpa. Il mare mi accolse ancora una volta con tutta la sua energia, era freddo, provai una profonda sensazione di benessere, ad ogni bracciata l’acqua si mischiava con le mie lacrime, le mie lacrime erano libere ed io con loro. Quando incontrai i miei due parenti che lavoravano all’interno dell’am- basciata americana di Roma, mio cugino Massimo e mio zio Domenico impiegati al controspionaggio militare, mi dissero che quanto mi era acca- duto era terribile, ma che ero stato considerato dai loro amici positivamen- te per come avevo reagito, resistito e superato l’evento senza mai perdere la calma. Che presto avrei avuto modo di riprendere la mia vita, di fare il mio lavoro, l’unico che sapevo fare e che avevo fatto negli ultimi quattro anni dei miei venti anagrafici, il lavoro del soldato.
  • 38.
  • 39. 39 LEGIO PATRIA NOSTRA Aubagne mi ha visto arrivare a bordo di una motocicletta con la pioggia d’inverno, che abbandonai poco prima il cancello d’entrata del quartier generale della Legione Straniera francese, il quale sembrava la bocca di un imbuto che ingoiava centinaia di vite, per farle sparire e rinascere con un kepì blanc calzato in testa, dopo aver distrutto e ricostruito la personalità e la persona che aveva scelto di arruolarsi in questo mitico e mitizzato reparto militare. Mi accolse un legionario di origine ispanica, il quale dopo avermi intro- dotto all’interno di alcuni locali mi prese i documenti, mi guardò, sorrise beffardamente e mi salutò in francese. Dentro la caserma la vita era simile a tutte le altre organizzazioni militari, cambiava solo il tipo di uniforme ed i toni della cadenza che guidava la marcia, che nella Legione era molto più lenta rispetto agli altri reparti, con un passo dolce, cantato, leggero. Mi dettero una tuta ginnica con i colori della Legione, rosso e verde, raggiunsi uno stanzone dove trovai gli altri aspiranti legionari, provenienti da mezzo mondo, molti giovani, alcuni giovanissimi, qualcuno giunto in gruppo, altri, come me, da soli. La giornata era strutturata con adunate generali, chiamate con un fischio, nelle quali alcuni legionari ci spiegavano, in francese, le attività da svol- gere, quindi dall’attesa dietro il piazzale, ove c’era un grosso albero ed una sorta di cortile sterrato, nel quale ci radunavamo in attesa del fischio, senza nessun legionario a controllarci; le risse erano frequenti, qualche cazzotto volava sempre fra i più nervosi, forse i più indecisi. C’era di tutto, ragazzi in fuga da mandati di cattura, uomini in cerca di una nuova vita,
  • 40. 40 Singole Esperienze collettive ex militari innamorati del proprio lavoro, sognatori, frustrati, delinquen- ti, vittime, varia umanità che la Legione avrebbe accolto, forgiato e reso strumento per il governo francese. La “gestapò” era la sezione della polizia militare della Legione Straniera, ove incontrai un ufficiale che mi fece alcune domande, mi presero le im- pronte, non ricordo se mi fecero anche la fotografia, ricordo invece il commento di un legionario che sorridendo disse che sapevo come usare il tampone dell’inchiostro, facendomi così capire che le informazioni su di me le avevano già prese. C’era un giovane ragazzo bianco proveniente dal Sud Africa, che parlava uno strano inglese ed uno strano francese, avrà avuto diciotto anni, con il quale feci coppia sia in camerata che nel cortile d’attesa, difendendoci uno con l’altro contro qualche scatto di rabbia di uno dei tanti disperati, specialmente quelli che non avevano scelto la Legione ma che non aveva- no altra scelta nella vita, forse inseriti nella lista catturandi del loro paese d’origine, forse semplicemente disperati che mal digerivano gli ordini e l’inquadramento militare, specialmente quello della Legione Straniera che non era certo un luogo di educande. Alla momento della firma del contratto parlai con un ufficiale che mi spie- gò che per i prossimi cinque anni sarei stato proprietà della Legione Stra- niera francese, che avrei potuto cambiare il mio nome, che al termine della ferma avrei potuto continuare la carriera militare oppure tornare alla vita civile con un nome nuovo e la nazionalità francese, che il fatto che ero già stato un paracadutista non contava nulla e che per diventare un parà della Legione avrei dovuto eccellere in ogni attività. Nell’ufficio c’era anche un legionario che mi parlò in italiano, infatti era italiano, il quale dopo che fir- mai il contratto mi portò alla vestizione, ove ricevetti una uniforme verde da lavoro per affrontare le settimane successive, caratterizzate da un colore di un nastrino che cambiava in base al superamento di alcune selezioni,
  • 41. 41 Legio Patria Nostra fino a raggiungere l’arruolamento e l’invio presso la scuola di addestra- mento nella quale dopo alcuni mesi di corso i soldati avrebbero ricevuto l’emblema della Legione Straniera, il kepì blanc, con una caratteristica ce- rimonia, fra canti e falò, fino al grido del motto “legio patria nostra” che suggellava l’entrata nel mito. Non raggiunsi mai quel momento, me ne andai prima, nonostante avessi già firmato il contratto, ma ebbi modo di scambiare due parole con un americano che, portandomi i saluti di mio cugino Massimo, mi propose di entrare in alcune strutture private, ove portare la mia esperienza e la mia voglia di imparare, ove avrei potuto continuare a fare il soldato senza le costrizioni di un reparto militare. Londra sembrava un grosso nuvolone con la gente sotto, non mi piaceva, era fredda, umida e soprattutto grigia, mi mancava il mare, il sole che in quella città non ho mai visto; fortunatamente il tempo era poco perché lo impe- gnavo tutto nell’imparare questo mio nuovo lavoro, quello del consulente privato per la sicurezza, inserito all’interno di un dedalo di società private in- ternazionali, la maggior parte americane ed israeliane, che offrivano i più vari servizi di sicurezza e di intelligence alle grandi industrie, a qualche governo, ai grandi finanzieri, agli investitori nei paesi considerati ad elevato rischio, quelli nei quali c’era una guerra in corso, c’era stata oppure avrebbe potuto esserci in base ai rapporti della valutazione del rischio stilati dagli operatori in teatro che misuravano la febbre ai vari leaders delle fazioni in lotta, special- mente nei paesi africani. Stavo imparando l’arte della captazione, del pedi- namento e delle contromisure di sorveglianza, stavo imparando a dossierare, a compilare e valutare i rapporti informativi descriventi persone e strutture, fatti e situazioni, mi addestravo fisicamente e mentalmente per affrontare le difficoltà che avrei incontrato nei teatri operativi, stavo imparando le lingue in attesa di raggiungere il prossimo paese di destinazione, la Germania Est; era il 1989, avevo ventuno anni e stavo ringiovanendo.
  • 42.
  • 43. 43 CHECK POINT CHARLIE 1989 Il treno era freddo, molto freddo, stavo viaggiando di notte in Germa- nia diretto a Berlino, quando vidi per la prima volta due guardie della Germania Est che erano salite a bordo per il controllo dei documenti dei viaggiatori, era così strano vedere di persona il simbolo della guerra fred- da, il nemico che mi avevano insegnato a temere, quello protagonista dei tanti film nei quali Berlino era sempre stata rappresentata con un velo di romanticismo e di tristezza; in realtà l’unico film che ben mi ricordavo era stato “noi i ragazzi dello zoo di Berlino” e tanto romantica quella città non mi apparse, come poco gentili furono i due militari della Germania Est, che marciavano in modo così marziale anche mentre camminavano; pensai per questo a quanto doveva essere stato pressante il condizionamento che avevano subito e che probabilmente doveva essere costante durante tutta la loro giornata. Al mattino raggiunsi Berlino Ovest, lo “zoo” del film, cioè la stazione ferro- viaria; la città era divisa nei settori inglese, americano, francese e quindi la Berlino Est, d’influenza sovietica, triste. Provai delle sensazioni strane, non avevo mai patito tanto freddo quanto quel giorno, capii di essere molto lontano da casa, capii di essere immerso nella parentesi della storia, al centro dell’asse che equilibrava gli scenari mondiali, in una città distrutta e ricostruita sopra quella vecchia; la palude, questo significava Berlino, un tempo sede di quella pazzia che era stato il nazismo i cui simboli potevo vederli ancora in alcuni vecchi angoli della città mai ricostruiti, le cui conseguenze erano davanti ai miei occhi, una città divisa, fredda, grigia e triste, molto triste.
  • 44. 44 Singole Esperienze collettive I giorni trascorsero e piano piano imparai a muovermi all’interno della città, fra i vari settori, specialmente imparai a capire che il Check Point Charlie chiu- deva alle ventitre e che dopo sarebbe stato molto difficile tornare nel settore occidentale senza incappare negli incessanti controlli della polizia dell’est, molto simile ai personaggi dei film, con i loro vestiti neri di finta pelle, le espressioni serie e quell’atteggiamento di perenne incazzatura, d’altronde non è che facessero una vita particolarmente brillante oltre quel muro. Conobbi Sabine, una meravigliosa giovane ragazza di Berlino Est che ama- va pattinare, la incontrai in uno dei miei primi passi dall’altra parte del muro, diffidandone subito convinto che fosse una sorta di guardia intenta a capire i motivi delle mie visite, con la quale imparai l’arte della terribile colazione dell’est formata da cibo dagli strani sapori, forti ed acuti. Nel settore ovest mi spacciavo per un bisessuale italiano in cerca di libertà, in fuga dalla oppressione italiana e speranzoso di trovare nella città aperta di Berlino l’accoglienza gradita fra la numerosa comunità gay, bisex, lesbo presente in città, con i suoi locali, le sue strade a tema, la sua atmosfera di libertà come se fosse l’ultimo giorno sulla terra. Il mio lavoro consisteva nel mettere in pratica quello che avevo imparato a Londra, cioè penetrare gli obiettivi d’interesse, di volta in volta indicati da coloro con cui collaboravo; obiettivi, cioè persone, di cui poco sapevo, che frequentavano quei locali bisex nei quali io stesso mi ero inserito, che avvicinavo fino a farmi portare nella loro casa o nella loro auto, ove poter piazzare degli ambientali, prima di abbandonarli senza averne soddisfatto i desideri, con uno dei migliori metodi per non stimolare la loro ira o la loro curiosità, il vomito, bastava infatti simulare di vomitare e sputacchiare qua e là per ridurre ogni velleità sessuale nei miei confronti, giustificando che come italiano non ero abituato a bere tutta quella birra, scoraggiandoli così dal persistere ogni approccio sessuale, da rimandare a tempo indeter- minato, mai. Un pomeriggio mentre ero nel settore est ho assistito a come
  • 45. 45 Check Point Charlie 1989 la storia può cambiare in un secondo, vidi la gente radunarsi come mai prima, con le guardie che avevano delle espressioni fra il sorpreso ed il cu- rioso, Sabine abbandonò i suoi pattini, mi prese la mano e mi disse di cor- rere via, di tornare all’ovest perché non capiva quel che stava accadendo ma sapeva quanto era elevato il rischio di finire in mezzo ad una sparatoria, co- nosceva la violenza delle guardie, riconobbe le macchine degli uomini della famigerata Stasi, corse dai suoi genitori che nel frattempo la raggiunsero con la loro piccola Trabant, un’auto strana e buffa, simile alla Nsu Prinz che aveva avuto mia madre prima di rinunciare a guidarla, dopo averla battuta contro ogni cosa in movimento. Le dissero che non sapevano cosa stava accadendo ma che era qualcosa di grande, mi sembrava di essere stato proiettato in un passato remoto, con i colori, gli abiti, l’atteggiamento ed il comportamento di quella gente, i cui sguardi esprimevano tanta paura ma anche la speranza che qualcosa potesse cambiare. Entrai anche io in quella strana scatola di metallo con le ruote piccole, che puzzava di miscela, ricor- dandomi la mia vespa 125 ET3 primavera che avevo avuto qualche anno prima, ereditata da mio fratello. Raggiungemmo una fila di altre macchine, molte Trabant e qualche altra appena più grande, piene di gente, non era mai accaduto prima che a Berlino Est si potessero riunire così tante persone senza che le guardie ini- ziassero a sparare, anche se lanciavano l’acqua con gli idranti, che si gelava addosso dal freddo che c’era, stimolando delle danze spontanee simili a quelle che facevano i deportati nei capi di concentramento. Era il 9 Novembre 1989. Quella sera ho avuto l’opportunità di fare la pace con la mia libertà, perduta dentro un carcere italiano e mai ritrovata nonostante l’apertura della cella, perché la libertà è uno stato d’animo e non solo la possibilità di muoversi. La folla cresceva di ora in ora, sfidando quei pochi poliziotti che ancora non si erano resi conto che anche loro erano di fronte alla possibilità di la-
  • 46. 46 Singole Esperienze collettive sciare quel luogo triste e grigio, i quali manganellavano qualcuno di tanto in tanto, fino a comprendere la stupidità di quel gesto, fino a diventare essi stessi folla, che premeva contro un muro orribile, il quale dividendo Berli- no aveva diviso il mondo intero; sparirono le armi ed apparsero i picconi, le mazze, qualcuno arrivò con una ruspa vecchia, ma non riuscì a fare nulla perché nel frattempo si guastò. Da una parte e dall’altra del muro la gente si radunava, chiedendone a gran voce l’abbattimento, le guardie sopra il muro stesso avevano riposto le armi ed ormai erano solo il simbolo di un’epoca finita, caduta come stava per cadere il muro, non crollato ma smembrato pezzo per pezzo, parete per parete, sgranellato dalle tante unghiate di libertà, come piccoli morsi di topi ansiosi di fuggire dalla gabbia. Sabine piangeva e rideva, il padre aveva sognato di poter rivedere la sorella rimasta all’ovest durante la costruzione del muro, la madre era invece fer- ma, immobile dentro la piccola macchina, incredula; c’erano stati molti morti prima di allora a causa degli spari delle guardie che colpivano chiun- que avesse tentato di superare quel muro, ed ora quel mostro si era aperto, crollato sotto il suo stesso peso, pronto ad accogliere le speranze ed i sogni dei tanti berlinesi dell’est che in fretta e furia avevano caricato le piccole macchine e si erano messi in fila per passare all’ovest, fuggire via da quel mondo vincolante e pressante, dal controllo della Stasi, dalle delazioni, dai comitati, dalla burocrazia, dalla povertà e soprattutto dal contenimento fisico e culturale opprimente e deprimente. Con Sabine ci perdemmo nella folla, non l’ho più rivista, non ho più sa- puto nulla di lei e della sua famiglia, ogni tanto m’immagino che starà pat- tinando in qualche città tedesca con i suoi figli, ai quali racconterà come crollò il muro di Berlino, in compagnia di quel ragazzo italiano che parlava tedesco con un terribile accento toscaneggiante, che riuscì a cucinare degli spaghetti alla carbonara all’interno di una bettola dalle parti di Alexander
  • 47. 47 Check Point Charlie 1989 Platz, per dei palati che poco capirono del gusto ma che apprezzarono il coraggio della libertà trasformato in una mangiata collettiva, la quale era vietata e che mi costrinse a restare clandestinamente all’est perché avevo ormai superato le ventitre, l’ora del rientro dal Check Point Charlie, da dove passai il giorno dopo con tutta la folla senza più tanti controlli, infatti molti occidentali approfittarono di quel momento per rientrare all’ovest dopo essere stati clandestinamente all’est, ognuno per le proprie ragioni. Poi la vita riprese il suo corso, con altri controlli, meno marziali ma pre- senti, fino allo smantellamento dei settori in cui era stata divisa Berlino e la sua progressiva ricostruzione. Berlino è stata la città più ricostruita al mondo, che nasconde un’altra città nel suo sottosuolo, quella città che il nazismo avrebbe voluto più grande ed imperiale di Roma per manifestare il dominio sul mondo, dopo aver sterminato i nemici, dopo aver distrutto la vita di milioni di persone; un sottosuolo ancora pieno di bunker, di dedali di viuzze costruite per difen- dersi dagli incessanti bombardamenti degli alleati durante la seconda guerra mondiale, con cucine, ospedali, caserme, uffici postali, birrerie, tutte nasco- ste sottoterra, compreso il bunker nel quale Hitler pose fine alla sua vita. La caduta di quel muro mi ha consentito di elaborare parte del trauma patito con la mia prigionia, ho ritrovato il senso della libertà, la gioia della libertà e soprattutto la capacità di crescere, di riconoscere la mia età, quella di un ragazzo di ventuno anni, felice anche di giocare all’interno di un lavoro serio, all’interno di fatti molto più grandi di me, nei quali ero parte, comparsa, spettatore. Man mano che i giorni passavano iniziai a capire che la caduta di quel muro fu troppo repentina per non rappresentare un rischio di ulteriori crolli, come la storia poco dopo confermò. Una sera incontrai un vecchio berlinese, che aveva bevuto molto, eravamo seduti sui gradini delle fontane dell’Europa Palace, mi piaceva ascoltarlo, conosceva qualche parola di italiano perché aveva combattuto sul fronte di
  • 48. 48 Singole Esperienze collettive Cassino durante la guerra, mi raccontò la sua storia, simile a quella di tanti giovani berlinesi di allora; parlava del potere di Hitler, dell’enorme mac- china del nazismo, delle sfilate nei viali nei quali si radunavano centinaia di migliaia di persone inneggianti, di quei soldati alti e fieri, delle mille bandiere, dei cavalli, dei canti, descriveva i fatti come se quella bottiglia di un liquore indefinito fosse una sorta di macchina del tempo, i suoi occhi erano una cinepresa capace di mostrarmi le immagini dei suoi ricordi, che potevo vedere oltre che ascoltarli dalle sue parole alcolizzate. Mi raccontò la guerra del pane, quando, poco dopo la presa di Berlino i sovietici lancia- vano il pane alla folla di civili affamati, poco alla volta perché si divertivano a vederli scannare fra loro, spinti dalla fame. Mi raccontò quando una sua amica gli fornì i vestiti del marito morto sotto le bombe, ancora sporchi di sangue, permettendogli così di non essere ucciso sul posto se avesse ancora indossato la sua uniforme di soldato tedesco. Mi raccontò quando, dopo la guerra, si sposò ed ebbe i suoi figli, poi la sua sconfitta come marito e come padre ed ora stava lì, accanto ad un perfetto sconosciuto, solo, in attesa che la cirrosi epatica se lo portasse via, ormai vecchio e stanco anche dei suoi stessi ricordi. Si chiamava Peter, morì tre mesi dopo, trovato assiderato non lontano dallo zoo di Berlino, che dava il nome alla stazione ed al giardino zoologico, formato anche da tante per- sone che si erano perse, diventando animali, perdendo il ruolo di uomini per restare solo delle presenze, che si estinguevano per droga, per fame, per freddo ed anche per quella vecchiaia che si portava via la memoria di un’epoca fatta di uomini alti e biondi, cavalli e mille bandiere, troppe per restare al vento, i cui drappi coprono ancora gli occhi sulla storia dalla quale non abbiamo imparato nulla.
  • 49. 49 IL SORRISO DI UN PADRE CHE MUORE Nel 1991 tornai in Italia per qualche tempo, mio padre aveva scoperto di essere il contenitore di un terribile tumore che se lo stava mangiando ed intendevo stargli vicino, come al resto della mia famiglia nel percorso che dovemmo affrontare fino alla sua morte, fatto di chemioterapia, di radio- terapia, di dolore, di medicazioni, di speranze e di delusioni, di negazione e di realtà, fino alla fine dei suoi giorni. Ho sempre conosciuto mio padre, che si chiamava Mario, come un uomo attivo, impegnato nel suo lavoro, faceva il capo draga, fumava tantissi- mo, troppo, tanto che ha nutrito il suo tumore per anni, aggiunto a tutto l’amianto che ha inalato, toccato e respirato nel corso del suo lavoro e chis- sà cos’altro. Vederlo in quel letto d’ospedale, con il suo pigiama celeste era una tortura, di tanto in tanto fuggiva dalla stanza per raggiungere la vicina piazza dei miracoli ove si mischiava coi turisti, per fumarsi le sue sigarette in pace; era ricoverato a Pisa, faceva la cavia in pratica, ma così riceveva una migliore assistenza, ormai si era affezionato ai suoi medici ed aveva fiducia in loro, sarebbe stato peggio convincerlo diversamente. Era un uomo dei suoi tempi, nato e cresciuto sotto il fascismo, costretto a crescere in fretta dalla guerra e dalla miseria, chiuso e riservato, non espri- meva le sue emozioni ma era capace di amore, di bontà e di quell’altruismo che lo caratterizzava, quasi come se volesse trasmettermi le sue carezze at- traverso gli altri, che mi parlavano di lui con dolcezza. Ricordo che da bambino mi portava a bordo delle sue draghe, delle bet- toline, in darsena toscana ove aveva l’attracco proprio sotto la torre del Marzocco, all’interno di una sorta di cantiere nel quale c’erano due pastori
  • 50. 50 Singole Esperienze collettive tedeschi bellissimi, con cui giocavo, in attesa che papà avesse controllato gli ormeggi e le apparecchiature di bordo. Salivo spesso sulla draga, amavo l’odore di mare, di olio bruciato, di ferro reso rovente dal calore del sole, di ruggine, di resine marine, di pesce. Quando lo salutavo lasciandolo solo all’ospedale sentivo lo stomaco chiu- dersi, non tanto per la paura di non vederlo più, ma perché sapevo bene a cosa andava incontro, la chemioterapia, la radioterapia e tutto il resto, con il tumore che gli stava mangiando le ossa, che sparivano letteralmente dalle lastre, sostituite da collari, da ferri, da impalcature che trasformavano mio padre in una sorta di cantiere umano. Era andato da poco in pensione quando scoprì la malattia, aveva un orto che coltivava con passione e con- tinuò a farlo fino a quando non fu costretto in ospedale, era ritornato alle sue origini di contadino, dopo tanti anni in mare. Ogni tanto mi sdraiavo sul letto, restavo immobile guardando il soffit- to bianco, isolandomi dal resto del mondo, rifiutavo l’ipotesi che potesse morire, cacciandola via con la coscienza di fuggire la realtà, per la quale non ero ancora pronto come non lo erano mia madre e mio fratello; lui, mio padre, lo aveva capito e manifestava il suo solito spavaldo coraggio perché non aveva mai imparato ad avere paura nella sua vita, non che non la provasse, non la sapeva esprimere come non riusciva ad esprimere i suoi sentimenti, le sue emozioni; era il primo ad incoraggiare tutti noi quando doveva affrontare delle terapie dolorose che gli marchiavano il corpo, che mia madre curava con tutta la devozione e l’amore che aveva donato a mio padre per tutta la vita, rinunciando a se stessa, senza farsi troppe domande, vivendo il suo destino di moglie e di madre per come la sua cultura l’aveva cresciuta e predisposta. Vedere papà sdraiato sul divano di casa quando non era ricoverato in ospe- dale era un sollievo, per quanto il colore del suo viso ed i segni nel suo corpo non lasciavano spazio a grandi fantasie di guarigione, ma ero felice
  • 51. 51 Il sorriso di un padre che muore di saperlo a casa, con la famiglia, con il suo cane, Bigol, che non lo abban- donava un attimo, che lo riscaldava con il suo corpo quando papà aveva le crisi di freddo, sdraiandosi su di lui. La notte che morì non feci in tempo a chiamare la mamma e mio fratello, papà alternava momenti di coscienza con momenti nei quali dondolava la testa da un lato all’altro dal dolore, il suo corpo era distrutto dal tumore, non riuscivo nemmeno a potergli accarezzare la testa perché sentivo le ossa muoversi, era tenuto insieme da una sorta di busto metallico che gli sorreg- geva il mento per evitare che morisse soffocato, non aveva più le vertebre cervicali, si era fatto così piccolo, così magro, così vecchio. Riprese co- scienza e mi sorrise, gli detti da bere, togliendogli quell’orribile macchina succhia bava, gli feci la barba e lo pulii ovunque, donandogli quella dignità alla quale teneva tanto. Morì poco dopo, in silenzio, sereno, forte, tanto forte da sconfiggere il do- lore rinunciando fino all’ultimo alle smorfie della sofferenza e regalandomi quello che nella sua vita rare volte era riuscito a fare, un sorriso, il sorriso di un uomo che muore di fronte a suo figlio. Questa immagine di mio padre ha cancellato in un attimo il nostro con- flitto, la nostra difficoltà di relazionarci, le nostre difese, la nostra stupidità per non esserci mai lasciati abbracciare, la nostra reciproca coscienza di amarci, di essere vicini quando eravamo lontani, preoccupati uno dell’altro in un tacito mutuale abbraccio; con quel sorriso mi ha donato la gioia del suo ricordo che porto con me ormai da tanti anni, pronto a raccontare la sua storia ai miei figli per tramandarne il coraggio di fronte al dolore, di fronte alla morte che l’ha trovato vivo, anche nella coscienza che la sua vita era giunta al termine. Restai per alcune ore di quella notte a vegliare il corpo di mio padre, gli legai il mento e le gambe con un drappo bianco, gli smontai quell’orribile busto con tutti i suoi accessori, quindi chiamai mia madre e mio fratello
  • 52. 52 Singole Esperienze collettive che mi raggiunsero in ospedale, con i quali mi sentivo in colpa per non essere riuscito ad avvisarli in tempo, affinché avessero potuto godere di quello stesso sorriso. Qualche settimana dopo la sua morte, mentre ero già tornato nella mia casa, vivevo ormai da solo all’Isola d’Elba, con il mare fuori dalla porta, ero nel letto che dormivo quando mi svegliai all’improvviso, mi misi a piange- re chiamando mio padre, tutta la notte, belando come un bambino, come quel bambino che si era ricordato il sorriso di suo padre che la memoria e gli anni avevano nascosto. Mi ricordai infatti il sorriso che mi regalò mio padre quando imparai ad andare in bicicletta, a cavallo di una graziella blu con il contro pedale, sulla quale anche mio fratello aveva mosso le prime pedalate: per tutta la notte mi ricordai che mio padre m’insegnò tante cose, che mi regalò tanti sorrisi, mi addormentai solo al mattino, per poi risve- gliarmi poco dopo, sorridente. Aprii la porta, feci due passi e mi fermai in riva al mare per sentirne il sapore, per ascoltare il vento, per guardare oltre la vita che per mio padre era ormai finita. Mi tuffai per farmi accogliere ancora una volta dall’energia del mare.
  • 53. 53 GLI ORCHI A BANGKOK Bangkok era una caotica città fatta di caotici silenzi alternati a rumori in- fernali dei clacson, dei motori, dei cantieri. Mi rifugiavo spesso lungo il fiume prendendo una barca per trovare quella quiete di cui avevo bisogno. In quella città ho imparato a riconoscere i predatori di bambini, nei suoi quartieri ove il sesso ed il turismo si confondevano in una unica offerta. Visi occidentali, tedeschi, danesi, italiani, australiani, americani, francesi, quin- di espressioni orientali dei giapponesi e dei coreani, tutti intenti alla scelta della bambina o del bambino di turno con cui fare sesso, nel modo più gra- dito, senza regole, senza umanità, solo oggetti di piacere fatti d’infanzia. Tutti anonimi cittadini, gente comune che avrei potuto incontrare in qual- siasi altro luogo, nessuna espressione a tradimento della loro pulsione, del- la loro cultura pedofilica, nulla che potesse anche marginalmente renderli diversi da me o dagli altri. Raggiunsi il confine con la Cambogia per incontrare i miei committenti, per i quali condussi un lavoro, quindi mi presi qualche giorno di relax a Pukhet, mangiando frutta fresca in compagnia di una amica americana che avevo conosciuto da poco e che mi raggiunse, Allison, impegnata in una nascente associazione che anni dopo divenne il punto di riferimento della lotta allo sfruttamento dei minori nel turismo sessuale, la quale conduceva una ricerca proprio sulla prostituzione minorile e sulla richie- sta da parte degli occidentali di bambini molto piccoli, prepuberi, anche sotto i sei anni di età. Aiutarla nel suo lavoro mi ha consentito di confrontarmi con una realtà che conoscevo ma che non riconoscevo nella sua crudeltà, ove lo sfruttamento
  • 54. 54 Singole Esperienze collettive sessuale era alla base di un traffico e di un commercio dell’infanzia di più ampio respiro. Riuscì a parlare con un pedofilo italiano, un bresciano in pensione che si era trasferito in Thailandia da qualche mese, felicissimo della sua scelta, al suo fianco c’erano tre bambine, molto piccole, dieci al massimo dodici anni, occhi furbi e sorriso esperto, gergo classico delle puttane, abbigliamento composto da capi da donne adulte indossati da bambine, i capelli bellissimi, neri e lisci, curati, le mani stanche e gli occhi di un solo colore, questo ricordo di quelle tre bambine. L’uomo si sentiva paradossalmente un benefattore perché le aveva compra- te da un bordello, le nutriva e le curava in ogni loro esigenza, ripagato dalle attenzioni che le bambine avevano imparato a vendere per mantenersi quel tutore gradito e ormai amato, con il quale la confidenza era così palese negli ammicchi sessualizzati che non lasciavano spazio a dubbi di alcun genere. Non provai particolari sensazioni di disagio, mi limitai ad osservare ed imparare, guardando ed ascoltando l’uomo nei suoi racconti di caccia, nei suoi dubbi durante la scelta delle bambine, preoccupato che fossero state violate anche nell’orifizio anale, che egli desiderava integro, le aveva fatte visitare per scongiurare il pericolo di malattie veneree, come fanno i fattori alla scelta dei maiali nelle fiere agricole. Allison lo osservava dall’alto verso il basso, era una ragazza molto bella, proveniente dallo stato dello Utah, era una mormona, i capelli lunghi, castano chiari e gli occhi di un blu profondo, intenso, preparata nella sua materia, laureata in psicologia; dopo aver lavorato negli USA per qualche tempo, decise di darsi alla cura dei bambini nei paesi del terzo mondo sce- gliendo quell’associazione che gli aveva proposto alcuni incarichi. Le traducevo quelle parole che anche io facevo fatica a comprendere a causa del forte accento bresciano e del dialetto che mischiava all’italiano, Fabrizio, questo era il suo nome, sembrava divertito dal mio interesse, che comprese come una sorta di interesse diretto verso le bambine, verso
  • 55. 55 Gli orchi a Bangkok quel mondo senza regole ove potevi acquistare una bambina di sei anni per meno di mille dollari americani. Mi raccontò, vantandosene, delle sue esperienze con numerose minori tai- landesi, delle fotografie che aveva scattato e che collezionava, degli incontri con gli altri pedofili all’interno di una sorta di club nato spontaneamente nei bar gestiti dai tedeschi che circondavano il quartiere del sesso di Bangkok. Diffidava dei giapponesi che egli considerava dei sadici perché era risaputo che i gestori dei bordelli preferivano vendergli direttamente le bambine ed i bambini ad un prezzo elevato, coscienti che erano dei “vuoti a perdere”, che li avrebbero maltrattati a tal punto da non essere più commercialmente uti- li. Quando l’uomo ci lasciò lo osservammo andar via con le sue prede, tre bambine molto piccole e molto basse, tutte capelli e profumo, ancheggianti e paradossalmente felici di essere schiave di un solo uomo. Allison mi raccontò che ben conosceva quel mondo, che la miseria, il de- grado e soprattutto la richiesta avevano fatto crescere l’offerta in modo esponenziale in tutto il paese, concentrando sulle maggiori località turisti- che numerose bambine e adolescenti provenienti sia dalla Thailandia che dalla Cambogia, dal Laos, dal VietNam. Mi disse che una grande responsa- bilità in quel commercio l’avevano gli americani, i quali durante la guerra con il VietNam trovavano in Bangkok l’isola felice ove sfogare i desideri più perversi, aggravati dalla brutalità di quella guerra, città in cui trovava- no l’offerta di quelle piccole donne. Il giorno dopo mi portò in un villaggio nel nord del paese, molto picco- lo, nel quale aveva iniziato un’opera di alfabetizzazione contro le malattie veneree, una vera piaga per moltissime ragazzine, spesso ripudiate dalla fa- miglia e costrette a tornare alla vendita del proprio corpo per sopravvivere, oppure al procacciamento di altre bambine per soddisfare le richieste del proprio padrone. Incontrai una bambina con un sorriso smagliante, un viso molto bello,
  • 56. 56 Singole Esperienze collettive gli occhi profondi e le labbra che sembravano disegnate, con dei modi gentili che le donavano una energia meravigliosa, aveva tredici anni, non ricordo più il suo nome ma ricordo bene la sua storia, venduta a soli sei anni dalla famiglia di origine ad un uomo che disse che l’avrebbe tenuta come tuttofare a casa propria, invece la rivendette ad un primo bordello e da lì ad altri fino a quando Allison la incontrò in un ospedale della carità dopo che aveva partorito il suo bambino, che morì poco dopo, almeno così le fu detto. Allison mi spiegò che, quel che io stesso avevo notato e di cui ero rimasto colpito nella bambina, era esattamente quello che gli occidentali cerca- vano, la purezza della bellezza e la gentilezza in queste bambine e più in generale nelle ragazze tailandesi, che facevano di loro delle amanti gradite, delle schiave rassegnate, delle puttane ricercate. Mi spiegò quanto era faci- le camuffarne l’età trasformando in bambine quelle ragazzine più grandi, oppure in donne quelle bambine più piccole, in base ai gusti del cliente. Chiesi se c’erano dei controlli di Polizia ma si mise a ridere dandomi con il suo splendido sorriso la risposta più esauriente, continuammo il giro delle visite sia in quel villaggio che in altri per tutto il resto della giornata, successivamente tornammo a Bangkok ove avevamo appuntamento con Fabrizio in un bar gestito da un tedesco. Karl era un cinquantenne proveniente da Flensburg, nel nord della Ger- mania, viveva in Thailandia da oltre venti anni, prima era stato in Bir- mania e prima ancora in Malesia, ove aveva lavorato per una azienda tedesca per poi mollare tutto e raggiungere Bangkok, il paradiso, diceva lui. Guardava Allison con sospetto, aveva capito che non era una turista e nemmeno una donna interessata ai massaggi tailandesi, lo rassicurai di- cendo che era la mia ragazza e che le piacevano le donne, molto giovani; Karl rise di gusto e mi strizzò l’occhio esclamando una frase in tedesco alla quale risposi nella stessa lingua, iniziando così una conversazione più
  • 57. 57 Gli orchi a Bangkok amichevole grazie alla quale ne conquistai la fiducia. Mangiammo delle ottime aragoste alla piastra servite con tante e diverse salse piccanti, bevendo finalmente una vera birra tedesca, apprezzata anche da Allison che era interessata a capire i livelli di commercio dei bambini in quel quartiere, nel quale i bordelli erano tanti, con le bambine in vetrina o esposte in ampie aule per essere scelte dai clienti. Fabrizio parlava solo bresciano, con qualche parola in inglese, mi colpì quando gli chiesi come faceva a farsi capire, rispondendomi che molti bambini parlavano italiano, confermandomi così l’importanza della pre- senza degli italiani in quel paese, in quel commercio, talvolta gestito anche da cittadini provenienti dal nostro bel paese, italiani brava gente pensai. Karl ci introdusse all’interno del quartiere, indicandoci in quale locale an- dare ed in quale non entrare, quale mafia temere e quale invece no, quanto pagare e quanto pretendere, era un esperto di quel mondo in cui era ormai immerso da anni. Allison sapeva manipolare la conversazione portandola sulla richiesta di soggetti più raffinati, meno commerciali, una sorta di mercato nero dei bambini, più riservato. Karl rispose che avremmo dovu- to seguire i giapponesi per trovare qualche specialità particolare, Allison rispose semplicemente che voleva comprare delle bambine per crescerle come le sue schiave, per giocarci come le bambole, più o meno quello che aveva fatto Fabrizio e le altre migliaia di uomini come lui. Le chiesi quante donne erano inserite in quel circuito, mi dette una risposta agghiacciante dicendomi il numero delle donne che raggiungevano quel paese per com- prare le bambine per immetterle nella tratta delle schiave in favore dei ricchi uomini arabi e del medio oriente. Quella sera capii quanto potevo essere utile alla lotta contro la pedofilia e contro lo sfruttamento sessuale dei bambini, non solo orientali, perché ero cosciente, anche ascoltando i commenti di Fabrizio, di Karl e degli altri occidentali presenti nel locale, di quanti bambini erano ormai stati inseriti nel circuito della prostitu-
  • 58. 58 Singole Esperienze collettive zione minorile; anche in Europa, specialmente a Berlino, città che ben conoscevo ove i bambini non avevano il viso orientale ma gli occhi chiari degli slavi, dei russi. Rividi Allison qualche settimana dopo, rientrando dal confine con la Cambogia, era stanca e si apprestava a tornare negli USA per un evento che riguardava la sua comunità, composta da mormoni. Rimanemmo in contatto per qualche tempo, poi si è sposata, ha avuto dei figli ed ora è una brava analista, lavora nella sua comunità di mormoni, nello Utah. Debbo ringraziarla perché è stata lei a stimolarmi nella scelta di prestare la mia esperienza contro la predazione dei minori, insegnandomi a comprendere la differenza fra il pedofilo e la pedofilia, fra l’abusante ed il predatore di bambini.
  • 59. 59 EX JUGOSLAVIA Non ho mai amato molto il freddo, Zagabria in quella prima metà degli anni novanta mi presentò una giornata di vento teso e gelido, contro il quale la mia sciarpa si arrese subito paralizzando la mia schiena ormai resa marmo dalla rigidità fisica; fortunatamente arrivò la donna che mi accom- pagnò all’International Hotel Zagreb. Era l’assistente di un ex colonnello delle forze armate britanniche che si era riciclato in un dirigente di una so- cietà privata che offriva consulenze per la sicurezza alle varie organizzazioni presenti su tutto il territorio della ex Jugoslavia, martoriato dal conflitto che era iniziato tre anni prima, poco dopo la caduta del muro di Berlino. Non sapevo bene che tipo di servizio stava prestando per l’ UNPROFOR, la forza delle Nazioni Unite, ma sapevo che avrei dovuto incontrarlo per programmare la mia attività da condurre all’interno dei territori fra Mo- star e Sarajevo, nei quali le feroci battaglie fra le parti in lotta avevano già contribuito a smaltire la generazione dei giovani croati, serbi e bosniaci, fra cristiani, ortodossi e musulmani. Era in corso una delle tante tregue, fragile come le altre, condizionata ora da un colpo di mortaio contro dei civili in fila per il pane o per l’acqua, ora da un massacro di civili compiuto dalle varie bande paramilitari formate da mercenari, da delinquenti, da presunti leader provenienti da mere espe- rienze di ultras da stadio, ottimi catalizzatori di criminali e di avventurieri, capaci di uccidere ma non di combattere in quella guerra civile, nella quale le vittime maggiori sono state appunto i civili, mietuti dall’inciviltà colpe- vole della civile Europa, resa cieca dalla propria ignavia e sorda alle grida di chi aveva visto quell’orrore proprio al centro di una comunità, cui la storia