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LA NUOVA AGRICOLTURA: TRADIZIONE E
INNOVAZIONE
Tesi di laurea magistrale in Comunicazione Pubblica e d’Impresa
Dimitri Antonfranco Piccolillo
Relatore: Adam Erik Arvidsson
Correlatore: Franco Guzzi
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A mio padre e mia madre.
Grazie di tutto.
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Indice
Ringraziamenti p.5
Introduzione p.7
1. Dall’Unità al Boom! p.13
1.1 Il sogno dell’industrializzazione
1.2 Contadino o operaio?
1.3 Verso la Grande Guerra
1.4 Tra le due Guerre
1.5 La ricostruzione
2. Terreno fertile (1982 - 2014) p.35
2.1 Odio la città.
2.2 La fine dell’arcipelago dei minifondi?
2.3 Arretratezza tecnologica
2.4 I giovani
2.5 Le prospettive future
3. Agricoltura postmoderna p.63
3.1 Parole liquide
3.2 Insieme, a breve termine
3.3 La fine di un’epoca?
4. Per una nuova agricoltura p.80
4.1 Nuove ideologie
4.2 ICT e agricoltura
4.3 Nuovi modelli
4.4 Vacci piano!
4
4.5 AFN: Alternative Food Networks
4.6 Nuovi metodi
5. Rural Hub p.102
5.1 Rural Social Innovation
Conclusioni p.110
Bibliografia p.115
5
Ringraziamenti
Le persone che hanno reso possibile la realizzazione di questo elaborato di tesi sono molte e
non necessariamente legate alla vera e propria stesura dello stesso; semplicemente è grazie a
loro se sono riuscito ad arrivare a questo punto e terminare il mio percorso di studi accademici.
Ci tengo a ringraziare particolarmente i professori Arvidsson, Guzzi e Ruotolo per la
professionalità, la simpatia e la disponibilità concessami e Brigida Orria per i consigli, le dritte
e le correzioni (spero di averne fatto buon uso).
Grazie a Mattia ed Ester per avermi fatto vedere cosa vuol dire fare il contadino oggi.
Grazie ai miei compagni di studi, senza i quali non sarei mai riuscito a farcela: Andrea Visentin,
Simonluca Pastore e Andrea De Luca per le iniezioni di fiducia, le chiacchere, le birre in
Colonne, le risate, le cazzate, le cene “benessere” (che di benessere non avevano niente) e
quelle vegetariane (che un po’ di benessere invece ce l’avevano). Tiziana Gammarota, Eliana
Iacovelli, Federica Bertocco, Silvia Ciavarella e Alessandra Consalvo per i confronti, i discorsi,
le risate, gli scazzi, gli incidenti e il dramma di non riuscire mai a vedersi all’orario previsto.
Tutti gli altri iscritti al mio stesso corso di laurea: siete stati e siete fantastici!
Grazie ai miei coinquilini per avermi dato la serenità necessaria a completare questo lavoro.
Grazie a quei pazzi dei miei “Problemici”, per essere sempre stati presenti, per essere sempre
in sbattimento e sempre dispersi per la città e per il mondo. Vi voglio bene.
Grazie alla mia famiglia per l’amore e la fiducia con cui mi hanno permesso di arrivare fin qui.
Nonostante gli sforzi e le difficoltà mi avete dato tutto.
Grazie a Matilde per l’amore, la pazienza, la fiducia, i bronci, le tensioni, la leggerezza, la
calma, le ricette, i viaggi, le passeggiate…ti amo come non è possibile amare nient’altro.
6
7
Introduzione
In certi casi non basta un solo e semplice sguardo a quello che abbiamo davanti agli occhi per
capire quale sarà la strada che percorreremo.
A volte è necessario guardare anche indietro.
A volte anche intorno.
L'agricoltura è stata segnata per molti anni dall'impossibilità di vedere quale strada scegliere:
sempre in balia di modelli economici da inseguire, sviluppi industriali da soddisfare e benessere
cittadino da raggiungere. Come se non bastasse, termini come arretratezza e povertà erano, e
ancora oggi permangono in certi casi, in cima alla lista di parole necessarie a descrivere la
situazione delle società rurali, delle persone e, in certi casi, anche del paesaggio1
Oggi stiamo assistendo ad un ritorno di interesse per il mondo agricolo da parte dei giovani,
dei media e di quelli che ne erano scappati in favore di un mondo veloce, dinamico e cittadino.
L'agricoltura non è più così mal vista dai cittadini, anzi, sembra che si stiano invertendo i ruoli.
Perché?
La domanda non è priva di risposte, anzi: la molteplicità di motivi dietro a questa scelta è
vastissima e di certo non basta un elaborato di tesi di laurea magistrale per poterla affrontare
come si deve. Motivi di tempo, di tecnica, di capacità e conoscenza limitano il lavoro dietro a
questo elaborato ad un discorso sì approfondito, ma solo di qualche livello sotto lo strato più
superficiale.
Tanto ci sarebbe da dire, tanto da leggere. Ma soprattutto tanto ci sarebbe da guardare con la
pazienza di chi non ha fretta.
Da gustare con la calma di chi non è teso.
«Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza
conquistare come una malinconia le membra, invidiare l'anarchia dolce di chi inventa di
momento in momento la strada»2
1
Si pensi al futurismo, che deprecava le campagne in ogni occasione e incitava all’abbandono delle stesse in
favore dell’urbanizzazione.
2
Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma, editori Laterza, 1998, p. 13.
8
L'argomento non solo è importante, ma è fondamentale: il settore primario è in subbuglio.
Qualcosa sta succedendo.
Che cosa è? Come sta cambiando? Come si svilupperà?
Vedremo più avanti tutti questi aspetti, di sicuro è già da adesso importante notare come il
problema sia da inserirsi in un contesto più generale che ha a che fare con ambiti
interdisciplinari, dal momento che insieme all’agricoltura stanno cambiando le persone, la
società, l'economia.
Tutti questi aspetti che cambiano non possono non influenzare anche il settore primario,
trasformandolo, arricchendolo, diversificandolo. E finalmente è un cambiamento che riguarda
tutta Italia, Nord e Sud, seppure qualche differenza rimanga ancora.
Obiettivo della tesi è cercare di identificare i motivi dietro a questo rinnovato interesse per il
settore e cercare di visualizzare quale strada può percorre l'agricoltura per acquistare il prestigio
che merita non solo in un'ottica economica, ma anche sociale e culturale.
Per far ciò ho cercato di analizzare la realtà agricola e rurale da più punti di vista, nel tentativo
di individuare man mano le chiavi necessarie alla comprensione del fenomeno in atto.
Nel primo capitolo affronto l'argomento da un punto di vista storico. Il materiale da cui ho
attinto è limitato in quanto la difficoltà di reperimento di alcuni testi mi ha parzialmente
vincolato. Il lavoro dietro al primo capitolo è dunque articolato su tre testi principali, arricchiti
via via da informazioni trovate sul web.
In questo capitolo cerco di narrare brevemente i punti salienti della storia dell'agricoltura
italiana a partire dall'evento che più ha influito nella ridefinizione in negativo del settore:
l'industrializzazione.
L'analisi storica si rende necessaria dal momento che molti degli aspetti che stanno oggigiorno
caratterizzando il ritorno all'agricoltura sono in realtà di vecchia data e hanno contraddistinto
il mondo rurale per diversi secoli, se non addirittura millenni.
Cercherò di far risaltare quei fenomeni che appunto sono alla base non solo dei problemi
dell'uomo postmoderno, ma che ne rappresentano anche la soluzione: economia del dono e
comunità in primo luogo.
Altri oggetti dell'analisi storica saranno il rapporto conflittuale che intercorre tra le istituzioni
e il mondo rurale e la figura del contadino-operaio.
9
Per quanto riguarda il primo aspetto, vedremo come l'ambito rurale sia stato penalizzato e abbia
sempre cercato di fuoriuscire dalle maglie e dai vincoli statali ed extra-statali imposti nell'ottica
di rendere l'agricoltura il "motore dell'industrializzazione" di stampo anglosassone. Questo
atteggiamento è particolarmente importante in quanto rappresenta ancora oggi un "filone di
pensiero" di diversi agricoltori e di diversi commentatori.
Per quanto riguarda il contadino-operaio, invece, vedremo come questo abbia rappresentato un
modo tutto italiano di affrontare l'industrializzazione. Questa figura rappresenta in maniera
perfetta quanto l'attaccamento alla terra sia stato importante per gli agricoltori italiani, tanto da
non riuscire a rinunciarvi praticamente mai, andandosi a configurare quasi come una forma di
"ribellione civile" al tentativo di strappare l'uomo dalla terra per farne un cittadino. Questa
specifica tipologia è ancora in auge, anche se la sua presenza si è notevolmente ridimensionata.
Il secondo capitolo invece sarà contraddistinto da un'analisi più economico-statistica della
realtà agricola nel passaggio dagli anni '80 del Novecento ad oggi e oltre. In questo capitolo,
nello specifico, cercherò di evidenziare quali mutamenti sono in atto nella composizione delle
aziende, nella tipologia delle stesse e delle persone che vi lavorano.
Anche qui cercherò di far venire a galla dei concetti che rappresentano il motore della neo-
ruralità. In primo luogo il fenomeno della de-urbanizzazione, che ha portato ad un vero e
proprio "contro-esodo" dalle città alle campagne (e al mare e alle montagne), per quanto il
fenomeno sia parzialmente oscurato dalla forte immigrazione di persone provenienti dai Paesi
più colpiti da povertà e guerre.
Oltre a ciò cercherò di evidenziare gli sviluppi del settore agricolo, primo fra tutti quello
relativo all'aumento della concentrazione di terreni. Una caratteristica che ha sempre
contraddistinto l'Italia dal resto d'Europa è stato appunto "l'arcipelago di minifondi" in cui era
suddivisa la terra. Questo comportava un'enorme impoverimento delle terre, che nella maggior
parte dei casi andavano (e molte ancora lo fanno) ad aumentare il divario tra superficie
coltivabile e superficie coltivata. Oggi questo divario esiste ancora, ed anzi è forse più
accentuato che in passato, a causa dei proprietari che non vogliono disfarsi dei possedimenti
ma allo stesso tempo non vogliono sfruttarli per fini agricoli. Vedremo però come siano in atto
dei tentativi di accorpamento dei terreni e come questo sia portatore di benefici non solo per
l'azienda, ma anche per la comunità.
Altri aspetti che cercherò di evidenziare nel corso di questo capitolo riguardano le potenzialità
offerte dalla specializzazione dell'agricoltura - fenomeno che sta ottenendo sempre più
10
successo e che rappresenta una delle soluzioni italiane alla produttività dell'agricoltura nel
nostro Paese - e le due principali difficoltà che caratterizzano l'agricoltura italiana: l'arretratezza
economica e la carenza dei giovani attivi. Questi due problemi vanno a braccetto e cercherò,
per quanto possibile, di eviscerarne le caratteristiche, i motivi e le possibili risoluzioni, in vista
del forte incremento di occupazione nel settore registrato nel I trimestre del 2015.
Infine verrà dato uno sguardo d'insieme alle politiche messe in atto dall'Europa per favorire lo
sviluppo delle aree rurali e come queste possano positivamente influire nella definizione di tali
politiche.
Il terzo capitolo è affrontato da un punto di vista sociologico. Il perno saranno gli
sconvolgimenti che l'industrializzazione e il conseguente allontanamento dalla terra e forme di
società rurali ha causato nell'uomo, trasformandolo in un uomo "liquido", senza legami sia in
termini locali che affettivi. Cercherò di far risaltare come le ansie derivate da questo processo
siano una delle fonti del riavvicinamento dell'uomo a forme sociali andate perdute nel corso
degli ultimi due secoli.
Cercherò inoltre di dare una definizione di postmodernità: intendendola come fase di passaggio
e non punto di arrivo, il tentativo di analisi verterà sulle caratteristiche di tale epoca storica.
Una di queste è appunto il mondo del lavoro, trasformatosi da garanzia a fonte di infinite
preoccupazioni. In particolare cercherò di fare il punto sul concetto di collaborazione,
evidenziando come esso sia particolarmente necessario per garantire una vita dignitosa, sia
nella sfera personale che in quella lavorativa. Questo concetto tornerà poi in discussione nel
capitolo successivo dove cercherò di approfondire le nuove tipologie lavorative basate sulla
collaborazione.
La parte finale del terzo capitolo sarà tesa invece all'analisi storica del capitalismo.
Evidenziandone i cicli che lo contraddistinguono, seguendo in questo il lavoro di
Arrighi, vorrei cercare di mettere in luce come, appunto, il periodo storico in cui viviamo sia
sostanzialmente giunto a un punto di non ritorno e come sia oggi necessario un cambiamento
di rotta, necessario anche in quanto la crisi economica con cui ancora stiamo facendo i conti ha
messo in ginocchio definitivamente le poche certezze rimaste, andando ad acuire i fenomeni
tipici della postmodernità e portandoli alle estreme conseguenze.
Il quarto capitolo può essere considerato il "cuore" di questo lavoro. In esso cerco di tracciare
il percorso che l'agricoltura sta, faticosamente, intraprendendo per riuscire a diventare davvero
quel "volano" dell'economia che in tanti si auspicano possa essere. Per prima cosa partirò da
un'analisi della crescita di una cultura che poco ha a che fare con il mondo agricolo: la cultura
11
hacker. Questo in funzione del fatto che, nell'ottica di ridefinizione del settore agricolo, questa
particolare cultura può giocare un ruolo di primo piano, sia dal punto di vista teorico, in quanto
molti aspetti si basano proprio sui principi di collaborazione e di comunità, sia dal punto di
vista applicativo che, come vedremo, sta ottenendo consensi anche in ambito politico. Le scelte
e gli strumenti messi in gioco dall'Unione Europea per favorire la rinascita dell'agricoltura
vertono proprio nel voler accrescere la presenza dell'ICT nel mondo rurale, con risvolti che
potrebbero essere positivi sia per il comparto produttivo che per quello sociale. L'ICT in
generale, come cercherò di dimostrare, è foriero di diverse innovazioni "dal basso", grazie alla
possibilità di mettere in relazione le persone in quanto tali, prima di tutto, e in secondo luogo i
produttori e i consumatori, in un'ottica di disintermediazione, che può portare ad un maggior
coinvolgimento nelle attività produttive e nelle attività rurali in generale.
Successivamente verterò l'attenzione all'analisi dei nuovi modelli economici basati sul
downshifting. Vivere più lentamente diventa il nuovo paradigma per uscire dalla crisi
economica e sociale che stiamo attraversando. L'entrata in gioco sulla scena internazionale di
nuovi attori economici ha portato necessariamente a chiedersi se il modello di sviluppo
applicato fino ad oggi sia corretto e se sia possibile definire nuove modalità. In quest'ottica
"ripensare il Sud", sia in termini italiani che internazionali, potrebbe essere un vantaggio non
indifferente nella definizione di tale modello, che vede messi in primo piano quei concetti,
sviluppati nei precedenti capitoli, che erano andati perduti nel corso degli ultimi secoli.
Rimettere l'uomo al centro, creare un nuovo umanesimo dovrebbe essere la priorità per poter
garantire una vita dignitosa. In quest'ottica l'agricoltura potrebbe dunque rappresentare la
chiave necessaria a far sì che questo possa avvenire, in quanto i suoi ritmi esulano da quelli
cittadini, che si sono imposti come dominanti.
Da questo punto di vista dunque la decrescita rappresenta forse il miglior esempio perseguibile,
per quanto criticabile. La rivalutazione generale di ciò che è sempre stato definito "arretrato",
se coniugato con quanto esiste invece di "moderno" potrebbe dunque rappresentare il definitivo
superamento di pregiudizi e preconcetti sul vivere sociale e sul mondo rurale.
La parte finale del capitolo sarà tesa all'analisi di questa riconcettualizzazione che vede negli
Alternative Food Networks la massima espressione. Cercherò di mostrare cosa essi siano, cosa
rappresentano e come potrebbero giovare alla produzione agricola e ai consumatori,
evidenziandone le caratteristiche salienti e le varie forme che si sono sviluppate per ora,
essendo il fenomeno ancora particolarmente nuovo.
Infine cercherò di evidenziare i tratti salienti di questi metodi dell'agricoltura che, anche
attraverso l'apporto della Carta di Milano, sta tentando di ricollocarsi in una varietà di ambiti
12
che non coprono solo ed esclusivamente l'agricoltura tout-court ma anche, e soprattutto, ambiti
legati ai servizi alle persone.
L'ultimo capitolo sarà invece un veloce excursus su Rural Hub, un'azienda agricola innovativa
con sede a Calvanico, in provincia di Salerno. Chiamarla "azienda agricola" è particolarmente
riduttivo, ma rimando al capitolo stesso per un'analisi più approfondita del caso, in cui si
cercherà di mostrare come esso sia la summa di tutto ciò che ho cercato di riassumere in queste
brevi pagine di introduzione. Nello specifico ne analizzerò le peculiarità a partire dal Manifesto
redatto nel 2014 grazie al contributo del team multiculturale e multidisciplinare che sta dietro
a questa startup (un altro sinonimo riduttivo per definire Rural Hub), mettendo in evidenza
quelle caratteristiche che ho affrontato nel testo.
13
Dall’Unità al Boom!3
Partire da un’analisi storica dell’agricoltura italiana è d’obbligo ai fini di una ricerca che vuole
andare ad indagare i motivi dietro all’accresciuto interesse per il settore agricolo e a
comprenderne gli sviluppi futuri. Sicuramente a questo fine la storia dell’agricoltura andrebbe
analizzata nella sua totalità, a partire dal mondo primitivo, per ricercare in profondità le
motivazioni nascoste dietro alcuni processi, sia di produzione che di comunità.
Non è questa la sede, purtroppo, per un discorso così approfondito ma, per carpire tutte le
sfaccettature nascoste di un’attività fondamentale e fondante della nostra società e per capirne
gli sviluppi futuri, partire da “l’inizio della fine” è sicuramente un buon proposito.
La rivoluzione industriale (che a grandi linee coincise in Italia con l’unificazione) è il momento
storico con cui si identifica una svolta nell’agire umano. L’industrializzazione coincise con
l’abbandono delle campagne ed anzi, fu il motore principale che scatenò l’esodo verso le città.
Vero e proprio punto di svolta, l’industrializzazione e gli sforzi tesi a realizzarla furono
portatori di enormi sconvolgimenti, a livello sociale prima di tutto. Questi sconvolgimenti
sociali hanno radici profonde e ben radicate nella terra e nel lavoro agricolo, in quanto il
processo industriale ha comportato «il sistematico smantellamento delle residue economie
caratterizzate principalmente dalla produzione di valori d'uso e dalla sopravvivenza di forme
di scambio non esclusivamente mercantili, in cui il dono e la reciprocità avevano ancora un
ruolo significativo»4
. Un processo che è andato acuendosi sempre più, fino a portare alle
estreme conseguenze di standardizzazione, individualismo, difficoltà relazionali, paure,
insicurezze…
Ma andiamo con ordine.
3
Tutti i dati presenti in questo capitolo, salvo diversa indicazione, sono tratti da C. Daneo, Breve storia
dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
4
M. Pallante, Ricchezza ecologica, Manifestolibri srl, Roma, 2009, p.21.
14
1.1 Il sogno dell’industrializzazione
Verso la metà dell’Ottocento l’Italia era, per chiunque si occupasse di economia pubblica, un
aggregato di deboli strutture economiche agricole ed artigiane.
In un quadro di sempre maggiore internazionalizzazione, l’Inghilterra liberale, liberista ed
economicamente avanzata veniva vista come l’esempio da seguire, macinando consensi nelle
classi dirigenti europee.
Nella nostra piccola realtà italiana si faceva strada l’idea e la convinzione che il
congiungimento in un unico Stato avrebbe potuto rappresentare la soluzione necessaria per
poter avviare uno sviluppo basato proprio sull’esempio britannico.
Libertà di commercio, unificazione delle leggi e degli ordinamenti erano ciò che più faceva
gola alla classe dirigente. Il problema era come riuscire ad avvicinarsi agli standard produttivi
inglesi, dal momento che ancora mancava una struttura imprenditoriale degna di questo nome
e la quasi totalità della forza lavoro era concentrata in agricoltura.
Il primo censimento della popolazione, eseguito sul finire del 1861, indicò infatti come la quota
di addetti all’agricoltura in Italia fosse intorno al 70% della popolazione lavorativa.
Sembrava dunque già scontato che fosse questo spazio rurale a dover tracciare la strada per
quell’industrializzazione tanto agognata. Quello spazio rurale abitato dai tre quarti della
popolazione attiva e da cui uscivano almeno i due terzi della produzione commerciale
rappresentava dunque la chiave di volta dell’economia nazionale al momento dell’Unità.
Attorno all’agricoltura avrebbero dunque dovuto via via crescere commerci e manifatture lungo
vie di traffico sempre più efficienti e diffuse.
I problemi, purtroppo, erano parecchi, primo fra tutti il rapporto tra superficie agricola totale
(S.A.T.) e superficie agricola utilizzata (S.A.U.): sui 26 milioni di ettari della superficie
agricola totale, non più di due milioni erano organizzati in imprese in cui fosse in atto una
crescita tecnologica e produttiva: meno dell’8% del totale. Oltre a questo, le necessità
dell’autoconsumo, l’impossibilità economica di procedere a trasformazioni colturali, la
mancanza di conoscenze tecniche diffuse, rendevano l’agricoltura italiana degli anni settanta
dell’Ottocento una attività particolarmente arretrata e di sussistenza.
In sostanza, come fa notare tale situazione non corrispondeva alle speranze ed alle esigenze di
crescita complessiva dell’economia: l’Italia post-unitaria era composta, da un lato, da attività
agricole prevalentemente precapitalistiche e spesso di pura sussistenza e, dall’altro, da poche
industrie che potessero aspirare ad essere competitive sul piano internazionale e che comunque
non sempre potevano contare su un florido mercato interno. Ad eccezione del Piemonte, forte
15
dell’attenzione riservatagli da Cavour, il resto d’Italia era dunque un classico esempio di
arretratezza economica5
.
Nonostante ciò6
l’agricoltura italiana riusciva comunque a fruttare al commercio estero del
regno il 55% delle sue esportazioni.
Si configurava già allora con evidenza un problema che anche i giovani neo rurali di oggi, e gli
agricoltori in generale, avvertono: l’abbandono istituzionale. Mentre oggi, seppur con
difficoltà, si provano a sviluppare sistemi alternativi scevri della presenza statale, subito dopo
l’unificazione era chiaro come questa situazione di lontananza delle istituzioni fosse avvertito
come problema principale. Una scarsa attenzione verso il piccolo agricoltore e al settore in
generale, quello costituito dalla vastità di piccole aziende in possesso di piccoli e piccolissimi
appezzamenti di terreno, non certo quello dei grandi proprietari terrieri che addirittura si videro
consolidare i propri privilegi, insieme a quelli degli «improduttivi latifondisti»7
.
Questo è stato infatti più volte considerato il motivo del ritardo nei tentativi con cui l’Italia
cercò di mettersi al passo con l’industrializzazione del resto d’Europa. «La mancanza di
dinamismo dell’agricoltura, si è sostenuto, si tradusse in bassi livelli di accumulazione del
capitale con conseguenti scarsi livelli di dinamismo industriale»8
.
Sono in molti gli storici e i commentatori che affermano, o hanno affermato, come
l’inefficienza dell’agricoltura italiana, dominata in vaste aree da proprietari assenteisti,
rappresentava un peso morto per l’economia, con il risultato che un’alta percentuale della
popolazione produceva a malapena il necessario per la propria sopravvivenza, dedicandosi
quindi quasi esclusivamente a pratiche di auto-consumo e sussistenza.
Come afferma Paul Corner:
«Per Emilio Sereni, gran parte dell’agricoltura italiana era “una palla di piombo al piede del
capitalismo italiano”: anche Pietro Grifone sostiene che il perdurare di una larga fascia di
strutture agricole legate alla sussistenza costituì una delle tare d’origine dello Stato italiano
5
C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980, p.75.
6
«E nonostante la coltivazione della terra fosse retta quasi esclusivamente da zappa, falcetto e aratro in legno».
Ibidem.
7
Ibidem, p.83. Vedremo più avanti come la lentezza dello sviluppo agricolo sia dovuta alle difficoltà dello Stato
di investire risorse in tale settore. Risorse che potevano andare in qualsiasi direzione desiderata: dall’istruzione e
formazione, agli apporti strettamente legati a forme di aiuti economici. Invece le politiche agricole hanno
tendenzialmente preferito la strada della calmierizzazione dei prezzi e delle strette doganali, che hanno provocato
non pochi problemi economici.
8
P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992.
16
moderno. E’ facile arguire come dietro tali osservazioni fosse sempre presente il modello
britannico; il presupposto implicito era che la rivoluzione industriale si dovesse basare sulla
rivoluzione agricola e che il tentativo di affrontare la prima senza la seconda si risolvesse in
una partenza irrimediabilmente perdente»9
.
Nell’ultimo decennio del secolo XIX la situazione era già particolarmente grave.
Dall’idealizzazione iniziale dell’agricoltura, quando cioè la si considerava foriera dello
sviluppo economico nazionale, si passò ad una presa di coscienza in senso opposto: il settore
agricolo era evidentemente non soltanto incapace di fornire l’eccedente necessario alla
popolazione urbana, ma non sembrava neppure più in grado di sostenere la vita e la
riproduzione dei suoi stessi addetti.
La situazione che si venne a configurare sfociò presto in una crisi agraria, che vedeva
contrapposte due forze: da una parte, i contadini declassati, affamati e sottoccupati, ammassati
nelle campagne; dall’altra i grandi (e spesso improduttivi) proprietari terrieri, arroccati nella
sicurezza datagli da una sorta di “paternalismo proprietario”, come viene chiamato da Corner
l’interesse esclusivo di cui questi proprietari godevano da parte dello Stato.
La crisi avviò presto un clima di tensione che vide la nascita di scioperi e forme di
“organizzazione di resistenza agraria” dovunque, innescando di conseguenza situazioni non
controllabili non solo da parte dello Stato. La progressione di questi scioperi infatti pose tutta
la possidenza agraria di fronte a problemi di gestione sociale ed economica inediti e che non
sapevano assolutamente come gestire. Gli scioperi agrari si moltiplicavano nonostante gli
arresti, le diffide e i continui interventi dell’esercito, inoltre le astensioni dal lavoro e le
agitazioni si concentravano proprio nelle zone dove produttività e trasformazioni agronomiche
erano più elevate: la valle padana, la bassa emiliana e la Puglia10
.
Al Nord Italia il clima minaccioso scaturito dalle spinte salariali e dalle rivendicazioni
bracciantili, che proseguivano nonostante l’intervento delle forze dell’ordine, costringevano i
possidenti ad un trasformismo agrario in cui dovevano impegnare capacità imprenditoriali e
capitali. Al Sud invece i possidenti assistevano impotenti a quella forma di sciopero passivo
rappresentato dall’avvio di una emigrazione di massa.
9
P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p. 9.
10
C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
17
Le risposte di Nord e Sud Italia a questi fenomeni furono dunque, necessariamente, diverse e,
insieme, convergenti e divergenti. Convergevano infatti nell’opporsi ad ogni mutamento delle
condizioni economiche e normative dei contadini, mentre divergevano nei modi economici da
mettere in opera per ricostruire i margini di rendita e di profitto erosi insieme dai costi salariali
e dall’andamento sfavorevole dei prezzi. Nel Nord infatti prevalse la scelta di un incremento
della produttività attraverso gli investimenti; mentre al Sud si consolidò la scelta di una
riduzione dei costi attraverso il ritorno al pascolo brado a scapito delle colture.
Tuttavia circostanze diverse concorsero alla risoluzione della vicenda: il raddrizzamento della
congiuntura economica internazionale e la pressione delle vicende sociali e politiche interne
portarono, alla fine del secolo, non soltanto i valori fondiari italiani a cessare la loro caduta e
ad iniziarne la risalita, ma ad offrire sbocchi crescenti alle produzioni agricole ed agricolo
manifatturiere, sia nel mercato interno che internazionale. Inoltre, grazie anche al governo
giolittiano, il periodo che dal 1896/97 si svolse fino alla vigilia della Prima Guerra Mondiale
fu contrassegnato da imponenti trasformazioni agrarie che avrebbero dato ad una parte delle
campagne italiane un aspetto ed un assetto più moderni, funzionali alla crescita che in quegli
anni avveniva in tutta l’attrezzatura economica nazionale.
Fra il 1890 e il 1900 l’agricoltura italiana assumeva, nelle sue linee di fondo, i caratteri che
l’avrebbero contraddistinta fino ai giorni nostri. O, quantomeno, veniva a collocarsi nella
traiettoria in cui alcune scelte tecniche, produttive ed organizzative, sarebbero divenute mature
e praticamente irreversibili.
18
1.2 Contadino o operaio?
Uno degli aspetti più importanti che venne creandosi sul finire del XIX secolo è rappresentato
da quella figura professionale che contraddistingue una modalità tutta italiana di affrontare
l’industrializzazione:
«La separazione di una forza lavoro agricola dalla terra costituisce uno dei concetti cardinali
del modello “classico” dell’industrializzazione. Secondo questo modello, per industrializzarsi,
una nazione deve sperimentare la “liberazione” di manodopera dall'agricoltura, con
conseguente urbanizzazione e proletarizzazione. Ma l'applicazione di questo concetto
(palesemente basato sull'esperienza britannica) al caso italiano è soggetta ad alcune riserve»11
.
In Italia infatti emerse un tipo di lavoratore particolare, il contadino-operaio, la cui principale
caratteristica era un tenace rifiuto di esser liberato dalla terra. Questa figura rappresenta una
sorta di modello di sviluppo specificamente italiano che, con forme e modalità diverse, ha
mantenuto un ruolo particolarmente importante nella realtà agricola italiana, tanto da essere
oggi tornato in auge presso le nuove generazioni di agricoltori (e non solo).
Questa nuova figura emerse nel momento in cui le famiglie contadine furono sempre più
coinvolte nell’attività manifatturiera. Le donne contadine incominciarono a recarsi alle
manifatture della seta mentre i loro uomini rimanevano a lavorare le terre. Inizialmente si trattò
di una necessità di sopravvivenza: la povertà opprimente imposta dai contratti di mezzadria
veniva alleviata attraverso il lavoro in fabbrica e, soprattutto, molti contadini poterono evitare
di essere espulsi dalle campagne.
Questa situazione si sovverte nel momento in cui gli imprenditori iniziarono a investire nelle
regioni rurali e a lasciare le città. Data la diffusa povertà e l’eccesso di popolazione in rapporto
alle necessità agricole, «le campagne costituivano un enorme serbatoio di manodopera, formato
da gente alla disperata ricerca di un lavoro, e ch'era pronta a impegnarsi per gran parte
dell'anno»12
.
11
P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.77. Come vedremo, questo ha delle
implicazioni tuttora, in quanto il tentativo di esportare un modello produttivo di tipo industriale al resto del mondo
si sta rivelando fallimentare, e questo sta portando alla definizione di nuove forme economiche. Il problema
dell’Italia, da questo punto di vista, è stato il dover affrontare questo processo di industrializzazione in una fase
storica in cui il nostro Paese non era ancora maturo per essa. Oggi però questa situazione può giocare a nostro
vantaggio nella definizione di una “nuova economia rurale” applicabile anche al resto del mondo.
12
Ibidem, p.82.
19
In questa prima fase del contratto tra le famiglie contadine e l'industria diffusa, la possibilità di
realizzare guadagni al di fuori dell'agricoltura rappresentò la chiave della sopravvivenza sulla
terra, e della riproduzione della famiglia. Trovar lavoro in un qualche tipo di attività
manifatturiera era l'unica alternativa all'emigrazione stagionale, cosa che imponeva
l’abbandono delle campagne da parte degli uomini, «i quali si trasferivano per brevi periodi in
Svizzera o in Francia per lavorarvi come braccianti o muratori, o cercavano una occupazione
stagionale nei cantieri edili di Milano, lasciando le donne a badare alla terra»13
. All’inizio del
nuovo secolo la situazione si fece diversa: le famiglie contadine furono in grado di acquistare
sempre più terra, anche se di solito si trattò di piccoli appezzamenti, ma continuarono a
dividersi fra il lavoro agricolo e quello extra-agricolo, alcuni familiari dedicandosi al primo,
altri al secondo. La sopravvivenza e la riproduzione della famiglia contadina erano dunque in
buona parte dovute agli introiti non-agricoli. Ma, seppur cruciale ai fini della sopravvivenza, il
lavoro manifatturiero continuava ad occupare, all'interno dell'economia familiare, un posto
subordinato rispetto al lavoro agricolo. Inoltre, pare che il lavoro in fabbrica non mise in
pericolo neanche i modelli d'autorità tradizionali, e non minacciò l'esistenza della famiglia
contadina ma anzi, andò a rinforzarli: i salari industriali permisero dunque la sopravvivenza e
il consolidamento della famiglia contadina secondo le linee tradizionali, dando poi a queste la
possibilità di comprare i piccoli appezzamenti di cui sopra.
Ciò che colpisce è non solo la lenta evoluzione di un particolare tipo di forza lavoro rural-
industriale, con caratteristiche molto diverse da quelle del proletariato di Manchester o
Birmingham nel XIX secolo, ma soprattutto il fatto che tale forza lavoro fece tutto quanto era
possibile per evitare lo stesso destino, mantenendo stretti i legami con la terra, anche nel
momento in cui la terra non costituiva più la prima fonte dell’economia familiare.
Queste caratteristiche tipiche portano Corner ad affermare che l’industrializzazione italiana
non fu così forzata e artificiale come si sarebbe supposto dalle premesse con cui è partita.
Questo è dettato dal fatto che l’attività economica non fu generata dallo Stato italiano ma che,
anzi, essa era già avviata da tempo grazie ad un «processo di ampio respiro [che] aveva già
incrementato notevolmente la produzione agricola, favorendo la creazione di importanti legami
commerciali con il resto dell’Europa, la nascita di una classe commerciale e imprenditoriale e
la realizzazione di alti livelli di accumulazione»14
. Secondo Corner, in particolare, questi
13
Ibidem.
14
Ibidem, p.90
20
sviluppi sono da considerarsi spontanei e diedero l’avvio alla costituzione di una base non solo
economica, ma anche culturale e sociale, necessaria alla crescita successiva.
21
1.3 Verso la Grande Guerra
L'agricoltura alla vigilia della Prima Guerra Mondiale appariva dunque definita e collocata in
un suo spazio economico ormai delimitato. Il suo cammino, per quanto distorto da politiche
tariffarie aggressive e da una serie di preferenze “industrialiste” - che erano ormai parte
costitutiva e condizione per l'inserimento dell'Italia nella dimensione europea delle nazioni
industrializzate - era segnato. Fino al 1914, come testimonia Federico, l’agricoltura fu lasciata
sostanzialmente a se stessa, ad eccezione per le politiche doganali15
e questo ebbe degli effetti
particolarmente positivi per quanto riguarda la produttività. Il valore lordo della produzione
agricola fra il 1871-75 e il 1911-15, infatti, passò da 5,8 a 8 miliardi di vecchie lire, con un
aumento del 38%. Un risultato sicuramente importante, ma purtroppo parzialmente oscurato
dal successo delle attività industriali, il cui valore crebbe nello stesso periodo del 158%,
facendo passare la quota dell'agricoltura sulla formazione del reddito nazionale dal 58 al 42 per
cento16
.
Si trattava indubbiamente di un'agricoltura ben diversa da quella degli anni settanta
dell’Ottocento, quando essa era parsa la struttura portante dell'Italia riunificata nonché il
“volano” dell’economia e dell’industrializzazione. Spenti i sentimenti patriottici (e forse un po’
ipocriti) che animavano il dibattito sul ruolo dell’agricoltura, alla vigilia della Grande Guerra
essa mostrava infatti immediatamente, nonostante i progressi conseguiti, i suoi limiti e le sue
deficienze: troppo debole nelle strutture e negli apparati per pretendere un ruolo dirigente,
rivelava proprio nei processi di ammodernamento ristretti ed esitanti, la sua incapacità anche
soltanto di tenere il passo con la crescita dell’insieme della società nazionale.
Segno inequivocabile di questa lentezza era l’andamento dell’interscambio con il resto del
mondo. Nel periodo che intercorre tra il 1870 e il 1875, infatti, su un'esportazione di merci pari
a poco più di un miliardo di lire, la metà era rappresentata da prodotti dell'agricoltura. Neanche
cinquant'anni dopo i prodotti della terra e degli allevamenti contribuivano invece al valore
totale delle esportazioni per meno del 30 per cento. Inoltre, se nei primi anni settanta
l'interscambio agricolo (anche escludendo la seta) risultava seppur di poco attivo, nel 1909-13
era divenuto passivo per circa 250 milioni (un quinto del deficit complessivo): da fattore di
equilibrio, l'agricoltura diveniva componente di rilievo del crescente squilibrio dei conti con
15
G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.116.
16
Ibidem.
22
l'estero17
. Inoltre, ma questo è possibile affermarlo solo oggi, la situazione rendeva evidenti
anche le difficoltà di gestione di un sistema rurale che rimaneva praticamente sconosciuto.
Nonostante questo però, non si deve necessariamente pensare ad un fallimento del settore. Pur
con tutte le difficoltà del caso, iniziarono a emergere anche nel settore agricolo gruppi
imprenditoriali tecnicamente preparati che, di fatto, stavano sperimentando altre vie di
aggregazione con caratteristiche particolari. Espressione vistosa di queste tipologie di
aggregazione fu la nascita e lo sviluppo dei Consorzi agrari, delle associazioni padronali e di
alcuni consorzi di bonifica. Questi si caratterizzarono principalmente quali strumenti
dell'attivismo innovatore di un capitalismo agrario vagamente liberale. I loro compiti non si
limitavano alla diffusione di moderne tecniche ed efficaci strumenti agronomici, ma
investivano scelte politiche settoriali, assumendosi la rappresentanza degli interessi agricoli
nella loro globalità. Chiunque puntasse ad una riqualificazione dell'agricoltura nel contesto
dello sviluppo economico di quel periodo era schierato tra le fila di queste associazioni. Ma
nonostante gli sforzi le difficoltà ad agire risultavano enormi, tanto che la loro attività non
riuscì a coagulare istanze e forze politico-economiche tali da allargare un'area di consenso nello
stesso mondo rurale.
Un mondo rurale che ancora non riusciva a dimostrarsi coeso. Queste associazioni si trovarono
infatti in mezzo alle asprezze, esistenti ormai da diversi anni, tra la maggioranza dei proprietari
agricoli, da un lato, e dei piccoli contadini tagliati fuori dalle possibilità di sviluppo, dall'altro.
Di certo queste associazioni ebbero l’indiscusso merito di caratterizzarsi come realtà
economica non indifferente, e di favorire particolarmente lo sviluppo del settore. Come
testimonia Daneo, infatti:
«Se non riuscivano ad essere una forza politica di rilievo, i Consorzi agrari e la loro Federazione erano
diventati in breve tempo una forza economica non trascurabile: basti ricordare che nel 1910-13 la
Federazione dei consorzi agrari distribuiva quasi la metà dei concimi chimici e degli antiparassitari, un
terzo delle macchine agricole, quote notevoli di sementi e mangimi, oltre a procurare finanziamenti ai
soci in stretta collaborazione con le Banche Popolari»18
.
Anche Federico sottolinea l’importanza di queste associazioni, evidenziando in particolare
proprio l’apporto economico alla società:
17
Ibidem.
18
C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980, p.98.
23
«Le cooperative sono associazioni permanenti di agricoltori, con lo scopo di svolgere
collettivamente compiti come l’acquisto e la gestione di input industriali, la lavorazione,
l’imballaggio e la vendita di prodotti, la raccolta di depositi bancari, la concessione di crediti
ecc. [...] Le prime cooperative nel senso moderno del termine furono create nel XIX secolo. [...]
Per comprendere la differenza nella diffusione delle cooperative è opportuno considerarne
vantaggi e svantaggi dal punto di vista del singolo agricoltore. Lo svantaggio consiste nella
perdita di autonomia che l’adesione a una cooperativa comporta. Il principale vantaggio
consiste nella possibilità di sfruttare le economie di scala»19
.
Nonostante la loro creazione nel corso del XIX però, il loro processo di affermazione, per
quanto rapido, ha dovuto aspettare l’inizio del XIX secolo per trovare una dimensione valida
in cui svilupparsi. L’accresciuto interesse degli agricoltori per le nuove tecniche favorì in
questo senso il diffondersi di queste realtà.
Non va però scordato che il discorso in questione è quasi principalmente esclusiva del Nord
Italia. Un discorso diverso va invece fatto per il Mezzogiorno, non solo per la mancanza di un
processo di industrializzazione che offrisse alternative (reali o presunte) alla scarsa
occupazione in agricoltura, ma anche, e soprattutto, per la carenza o la totale assenza di
trasformazioni agrarie.
Anno dopo anno i contadini poveri o senza terra si addensavano ai margini del latifondo, in
concorrenza fra loro, privi di potere contrattuale, mancanti di quelle sollecitazioni culturali e
politiche che i processi di sviluppo e le lotte sociali avevano innescato nel Nord.
Camillo Daneo, cita, parlando del meridione, un’inchiesta parlamentare condotta nel 1911-12
dal senatore Faina, il quale affermò: «Nel moto di tutte le classi sociali per la conquista di un
miglioramento economico, al contadino non si presentavano che tre vie: o rassegnarsi alla sua
miseria, o ribellarsi, o emigrare. Preferì emigrare»20
. Va fatto presente che questa emigrazione
(che non coinvolse le Puglie) però contribuì a riversare nelle Casse Postali delle famiglie del
Mezzogiorno circa 500 milioni di lire intorno al 1910-13. Un cifra ancor più considerevole se
confrontata con l’ammontare dell’esportazione agricola meridionale che, nel 1913, non
raggiunse i 400 milioni di lire21
.
19
G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, pp.109-111.
20
C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980, p.105.
21
Ibidem.
24
Ormai, alle soglie della Grande Guerra, pur con tutti gli squilibri, le contraddizioni e i ritardi
del caso, l'agricoltura italiana era fondamentalmente integrata in un'economia monetaria in
sviluppo, subendone tutte le oscillazioni congiunturali. Ma si trattava pur sempre di
un'agricoltura che era ben lungi dal rendersi tecnicamente e socialmente omogenea a quella
degli altri Paesi europei centro-settentrionali, nei confronti dei quali vedeva crescere un
distacco e un indebolimento importante, di cui si sarebbero viste le conseguenze negative
nell'immediato dopoguerra.
25
1.4 Tra le due Guerre
La Grande Guerra fu fatta e sopportata dai contadini. Ma nonostante questo la produzione
agricola fra il 1909/13 e il 1915/18 subì una contrazione limitata.
Alla fine della guerra il tessuto agrario italiano non si presentava tecnicamente ed
agronomicamente sconvolto, anzi, nel 1919/20 poteva essere registrato uno stato soddisfacente
della produttività granaria e lattifera, ed anche le produzioni legnose agrarie (vite, olivo,
frutteti) avevano risentito in misura trascurabile della congiuntura bellica22
. Gli
sconvolgimenti, e gravi, furono d'altra natura.
L'agricoltura fu colpita da una crisi strutturale profonda che riguardava gli uomini, i gruppi, le
classi sociali ed i loro reciproci rapporti. Come cita Daneo:
«Soprattutto già nel corso della guerra - a citare Arrigo Serpieri - “per mantenere ferma la
resistenza, per mantenere alto lo spirito dei combattenti e della popolazione nell'interno del
Paese, la classe dirigente... ritenne opportuno ricorrere sempre più largamente a promesse di
larghi compensi agli attuali sacrifici... Per quanto riguarda le classi lavoratrici rurali ebbe
soprattutto, fin dai primi anni, larghissima diffusione ed appoggio la formula "la terra ai
contadini". E Serpieri, scrivendo ormai in pieno regime fascista, si affrettava a commentare: «è
del pari evidente che - diffuse con la formula vaga e allettatrice "la terra ai contadini" - mentre
ancora si combatteva e mentre già nelle classi rurali si diffondevano sentimenti di ostilità e di
odio contro la borghesia - quelle idee dovevano necessariamente fomentare in impulsi e
aspirazioni e pretese pericolosissime all'ordine sociale e nazionale»23
.
I contadini, insomma, avrebbero presentato il conto alla fine della guerra: “la terra ai contadini”
era stata la formulata usata per motivare i contadini arruolati durante la guerra ed ora era giunta
l’ora di riscattarla.
Ma la terra era troppo frammentata per sorreggere le famiglie multiple, e i salari pagati nelle
occupazioni manifatturiere alternative erano troppo alti per non condizionare le scelte. La
pluriattività che era stata nel XIX secolo una necessità, dal 1920-30, diventò un comportamento
acquisito e consolidato. Tanto che, forti delle esperienze maturate, alcune famiglie diedero il
via ad una piccola attività economica familiare, sfruttando quelle abilità tecniche che avevano
22
Ibidem.
23
Ibidem, p.110
26
imparato nel periodo in cui frequentavano le manifatture rurali. Le famiglie dunque
continuavano a resistere alla tentazione di abbandonare la terra e di trasferirsi definitivamente
in città, mantenendo vivo il modello operaio-contadino.
Va detto però che negli anni venti le famiglie a base rurale godevano di vantaggi economici
considerevoli rispetto alle famiglie urbane: tra questi vantaggi c’era il possesso o l'uso della
casa, di solito ampia, e in grado di ospitare la famiglia multipla. Se erano in affitto, le famiglie
pagavano poco, perché i canoni per le case rurali rimanevano bassi, e la clausola contrattuale
che imponeva canoni molto più elevati a coloro che vivevano nella casa colonica ma non
lavoravano nell'agricoltura era in effetti inapplicabile. Questo perché tutti, in momenti diversi,
davano una mano nella cura della terra o degli animali. Inoltre, il podere annesso alla casa, per
quanto piccolo, era anch'esso chiaramente un vantaggio, in quanto soddisfaceva bisogni
elementari della famiglia24
.
Ma non ci volle molto perché serpeggiassero accuse da più parti rivolte all’arricchimento degli
agricoltori in quanto detentori di un provvisorio monopolio dei prodotti alimentari i cui prezzi
erano costantemente cresciuti nel corso della guerra.
Di fatto questa accusa divenne presto un argomento usuale e quasi popolare.
Agli occhi dei cittadini il fatto che i produttori di generi alimentari si fossero arricchiti dalla
situazione in atto sembrava la cosa più ovvia, e in effetti non avevano tutti i torti.
Va fatta presente però la distinzione esistente fra i diversi strati sociali e anche fra le diverse
zone rurali.
Chi veramente aveva approfittato dell’alta congiuntura dei prezzi agrari aveva tutto l’interesse
a negare il fenomeno in blocco, appellandosi a una sorta di omertà rurale, o a riversare tutta la
colpa su dei non ben definiti “contadini arricchiti”. E se è pur vero che i prezzi dei prodotti
venduti dagli agricoltori aumentarono, tra il 1914 e il 1919, di 3,9 volte, quelli dei prodotti
venduti dagli industriali agli agricoltori (macchine, attrezzi e concimi) erano aumentati di 4,6
volte.
In sostanza, la forbice dei prezzi si era aperta a sfavore dell’agricoltura. Chi si era veramente
arricchito era chi possedeva la terra, i grandi proprietari; i redditi reali dei braccianti invece
erano notevolmente peggiorati.
24
Ibidem.
27
Ma la situazione poneva anche i proprietari in una cattiva posizione, nel segno dello spavento:
dovunque contadini e braccianti smobilitati affluivano nelle Leghe sindacali, si riunivano in
organismi di lotta, occupavano terreni più o meno incolti e partecipavano a scioperi agrari da
cui i proprietari sembravano uscire sminuiti e sconfitti. Fu così che i proprietari terrieri
iniziarono a perdere interesse nell'agricoltura, un po’ perché attratti dalle possibilità offerte
dall’industria urbana, e un po’ perché costretti dalle agitazioni a vendere i propri possedimenti.
In questa situazione di “liberazione” delle terre, il numero dei piccoli proprietari registrò una
crescita spettacolare. Ma se le circostanze dell'immediato dopoguerra, con il brusco rialzo dei
prezzi agricoli, parvero particolarmente propizie, le illusioni a riguardo ebbero breve durata.
Nel giro di un anno o due all'acquisto della terra vi fu una caduta dei prezzi agricoli. Inoltre la
situazione di “tutti contro tutti”, creatasi con l’inasprirsi delle “lotte agrarie” di cui sopra, venne
riportata all’ordine dal cosiddetto fascismo agrario che, in breve tempo, distrusse le
organizzazioni sindacali e cooperative createsi, spesso grazie all’eliminazione fisica dei
dirigenti locali. Riportando conseguentemente la situazione ad uno status quo gradito ai più
facoltosi, grazie anche all’esproprio delle terre precedentemente “liberate”.
Non c’è dubbio quindi che gli anni Venti segnarono un punto di svolta nel mondo agricolo
italiano. Da una parte videro la nascita di una contrapposizione forte tra città e campagna che
solo oggi, come vedremo, si sta iniziando a risolvere. Dall’altra videro un'ampia
differenziazione delle priorità delle famiglie contadino-operaie. Alcune infatti continuarono a
mantenere al primo posto l’agricoltura, pur affidandosi al sostentamento del reddito industriale,
altre, possidenti di poco più di un orto (la quasi totalità, a ben vedere) posero la priorità al
lavoro nelle industrie e al reddito così ricavato.
La tendenza generale andava nel senso di una certa perdita d'importanza dell'agricoltura, in
quanto troppa terra poteva significare che il lavoro agricolo e il lavoro industriale rischiavano
di diventare incompatibili.
Malgrado l'industrializzazione crescente, la forma sociale e il modello della pluriattività
perdurarono al di là della fase in cui erano strettamente necessari alla sopravvivenza. La
famiglia contadina continuò a vivere sulla terra, anche se l'importanza relativa di questa
iniziava il suo declino.
Questa fase di transizione venne a gravare sulle nuove generazioni. Cresciuti in famiglie a base
rurale, questi uomini fecero per la prima volta l'esperienza del lavoro in fabbrica, pur
continuando, all'occorrenza, a dare una mano nei campi. Anche se spesso l’aiuto che davano
28
era puramente economico, al fine di permettere ai genitori di acquistare la terra o di rimborsare
i debiti contratti25
.
Queste nuove generazioni “in bilico” tra rurale e urbano, da un lato gettarono le basi per un
abbandono massiccio delle campagne, dall’altro giocarono un ruolo centrale nella definizione
della nuova società industriale italiana. Avendo fatto la loro prima esperienza della fabbrica
durante la guerra o nei primi anni venti, infatti, avevano imparato un mestiere. Dopo aver
passato svariati anni alle dipendenze del “padrone”, era praticamente scontato che fossero i
primi a prendere in considerazione il conseguimento dell'indipendenza nel lavoro non-agricolo,
dopo che la famiglia aveva raggiunto l'autonomia nell'agricoltura26
.
Ma nonostante tutte le difficoltà e le novità sociologiche, nelle aree rurali la situazione rimase
abbastanza stabile: le famiglie contadine conservarono la propria compattezza, continuarono a
mantenere un qualche contatto con la terra rifiutando l’urbanizzazione. Le piccole aziende
familiari permisero alle famiglie contadine di restare rurali, di salvare quei fattori che
contribuivano a ridurre il costo della vita, come l’auto-consumo, e a tenere insieme la famiglia.
Il processo di nuclearizzazione delle famiglie iniziata dall’unificazione e proseguita fino alla
fine della Prima Guerra Mondiale, infatti, subì un forte arresto nel periodo tra le due Guerre.
Questo è riconducibile a tre fattori principali.
Il primo è riconducibile al fatto che il processo di urbanizzazione rallentò bruscamente sia per
i motivi economici di cui sopra, sia per gli interventi fascisti rivolti a “sfollare le città”.
Il secondo invece è individuato nel rallentamento della nuclearizzazione familiare, fenomeno
da imputarsi a quei processi di acquisto della terra iniziati a verificarsi subito dopo la fine della
guerra, che portarono alla creazione di una nuova classe di agricoltori/imprenditori:
«guardando al processo storicamente, sembra più esatto suggerire che queste famiglie
attraversarono un processo di virtuale proletarizzazione, ma conservarono una fisionomia
25
P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992.
26
Ibidem. Si consideri inoltre il ruolo giocato dal “vil denaro” nella definizione di questa situazione, portando gli
individui abituati al lavoro in fabbrica indiscutibilmente sulla via dell’emancipazione familiare. Afferma Corner
che: «Inevitabilmente, una presenza ingente di guadagni salariali creava tensioni nella famiglia contadina.
Sappiamo che nei membri salariati della famiglia crebbe la riluttanza a far confluire i propri guadagni in un fondo
centrale, preferendo essi tenere il denaro per sé. A contatto con il mondo dell'industria, i gusti mutarono; e la cosa
poté rispecchiarsi in un'accentuazione delle divisioni in seno alla famiglia. Qualche volta, tutto ciò costituì il primo
passo sulla via della dissoluzione della famiglia multipla. Ma, in linea generale, parrebbe che le famiglie
resistessero validamente a queste tensioni, preferendo le garanzie offerte dal fatto di metter insieme almeno una
parte delle risorse ai rischi impliciti nella separazione, e riconoscendo il nesso essenziale tra un miglioramento del
tenore di vita e la famiglia numerosa. A questo proposito occorre ricordare che a partire dal 1927 la crisi economica
rese più difficile alla ristretta famiglia nucleare, separata dalla famiglia multipla, guardare con fiducia al futuro.
29
sufficientemente diversa da quella del proletariato urbano da permetter loro di emergere, a
distanza, come piccoli imprenditori»27
.
Il terzo aspetto è quello più naturale e che anche nell’età contemporanea stiamo vivendo: la
crisi. Come testimonia Corner: «a partire dal 1927 la crisi economica rese più difficile alla
ristretta famiglia nucleare, separata dalla famiglia multipla, guardare con fiducia al futuro»28
.
Ritornare nella sicurezza del nucleo famigliare permetteva di poter affrontare la vita con un po’
più di serenità, perlomeno economica, dal momento che parte dei costi affrontati in città erano
azzerati dall’autoconsumo e dalla partecipazione di una comunità rurale in cui, al momento del
bisogno, l’aiuto non era neanche necessario chiederlo29
.
Nel frattempo, sotto l’egida fascista, la ripartizione delle colture, l'andamento della produzione,
la consistenza del patrimonio zootecnico, l'impiego di concimi chimici, indicavano, fino al
1925/26, l'apparente buona salute dell'agricoltura: la produzione granaria crebbe da una media
di 46 milioni di quintali ad una di 60 circa30
.
Ma ben presto l'ondata della crisi economica mondiale del 1929 si rovesciò sull'Italia spazzando
via il precario equilibrio raggiunto nei conti con l'estero dopo la rivalutazione della lira
avvenuta nel 192631
. La caduta brusca delle esportazioni, accompagnata dal crollo dei prezzi
sul mercato internazionale, fu il primo segnale. Nel 1929 l'esportazione italiana di prodotti
alimentari era stata pari a 3,6 miliardi di lire; nel 1930 scese a 3,3; nel 1931 a 2,9 — con una
discesa nel giro di due anni di quasi il 20 per cento32
.
Con la crisi economica seguita alla rivalutazione, l'industria rallentò il passo, e la
disoccupazione aumentò bruscamente. Molti appartenenti alla generazione “in bilico”, trovatisi
disoccupati, si diedero alla produzione autonoma, tornando in famiglia, mentre i piccoli
proprietari terrieri si trovarono costretti ad andarsene dai propri possedimenti per insolvenza o,
27
P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.97.
28
Ibidem, p.94.
29
A tal proposito ci tengo a portare come esempio il contesto rurale in cui mia nonna è nata e ha vissuto dal 1928
al 1986. Mi racconta spesso, infatti, di come l’aiutarsi era all’ordine del giorno a Carloforte (provincia di Carbonia-
Iglesias, in Sardegna), soprattutto quando si affrontavano momenti particolarmente complessi. In quei momenti
si pensava alla sopravvivenza della comunità, per cui il panettiere donava i suoi prodotti al pescatore in cambio
di qualche pesce, e così facendo tutto il paese cercava di sostentare ogni abitante attraverso logiche di dono.
L’importanza del dono nelle comunità rurali verrà poi affrontato più dettagliatamente nel quarto capitolo.
30
C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
31
G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009.
32
C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
30
nel migliore dei casi, a rivenderli e tornare ad essere braccianti. Chi invece mantenne le
proprietà agricole fu spesso costretto ad emarginarsi dal mercato e tornare alle pratiche di
autoconsumo per la sopravvivenza, dal momento che la grande depressione aveva gravemente
colpito i guadagni dei contadini. Come afferma Federico, infatti:
«La grande depressione non colpì tanto la produzione agricola, rimasta più o meno costante o
addirittura aumentata, quanto i prezzi. Le ragioni di scambio dei prodotti agricoli diminuirono di circa
un terzo dal 1928 fino ai minimi del 1932-1933. Quasi tutti i Paesi reagirono nel breve periodo
aumentando i dazi. [...] Questa misura “tradizionale” però si dimostrò insufficiente ad arrestare la caduta
dei prezzi, e quindi i governi ricorsero a strumenti nuovi, almeno per l’Europa in tempo di pace:
l’imposizione di restrizioni quantitative all’importazione (quote) e il controllo totale del mercato»33
.
All’entrata in guerra al fianco della Germania nazista nel 1940, l’Italia presentava dunque una
situazione agricola particolarmente provata dalla crisi e dai tentativi dello Stato di sistemare le
cose. Tuttavia l’organizzazione dell’agricoltura su base paramilitare, iniziata nel 1935/36,
sembrava, almeno sulla carta, compatta e totalitaria. E sulla carta rimase: la destinazione delle
risorse all’approvvigionamento bellico si fece immediatamente sentire sulla produzione
agricola che, già indebolita dalla crisi prebellica e dall’assenza di più di un milione e mezzo di
contadini e braccianti spediti al fronte, venne a mancare anche di fertilizzanti chimici e minerali
mentre molte macchine rimasero ferme per scarsità di carburanti34
.
33
G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.118.
34
C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
31
1.5 La ricostruzione
In quale misura la Seconda Guerra Mondiale danneggiò il patrimonio fondiario ed agrario
italiano non fu mai misurato con esattezza, ma forse non era neanche possibile farlo. Di certo
la situazione si presentava particolarmente difficile: la produzione diminuiva e i prezzi
aumentavano, con un ritmo inflazionistico che mai prima di allora era stato conosciuto35
. Fra
il 1939 e il 1946 i prezzi all’ingrosso aumentarono di 33 volte e nuovamente si tornò a parlare
di “arricchimento contadino”. Quando nella realtà dei fatti la situazione creatasi era frutto dello
stato di distruzione in cui versava il territorio agricolo italiano con danni stimati da
Confindustria nel 1947 intorno ai 400 miliardi36
.
Il 1946 segnò una tendenza alla ripresa.
Anche se gli sforzi dello Stato furono tesi principalmente alla ricostruzione del settore
industriale, non mancarono studi ed indagini conoscitive per un efficace ripristino e
trasformazione delle strutture agrarie. Da queste indagini emerse il quadro di un'agricoltura (e
dei contadini in essa) povera, arretrata, precaria. Al centro si collocavano i problemi della
proprietà e dell'uso della terra; ed erano, insieme, tecnici e politici. Dal punto di vista tecnico
il problema era evidentemente legato al fatto che i tre quarti dell'agricoltura italiana erano
ancora sottoposti a pratiche colturali le cui tecnologie di base erano estremamente arretrate. Da
un punto di visto politico, la «ruralizzazione» fascista, per quanto demagogica, aveva ottenuto
- attraverso le leggi contro l'urbanesimo e lo scoraggiamento dell'emigrazione - non solo il
risultato di sovraffollare le campagne, ma anche quello di allargare l'area delle piccole
coltivazioni parcellari e dei piccoli coltivatori precari. Si era così consolidato il modello di un
arcipelago capitalistico composto per la maggior parte da attività legate alla sopravvivenza
familiare.
35
Questo ebbe come effetto quello di acuire le difficoltà già marcate nel settore e di protrarne l’effetto anche a
molti anni dopo la fine della guerra. Le difficoltà strutturali mantennero il predominio sulla situazione economica
che invocava una riformulazione in toto del settore, ma che trovava scontri a più livelli. Come afferma Federico,
infatti: «gli effetti della Seconda Guerra Mondiale furono qualitativamente simili ma più gravi di quelli della
prima. Il passaggio all’economia bellica fu molto più facile che nel 1914, in quanto in tutti i principali Stati
belligeranti, compresi gli Stati Uniti, il mercato dei prodotti agricoli era già, parzialmente o totalmente, sotto il
controllo dello Stato. L’intervento statale non potè però evitare un crollo della produzione agricola in Europa
dell’ordine del 20-30%. La produzione aumentò invece negli Stati Uniti, che rifornivano i propri alleati, compresa
l’Unione Sovietica. [...] Il ritorno alla pace non portò cambiamenti significativi nelle politiche agrarie. In Europa,
la memoria delle privazioni belliche e la Guerra Fredda rendevano l’opzione di smantellare le strutture di controllo
e di affidarsi al libero mercato dei prodotti agricoli piuttosto impopolare anche fra i consumatori, oltre che,
prevedibilmente, fra i produttori» (G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna,
2009, p.122).
36
C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
32
Di questa agricoltura si effettuò la “ricostruzione”37
fra il 1946 e il 1950. Come già detto però
tutte le priorità furono indirizzate alla riattivazione dell'apparato industriale e i problemi
dell'agricoltura, una volta accertata la ripresa delle principali coltivazioni, non furono più
considerati come fondamentali. «Anzi le campagne, negli anni in cui più intensa fu la
riconversione industriale accompagnata da numerosi licenziamenti, furono guardate come
rifugio provvisorio per la nuova disoccupazione: i primi ad essere licenziati erano appunto
“quei lavoratori che hanno possibilità di impiego nell'agricoltura su terreni di loro
proprietà”»38
.
Con il 1950/51 tutta l'economia italiana, e l'agricoltura in essa, entrava in una nuova fase di
espansione produttiva e tecnologica, guidata da una congiuntura internazionale favorevole e
sorretta da un crescente volume di investimenti pubblici e privati.
Fra il 1950 e il 1952 diversi provvedimenti governativi favorirono il rilancio produttivo e
l'ammodernamento tecnologico, se non dell'agricoltura nel suo insieme, perlomeno di quei suoi
comparti e settori capaci di utilizzare le occasioni offerte dai finanziamenti pubblici.
L'iniziativa di maggior rilievo fu senza dubbio lo stralcio di riforma fondiaria. Esso venne
approvato nel 1950 e la realizzazione avvenne attraverso la costituzione di enti appositi, i quali
rapidamente censirono le grandi proprietà espropriabili in tutto o in parte.
L’operazione ebbe risultati economici e sociali eccezionali, tali che nel 1955 oltre 1 milione e
100.000 ettari andarono ad allargare il settore contadino dell’agricoltura. Inoltre gli
investimenti nel settore salirono vertiginosamente dai 241 miliardi del 1951 ai 434 miliardi del
1955, allargando le opere di bonifica e di miglioramenti fondiario39
. Gli sviluppi di maggior
rilievo si ebbero però nei settori tecnologici e produttivi subordinati al settore industriale che
in quel periodo stava realizzando il suo “miracolo”, passando da un valore aggiunto pari a 3564
miliardi nel 1951 a 8197 miliardi nel 1961, con una crescita pari al 130% circa. Mentre il valore
aggiunto del solo settore agricolo, per quanto in crescita, si fermava a 3103 miliardi nel 1961,
con un aumento del 49% dal 195140
.
37
Le virgolette sono d’obbligo dal momento che la ricostruzione in questione avvenne solo per i comparti
produttivi ritenuti fondamentali. Quelli minori dovettero principalmente affidarsi alla buona volontà dei
conduttori.
38
C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1980, p.165.
39
Ibidem.
40
G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009.
33
Il dato più clamoroso è quello legato alla forza lavoro del settore agricolo, che passò da
8.641.000 addetti nel 1951 a 6.207.000 nel 1961.
Vi era in quel periodo in Italia un clima di euforia diffusa a cui però teneva il passo la
convinzione che, nonostante lo sviluppo produttivo, i progressi tecnologici e lo sfollamento,
occorresse una correzione di indirizzi.
Tra il ‘58 e il ‘65 l’economia italiana si trovò ad affrontare una situazione particolarmente
travagliata: per molti aspetti, infatti, la crescita impetuosa poneva più problemi della precedente
stagnazione. Il contributo fondamentale era dato sicuramente dall'eccezionale sviluppo
dell'industria, che accentuava la dipendenza dell'agricoltura nell'assetto economico-sociale del
paese, nonché la quasi auspicata sua irrilevanza. Come scrive Daneo infatti:
«Sempre più spesso si poté leggere anche sulla stampa specializzata che l'agricoltura era ormai
destinata a ridimensionarsi ed a concentrarsi, e che i problemi residui sarebbero stati semmai di
ordine assistenziale, per facilitare lo svuotamento delle sacche di arretratezza.
Non tutti, ovviamente, erano d'accordo su questi giudizi; anzi da più parti si continuò a
sottolineare l'opportunità politica di non sottovalutare il “mondo rurale” — tanto che un
portavoce della Coldiretti, Valentino Crea, qualche anno dopo alla domanda se fosse «finita
l'era della politica dell'assistenza e dei sussidi» non esitava a rispondere: «Noi non lo crediamo,
perché l'agricoltura italiana, anzi il mondo rurale, ha un alto valore sociale per poter essere
abbandonato a se stesso»41
.
Secondo Barberis, inoltre, questa nuova crisi agraria risultava parzialmente fittizia, in quanto
oltre un milione di aziende agricole risultavano delle part time farm che, similarmente a quanto
avvenuto tra il 1861 e il 1919, mantenevano alta quella caratteristica tutta italiana del
contadino-operaio (ora trasformato in operaio-contadino), ancora riluttante all’idea di
abbandonare definitivamente la terra. Il numero di tali soggetti e delle loro famiglie allargate
(che risultavano nel 1961 pari al 19,4% del totale delle famiglie italiane per calare poi al 16,9%
nel 1971) era esiguo ma importante, soprattutto perché è ciò che differenzia la struttura sociale
ed economica italiana da quella degli altri Paesi capitalistici avanzati. Non solo nel settore
agricolo42
. L’industria italiana infatti, nella sua grande maggioranza, si trova a dover produrre
41
C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1980, p.193.
42
C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009.
Come testimonia inoltre Corner: «una delle caratteristiche principali che differenziano la struttura sociale ed
economica italiana da quella degli altri Paesi capitalistici avanzati è precisamente la persistenza e vitalità di un
ampio settore di piccole imprese industriali e artigiane, molte delle quali a carattere familiare, svolgenti una
34
beni dalla domanda altamente variabile, con una tecnologia fortemente rigida e ad alta intensità
di lavoro. «In queste condizioni non è un caso che essa sia caratterizzata, in misura più
accentuata di quanto si osserva in altri Paesi, dalla presenza di un vasto settore di piccole
imprese: queste ultime infatti permettono di recuperare importanti margini di flessibilità al
sistema, tramite la capacità di adattamento dei micro-imprenditori, della famiglia come unità
produttiva, del lavoro a domicilio e del lavoro "nero" in genere»43
.
In questo contesto, il mantenimento di un collegamento tra l'industria e l'agricoltura per
l'autoconsumo conserva tutta la sua attualità.
funzione attiva nel processo di accumulazione nazionale e quindi non definibili tout-court come imprese
"marginali", "residuali" o "pre-moderne". Secondo i dati dei censimenti industriali, nei venti anni compresi tra il
1951-1971, gli occupati nelle imprese manifatturiere con meno di 100 addetti nel nostro Paese restano
costantemente superiori alla metà del totale occupati (e il loro peso è ancora maggiore se, invece delle imprese si
considerano gli stabilimenti o le "unità locali" con meno di 100 addetti). Questo dato è assolutamente privo di
riscontro in altri Paesi industriali avanzati (Giappone escluso). Nel valutare tale dato inoltre, va tenuto presente
che l'entità dell'occupazione relativa alle piccole imprese sfugge in parte consistente alle statistiche ufficiali,
essendo spesso costituita da "lavoro nero" e, in particolare, da lavoro a domicilio, che risulta, da numerose
ricerche, una realtà grandemente diffusa nel nostro Paese (a differenza, ancora una volta, degli altri Paesi
industriali occidentali)» (P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.128).
43
P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.130.
35
Terreno fertile
«Ruralità e agricoltura sono due termini che sono usati talora come sinonimi; rus era la campagna dei
latini, agricoltura è la coltivazione del suolo. Agricoltura fa dunque specifico riferimento a un insieme
di attività economiche; ruralità rimanda invece a un particolare ambiente antropico, in contrapposizione
a quello urbano»44
.
Dopo aver visto velocemente i processi in atto nel mondo agricolo nel primo secolo di vita
dell’Italia unita è necessario vedere anche come il settore si stia evolvendo oggi.
Molti aspetti, come vedremo, sono cambiati, altri si spera che cambino. Altri ancora invece
sono rimasti quasi immutati, come per esempio la rilevanza del contadino operaio.
Se il capitolo precedente voleva essere un modo per inquadrare storicamente l’agricoltura e
mostrare alcuni aspetti salienti dell’attività agricola, il presente capitolo ha invece più a che
fare con l’ambito economico/statistico. Si intende qui infatti mostrare i cambiamenti avvenuti
nel corso degli ultimi 30 anni, facendo leva su quegli aspetti che maggiormente rappresentano
il futuro del mondo rurale: i giovani, lo sviluppo tecnologico, i piani comunitari.
Ritengo che sia necessario, ai fini di una maggiore completezza del discorso di tesi generale,
chiarire quali sono i movimenti in atto in Italia, di modo da render più facile identificare quei
fenomeni di sviluppo che affronteremo più avanti.
In particolare, cosa che mi preme mettere in luce da subito, è la questione della
disurbanizzazione e del conseguente incremento della popolazione rurale45
.
44
C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.XV.
45
I motivi sociologici dietro a questo fenomeno li affronteremo nel prossimo capitolo.
36
2.1 Odio la città
Il nuovo millennio si apre all’insegna di un nuovo fenomeno sociologico: mentre nei Paesi
emergenti dell’Asia, dell’America Latina, perfino dell’Africa il processo di urbanizzazione
avanza prepotentemente dando vita a forme esasperate di urbanismo, nell’occidente più
sviluppato si intravedono chiari segnali di disurbanizzazione e si assiste al fenomeno della
rinascita rurale. Quest’ultima ha la sua manifestazione più vistosa nel ripopolamento delle aree
rurali a scapito di quelle urbane. Anche in Italia, come in molti altri Paesi occidentali, al declino
demografico delle aree urbane si contrappone la ripresa di quelle rurali. Secondo la
classificazione che riporta Corrado Barberis, presidente dell’INSOR (Istituto Nazionale di
Sociologia Rurale), elaborata negli anni Ottanta:
«Gli oltre ottomila comuni italiani sono distinti in rurali e urbani, ai quali vengono aggregati
anche gli intermedi. Al mondo rurale sono assegnati i comuni con almeno il 75% di superficie
a verde e una densità demografica non superiore a 300 abitanti per chilometro quadrato; al loro
interno vengono distinti i comuni ruralissimi, così chiamati perché la loro superficie a verde
raggiunge una percentuale superiore al 90%, e i comuni rurali di montagna. Sono stati
classificati urbani, oltre che i capoluoghi di provincia e i grossi centri con più di 50000 abitanti,
i comuni contrassegnati sia da una bassa quota di superficie a verde (meno del 75%) sia da una
densità elevata (oltre 300 abitanti). Nella categoria dei comuni intermedi sono stati inseriti tutti
i rimanenti comuni: sia quelli che, pur presentando un’alta percentuale di superficie a verde
(oltre il 75%), non possono essere considerati rurali in ragione della loro elevata densità (oltre
300 abitanti), sia quelli che, avendo una bassa percentuale di superficie verde (meno del 75%)
non possono essere considerati urbani a causa della loro bassa densità (meno di 300 abitanti)»46
.
Sulla base di questa classificazione, è possibile esaminare l’evoluzione demografica dei diversi
tipi di comuni negli ultimi tre decenni del secolo scorso e nel primo quinquennio 2000.
All’inizio degli anni ‘80 l’Italia era ancora in piena crescita demografica. Il censimento svoltosi
nel 1981 aveva contato 2.420.000 italiani in più rispetto al 1971, con una variazione percentuale
del 4,47%. A questa crescita contribuivano tutti i tipi di comuni, ma quelli urbani e semi urbani
in misura maggiore di quelli rurali. Mentre la popolazione di questi ultimi risultava aumentata
46
Ibidem, p.29.
37
del 2,8%, era cresciuta del 4,3% quella dei comuni urbani e addirittura del 10,9% quella dei
comuni intermedi47
.
Dieci anni dopo la situazione appariva assai diversa.
Il censimento del 1991 evidenziava che l’Italia era ormai largamente investita dai fenomeni di
crescita zero e del declino demografico urbano. Nel 1991 vennero contati soltanto 221.000
abitanti in più, con una variazione dello 0,4%. Complessivamente i comuni urbani avevano
perso nel corso di quel decennio 685.000 abitanti (-2,4%): una perdita che sarebbe stata ancora
più grave se i centri urbani più piccoli non avessero compensato con i loro 473.000 abitanti in
più (7,1%) l’emorragia demografica dei grossi centri capoluogo e non, la cui popolazione
risultava diminuita di 1.158.000 abitanti (-5,3%).
In una simile situazione di stazionarietà demografica e declino urbano, il risultato dei comuni
rurali appariva sorprendente. Tra il 1981 e il 1991 i comuni rurali vedevano aumentare la loro
popolazione di 503.000 abitanti, con una variazione del 2,4%, di poco inferiore a quella del
1981 (2,8%).
Si deve concludere che gli anni ‘80 hanno segnato una netta inversione di tendenza per quanto
riguarda le dinamiche demografiche. La crescita della popolazione, che nel corso degli anni
settanta tendeva a concentrarsi nei comuni urbani, ha cominciato a spostarsi nei comuni semi
urbani e rurali. Le nuove tendenze demografiche manifestatesi nel corso degli anni ‘80 sono
proseguite durante il successivo decennio novanta, come confermano i risultati del censimento
della popolazione svoltosi nel 2001. Anche nel corso dell’ultimo periodo intercensuario la
popolazione italiana è rimasta stazionaria: nel 2001 si sono contati solo 221.000 abitanti in più
rispetto al 1991, corrispondenti a una variazione dello 0,4%. I comuni urbani,
complessivamente considerati, hanno continuato a perdere popolazione, avendo rilevato il
censimento 593.000 cittadini in meno (-2,1%). Particolarmente pesante è stato il
ridimensionamento demografico subito dall’insieme delle città capoluogo e dei grossi centri
con oltre 50.000 abitanti, che hanno perso 952.000 abitanti (-4,6%).
Nel 2001 pare invece consolidata la ripresa demografica rurale segnalata dai due censimenti
precedenti, avendo guadagnato i comuni rurali, complessivamente considerati (cioè compresi
anche i comuni montani) 462.000 abitanti, con una variazione positiva del 2,1%, solo
leggermente inferiore a quella del 1991.
E’ dunque andato avanti nel corso degli anni novanta il processo di redistribuzione territoriale
della crescita demografica dai comuni urbani verso quelli semi urbani e rurali. Ormai i comuni
47
Ibidem.
38
rurali non montani sono quelli che, in termini assoluti, vantano gli incrementi demografici più
consistenti: 496.000 abitanti in più nel decennio 1991-2001, un guadagno superiore a quello
ottenuto dai comuni intermedi (349.000) e dai comuni urbani minori (359.000).
39
2.2 La fine dell’arcipelago dei minifondi
Dalla fine degli anni ‘70 ad oggi la situazione agricola italiana ha subito importanti modifiche
che hanno causato una flessione del numero di aziende presenti sul territorio. Il censimento
agricolo dell’Istat del 1982 registrava la presenza di poco più di 3.000.000 di attività agricole.
L’enormità del numero di aziende presenti, però, fa capire anche come queste fossero
composte, per la maggior parte, da terreni inferiori all’ettaro (se non al quarto di ettaro). Una
situazione del genere presentava perciò un grande numero di terreni poco produttivi o di attività
i cui fini economici erano tendenti allo zero.
Questa situazione, non poi così differente dal generale stato dell’agricoltura in tutto il corso del
XX secolo, era dunque ancora prevalentemente di sussistenza e poco sarebbe potuta durare.
Difatti il censimento successivo, avvenuto nel 1990, registrava un calo di più di 200.000
aziende nel settore, diminuite ancora nel decennio successivo di altre 500.000. All’inizio del
nuovo millennio il numero di attività agricole su suolo italiano erano già calate a 2.300.000
circa.
Questa tendenza non ha smesso di interessare il settore e, nel 2010, il numero di imprese è
calato ancora fino ad arrivare a quota 1.600.000 unità circa. In totale, in un solo decennio sono
scomparse ben più di 900.000 aziende. Di queste la maggior parte hanno chiuso
definitivamente a causa di leggi di mercato sfavorevoli per le aziende più piccole e per il
pensionamento (o la morte) degli agricoltori più anziani.
Un cospicuo numero (quasi 200.000) invece è scomparso a tavolino, perché semplicemente
troppo piccole per definirle aziende e perché banalmente non rispettavano i canoni imposti
dall’Unione Europea per fini statistici48
.
Oltre al numero di aziende, si è avuta una diminuzione progressiva della SAT (Superficie
Agricola Totale) e della SAU (Superficie Agricola Utilizzata), anche se in modo non
proporzionale. Ciò ha portato ad un aumento della dimensione media aziendale, corrispondente
ad un graduale cambiamento della struttura agricola italiana. L’aumento progressivo della
dimensione media aziendale è un fenomeno che ha interessato tutte le circoscrizioni del
territorio nazionale, a dimostrazione del fatto che la riorganizzazione della struttura agricola è
un fenomeno che coinvolge in modo omogeneo tutto il territorio. I picchi maggiori si sono
48
C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013.
40
verificati nelle isole con variazioni percentuali, tra il 2000 e il 2010, pari al 72% in Sicilia e al
99% in Sardegna.
Fig. 1. Evoluzione della dimensione media aziendale. Fonte: elaborazione INEA su dati ISTAT, 2014.
Fig. 2. Aziende e relativa superficie totale per forma di conduzione e titolo di possesso dei terreni (superficie in
ettari). Fonte: 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, 2013.
41
Fig.3. Aziende e relativa superficie totale per forma di conduzione. Fonte: ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura,
2013.
Come registrato dall’Istat, ancora nel 2010 il 50% delle aziende aveva meno di 2 ettari di SAU.
Questo, almeno parzialmente, pare relativo anche all’incremento di attività non direttamente
collegate alla coltivazione della terra o al pascolo: un numero crescente di aziende pare infatti
volgere le proprie attenzioni ad attività remunerative legate al turismo. Purtroppo questo dato
è, come detto, parziale, in quanto la stragrande maggioranza del calo di SAU è legata al fatto
che milioni di ettari giacciono in stato di abbandono e continuano a vegetare fuori da ogni
organizzazione o azienda agraria: lasciti di una proprietà che risulta spesso assente perché
impegnata in attività più remunerative o considerate migliori dal punto di vista lavorativo. C’è
di buono che questi ettari siano finiti a costituire boschi spontanei o altre aree vegetali piuttosto
che essere cancellati per opere di urbanizzazione e, quindi, cementificazione49
.
49
C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013
42
Fig.4. Aziende e relativa SAU per forma di conduzione e titolo di possesso dei terreni (superficie in ettari). Fonte:
ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013.
Fig.5. Uso del suolo (superficie in milioni di ettari), anno 2010. Fonte: elaborazione ISTAT su dati MIPAAF
(POPULUS) 2010. ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013.
Fig.6. SAU e SAT. Fonte: ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013.
Ma nonostante questa diminuzione, non manca un certo entusiasmo di fronte ai processi in
corso: come ha evidenziato il Sole 24 Ore quando venne dato alle stampe il 6° censimento
generale dell’agricoltura, era (ed è tuttora) in atto un processo di professionalizzazione del
settore agrario50
. Questo sarebbe dato dal fatto che, all’uscita dal mercato delle aziende più
piccole, è corrisposto un aumento delle aziende con più di 30 ettari.
50
Impresa e territori, http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2012-07-12/istat-cala-numero-aziende-
151028.shtml?uuid=Abo1bp6F&fromSearch&refresh_ce, ultimo accesso 18/06/15.
43
Altra particolarità legata alla sempre maggiore professionalizzazione del settore agricolo è data
dalla variazione della struttura fondiaria e dalla diminuzione della presenza di quel
caratteristico “contadino-operaio”, che comunque ha mantenuto (e, anche se parzialmente,
continua a mantenere) un ruolo particolarmente rilevante nel settore. Mentre nel 1970 le duplici
attività raggiungevano la maggiore espansione e i conduttori di una seconda attività risultavano
quasi 1.200.000, i conduttori di aziende agricole con prevalente attività esterna si riducono nel
2000 a 604.000, in attesa di contrarsi ulteriormente a meno di 316.000 (19,7% del totale) nel
2010. Questo fenomeno pare sia dovuto al fatto che la propensione ad assumere una seconda
attività diminuisce infatti all’aumentare delle dimensioni aziendali51
.
Come rilevato dall’INEA nel Rapporto sullo stato dell’agricoltura 2014,
«L’ammontare medio aziendale dei ricavi provenienti da altre attività produttive presenti
nell’azienda agricola e complementari a quelle agricole ordinarie è piuttosto contenuto in
termini assoluti, sfiorando i 2.200 Euro ad azienda nel 2012; l’aumento registrato rispetto
all’anno precedente, seppure leggero, lascia intravedere una crescita di interesse degli operatori
agricoli verso attività di diversificazione produttiva, specie in un contesto come quello attuale
caratterizzato da una marcata instabilità dei mercati agricoli. Il loro peso appare rilevante
soprattutto nell’area settentrionale e centrale del paese, anche grazie alla presenza dell’attività
agrituristica, mentre è del tutto limitato al Sud Italia»52
.
Certo è da rilevare che il fenomeno della professionalizzazione, e quindi della maggior
concentrazione di SAU e della conseguente creazione di aziende più strutturate, è ben lungi
dall’essersi definitivamente affermato. Secondo una ricerca svolta da Confagricoltura, infatti,
nel 2013 fra le aziende di superficie inferiore ai 2 ettari, le individuali sono 99,2%; fra quelle
di superficie dai 50 ettari in su, le individuali scendono al 70%.
E’ comunque evidente che la crescita delle conduzioni societarie testimonia come
l’affermazione di imprese più grandi, meglio organizzate, con maggior propensione
all’investimento, sia un fenomeno ancora in atto ma che pare in continua crescita53
.
51
C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013.
52
INEA, Rapporto sullo stato dell’agricoltura 2014, p.17.
53
Ibidem.
44
Fig.7. Conduttori totali ed alternanti secondo classi di SAU (per alternanti si intendono i soggetti esercitanti attività
prevalentemente esterna all’azienda). Fonte: ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013.
La differenziazione delle tipologie di conduzione delle aziende agricole ha rappresentato
un’incidenza importante nel decennio intercorso tra il censimento 2000 e quello 2010 e
continua a crescere il numero di aziende che privilegiano forme di conduzione diverse da quella
individuale, prima la prevalente (se non addirittura l’unica) forma di conduzione privilegiata.
Per fermarci all’analisi data dal censimento 2010, il numero di aziende costituite da forme
societarie sono passate dalle 32.000 circa del 2000 alle quasi 48.000 del 2010, con importanti
conseguenze anche sulla produttività: come rilevato dall’ISTAT queste nuove forme societarie
hanno circa 257.000€ di reddito annuo ciascuna, contro i 21.300€ delle aziende individuali.
6840€ di prodotto standard per ettaro contro 3398€; 392€ a giornata contro 159.
Solo le società di capitali riescono, con 7.609€ ad ettaro e 407€ a giornata, a superare questi
risultati, che restano nettamente più elevati rispetto a quelli di altri piccoli colossi: quali, ad
esempio, le cooperative54
.
In generale questo processo continua ad aver luogo e il numero di aziende individuali è
costantemente in calo, nonostante continui a rappresentare la quasi totalità delle aziende
agricole. Nello specifico, le regioni in cui si è verificato il maggior incremento delle forme
societarie sono la Valle d’Aosta, la Lombardia, l’Emilia Romagna e il Friuli Venezia Giulia.
Leggendo questi dati assieme a quelli dell’aumento della dimensione media delle aziende, si
può mettere quindi in luce una graduale tendenza al cambiamento della struttura agricola, con
un crescente orientamento verso forme giuridiche diverse al quella della proprietà individuale.
Fa eccezione, a questo proposito, la Calabria, unica regione in cui si manifesta un aumento
della forma individuale, insieme con le altre forme giuridiche, a scapito delle società.
54
Ibidem.
45
Fig.8. Evoluzione delle forme societarie in agricoltura. Fonte: Elaborazione Confagricoltura su dati
UNIONCAMERE, 2013.
Fig.9. Forme giuridiche in Italia nel 2013 per regione. Fonte: elaborazione Confagricoltura su dati Union camere,
2013.
46
2.3 Arretratezza tecnologica
Il secolo scorso è stato caratterizzato da una grande crescita della produzione agricola a livello
globale, anche se concentrata principalmente nei Paesi maggiormente sviluppati e
industrializzati. Un aumento della produzione e dell’offerta che ha controbilanciato la forte
crescita della domanda globale degli alimenti consentendo un andamento relativamente stabile
dei prezzi. Questa crescita produttiva è avvenuta in concomitanza con un netto declino della
forza lavoro agricola ed una sostanziale stabilità della superficie agricola coltivata. Tale
crescita produttiva si è ottenuta grazie ad una ancora maggiore crescita della produttività delle
risorse agricole. Tanto rilevante è stato questo incremento di produttività, che il tema principale
su cui gli economisti si sono più a lungo soffermati è proprio la sua spiegazione55
.
Certamente, l’intensificazione capitalistica ha avuto un ruolo in agricoltura come nel resto
dell’economia. Ma proprio il confronto con il resto dell’economia ha messo in evidenza come
nel comparto agricolo deve essere subentrato qualcosa di ulteriore. Questo viene identificato
nel continuo e incessante progresso tecnologico; nell’aver trasformato una serie continua di più
o meno rivoluzionari passi in avanti della conoscenza scientifica di interesse agricolo
(soprattutto dei processi biologici) in conoscenza pratica, cioè capace di generare tecnologia e,
infine, di portare innovazioni nel contesto produttivo agricolo. Questa capacità ha consentito
all’agricoltura mondiale, e soprattutto della parte più ricca, di sfuggire alla trappola della
scarsità alimentare in cui una forte crescita demografica ed economica rischiava di gettarla.
Fig.10. Produttività della terra e del lavoro agricolo: tasso di crescita annuo medio (in %), 1960.2005. Fonte:
elaborazione INEA su dati Alston e al. (2010). INEA, Il sistema della ricerca agricola in Italia e le dinamiche
del processo di innovazione, 2013.
Questo fenomeno è estendibile anche all’area italiana, nella quale emerge una crescita in
dinamica e intensità non diversa da quanto emerso a livello globale nei primi anni del
55
C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013.
47
dopoguerra (favorita dalla rapida intensificazione capitalistica e dalla rapida uscita dalle
condizioni di arretratezza in cui versava il settore agricolo italiano), a cui fa seguito una
flessione dell’andamento e una successiva sostanziale stagnazione.
Fig.11. Produttività agricola parziale e totale (TFP) e spesa in ricerca agricola (in termini reali) in Italia: tasso di
crescita annuo medio (in %), 1960-2002. Fonte: elaborazione INEA su banca dati AGREFIT (2009-2011). INEA,
Il sistema della ricerca agricola in Italia e le dinamiche del processo di innovazione, 2013.
La stagnazione italiana, nello specifico, è indice di una arretratezza importante del settore dal
punto di vista tecnico e tecnologico con il resto dell’Europa e del mondo. L’Italia infatti tende
a collocarsi tra i Paesi follower e il ritardo acquisito nei confronti dei Paesi leader è da attribuire
al fatto che non è riuscita ad acquisire un ruolo da protagonista nella produzione di conoscenza
ed innovazione tecnologica di interesse agricolo. Questa situazione è messa in luce anche da
Barberis, il quale afferma che:
«Dal punto di vista della dimensione complessiva dell'offerta l'agricoltura italiana è rimasta
sostanzialmente uguale a se stessa negli ultimi vent'anni. Ma se si guarda al reddito complessivo
messo a punto dal settore agricolo non è pessimismo riconoscere una sostanziale perdita di
valore in termini di mercato della sua produzione, e ancora più deludente appare il risultato del
reddito netto, considerato il maggior peso, nelle attività di coltivazione e di allevamento, dei
mezzi tecnici impiegati, i cui prezzi si sono accresciuti a ritmi ben più sostenuti di quelli
realizzati dall'azienda»56
.
56
C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.171.
48
Il giudizio di Barberis cambia però quando si sofferma a valutare l’organizzazione aziendale e
la produttività dei singoli fattori; da questa valutazione egli afferma (e conferma) che il settore
primario italiano non ha smesso di attraversare momenti di significativa e intensa
trasformazione.
Ma nonostante quest’ultima valutazione, è innegabile che il comparto agricolo viva una
situazione particolarmente difficoltosa dal punto di vista tecnologico. Questa arretratezza
tecnologica è sicuramente attribuibile alle forme societarie principali dell’agricoltura italiana,
quelle imprese individuali spesso mal gestite (o gestite sono a fini di autoconsumo).
Non si vuol far qui di tutta l’erba un fascio (molte aziende individuali sono comunque portatrici
di innovazioni), ma è tuttavia innegabile che, come afferma Giovanni Federico, «la lentezza
del progresso nelle aree di piccola proprietà contadina è attribuita all’innato conservatorismo
dei contadini e alla loro ostilità per ogni innovazione»57
.
Allo stesso tempo è anche innegabile che l’agroalimentare italiano presenta comunque delle
eccellenze mondiali che sono tali anche in virtù di performance produttive e di livelli
tecnologici di prim’ordine. In comparti quali vino, olio d’oliva, ortofrutta e colture protette,
allevamenti intensivi, l’Italia mostra, anche solo in porzioni o nicchie di questi comparti, un
primato tecnologico mondiale. Ciò è tanto più vero se si considera che il dato nazionale
nasconde sempre differenze territoriali molto spiccate, tali per cui è certamente possibile
rintracciare anche in Italia aree con una agricoltura che, almeno nei rispettivi comparti di punta,
risulta essere sulla frontiera tecnologica a livello internazionale e su questo elemento fonda una
porzione essenziale della propria competitività.
Come evidenzia la ricerca dell’INEA58
, le complicazioni italiane sono dovute al fatto che il
settore agricolo del nostro paese ha operato la scelta di orientare la propria strategia competitiva
verso il primato assoluto della food safety, ossia la qualità alimentare e ambientale. Questa
vocazione alla qualità dovrebbe essere capace di ampliarsi anche in altri ambiti: sostenibilità
ambientale, produzione di beni pubblici e servizi di interesse collettivo, sviluppo rurale. Ma
questi fronti sono ben lungi dall’essere ancora sviluppati e definiti, perché chiamano in causa
un nuovo fronte tecnologico per l’agricoltura stessa, che si troverebbe ad essere “garante” degli
aspetti visti sopra, in quanto argomenti direttamente correlati al suo sviluppo. Uno sviluppo
che solo le nuove generazioni di agricoltori possono essere in grado di affrontare.
57
G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.85.
58
I. Di Paolo e A. Vagnozzi (a cura di), Il sistema della ricerca agricola in Italia e le dinamiche del processo di
innovazione, INEA, Roma, 2014.
49
2.4 I giovani
Il tema dell’occupazione giovanile in agricoltura risente di una forte ambiguità delle statistiche,
in quanto esiste un problema di raffronto dei dati per la soglia di età in cui si è considerati
giovani: fino a 35 anni per le principali fonti di informazione statistica e fino a 40 anni per le
azioni di Politica Agricola Comune (PAC) implementate a livello europeo. Questa è una nota
necessaria al fine di capire il mondo dell’occupazione giovanile in agricoltura che altrimenti,
considerando cioè una fascia di età fino ai 30 anni come per gli altri settori, sarebbe fortemente
compromesso. La rivoluzione dell’agricoltura sembra dunque
«Guidata da una percentuale significativa di giovani, se diamo al termine un’accezione molto
larga, adatta a un paese che fatica ad effettuare il ricambio generazionale. [...] Se estendiamo la
definizione di giovani agli under 40 la percentuale [di aziende] arriva all’8%. Le imprese junior
funzionano bene: creano in media il 35% di valore aggiunto in più di quelle gestite da agricoltori
sopra i 40 anni, grazie ad un maggior grado di dinamismo e creatività, di attitudine al rischio e
di propensione all’innovazione e all’export. Ma anche grazie a una più elevata sensibilità per le
tematiche sociali e ambientali»59
.
Esaminando i dati del 6° Censimento generale dell’agricoltura e confrontandoli con quelli del
Censimento precedente, si può notare come il numero dei giovani agricoltori ha subito una
variazione negativa pari al 40%, passando da 273.182 a 161.716 (tabella 3.4). Allo stesso modo
la diminuzione percentuale ha interessato anche le altre due classi (40-64 e over 65) con
diminuzioni percentuali pari, rispettivamente, al 36% e al 38%.
Fig.12.
Capi d’azienda per classi di età (censimenti 2000 e 2010) Fonte: elaborazione INEA su dati ISTAT 2000-2010.
INEA, I giovani e il ricambio generazionale nell’agricoltura italiana, 2013.
59
A. Magistà (a cura di), La Repubblica, Guida a lavoro e professioni, settori che cambiano, Roma, Gruppo
editoriale L’Espresso, 2013 (progetto redazionale), p.14.
50
Dunque, la forte riduzione di aziende che si è registrata nel periodo intercensuario ha colpito
fortemente anche le aziende condotte da giovani.
Rispetto ad una riduzione complessiva delle aziende del 34,4%(da poco più di 2.500.000 a
1.620.000), è proprio la classe di capi azienda più giovani a mostrare la contrazione
percentualmente più rilevante (-40,8%), a fronte di una media complessiva del 37,5%. Per i
giovani la maggior diminuzione riguarda la classe inferiore ai 19 anni; tale fenomeno potrebbe
essere letto come un ritardo dell’entrata dei giovani nel mondo del lavoro, dovuto ad un
aumento del livello medio di istruzione, fenomeno peraltro generalizzato a tutte le tipologie di
lavoro.
Eppure, considerando nel giusto modo la mobilità tra le classi di età, e ipotizzando che non vi
siano fuoriuscite dalle classi se non per motivi di età, emerge che dei 161.716 agricoltori “under
40”, 108.870 sono i “veri” nuovi entrati, pari a circa il 60%.
Questo dato, sebbene sia apparentemente alto, non può essere pienamente soddisfacente in
quanto va letto contemporaneamente ai 220.336 usciti dalla fascia dei giovani. Ciò indica che
appena il 50% di coloro che oltrepassano la fascia di età dei giovani sono stati “sostituiti” da
nuovi entrati nel mondo agricolo.
Appare quindi evidente (ma del resto era forse addirittura scontato) che in Italia esiste un grave
problema di ricambio generazionale nel settore agricolo, nonostante negli ultimi anni i dati
relativi alle variazioni congiunturali mostrino un leggero aumento del numero di imprese
condotte da “under 35”60
.
Per quanto riguarda l’istruzione, emerge come la percentuale di conduttori senza titolo di studio
cresce progressivamente, passando dalle categorie più giovani a quelle più anziane, fino a
raggiungere il 57,2% nel caso del classe oltre i 75 anni, che include ancora circa il 17% del
totale dei conduttori. In modo simmetrico si può leggere la frequenza dei diversi titoli di studio
per singole classi di età. Il titolo di laurea è prevalente nelle classi più basse, ma resta molto
basso (raggiunge il 14% nella classe tra 25 e 29 anni, mettendo assieme laurea specialistica con
altre lauree). Il livello di licenza superiore è il più frequente nelle classi fino a 29 anni, per poi
cedere la prima posizione alla licenza media (51% nella classe tra 40-49 anni; 42,8% nella
classe successiva). A partire dalla classe dai 60 anni in su, è la licenza elementare a prevalere,
fino a raggiungere il 74,7% nella classe di età superiore ai 75 anni.
60
Aa.vv., I Giovani e il ricambio generazionale nell’agricoltura italiana, INEA, Roma, 2013.
LA NUOVA AGRICOLTURA: TRADIZIONE E INNOVAZIONE
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LA NUOVA AGRICOLTURA: TRADIZIONE E INNOVAZIONE

  • 1. 1 LA NUOVA AGRICOLTURA: TRADIZIONE E INNOVAZIONE Tesi di laurea magistrale in Comunicazione Pubblica e d’Impresa Dimitri Antonfranco Piccolillo Relatore: Adam Erik Arvidsson Correlatore: Franco Guzzi
  • 2. 2 A mio padre e mia madre. Grazie di tutto.
  • 3. 3 Indice Ringraziamenti p.5 Introduzione p.7 1. Dall’Unità al Boom! p.13 1.1 Il sogno dell’industrializzazione 1.2 Contadino o operaio? 1.3 Verso la Grande Guerra 1.4 Tra le due Guerre 1.5 La ricostruzione 2. Terreno fertile (1982 - 2014) p.35 2.1 Odio la città. 2.2 La fine dell’arcipelago dei minifondi? 2.3 Arretratezza tecnologica 2.4 I giovani 2.5 Le prospettive future 3. Agricoltura postmoderna p.63 3.1 Parole liquide 3.2 Insieme, a breve termine 3.3 La fine di un’epoca? 4. Per una nuova agricoltura p.80 4.1 Nuove ideologie 4.2 ICT e agricoltura 4.3 Nuovi modelli 4.4 Vacci piano!
  • 4. 4 4.5 AFN: Alternative Food Networks 4.6 Nuovi metodi 5. Rural Hub p.102 5.1 Rural Social Innovation Conclusioni p.110 Bibliografia p.115
  • 5. 5 Ringraziamenti Le persone che hanno reso possibile la realizzazione di questo elaborato di tesi sono molte e non necessariamente legate alla vera e propria stesura dello stesso; semplicemente è grazie a loro se sono riuscito ad arrivare a questo punto e terminare il mio percorso di studi accademici. Ci tengo a ringraziare particolarmente i professori Arvidsson, Guzzi e Ruotolo per la professionalità, la simpatia e la disponibilità concessami e Brigida Orria per i consigli, le dritte e le correzioni (spero di averne fatto buon uso). Grazie a Mattia ed Ester per avermi fatto vedere cosa vuol dire fare il contadino oggi. Grazie ai miei compagni di studi, senza i quali non sarei mai riuscito a farcela: Andrea Visentin, Simonluca Pastore e Andrea De Luca per le iniezioni di fiducia, le chiacchere, le birre in Colonne, le risate, le cazzate, le cene “benessere” (che di benessere non avevano niente) e quelle vegetariane (che un po’ di benessere invece ce l’avevano). Tiziana Gammarota, Eliana Iacovelli, Federica Bertocco, Silvia Ciavarella e Alessandra Consalvo per i confronti, i discorsi, le risate, gli scazzi, gli incidenti e il dramma di non riuscire mai a vedersi all’orario previsto. Tutti gli altri iscritti al mio stesso corso di laurea: siete stati e siete fantastici! Grazie ai miei coinquilini per avermi dato la serenità necessaria a completare questo lavoro. Grazie a quei pazzi dei miei “Problemici”, per essere sempre stati presenti, per essere sempre in sbattimento e sempre dispersi per la città e per il mondo. Vi voglio bene. Grazie alla mia famiglia per l’amore e la fiducia con cui mi hanno permesso di arrivare fin qui. Nonostante gli sforzi e le difficoltà mi avete dato tutto. Grazie a Matilde per l’amore, la pazienza, la fiducia, i bronci, le tensioni, la leggerezza, la calma, le ricette, i viaggi, le passeggiate…ti amo come non è possibile amare nient’altro.
  • 6. 6
  • 7. 7 Introduzione In certi casi non basta un solo e semplice sguardo a quello che abbiamo davanti agli occhi per capire quale sarà la strada che percorreremo. A volte è necessario guardare anche indietro. A volte anche intorno. L'agricoltura è stata segnata per molti anni dall'impossibilità di vedere quale strada scegliere: sempre in balia di modelli economici da inseguire, sviluppi industriali da soddisfare e benessere cittadino da raggiungere. Come se non bastasse, termini come arretratezza e povertà erano, e ancora oggi permangono in certi casi, in cima alla lista di parole necessarie a descrivere la situazione delle società rurali, delle persone e, in certi casi, anche del paesaggio1 Oggi stiamo assistendo ad un ritorno di interesse per il mondo agricolo da parte dei giovani, dei media e di quelli che ne erano scappati in favore di un mondo veloce, dinamico e cittadino. L'agricoltura non è più così mal vista dai cittadini, anzi, sembra che si stiano invertendo i ruoli. Perché? La domanda non è priva di risposte, anzi: la molteplicità di motivi dietro a questa scelta è vastissima e di certo non basta un elaborato di tesi di laurea magistrale per poterla affrontare come si deve. Motivi di tempo, di tecnica, di capacità e conoscenza limitano il lavoro dietro a questo elaborato ad un discorso sì approfondito, ma solo di qualche livello sotto lo strato più superficiale. Tanto ci sarebbe da dire, tanto da leggere. Ma soprattutto tanto ci sarebbe da guardare con la pazienza di chi non ha fretta. Da gustare con la calma di chi non è teso. «Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l'anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada»2 1 Si pensi al futurismo, che deprecava le campagne in ogni occasione e incitava all’abbandono delle stesse in favore dell’urbanizzazione. 2 Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma, editori Laterza, 1998, p. 13.
  • 8. 8 L'argomento non solo è importante, ma è fondamentale: il settore primario è in subbuglio. Qualcosa sta succedendo. Che cosa è? Come sta cambiando? Come si svilupperà? Vedremo più avanti tutti questi aspetti, di sicuro è già da adesso importante notare come il problema sia da inserirsi in un contesto più generale che ha a che fare con ambiti interdisciplinari, dal momento che insieme all’agricoltura stanno cambiando le persone, la società, l'economia. Tutti questi aspetti che cambiano non possono non influenzare anche il settore primario, trasformandolo, arricchendolo, diversificandolo. E finalmente è un cambiamento che riguarda tutta Italia, Nord e Sud, seppure qualche differenza rimanga ancora. Obiettivo della tesi è cercare di identificare i motivi dietro a questo rinnovato interesse per il settore e cercare di visualizzare quale strada può percorre l'agricoltura per acquistare il prestigio che merita non solo in un'ottica economica, ma anche sociale e culturale. Per far ciò ho cercato di analizzare la realtà agricola e rurale da più punti di vista, nel tentativo di individuare man mano le chiavi necessarie alla comprensione del fenomeno in atto. Nel primo capitolo affronto l'argomento da un punto di vista storico. Il materiale da cui ho attinto è limitato in quanto la difficoltà di reperimento di alcuni testi mi ha parzialmente vincolato. Il lavoro dietro al primo capitolo è dunque articolato su tre testi principali, arricchiti via via da informazioni trovate sul web. In questo capitolo cerco di narrare brevemente i punti salienti della storia dell'agricoltura italiana a partire dall'evento che più ha influito nella ridefinizione in negativo del settore: l'industrializzazione. L'analisi storica si rende necessaria dal momento che molti degli aspetti che stanno oggigiorno caratterizzando il ritorno all'agricoltura sono in realtà di vecchia data e hanno contraddistinto il mondo rurale per diversi secoli, se non addirittura millenni. Cercherò di far risaltare quei fenomeni che appunto sono alla base non solo dei problemi dell'uomo postmoderno, ma che ne rappresentano anche la soluzione: economia del dono e comunità in primo luogo. Altri oggetti dell'analisi storica saranno il rapporto conflittuale che intercorre tra le istituzioni e il mondo rurale e la figura del contadino-operaio.
  • 9. 9 Per quanto riguarda il primo aspetto, vedremo come l'ambito rurale sia stato penalizzato e abbia sempre cercato di fuoriuscire dalle maglie e dai vincoli statali ed extra-statali imposti nell'ottica di rendere l'agricoltura il "motore dell'industrializzazione" di stampo anglosassone. Questo atteggiamento è particolarmente importante in quanto rappresenta ancora oggi un "filone di pensiero" di diversi agricoltori e di diversi commentatori. Per quanto riguarda il contadino-operaio, invece, vedremo come questo abbia rappresentato un modo tutto italiano di affrontare l'industrializzazione. Questa figura rappresenta in maniera perfetta quanto l'attaccamento alla terra sia stato importante per gli agricoltori italiani, tanto da non riuscire a rinunciarvi praticamente mai, andandosi a configurare quasi come una forma di "ribellione civile" al tentativo di strappare l'uomo dalla terra per farne un cittadino. Questa specifica tipologia è ancora in auge, anche se la sua presenza si è notevolmente ridimensionata. Il secondo capitolo invece sarà contraddistinto da un'analisi più economico-statistica della realtà agricola nel passaggio dagli anni '80 del Novecento ad oggi e oltre. In questo capitolo, nello specifico, cercherò di evidenziare quali mutamenti sono in atto nella composizione delle aziende, nella tipologia delle stesse e delle persone che vi lavorano. Anche qui cercherò di far venire a galla dei concetti che rappresentano il motore della neo- ruralità. In primo luogo il fenomeno della de-urbanizzazione, che ha portato ad un vero e proprio "contro-esodo" dalle città alle campagne (e al mare e alle montagne), per quanto il fenomeno sia parzialmente oscurato dalla forte immigrazione di persone provenienti dai Paesi più colpiti da povertà e guerre. Oltre a ciò cercherò di evidenziare gli sviluppi del settore agricolo, primo fra tutti quello relativo all'aumento della concentrazione di terreni. Una caratteristica che ha sempre contraddistinto l'Italia dal resto d'Europa è stato appunto "l'arcipelago di minifondi" in cui era suddivisa la terra. Questo comportava un'enorme impoverimento delle terre, che nella maggior parte dei casi andavano (e molte ancora lo fanno) ad aumentare il divario tra superficie coltivabile e superficie coltivata. Oggi questo divario esiste ancora, ed anzi è forse più accentuato che in passato, a causa dei proprietari che non vogliono disfarsi dei possedimenti ma allo stesso tempo non vogliono sfruttarli per fini agricoli. Vedremo però come siano in atto dei tentativi di accorpamento dei terreni e come questo sia portatore di benefici non solo per l'azienda, ma anche per la comunità. Altri aspetti che cercherò di evidenziare nel corso di questo capitolo riguardano le potenzialità offerte dalla specializzazione dell'agricoltura - fenomeno che sta ottenendo sempre più
  • 10. 10 successo e che rappresenta una delle soluzioni italiane alla produttività dell'agricoltura nel nostro Paese - e le due principali difficoltà che caratterizzano l'agricoltura italiana: l'arretratezza economica e la carenza dei giovani attivi. Questi due problemi vanno a braccetto e cercherò, per quanto possibile, di eviscerarne le caratteristiche, i motivi e le possibili risoluzioni, in vista del forte incremento di occupazione nel settore registrato nel I trimestre del 2015. Infine verrà dato uno sguardo d'insieme alle politiche messe in atto dall'Europa per favorire lo sviluppo delle aree rurali e come queste possano positivamente influire nella definizione di tali politiche. Il terzo capitolo è affrontato da un punto di vista sociologico. Il perno saranno gli sconvolgimenti che l'industrializzazione e il conseguente allontanamento dalla terra e forme di società rurali ha causato nell'uomo, trasformandolo in un uomo "liquido", senza legami sia in termini locali che affettivi. Cercherò di far risaltare come le ansie derivate da questo processo siano una delle fonti del riavvicinamento dell'uomo a forme sociali andate perdute nel corso degli ultimi due secoli. Cercherò inoltre di dare una definizione di postmodernità: intendendola come fase di passaggio e non punto di arrivo, il tentativo di analisi verterà sulle caratteristiche di tale epoca storica. Una di queste è appunto il mondo del lavoro, trasformatosi da garanzia a fonte di infinite preoccupazioni. In particolare cercherò di fare il punto sul concetto di collaborazione, evidenziando come esso sia particolarmente necessario per garantire una vita dignitosa, sia nella sfera personale che in quella lavorativa. Questo concetto tornerà poi in discussione nel capitolo successivo dove cercherò di approfondire le nuove tipologie lavorative basate sulla collaborazione. La parte finale del terzo capitolo sarà tesa invece all'analisi storica del capitalismo. Evidenziandone i cicli che lo contraddistinguono, seguendo in questo il lavoro di Arrighi, vorrei cercare di mettere in luce come, appunto, il periodo storico in cui viviamo sia sostanzialmente giunto a un punto di non ritorno e come sia oggi necessario un cambiamento di rotta, necessario anche in quanto la crisi economica con cui ancora stiamo facendo i conti ha messo in ginocchio definitivamente le poche certezze rimaste, andando ad acuire i fenomeni tipici della postmodernità e portandoli alle estreme conseguenze. Il quarto capitolo può essere considerato il "cuore" di questo lavoro. In esso cerco di tracciare il percorso che l'agricoltura sta, faticosamente, intraprendendo per riuscire a diventare davvero quel "volano" dell'economia che in tanti si auspicano possa essere. Per prima cosa partirò da un'analisi della crescita di una cultura che poco ha a che fare con il mondo agricolo: la cultura
  • 11. 11 hacker. Questo in funzione del fatto che, nell'ottica di ridefinizione del settore agricolo, questa particolare cultura può giocare un ruolo di primo piano, sia dal punto di vista teorico, in quanto molti aspetti si basano proprio sui principi di collaborazione e di comunità, sia dal punto di vista applicativo che, come vedremo, sta ottenendo consensi anche in ambito politico. Le scelte e gli strumenti messi in gioco dall'Unione Europea per favorire la rinascita dell'agricoltura vertono proprio nel voler accrescere la presenza dell'ICT nel mondo rurale, con risvolti che potrebbero essere positivi sia per il comparto produttivo che per quello sociale. L'ICT in generale, come cercherò di dimostrare, è foriero di diverse innovazioni "dal basso", grazie alla possibilità di mettere in relazione le persone in quanto tali, prima di tutto, e in secondo luogo i produttori e i consumatori, in un'ottica di disintermediazione, che può portare ad un maggior coinvolgimento nelle attività produttive e nelle attività rurali in generale. Successivamente verterò l'attenzione all'analisi dei nuovi modelli economici basati sul downshifting. Vivere più lentamente diventa il nuovo paradigma per uscire dalla crisi economica e sociale che stiamo attraversando. L'entrata in gioco sulla scena internazionale di nuovi attori economici ha portato necessariamente a chiedersi se il modello di sviluppo applicato fino ad oggi sia corretto e se sia possibile definire nuove modalità. In quest'ottica "ripensare il Sud", sia in termini italiani che internazionali, potrebbe essere un vantaggio non indifferente nella definizione di tale modello, che vede messi in primo piano quei concetti, sviluppati nei precedenti capitoli, che erano andati perduti nel corso degli ultimi secoli. Rimettere l'uomo al centro, creare un nuovo umanesimo dovrebbe essere la priorità per poter garantire una vita dignitosa. In quest'ottica l'agricoltura potrebbe dunque rappresentare la chiave necessaria a far sì che questo possa avvenire, in quanto i suoi ritmi esulano da quelli cittadini, che si sono imposti come dominanti. Da questo punto di vista dunque la decrescita rappresenta forse il miglior esempio perseguibile, per quanto criticabile. La rivalutazione generale di ciò che è sempre stato definito "arretrato", se coniugato con quanto esiste invece di "moderno" potrebbe dunque rappresentare il definitivo superamento di pregiudizi e preconcetti sul vivere sociale e sul mondo rurale. La parte finale del capitolo sarà tesa all'analisi di questa riconcettualizzazione che vede negli Alternative Food Networks la massima espressione. Cercherò di mostrare cosa essi siano, cosa rappresentano e come potrebbero giovare alla produzione agricola e ai consumatori, evidenziandone le caratteristiche salienti e le varie forme che si sono sviluppate per ora, essendo il fenomeno ancora particolarmente nuovo. Infine cercherò di evidenziare i tratti salienti di questi metodi dell'agricoltura che, anche attraverso l'apporto della Carta di Milano, sta tentando di ricollocarsi in una varietà di ambiti
  • 12. 12 che non coprono solo ed esclusivamente l'agricoltura tout-court ma anche, e soprattutto, ambiti legati ai servizi alle persone. L'ultimo capitolo sarà invece un veloce excursus su Rural Hub, un'azienda agricola innovativa con sede a Calvanico, in provincia di Salerno. Chiamarla "azienda agricola" è particolarmente riduttivo, ma rimando al capitolo stesso per un'analisi più approfondita del caso, in cui si cercherà di mostrare come esso sia la summa di tutto ciò che ho cercato di riassumere in queste brevi pagine di introduzione. Nello specifico ne analizzerò le peculiarità a partire dal Manifesto redatto nel 2014 grazie al contributo del team multiculturale e multidisciplinare che sta dietro a questa startup (un altro sinonimo riduttivo per definire Rural Hub), mettendo in evidenza quelle caratteristiche che ho affrontato nel testo.
  • 13. 13 Dall’Unità al Boom!3 Partire da un’analisi storica dell’agricoltura italiana è d’obbligo ai fini di una ricerca che vuole andare ad indagare i motivi dietro all’accresciuto interesse per il settore agricolo e a comprenderne gli sviluppi futuri. Sicuramente a questo fine la storia dell’agricoltura andrebbe analizzata nella sua totalità, a partire dal mondo primitivo, per ricercare in profondità le motivazioni nascoste dietro alcuni processi, sia di produzione che di comunità. Non è questa la sede, purtroppo, per un discorso così approfondito ma, per carpire tutte le sfaccettature nascoste di un’attività fondamentale e fondante della nostra società e per capirne gli sviluppi futuri, partire da “l’inizio della fine” è sicuramente un buon proposito. La rivoluzione industriale (che a grandi linee coincise in Italia con l’unificazione) è il momento storico con cui si identifica una svolta nell’agire umano. L’industrializzazione coincise con l’abbandono delle campagne ed anzi, fu il motore principale che scatenò l’esodo verso le città. Vero e proprio punto di svolta, l’industrializzazione e gli sforzi tesi a realizzarla furono portatori di enormi sconvolgimenti, a livello sociale prima di tutto. Questi sconvolgimenti sociali hanno radici profonde e ben radicate nella terra e nel lavoro agricolo, in quanto il processo industriale ha comportato «il sistematico smantellamento delle residue economie caratterizzate principalmente dalla produzione di valori d'uso e dalla sopravvivenza di forme di scambio non esclusivamente mercantili, in cui il dono e la reciprocità avevano ancora un ruolo significativo»4 . Un processo che è andato acuendosi sempre più, fino a portare alle estreme conseguenze di standardizzazione, individualismo, difficoltà relazionali, paure, insicurezze… Ma andiamo con ordine. 3 Tutti i dati presenti in questo capitolo, salvo diversa indicazione, sono tratti da C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980. 4 M. Pallante, Ricchezza ecologica, Manifestolibri srl, Roma, 2009, p.21.
  • 14. 14 1.1 Il sogno dell’industrializzazione Verso la metà dell’Ottocento l’Italia era, per chiunque si occupasse di economia pubblica, un aggregato di deboli strutture economiche agricole ed artigiane. In un quadro di sempre maggiore internazionalizzazione, l’Inghilterra liberale, liberista ed economicamente avanzata veniva vista come l’esempio da seguire, macinando consensi nelle classi dirigenti europee. Nella nostra piccola realtà italiana si faceva strada l’idea e la convinzione che il congiungimento in un unico Stato avrebbe potuto rappresentare la soluzione necessaria per poter avviare uno sviluppo basato proprio sull’esempio britannico. Libertà di commercio, unificazione delle leggi e degli ordinamenti erano ciò che più faceva gola alla classe dirigente. Il problema era come riuscire ad avvicinarsi agli standard produttivi inglesi, dal momento che ancora mancava una struttura imprenditoriale degna di questo nome e la quasi totalità della forza lavoro era concentrata in agricoltura. Il primo censimento della popolazione, eseguito sul finire del 1861, indicò infatti come la quota di addetti all’agricoltura in Italia fosse intorno al 70% della popolazione lavorativa. Sembrava dunque già scontato che fosse questo spazio rurale a dover tracciare la strada per quell’industrializzazione tanto agognata. Quello spazio rurale abitato dai tre quarti della popolazione attiva e da cui uscivano almeno i due terzi della produzione commerciale rappresentava dunque la chiave di volta dell’economia nazionale al momento dell’Unità. Attorno all’agricoltura avrebbero dunque dovuto via via crescere commerci e manifatture lungo vie di traffico sempre più efficienti e diffuse. I problemi, purtroppo, erano parecchi, primo fra tutti il rapporto tra superficie agricola totale (S.A.T.) e superficie agricola utilizzata (S.A.U.): sui 26 milioni di ettari della superficie agricola totale, non più di due milioni erano organizzati in imprese in cui fosse in atto una crescita tecnologica e produttiva: meno dell’8% del totale. Oltre a questo, le necessità dell’autoconsumo, l’impossibilità economica di procedere a trasformazioni colturali, la mancanza di conoscenze tecniche diffuse, rendevano l’agricoltura italiana degli anni settanta dell’Ottocento una attività particolarmente arretrata e di sussistenza. In sostanza, come fa notare tale situazione non corrispondeva alle speranze ed alle esigenze di crescita complessiva dell’economia: l’Italia post-unitaria era composta, da un lato, da attività agricole prevalentemente precapitalistiche e spesso di pura sussistenza e, dall’altro, da poche industrie che potessero aspirare ad essere competitive sul piano internazionale e che comunque non sempre potevano contare su un florido mercato interno. Ad eccezione del Piemonte, forte
  • 15. 15 dell’attenzione riservatagli da Cavour, il resto d’Italia era dunque un classico esempio di arretratezza economica5 . Nonostante ciò6 l’agricoltura italiana riusciva comunque a fruttare al commercio estero del regno il 55% delle sue esportazioni. Si configurava già allora con evidenza un problema che anche i giovani neo rurali di oggi, e gli agricoltori in generale, avvertono: l’abbandono istituzionale. Mentre oggi, seppur con difficoltà, si provano a sviluppare sistemi alternativi scevri della presenza statale, subito dopo l’unificazione era chiaro come questa situazione di lontananza delle istituzioni fosse avvertito come problema principale. Una scarsa attenzione verso il piccolo agricoltore e al settore in generale, quello costituito dalla vastità di piccole aziende in possesso di piccoli e piccolissimi appezzamenti di terreno, non certo quello dei grandi proprietari terrieri che addirittura si videro consolidare i propri privilegi, insieme a quelli degli «improduttivi latifondisti»7 . Questo è stato infatti più volte considerato il motivo del ritardo nei tentativi con cui l’Italia cercò di mettersi al passo con l’industrializzazione del resto d’Europa. «La mancanza di dinamismo dell’agricoltura, si è sostenuto, si tradusse in bassi livelli di accumulazione del capitale con conseguenti scarsi livelli di dinamismo industriale»8 . Sono in molti gli storici e i commentatori che affermano, o hanno affermato, come l’inefficienza dell’agricoltura italiana, dominata in vaste aree da proprietari assenteisti, rappresentava un peso morto per l’economia, con il risultato che un’alta percentuale della popolazione produceva a malapena il necessario per la propria sopravvivenza, dedicandosi quindi quasi esclusivamente a pratiche di auto-consumo e sussistenza. Come afferma Paul Corner: «Per Emilio Sereni, gran parte dell’agricoltura italiana era “una palla di piombo al piede del capitalismo italiano”: anche Pietro Grifone sostiene che il perdurare di una larga fascia di strutture agricole legate alla sussistenza costituì una delle tare d’origine dello Stato italiano 5 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980, p.75. 6 «E nonostante la coltivazione della terra fosse retta quasi esclusivamente da zappa, falcetto e aratro in legno». Ibidem. 7 Ibidem, p.83. Vedremo più avanti come la lentezza dello sviluppo agricolo sia dovuta alle difficoltà dello Stato di investire risorse in tale settore. Risorse che potevano andare in qualsiasi direzione desiderata: dall’istruzione e formazione, agli apporti strettamente legati a forme di aiuti economici. Invece le politiche agricole hanno tendenzialmente preferito la strada della calmierizzazione dei prezzi e delle strette doganali, che hanno provocato non pochi problemi economici. 8 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992.
  • 16. 16 moderno. E’ facile arguire come dietro tali osservazioni fosse sempre presente il modello britannico; il presupposto implicito era che la rivoluzione industriale si dovesse basare sulla rivoluzione agricola e che il tentativo di affrontare la prima senza la seconda si risolvesse in una partenza irrimediabilmente perdente»9 . Nell’ultimo decennio del secolo XIX la situazione era già particolarmente grave. Dall’idealizzazione iniziale dell’agricoltura, quando cioè la si considerava foriera dello sviluppo economico nazionale, si passò ad una presa di coscienza in senso opposto: il settore agricolo era evidentemente non soltanto incapace di fornire l’eccedente necessario alla popolazione urbana, ma non sembrava neppure più in grado di sostenere la vita e la riproduzione dei suoi stessi addetti. La situazione che si venne a configurare sfociò presto in una crisi agraria, che vedeva contrapposte due forze: da una parte, i contadini declassati, affamati e sottoccupati, ammassati nelle campagne; dall’altra i grandi (e spesso improduttivi) proprietari terrieri, arroccati nella sicurezza datagli da una sorta di “paternalismo proprietario”, come viene chiamato da Corner l’interesse esclusivo di cui questi proprietari godevano da parte dello Stato. La crisi avviò presto un clima di tensione che vide la nascita di scioperi e forme di “organizzazione di resistenza agraria” dovunque, innescando di conseguenza situazioni non controllabili non solo da parte dello Stato. La progressione di questi scioperi infatti pose tutta la possidenza agraria di fronte a problemi di gestione sociale ed economica inediti e che non sapevano assolutamente come gestire. Gli scioperi agrari si moltiplicavano nonostante gli arresti, le diffide e i continui interventi dell’esercito, inoltre le astensioni dal lavoro e le agitazioni si concentravano proprio nelle zone dove produttività e trasformazioni agronomiche erano più elevate: la valle padana, la bassa emiliana e la Puglia10 . Al Nord Italia il clima minaccioso scaturito dalle spinte salariali e dalle rivendicazioni bracciantili, che proseguivano nonostante l’intervento delle forze dell’ordine, costringevano i possidenti ad un trasformismo agrario in cui dovevano impegnare capacità imprenditoriali e capitali. Al Sud invece i possidenti assistevano impotenti a quella forma di sciopero passivo rappresentato dall’avvio di una emigrazione di massa. 9 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p. 9. 10 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
  • 17. 17 Le risposte di Nord e Sud Italia a questi fenomeni furono dunque, necessariamente, diverse e, insieme, convergenti e divergenti. Convergevano infatti nell’opporsi ad ogni mutamento delle condizioni economiche e normative dei contadini, mentre divergevano nei modi economici da mettere in opera per ricostruire i margini di rendita e di profitto erosi insieme dai costi salariali e dall’andamento sfavorevole dei prezzi. Nel Nord infatti prevalse la scelta di un incremento della produttività attraverso gli investimenti; mentre al Sud si consolidò la scelta di una riduzione dei costi attraverso il ritorno al pascolo brado a scapito delle colture. Tuttavia circostanze diverse concorsero alla risoluzione della vicenda: il raddrizzamento della congiuntura economica internazionale e la pressione delle vicende sociali e politiche interne portarono, alla fine del secolo, non soltanto i valori fondiari italiani a cessare la loro caduta e ad iniziarne la risalita, ma ad offrire sbocchi crescenti alle produzioni agricole ed agricolo manifatturiere, sia nel mercato interno che internazionale. Inoltre, grazie anche al governo giolittiano, il periodo che dal 1896/97 si svolse fino alla vigilia della Prima Guerra Mondiale fu contrassegnato da imponenti trasformazioni agrarie che avrebbero dato ad una parte delle campagne italiane un aspetto ed un assetto più moderni, funzionali alla crescita che in quegli anni avveniva in tutta l’attrezzatura economica nazionale. Fra il 1890 e il 1900 l’agricoltura italiana assumeva, nelle sue linee di fondo, i caratteri che l’avrebbero contraddistinta fino ai giorni nostri. O, quantomeno, veniva a collocarsi nella traiettoria in cui alcune scelte tecniche, produttive ed organizzative, sarebbero divenute mature e praticamente irreversibili.
  • 18. 18 1.2 Contadino o operaio? Uno degli aspetti più importanti che venne creandosi sul finire del XIX secolo è rappresentato da quella figura professionale che contraddistingue una modalità tutta italiana di affrontare l’industrializzazione: «La separazione di una forza lavoro agricola dalla terra costituisce uno dei concetti cardinali del modello “classico” dell’industrializzazione. Secondo questo modello, per industrializzarsi, una nazione deve sperimentare la “liberazione” di manodopera dall'agricoltura, con conseguente urbanizzazione e proletarizzazione. Ma l'applicazione di questo concetto (palesemente basato sull'esperienza britannica) al caso italiano è soggetta ad alcune riserve»11 . In Italia infatti emerse un tipo di lavoratore particolare, il contadino-operaio, la cui principale caratteristica era un tenace rifiuto di esser liberato dalla terra. Questa figura rappresenta una sorta di modello di sviluppo specificamente italiano che, con forme e modalità diverse, ha mantenuto un ruolo particolarmente importante nella realtà agricola italiana, tanto da essere oggi tornato in auge presso le nuove generazioni di agricoltori (e non solo). Questa nuova figura emerse nel momento in cui le famiglie contadine furono sempre più coinvolte nell’attività manifatturiera. Le donne contadine incominciarono a recarsi alle manifatture della seta mentre i loro uomini rimanevano a lavorare le terre. Inizialmente si trattò di una necessità di sopravvivenza: la povertà opprimente imposta dai contratti di mezzadria veniva alleviata attraverso il lavoro in fabbrica e, soprattutto, molti contadini poterono evitare di essere espulsi dalle campagne. Questa situazione si sovverte nel momento in cui gli imprenditori iniziarono a investire nelle regioni rurali e a lasciare le città. Data la diffusa povertà e l’eccesso di popolazione in rapporto alle necessità agricole, «le campagne costituivano un enorme serbatoio di manodopera, formato da gente alla disperata ricerca di un lavoro, e ch'era pronta a impegnarsi per gran parte dell'anno»12 . 11 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.77. Come vedremo, questo ha delle implicazioni tuttora, in quanto il tentativo di esportare un modello produttivo di tipo industriale al resto del mondo si sta rivelando fallimentare, e questo sta portando alla definizione di nuove forme economiche. Il problema dell’Italia, da questo punto di vista, è stato il dover affrontare questo processo di industrializzazione in una fase storica in cui il nostro Paese non era ancora maturo per essa. Oggi però questa situazione può giocare a nostro vantaggio nella definizione di una “nuova economia rurale” applicabile anche al resto del mondo. 12 Ibidem, p.82.
  • 19. 19 In questa prima fase del contratto tra le famiglie contadine e l'industria diffusa, la possibilità di realizzare guadagni al di fuori dell'agricoltura rappresentò la chiave della sopravvivenza sulla terra, e della riproduzione della famiglia. Trovar lavoro in un qualche tipo di attività manifatturiera era l'unica alternativa all'emigrazione stagionale, cosa che imponeva l’abbandono delle campagne da parte degli uomini, «i quali si trasferivano per brevi periodi in Svizzera o in Francia per lavorarvi come braccianti o muratori, o cercavano una occupazione stagionale nei cantieri edili di Milano, lasciando le donne a badare alla terra»13 . All’inizio del nuovo secolo la situazione si fece diversa: le famiglie contadine furono in grado di acquistare sempre più terra, anche se di solito si trattò di piccoli appezzamenti, ma continuarono a dividersi fra il lavoro agricolo e quello extra-agricolo, alcuni familiari dedicandosi al primo, altri al secondo. La sopravvivenza e la riproduzione della famiglia contadina erano dunque in buona parte dovute agli introiti non-agricoli. Ma, seppur cruciale ai fini della sopravvivenza, il lavoro manifatturiero continuava ad occupare, all'interno dell'economia familiare, un posto subordinato rispetto al lavoro agricolo. Inoltre, pare che il lavoro in fabbrica non mise in pericolo neanche i modelli d'autorità tradizionali, e non minacciò l'esistenza della famiglia contadina ma anzi, andò a rinforzarli: i salari industriali permisero dunque la sopravvivenza e il consolidamento della famiglia contadina secondo le linee tradizionali, dando poi a queste la possibilità di comprare i piccoli appezzamenti di cui sopra. Ciò che colpisce è non solo la lenta evoluzione di un particolare tipo di forza lavoro rural- industriale, con caratteristiche molto diverse da quelle del proletariato di Manchester o Birmingham nel XIX secolo, ma soprattutto il fatto che tale forza lavoro fece tutto quanto era possibile per evitare lo stesso destino, mantenendo stretti i legami con la terra, anche nel momento in cui la terra non costituiva più la prima fonte dell’economia familiare. Queste caratteristiche tipiche portano Corner ad affermare che l’industrializzazione italiana non fu così forzata e artificiale come si sarebbe supposto dalle premesse con cui è partita. Questo è dettato dal fatto che l’attività economica non fu generata dallo Stato italiano ma che, anzi, essa era già avviata da tempo grazie ad un «processo di ampio respiro [che] aveva già incrementato notevolmente la produzione agricola, favorendo la creazione di importanti legami commerciali con il resto dell’Europa, la nascita di una classe commerciale e imprenditoriale e la realizzazione di alti livelli di accumulazione»14 . Secondo Corner, in particolare, questi 13 Ibidem. 14 Ibidem, p.90
  • 20. 20 sviluppi sono da considerarsi spontanei e diedero l’avvio alla costituzione di una base non solo economica, ma anche culturale e sociale, necessaria alla crescita successiva.
  • 21. 21 1.3 Verso la Grande Guerra L'agricoltura alla vigilia della Prima Guerra Mondiale appariva dunque definita e collocata in un suo spazio economico ormai delimitato. Il suo cammino, per quanto distorto da politiche tariffarie aggressive e da una serie di preferenze “industrialiste” - che erano ormai parte costitutiva e condizione per l'inserimento dell'Italia nella dimensione europea delle nazioni industrializzate - era segnato. Fino al 1914, come testimonia Federico, l’agricoltura fu lasciata sostanzialmente a se stessa, ad eccezione per le politiche doganali15 e questo ebbe degli effetti particolarmente positivi per quanto riguarda la produttività. Il valore lordo della produzione agricola fra il 1871-75 e il 1911-15, infatti, passò da 5,8 a 8 miliardi di vecchie lire, con un aumento del 38%. Un risultato sicuramente importante, ma purtroppo parzialmente oscurato dal successo delle attività industriali, il cui valore crebbe nello stesso periodo del 158%, facendo passare la quota dell'agricoltura sulla formazione del reddito nazionale dal 58 al 42 per cento16 . Si trattava indubbiamente di un'agricoltura ben diversa da quella degli anni settanta dell’Ottocento, quando essa era parsa la struttura portante dell'Italia riunificata nonché il “volano” dell’economia e dell’industrializzazione. Spenti i sentimenti patriottici (e forse un po’ ipocriti) che animavano il dibattito sul ruolo dell’agricoltura, alla vigilia della Grande Guerra essa mostrava infatti immediatamente, nonostante i progressi conseguiti, i suoi limiti e le sue deficienze: troppo debole nelle strutture e negli apparati per pretendere un ruolo dirigente, rivelava proprio nei processi di ammodernamento ristretti ed esitanti, la sua incapacità anche soltanto di tenere il passo con la crescita dell’insieme della società nazionale. Segno inequivocabile di questa lentezza era l’andamento dell’interscambio con il resto del mondo. Nel periodo che intercorre tra il 1870 e il 1875, infatti, su un'esportazione di merci pari a poco più di un miliardo di lire, la metà era rappresentata da prodotti dell'agricoltura. Neanche cinquant'anni dopo i prodotti della terra e degli allevamenti contribuivano invece al valore totale delle esportazioni per meno del 30 per cento. Inoltre, se nei primi anni settanta l'interscambio agricolo (anche escludendo la seta) risultava seppur di poco attivo, nel 1909-13 era divenuto passivo per circa 250 milioni (un quinto del deficit complessivo): da fattore di equilibrio, l'agricoltura diveniva componente di rilievo del crescente squilibrio dei conti con 15 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.116. 16 Ibidem.
  • 22. 22 l'estero17 . Inoltre, ma questo è possibile affermarlo solo oggi, la situazione rendeva evidenti anche le difficoltà di gestione di un sistema rurale che rimaneva praticamente sconosciuto. Nonostante questo però, non si deve necessariamente pensare ad un fallimento del settore. Pur con tutte le difficoltà del caso, iniziarono a emergere anche nel settore agricolo gruppi imprenditoriali tecnicamente preparati che, di fatto, stavano sperimentando altre vie di aggregazione con caratteristiche particolari. Espressione vistosa di queste tipologie di aggregazione fu la nascita e lo sviluppo dei Consorzi agrari, delle associazioni padronali e di alcuni consorzi di bonifica. Questi si caratterizzarono principalmente quali strumenti dell'attivismo innovatore di un capitalismo agrario vagamente liberale. I loro compiti non si limitavano alla diffusione di moderne tecniche ed efficaci strumenti agronomici, ma investivano scelte politiche settoriali, assumendosi la rappresentanza degli interessi agricoli nella loro globalità. Chiunque puntasse ad una riqualificazione dell'agricoltura nel contesto dello sviluppo economico di quel periodo era schierato tra le fila di queste associazioni. Ma nonostante gli sforzi le difficoltà ad agire risultavano enormi, tanto che la loro attività non riuscì a coagulare istanze e forze politico-economiche tali da allargare un'area di consenso nello stesso mondo rurale. Un mondo rurale che ancora non riusciva a dimostrarsi coeso. Queste associazioni si trovarono infatti in mezzo alle asprezze, esistenti ormai da diversi anni, tra la maggioranza dei proprietari agricoli, da un lato, e dei piccoli contadini tagliati fuori dalle possibilità di sviluppo, dall'altro. Di certo queste associazioni ebbero l’indiscusso merito di caratterizzarsi come realtà economica non indifferente, e di favorire particolarmente lo sviluppo del settore. Come testimonia Daneo, infatti: «Se non riuscivano ad essere una forza politica di rilievo, i Consorzi agrari e la loro Federazione erano diventati in breve tempo una forza economica non trascurabile: basti ricordare che nel 1910-13 la Federazione dei consorzi agrari distribuiva quasi la metà dei concimi chimici e degli antiparassitari, un terzo delle macchine agricole, quote notevoli di sementi e mangimi, oltre a procurare finanziamenti ai soci in stretta collaborazione con le Banche Popolari»18 . Anche Federico sottolinea l’importanza di queste associazioni, evidenziando in particolare proprio l’apporto economico alla società: 17 Ibidem. 18 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980, p.98.
  • 23. 23 «Le cooperative sono associazioni permanenti di agricoltori, con lo scopo di svolgere collettivamente compiti come l’acquisto e la gestione di input industriali, la lavorazione, l’imballaggio e la vendita di prodotti, la raccolta di depositi bancari, la concessione di crediti ecc. [...] Le prime cooperative nel senso moderno del termine furono create nel XIX secolo. [...] Per comprendere la differenza nella diffusione delle cooperative è opportuno considerarne vantaggi e svantaggi dal punto di vista del singolo agricoltore. Lo svantaggio consiste nella perdita di autonomia che l’adesione a una cooperativa comporta. Il principale vantaggio consiste nella possibilità di sfruttare le economie di scala»19 . Nonostante la loro creazione nel corso del XIX però, il loro processo di affermazione, per quanto rapido, ha dovuto aspettare l’inizio del XIX secolo per trovare una dimensione valida in cui svilupparsi. L’accresciuto interesse degli agricoltori per le nuove tecniche favorì in questo senso il diffondersi di queste realtà. Non va però scordato che il discorso in questione è quasi principalmente esclusiva del Nord Italia. Un discorso diverso va invece fatto per il Mezzogiorno, non solo per la mancanza di un processo di industrializzazione che offrisse alternative (reali o presunte) alla scarsa occupazione in agricoltura, ma anche, e soprattutto, per la carenza o la totale assenza di trasformazioni agrarie. Anno dopo anno i contadini poveri o senza terra si addensavano ai margini del latifondo, in concorrenza fra loro, privi di potere contrattuale, mancanti di quelle sollecitazioni culturali e politiche che i processi di sviluppo e le lotte sociali avevano innescato nel Nord. Camillo Daneo, cita, parlando del meridione, un’inchiesta parlamentare condotta nel 1911-12 dal senatore Faina, il quale affermò: «Nel moto di tutte le classi sociali per la conquista di un miglioramento economico, al contadino non si presentavano che tre vie: o rassegnarsi alla sua miseria, o ribellarsi, o emigrare. Preferì emigrare»20 . Va fatto presente che questa emigrazione (che non coinvolse le Puglie) però contribuì a riversare nelle Casse Postali delle famiglie del Mezzogiorno circa 500 milioni di lire intorno al 1910-13. Un cifra ancor più considerevole se confrontata con l’ammontare dell’esportazione agricola meridionale che, nel 1913, non raggiunse i 400 milioni di lire21 . 19 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, pp.109-111. 20 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980, p.105. 21 Ibidem.
  • 24. 24 Ormai, alle soglie della Grande Guerra, pur con tutti gli squilibri, le contraddizioni e i ritardi del caso, l'agricoltura italiana era fondamentalmente integrata in un'economia monetaria in sviluppo, subendone tutte le oscillazioni congiunturali. Ma si trattava pur sempre di un'agricoltura che era ben lungi dal rendersi tecnicamente e socialmente omogenea a quella degli altri Paesi europei centro-settentrionali, nei confronti dei quali vedeva crescere un distacco e un indebolimento importante, di cui si sarebbero viste le conseguenze negative nell'immediato dopoguerra.
  • 25. 25 1.4 Tra le due Guerre La Grande Guerra fu fatta e sopportata dai contadini. Ma nonostante questo la produzione agricola fra il 1909/13 e il 1915/18 subì una contrazione limitata. Alla fine della guerra il tessuto agrario italiano non si presentava tecnicamente ed agronomicamente sconvolto, anzi, nel 1919/20 poteva essere registrato uno stato soddisfacente della produttività granaria e lattifera, ed anche le produzioni legnose agrarie (vite, olivo, frutteti) avevano risentito in misura trascurabile della congiuntura bellica22 . Gli sconvolgimenti, e gravi, furono d'altra natura. L'agricoltura fu colpita da una crisi strutturale profonda che riguardava gli uomini, i gruppi, le classi sociali ed i loro reciproci rapporti. Come cita Daneo: «Soprattutto già nel corso della guerra - a citare Arrigo Serpieri - “per mantenere ferma la resistenza, per mantenere alto lo spirito dei combattenti e della popolazione nell'interno del Paese, la classe dirigente... ritenne opportuno ricorrere sempre più largamente a promesse di larghi compensi agli attuali sacrifici... Per quanto riguarda le classi lavoratrici rurali ebbe soprattutto, fin dai primi anni, larghissima diffusione ed appoggio la formula "la terra ai contadini". E Serpieri, scrivendo ormai in pieno regime fascista, si affrettava a commentare: «è del pari evidente che - diffuse con la formula vaga e allettatrice "la terra ai contadini" - mentre ancora si combatteva e mentre già nelle classi rurali si diffondevano sentimenti di ostilità e di odio contro la borghesia - quelle idee dovevano necessariamente fomentare in impulsi e aspirazioni e pretese pericolosissime all'ordine sociale e nazionale»23 . I contadini, insomma, avrebbero presentato il conto alla fine della guerra: “la terra ai contadini” era stata la formulata usata per motivare i contadini arruolati durante la guerra ed ora era giunta l’ora di riscattarla. Ma la terra era troppo frammentata per sorreggere le famiglie multiple, e i salari pagati nelle occupazioni manifatturiere alternative erano troppo alti per non condizionare le scelte. La pluriattività che era stata nel XIX secolo una necessità, dal 1920-30, diventò un comportamento acquisito e consolidato. Tanto che, forti delle esperienze maturate, alcune famiglie diedero il via ad una piccola attività economica familiare, sfruttando quelle abilità tecniche che avevano 22 Ibidem. 23 Ibidem, p.110
  • 26. 26 imparato nel periodo in cui frequentavano le manifatture rurali. Le famiglie dunque continuavano a resistere alla tentazione di abbandonare la terra e di trasferirsi definitivamente in città, mantenendo vivo il modello operaio-contadino. Va detto però che negli anni venti le famiglie a base rurale godevano di vantaggi economici considerevoli rispetto alle famiglie urbane: tra questi vantaggi c’era il possesso o l'uso della casa, di solito ampia, e in grado di ospitare la famiglia multipla. Se erano in affitto, le famiglie pagavano poco, perché i canoni per le case rurali rimanevano bassi, e la clausola contrattuale che imponeva canoni molto più elevati a coloro che vivevano nella casa colonica ma non lavoravano nell'agricoltura era in effetti inapplicabile. Questo perché tutti, in momenti diversi, davano una mano nella cura della terra o degli animali. Inoltre, il podere annesso alla casa, per quanto piccolo, era anch'esso chiaramente un vantaggio, in quanto soddisfaceva bisogni elementari della famiglia24 . Ma non ci volle molto perché serpeggiassero accuse da più parti rivolte all’arricchimento degli agricoltori in quanto detentori di un provvisorio monopolio dei prodotti alimentari i cui prezzi erano costantemente cresciuti nel corso della guerra. Di fatto questa accusa divenne presto un argomento usuale e quasi popolare. Agli occhi dei cittadini il fatto che i produttori di generi alimentari si fossero arricchiti dalla situazione in atto sembrava la cosa più ovvia, e in effetti non avevano tutti i torti. Va fatta presente però la distinzione esistente fra i diversi strati sociali e anche fra le diverse zone rurali. Chi veramente aveva approfittato dell’alta congiuntura dei prezzi agrari aveva tutto l’interesse a negare il fenomeno in blocco, appellandosi a una sorta di omertà rurale, o a riversare tutta la colpa su dei non ben definiti “contadini arricchiti”. E se è pur vero che i prezzi dei prodotti venduti dagli agricoltori aumentarono, tra il 1914 e il 1919, di 3,9 volte, quelli dei prodotti venduti dagli industriali agli agricoltori (macchine, attrezzi e concimi) erano aumentati di 4,6 volte. In sostanza, la forbice dei prezzi si era aperta a sfavore dell’agricoltura. Chi si era veramente arricchito era chi possedeva la terra, i grandi proprietari; i redditi reali dei braccianti invece erano notevolmente peggiorati. 24 Ibidem.
  • 27. 27 Ma la situazione poneva anche i proprietari in una cattiva posizione, nel segno dello spavento: dovunque contadini e braccianti smobilitati affluivano nelle Leghe sindacali, si riunivano in organismi di lotta, occupavano terreni più o meno incolti e partecipavano a scioperi agrari da cui i proprietari sembravano uscire sminuiti e sconfitti. Fu così che i proprietari terrieri iniziarono a perdere interesse nell'agricoltura, un po’ perché attratti dalle possibilità offerte dall’industria urbana, e un po’ perché costretti dalle agitazioni a vendere i propri possedimenti. In questa situazione di “liberazione” delle terre, il numero dei piccoli proprietari registrò una crescita spettacolare. Ma se le circostanze dell'immediato dopoguerra, con il brusco rialzo dei prezzi agricoli, parvero particolarmente propizie, le illusioni a riguardo ebbero breve durata. Nel giro di un anno o due all'acquisto della terra vi fu una caduta dei prezzi agricoli. Inoltre la situazione di “tutti contro tutti”, creatasi con l’inasprirsi delle “lotte agrarie” di cui sopra, venne riportata all’ordine dal cosiddetto fascismo agrario che, in breve tempo, distrusse le organizzazioni sindacali e cooperative createsi, spesso grazie all’eliminazione fisica dei dirigenti locali. Riportando conseguentemente la situazione ad uno status quo gradito ai più facoltosi, grazie anche all’esproprio delle terre precedentemente “liberate”. Non c’è dubbio quindi che gli anni Venti segnarono un punto di svolta nel mondo agricolo italiano. Da una parte videro la nascita di una contrapposizione forte tra città e campagna che solo oggi, come vedremo, si sta iniziando a risolvere. Dall’altra videro un'ampia differenziazione delle priorità delle famiglie contadino-operaie. Alcune infatti continuarono a mantenere al primo posto l’agricoltura, pur affidandosi al sostentamento del reddito industriale, altre, possidenti di poco più di un orto (la quasi totalità, a ben vedere) posero la priorità al lavoro nelle industrie e al reddito così ricavato. La tendenza generale andava nel senso di una certa perdita d'importanza dell'agricoltura, in quanto troppa terra poteva significare che il lavoro agricolo e il lavoro industriale rischiavano di diventare incompatibili. Malgrado l'industrializzazione crescente, la forma sociale e il modello della pluriattività perdurarono al di là della fase in cui erano strettamente necessari alla sopravvivenza. La famiglia contadina continuò a vivere sulla terra, anche se l'importanza relativa di questa iniziava il suo declino. Questa fase di transizione venne a gravare sulle nuove generazioni. Cresciuti in famiglie a base rurale, questi uomini fecero per la prima volta l'esperienza del lavoro in fabbrica, pur continuando, all'occorrenza, a dare una mano nei campi. Anche se spesso l’aiuto che davano
  • 28. 28 era puramente economico, al fine di permettere ai genitori di acquistare la terra o di rimborsare i debiti contratti25 . Queste nuove generazioni “in bilico” tra rurale e urbano, da un lato gettarono le basi per un abbandono massiccio delle campagne, dall’altro giocarono un ruolo centrale nella definizione della nuova società industriale italiana. Avendo fatto la loro prima esperienza della fabbrica durante la guerra o nei primi anni venti, infatti, avevano imparato un mestiere. Dopo aver passato svariati anni alle dipendenze del “padrone”, era praticamente scontato che fossero i primi a prendere in considerazione il conseguimento dell'indipendenza nel lavoro non-agricolo, dopo che la famiglia aveva raggiunto l'autonomia nell'agricoltura26 . Ma nonostante tutte le difficoltà e le novità sociologiche, nelle aree rurali la situazione rimase abbastanza stabile: le famiglie contadine conservarono la propria compattezza, continuarono a mantenere un qualche contatto con la terra rifiutando l’urbanizzazione. Le piccole aziende familiari permisero alle famiglie contadine di restare rurali, di salvare quei fattori che contribuivano a ridurre il costo della vita, come l’auto-consumo, e a tenere insieme la famiglia. Il processo di nuclearizzazione delle famiglie iniziata dall’unificazione e proseguita fino alla fine della Prima Guerra Mondiale, infatti, subì un forte arresto nel periodo tra le due Guerre. Questo è riconducibile a tre fattori principali. Il primo è riconducibile al fatto che il processo di urbanizzazione rallentò bruscamente sia per i motivi economici di cui sopra, sia per gli interventi fascisti rivolti a “sfollare le città”. Il secondo invece è individuato nel rallentamento della nuclearizzazione familiare, fenomeno da imputarsi a quei processi di acquisto della terra iniziati a verificarsi subito dopo la fine della guerra, che portarono alla creazione di una nuova classe di agricoltori/imprenditori: «guardando al processo storicamente, sembra più esatto suggerire che queste famiglie attraversarono un processo di virtuale proletarizzazione, ma conservarono una fisionomia 25 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992. 26 Ibidem. Si consideri inoltre il ruolo giocato dal “vil denaro” nella definizione di questa situazione, portando gli individui abituati al lavoro in fabbrica indiscutibilmente sulla via dell’emancipazione familiare. Afferma Corner che: «Inevitabilmente, una presenza ingente di guadagni salariali creava tensioni nella famiglia contadina. Sappiamo che nei membri salariati della famiglia crebbe la riluttanza a far confluire i propri guadagni in un fondo centrale, preferendo essi tenere il denaro per sé. A contatto con il mondo dell'industria, i gusti mutarono; e la cosa poté rispecchiarsi in un'accentuazione delle divisioni in seno alla famiglia. Qualche volta, tutto ciò costituì il primo passo sulla via della dissoluzione della famiglia multipla. Ma, in linea generale, parrebbe che le famiglie resistessero validamente a queste tensioni, preferendo le garanzie offerte dal fatto di metter insieme almeno una parte delle risorse ai rischi impliciti nella separazione, e riconoscendo il nesso essenziale tra un miglioramento del tenore di vita e la famiglia numerosa. A questo proposito occorre ricordare che a partire dal 1927 la crisi economica rese più difficile alla ristretta famiglia nucleare, separata dalla famiglia multipla, guardare con fiducia al futuro.
  • 29. 29 sufficientemente diversa da quella del proletariato urbano da permetter loro di emergere, a distanza, come piccoli imprenditori»27 . Il terzo aspetto è quello più naturale e che anche nell’età contemporanea stiamo vivendo: la crisi. Come testimonia Corner: «a partire dal 1927 la crisi economica rese più difficile alla ristretta famiglia nucleare, separata dalla famiglia multipla, guardare con fiducia al futuro»28 . Ritornare nella sicurezza del nucleo famigliare permetteva di poter affrontare la vita con un po’ più di serenità, perlomeno economica, dal momento che parte dei costi affrontati in città erano azzerati dall’autoconsumo e dalla partecipazione di una comunità rurale in cui, al momento del bisogno, l’aiuto non era neanche necessario chiederlo29 . Nel frattempo, sotto l’egida fascista, la ripartizione delle colture, l'andamento della produzione, la consistenza del patrimonio zootecnico, l'impiego di concimi chimici, indicavano, fino al 1925/26, l'apparente buona salute dell'agricoltura: la produzione granaria crebbe da una media di 46 milioni di quintali ad una di 60 circa30 . Ma ben presto l'ondata della crisi economica mondiale del 1929 si rovesciò sull'Italia spazzando via il precario equilibrio raggiunto nei conti con l'estero dopo la rivalutazione della lira avvenuta nel 192631 . La caduta brusca delle esportazioni, accompagnata dal crollo dei prezzi sul mercato internazionale, fu il primo segnale. Nel 1929 l'esportazione italiana di prodotti alimentari era stata pari a 3,6 miliardi di lire; nel 1930 scese a 3,3; nel 1931 a 2,9 — con una discesa nel giro di due anni di quasi il 20 per cento32 . Con la crisi economica seguita alla rivalutazione, l'industria rallentò il passo, e la disoccupazione aumentò bruscamente. Molti appartenenti alla generazione “in bilico”, trovatisi disoccupati, si diedero alla produzione autonoma, tornando in famiglia, mentre i piccoli proprietari terrieri si trovarono costretti ad andarsene dai propri possedimenti per insolvenza o, 27 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.97. 28 Ibidem, p.94. 29 A tal proposito ci tengo a portare come esempio il contesto rurale in cui mia nonna è nata e ha vissuto dal 1928 al 1986. Mi racconta spesso, infatti, di come l’aiutarsi era all’ordine del giorno a Carloforte (provincia di Carbonia- Iglesias, in Sardegna), soprattutto quando si affrontavano momenti particolarmente complessi. In quei momenti si pensava alla sopravvivenza della comunità, per cui il panettiere donava i suoi prodotti al pescatore in cambio di qualche pesce, e così facendo tutto il paese cercava di sostentare ogni abitante attraverso logiche di dono. L’importanza del dono nelle comunità rurali verrà poi affrontato più dettagliatamente nel quarto capitolo. 30 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980. 31 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009. 32 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
  • 30. 30 nel migliore dei casi, a rivenderli e tornare ad essere braccianti. Chi invece mantenne le proprietà agricole fu spesso costretto ad emarginarsi dal mercato e tornare alle pratiche di autoconsumo per la sopravvivenza, dal momento che la grande depressione aveva gravemente colpito i guadagni dei contadini. Come afferma Federico, infatti: «La grande depressione non colpì tanto la produzione agricola, rimasta più o meno costante o addirittura aumentata, quanto i prezzi. Le ragioni di scambio dei prodotti agricoli diminuirono di circa un terzo dal 1928 fino ai minimi del 1932-1933. Quasi tutti i Paesi reagirono nel breve periodo aumentando i dazi. [...] Questa misura “tradizionale” però si dimostrò insufficiente ad arrestare la caduta dei prezzi, e quindi i governi ricorsero a strumenti nuovi, almeno per l’Europa in tempo di pace: l’imposizione di restrizioni quantitative all’importazione (quote) e il controllo totale del mercato»33 . All’entrata in guerra al fianco della Germania nazista nel 1940, l’Italia presentava dunque una situazione agricola particolarmente provata dalla crisi e dai tentativi dello Stato di sistemare le cose. Tuttavia l’organizzazione dell’agricoltura su base paramilitare, iniziata nel 1935/36, sembrava, almeno sulla carta, compatta e totalitaria. E sulla carta rimase: la destinazione delle risorse all’approvvigionamento bellico si fece immediatamente sentire sulla produzione agricola che, già indebolita dalla crisi prebellica e dall’assenza di più di un milione e mezzo di contadini e braccianti spediti al fronte, venne a mancare anche di fertilizzanti chimici e minerali mentre molte macchine rimasero ferme per scarsità di carburanti34 . 33 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.118. 34 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
  • 31. 31 1.5 La ricostruzione In quale misura la Seconda Guerra Mondiale danneggiò il patrimonio fondiario ed agrario italiano non fu mai misurato con esattezza, ma forse non era neanche possibile farlo. Di certo la situazione si presentava particolarmente difficile: la produzione diminuiva e i prezzi aumentavano, con un ritmo inflazionistico che mai prima di allora era stato conosciuto35 . Fra il 1939 e il 1946 i prezzi all’ingrosso aumentarono di 33 volte e nuovamente si tornò a parlare di “arricchimento contadino”. Quando nella realtà dei fatti la situazione creatasi era frutto dello stato di distruzione in cui versava il territorio agricolo italiano con danni stimati da Confindustria nel 1947 intorno ai 400 miliardi36 . Il 1946 segnò una tendenza alla ripresa. Anche se gli sforzi dello Stato furono tesi principalmente alla ricostruzione del settore industriale, non mancarono studi ed indagini conoscitive per un efficace ripristino e trasformazione delle strutture agrarie. Da queste indagini emerse il quadro di un'agricoltura (e dei contadini in essa) povera, arretrata, precaria. Al centro si collocavano i problemi della proprietà e dell'uso della terra; ed erano, insieme, tecnici e politici. Dal punto di vista tecnico il problema era evidentemente legato al fatto che i tre quarti dell'agricoltura italiana erano ancora sottoposti a pratiche colturali le cui tecnologie di base erano estremamente arretrate. Da un punto di visto politico, la «ruralizzazione» fascista, per quanto demagogica, aveva ottenuto - attraverso le leggi contro l'urbanesimo e lo scoraggiamento dell'emigrazione - non solo il risultato di sovraffollare le campagne, ma anche quello di allargare l'area delle piccole coltivazioni parcellari e dei piccoli coltivatori precari. Si era così consolidato il modello di un arcipelago capitalistico composto per la maggior parte da attività legate alla sopravvivenza familiare. 35 Questo ebbe come effetto quello di acuire le difficoltà già marcate nel settore e di protrarne l’effetto anche a molti anni dopo la fine della guerra. Le difficoltà strutturali mantennero il predominio sulla situazione economica che invocava una riformulazione in toto del settore, ma che trovava scontri a più livelli. Come afferma Federico, infatti: «gli effetti della Seconda Guerra Mondiale furono qualitativamente simili ma più gravi di quelli della prima. Il passaggio all’economia bellica fu molto più facile che nel 1914, in quanto in tutti i principali Stati belligeranti, compresi gli Stati Uniti, il mercato dei prodotti agricoli era già, parzialmente o totalmente, sotto il controllo dello Stato. L’intervento statale non potè però evitare un crollo della produzione agricola in Europa dell’ordine del 20-30%. La produzione aumentò invece negli Stati Uniti, che rifornivano i propri alleati, compresa l’Unione Sovietica. [...] Il ritorno alla pace non portò cambiamenti significativi nelle politiche agrarie. In Europa, la memoria delle privazioni belliche e la Guerra Fredda rendevano l’opzione di smantellare le strutture di controllo e di affidarsi al libero mercato dei prodotti agricoli piuttosto impopolare anche fra i consumatori, oltre che, prevedibilmente, fra i produttori» (G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.122). 36 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.
  • 32. 32 Di questa agricoltura si effettuò la “ricostruzione”37 fra il 1946 e il 1950. Come già detto però tutte le priorità furono indirizzate alla riattivazione dell'apparato industriale e i problemi dell'agricoltura, una volta accertata la ripresa delle principali coltivazioni, non furono più considerati come fondamentali. «Anzi le campagne, negli anni in cui più intensa fu la riconversione industriale accompagnata da numerosi licenziamenti, furono guardate come rifugio provvisorio per la nuova disoccupazione: i primi ad essere licenziati erano appunto “quei lavoratori che hanno possibilità di impiego nell'agricoltura su terreni di loro proprietà”»38 . Con il 1950/51 tutta l'economia italiana, e l'agricoltura in essa, entrava in una nuova fase di espansione produttiva e tecnologica, guidata da una congiuntura internazionale favorevole e sorretta da un crescente volume di investimenti pubblici e privati. Fra il 1950 e il 1952 diversi provvedimenti governativi favorirono il rilancio produttivo e l'ammodernamento tecnologico, se non dell'agricoltura nel suo insieme, perlomeno di quei suoi comparti e settori capaci di utilizzare le occasioni offerte dai finanziamenti pubblici. L'iniziativa di maggior rilievo fu senza dubbio lo stralcio di riforma fondiaria. Esso venne approvato nel 1950 e la realizzazione avvenne attraverso la costituzione di enti appositi, i quali rapidamente censirono le grandi proprietà espropriabili in tutto o in parte. L’operazione ebbe risultati economici e sociali eccezionali, tali che nel 1955 oltre 1 milione e 100.000 ettari andarono ad allargare il settore contadino dell’agricoltura. Inoltre gli investimenti nel settore salirono vertiginosamente dai 241 miliardi del 1951 ai 434 miliardi del 1955, allargando le opere di bonifica e di miglioramenti fondiario39 . Gli sviluppi di maggior rilievo si ebbero però nei settori tecnologici e produttivi subordinati al settore industriale che in quel periodo stava realizzando il suo “miracolo”, passando da un valore aggiunto pari a 3564 miliardi nel 1951 a 8197 miliardi nel 1961, con una crescita pari al 130% circa. Mentre il valore aggiunto del solo settore agricolo, per quanto in crescita, si fermava a 3103 miliardi nel 1961, con un aumento del 49% dal 195140 . 37 Le virgolette sono d’obbligo dal momento che la ricostruzione in questione avvenne solo per i comparti produttivi ritenuti fondamentali. Quelli minori dovettero principalmente affidarsi alla buona volontà dei conduttori. 38 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1980, p.165. 39 Ibidem. 40 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009.
  • 33. 33 Il dato più clamoroso è quello legato alla forza lavoro del settore agricolo, che passò da 8.641.000 addetti nel 1951 a 6.207.000 nel 1961. Vi era in quel periodo in Italia un clima di euforia diffusa a cui però teneva il passo la convinzione che, nonostante lo sviluppo produttivo, i progressi tecnologici e lo sfollamento, occorresse una correzione di indirizzi. Tra il ‘58 e il ‘65 l’economia italiana si trovò ad affrontare una situazione particolarmente travagliata: per molti aspetti, infatti, la crescita impetuosa poneva più problemi della precedente stagnazione. Il contributo fondamentale era dato sicuramente dall'eccezionale sviluppo dell'industria, che accentuava la dipendenza dell'agricoltura nell'assetto economico-sociale del paese, nonché la quasi auspicata sua irrilevanza. Come scrive Daneo infatti: «Sempre più spesso si poté leggere anche sulla stampa specializzata che l'agricoltura era ormai destinata a ridimensionarsi ed a concentrarsi, e che i problemi residui sarebbero stati semmai di ordine assistenziale, per facilitare lo svuotamento delle sacche di arretratezza. Non tutti, ovviamente, erano d'accordo su questi giudizi; anzi da più parti si continuò a sottolineare l'opportunità politica di non sottovalutare il “mondo rurale” — tanto che un portavoce della Coldiretti, Valentino Crea, qualche anno dopo alla domanda se fosse «finita l'era della politica dell'assistenza e dei sussidi» non esitava a rispondere: «Noi non lo crediamo, perché l'agricoltura italiana, anzi il mondo rurale, ha un alto valore sociale per poter essere abbandonato a se stesso»41 . Secondo Barberis, inoltre, questa nuova crisi agraria risultava parzialmente fittizia, in quanto oltre un milione di aziende agricole risultavano delle part time farm che, similarmente a quanto avvenuto tra il 1861 e il 1919, mantenevano alta quella caratteristica tutta italiana del contadino-operaio (ora trasformato in operaio-contadino), ancora riluttante all’idea di abbandonare definitivamente la terra. Il numero di tali soggetti e delle loro famiglie allargate (che risultavano nel 1961 pari al 19,4% del totale delle famiglie italiane per calare poi al 16,9% nel 1971) era esiguo ma importante, soprattutto perché è ciò che differenzia la struttura sociale ed economica italiana da quella degli altri Paesi capitalistici avanzati. Non solo nel settore agricolo42 . L’industria italiana infatti, nella sua grande maggioranza, si trova a dover produrre 41 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1980, p.193. 42 C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009. Come testimonia inoltre Corner: «una delle caratteristiche principali che differenziano la struttura sociale ed economica italiana da quella degli altri Paesi capitalistici avanzati è precisamente la persistenza e vitalità di un ampio settore di piccole imprese industriali e artigiane, molte delle quali a carattere familiare, svolgenti una
  • 34. 34 beni dalla domanda altamente variabile, con una tecnologia fortemente rigida e ad alta intensità di lavoro. «In queste condizioni non è un caso che essa sia caratterizzata, in misura più accentuata di quanto si osserva in altri Paesi, dalla presenza di un vasto settore di piccole imprese: queste ultime infatti permettono di recuperare importanti margini di flessibilità al sistema, tramite la capacità di adattamento dei micro-imprenditori, della famiglia come unità produttiva, del lavoro a domicilio e del lavoro "nero" in genere»43 . In questo contesto, il mantenimento di un collegamento tra l'industria e l'agricoltura per l'autoconsumo conserva tutta la sua attualità. funzione attiva nel processo di accumulazione nazionale e quindi non definibili tout-court come imprese "marginali", "residuali" o "pre-moderne". Secondo i dati dei censimenti industriali, nei venti anni compresi tra il 1951-1971, gli occupati nelle imprese manifatturiere con meno di 100 addetti nel nostro Paese restano costantemente superiori alla metà del totale occupati (e il loro peso è ancora maggiore se, invece delle imprese si considerano gli stabilimenti o le "unità locali" con meno di 100 addetti). Questo dato è assolutamente privo di riscontro in altri Paesi industriali avanzati (Giappone escluso). Nel valutare tale dato inoltre, va tenuto presente che l'entità dell'occupazione relativa alle piccole imprese sfugge in parte consistente alle statistiche ufficiali, essendo spesso costituita da "lavoro nero" e, in particolare, da lavoro a domicilio, che risulta, da numerose ricerche, una realtà grandemente diffusa nel nostro Paese (a differenza, ancora una volta, degli altri Paesi industriali occidentali)» (P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.128). 43 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.130.
  • 35. 35 Terreno fertile «Ruralità e agricoltura sono due termini che sono usati talora come sinonimi; rus era la campagna dei latini, agricoltura è la coltivazione del suolo. Agricoltura fa dunque specifico riferimento a un insieme di attività economiche; ruralità rimanda invece a un particolare ambiente antropico, in contrapposizione a quello urbano»44 . Dopo aver visto velocemente i processi in atto nel mondo agricolo nel primo secolo di vita dell’Italia unita è necessario vedere anche come il settore si stia evolvendo oggi. Molti aspetti, come vedremo, sono cambiati, altri si spera che cambino. Altri ancora invece sono rimasti quasi immutati, come per esempio la rilevanza del contadino operaio. Se il capitolo precedente voleva essere un modo per inquadrare storicamente l’agricoltura e mostrare alcuni aspetti salienti dell’attività agricola, il presente capitolo ha invece più a che fare con l’ambito economico/statistico. Si intende qui infatti mostrare i cambiamenti avvenuti nel corso degli ultimi 30 anni, facendo leva su quegli aspetti che maggiormente rappresentano il futuro del mondo rurale: i giovani, lo sviluppo tecnologico, i piani comunitari. Ritengo che sia necessario, ai fini di una maggiore completezza del discorso di tesi generale, chiarire quali sono i movimenti in atto in Italia, di modo da render più facile identificare quei fenomeni di sviluppo che affronteremo più avanti. In particolare, cosa che mi preme mettere in luce da subito, è la questione della disurbanizzazione e del conseguente incremento della popolazione rurale45 . 44 C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.XV. 45 I motivi sociologici dietro a questo fenomeno li affronteremo nel prossimo capitolo.
  • 36. 36 2.1 Odio la città Il nuovo millennio si apre all’insegna di un nuovo fenomeno sociologico: mentre nei Paesi emergenti dell’Asia, dell’America Latina, perfino dell’Africa il processo di urbanizzazione avanza prepotentemente dando vita a forme esasperate di urbanismo, nell’occidente più sviluppato si intravedono chiari segnali di disurbanizzazione e si assiste al fenomeno della rinascita rurale. Quest’ultima ha la sua manifestazione più vistosa nel ripopolamento delle aree rurali a scapito di quelle urbane. Anche in Italia, come in molti altri Paesi occidentali, al declino demografico delle aree urbane si contrappone la ripresa di quelle rurali. Secondo la classificazione che riporta Corrado Barberis, presidente dell’INSOR (Istituto Nazionale di Sociologia Rurale), elaborata negli anni Ottanta: «Gli oltre ottomila comuni italiani sono distinti in rurali e urbani, ai quali vengono aggregati anche gli intermedi. Al mondo rurale sono assegnati i comuni con almeno il 75% di superficie a verde e una densità demografica non superiore a 300 abitanti per chilometro quadrato; al loro interno vengono distinti i comuni ruralissimi, così chiamati perché la loro superficie a verde raggiunge una percentuale superiore al 90%, e i comuni rurali di montagna. Sono stati classificati urbani, oltre che i capoluoghi di provincia e i grossi centri con più di 50000 abitanti, i comuni contrassegnati sia da una bassa quota di superficie a verde (meno del 75%) sia da una densità elevata (oltre 300 abitanti). Nella categoria dei comuni intermedi sono stati inseriti tutti i rimanenti comuni: sia quelli che, pur presentando un’alta percentuale di superficie a verde (oltre il 75%), non possono essere considerati rurali in ragione della loro elevata densità (oltre 300 abitanti), sia quelli che, avendo una bassa percentuale di superficie verde (meno del 75%) non possono essere considerati urbani a causa della loro bassa densità (meno di 300 abitanti)»46 . Sulla base di questa classificazione, è possibile esaminare l’evoluzione demografica dei diversi tipi di comuni negli ultimi tre decenni del secolo scorso e nel primo quinquennio 2000. All’inizio degli anni ‘80 l’Italia era ancora in piena crescita demografica. Il censimento svoltosi nel 1981 aveva contato 2.420.000 italiani in più rispetto al 1971, con una variazione percentuale del 4,47%. A questa crescita contribuivano tutti i tipi di comuni, ma quelli urbani e semi urbani in misura maggiore di quelli rurali. Mentre la popolazione di questi ultimi risultava aumentata 46 Ibidem, p.29.
  • 37. 37 del 2,8%, era cresciuta del 4,3% quella dei comuni urbani e addirittura del 10,9% quella dei comuni intermedi47 . Dieci anni dopo la situazione appariva assai diversa. Il censimento del 1991 evidenziava che l’Italia era ormai largamente investita dai fenomeni di crescita zero e del declino demografico urbano. Nel 1991 vennero contati soltanto 221.000 abitanti in più, con una variazione dello 0,4%. Complessivamente i comuni urbani avevano perso nel corso di quel decennio 685.000 abitanti (-2,4%): una perdita che sarebbe stata ancora più grave se i centri urbani più piccoli non avessero compensato con i loro 473.000 abitanti in più (7,1%) l’emorragia demografica dei grossi centri capoluogo e non, la cui popolazione risultava diminuita di 1.158.000 abitanti (-5,3%). In una simile situazione di stazionarietà demografica e declino urbano, il risultato dei comuni rurali appariva sorprendente. Tra il 1981 e il 1991 i comuni rurali vedevano aumentare la loro popolazione di 503.000 abitanti, con una variazione del 2,4%, di poco inferiore a quella del 1981 (2,8%). Si deve concludere che gli anni ‘80 hanno segnato una netta inversione di tendenza per quanto riguarda le dinamiche demografiche. La crescita della popolazione, che nel corso degli anni settanta tendeva a concentrarsi nei comuni urbani, ha cominciato a spostarsi nei comuni semi urbani e rurali. Le nuove tendenze demografiche manifestatesi nel corso degli anni ‘80 sono proseguite durante il successivo decennio novanta, come confermano i risultati del censimento della popolazione svoltosi nel 2001. Anche nel corso dell’ultimo periodo intercensuario la popolazione italiana è rimasta stazionaria: nel 2001 si sono contati solo 221.000 abitanti in più rispetto al 1991, corrispondenti a una variazione dello 0,4%. I comuni urbani, complessivamente considerati, hanno continuato a perdere popolazione, avendo rilevato il censimento 593.000 cittadini in meno (-2,1%). Particolarmente pesante è stato il ridimensionamento demografico subito dall’insieme delle città capoluogo e dei grossi centri con oltre 50.000 abitanti, che hanno perso 952.000 abitanti (-4,6%). Nel 2001 pare invece consolidata la ripresa demografica rurale segnalata dai due censimenti precedenti, avendo guadagnato i comuni rurali, complessivamente considerati (cioè compresi anche i comuni montani) 462.000 abitanti, con una variazione positiva del 2,1%, solo leggermente inferiore a quella del 1991. E’ dunque andato avanti nel corso degli anni novanta il processo di redistribuzione territoriale della crescita demografica dai comuni urbani verso quelli semi urbani e rurali. Ormai i comuni 47 Ibidem.
  • 38. 38 rurali non montani sono quelli che, in termini assoluti, vantano gli incrementi demografici più consistenti: 496.000 abitanti in più nel decennio 1991-2001, un guadagno superiore a quello ottenuto dai comuni intermedi (349.000) e dai comuni urbani minori (359.000).
  • 39. 39 2.2 La fine dell’arcipelago dei minifondi Dalla fine degli anni ‘70 ad oggi la situazione agricola italiana ha subito importanti modifiche che hanno causato una flessione del numero di aziende presenti sul territorio. Il censimento agricolo dell’Istat del 1982 registrava la presenza di poco più di 3.000.000 di attività agricole. L’enormità del numero di aziende presenti, però, fa capire anche come queste fossero composte, per la maggior parte, da terreni inferiori all’ettaro (se non al quarto di ettaro). Una situazione del genere presentava perciò un grande numero di terreni poco produttivi o di attività i cui fini economici erano tendenti allo zero. Questa situazione, non poi così differente dal generale stato dell’agricoltura in tutto il corso del XX secolo, era dunque ancora prevalentemente di sussistenza e poco sarebbe potuta durare. Difatti il censimento successivo, avvenuto nel 1990, registrava un calo di più di 200.000 aziende nel settore, diminuite ancora nel decennio successivo di altre 500.000. All’inizio del nuovo millennio il numero di attività agricole su suolo italiano erano già calate a 2.300.000 circa. Questa tendenza non ha smesso di interessare il settore e, nel 2010, il numero di imprese è calato ancora fino ad arrivare a quota 1.600.000 unità circa. In totale, in un solo decennio sono scomparse ben più di 900.000 aziende. Di queste la maggior parte hanno chiuso definitivamente a causa di leggi di mercato sfavorevoli per le aziende più piccole e per il pensionamento (o la morte) degli agricoltori più anziani. Un cospicuo numero (quasi 200.000) invece è scomparso a tavolino, perché semplicemente troppo piccole per definirle aziende e perché banalmente non rispettavano i canoni imposti dall’Unione Europea per fini statistici48 . Oltre al numero di aziende, si è avuta una diminuzione progressiva della SAT (Superficie Agricola Totale) e della SAU (Superficie Agricola Utilizzata), anche se in modo non proporzionale. Ciò ha portato ad un aumento della dimensione media aziendale, corrispondente ad un graduale cambiamento della struttura agricola italiana. L’aumento progressivo della dimensione media aziendale è un fenomeno che ha interessato tutte le circoscrizioni del territorio nazionale, a dimostrazione del fatto che la riorganizzazione della struttura agricola è un fenomeno che coinvolge in modo omogeneo tutto il territorio. I picchi maggiori si sono 48 C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013.
  • 40. 40 verificati nelle isole con variazioni percentuali, tra il 2000 e il 2010, pari al 72% in Sicilia e al 99% in Sardegna. Fig. 1. Evoluzione della dimensione media aziendale. Fonte: elaborazione INEA su dati ISTAT, 2014. Fig. 2. Aziende e relativa superficie totale per forma di conduzione e titolo di possesso dei terreni (superficie in ettari). Fonte: 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, 2013.
  • 41. 41 Fig.3. Aziende e relativa superficie totale per forma di conduzione. Fonte: ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013. Come registrato dall’Istat, ancora nel 2010 il 50% delle aziende aveva meno di 2 ettari di SAU. Questo, almeno parzialmente, pare relativo anche all’incremento di attività non direttamente collegate alla coltivazione della terra o al pascolo: un numero crescente di aziende pare infatti volgere le proprie attenzioni ad attività remunerative legate al turismo. Purtroppo questo dato è, come detto, parziale, in quanto la stragrande maggioranza del calo di SAU è legata al fatto che milioni di ettari giacciono in stato di abbandono e continuano a vegetare fuori da ogni organizzazione o azienda agraria: lasciti di una proprietà che risulta spesso assente perché impegnata in attività più remunerative o considerate migliori dal punto di vista lavorativo. C’è di buono che questi ettari siano finiti a costituire boschi spontanei o altre aree vegetali piuttosto che essere cancellati per opere di urbanizzazione e, quindi, cementificazione49 . 49 C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013
  • 42. 42 Fig.4. Aziende e relativa SAU per forma di conduzione e titolo di possesso dei terreni (superficie in ettari). Fonte: ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013. Fig.5. Uso del suolo (superficie in milioni di ettari), anno 2010. Fonte: elaborazione ISTAT su dati MIPAAF (POPULUS) 2010. ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013. Fig.6. SAU e SAT. Fonte: ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013. Ma nonostante questa diminuzione, non manca un certo entusiasmo di fronte ai processi in corso: come ha evidenziato il Sole 24 Ore quando venne dato alle stampe il 6° censimento generale dell’agricoltura, era (ed è tuttora) in atto un processo di professionalizzazione del settore agrario50 . Questo sarebbe dato dal fatto che, all’uscita dal mercato delle aziende più piccole, è corrisposto un aumento delle aziende con più di 30 ettari. 50 Impresa e territori, http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2012-07-12/istat-cala-numero-aziende- 151028.shtml?uuid=Abo1bp6F&fromSearch&refresh_ce, ultimo accesso 18/06/15.
  • 43. 43 Altra particolarità legata alla sempre maggiore professionalizzazione del settore agricolo è data dalla variazione della struttura fondiaria e dalla diminuzione della presenza di quel caratteristico “contadino-operaio”, che comunque ha mantenuto (e, anche se parzialmente, continua a mantenere) un ruolo particolarmente rilevante nel settore. Mentre nel 1970 le duplici attività raggiungevano la maggiore espansione e i conduttori di una seconda attività risultavano quasi 1.200.000, i conduttori di aziende agricole con prevalente attività esterna si riducono nel 2000 a 604.000, in attesa di contrarsi ulteriormente a meno di 316.000 (19,7% del totale) nel 2010. Questo fenomeno pare sia dovuto al fatto che la propensione ad assumere una seconda attività diminuisce infatti all’aumentare delle dimensioni aziendali51 . Come rilevato dall’INEA nel Rapporto sullo stato dell’agricoltura 2014, «L’ammontare medio aziendale dei ricavi provenienti da altre attività produttive presenti nell’azienda agricola e complementari a quelle agricole ordinarie è piuttosto contenuto in termini assoluti, sfiorando i 2.200 Euro ad azienda nel 2012; l’aumento registrato rispetto all’anno precedente, seppure leggero, lascia intravedere una crescita di interesse degli operatori agricoli verso attività di diversificazione produttiva, specie in un contesto come quello attuale caratterizzato da una marcata instabilità dei mercati agricoli. Il loro peso appare rilevante soprattutto nell’area settentrionale e centrale del paese, anche grazie alla presenza dell’attività agrituristica, mentre è del tutto limitato al Sud Italia»52 . Certo è da rilevare che il fenomeno della professionalizzazione, e quindi della maggior concentrazione di SAU e della conseguente creazione di aziende più strutturate, è ben lungi dall’essersi definitivamente affermato. Secondo una ricerca svolta da Confagricoltura, infatti, nel 2013 fra le aziende di superficie inferiore ai 2 ettari, le individuali sono 99,2%; fra quelle di superficie dai 50 ettari in su, le individuali scendono al 70%. E’ comunque evidente che la crescita delle conduzioni societarie testimonia come l’affermazione di imprese più grandi, meglio organizzate, con maggior propensione all’investimento, sia un fenomeno ancora in atto ma che pare in continua crescita53 . 51 C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013. 52 INEA, Rapporto sullo stato dell’agricoltura 2014, p.17. 53 Ibidem.
  • 44. 44 Fig.7. Conduttori totali ed alternanti secondo classi di SAU (per alternanti si intendono i soggetti esercitanti attività prevalentemente esterna all’azienda). Fonte: ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013. La differenziazione delle tipologie di conduzione delle aziende agricole ha rappresentato un’incidenza importante nel decennio intercorso tra il censimento 2000 e quello 2010 e continua a crescere il numero di aziende che privilegiano forme di conduzione diverse da quella individuale, prima la prevalente (se non addirittura l’unica) forma di conduzione privilegiata. Per fermarci all’analisi data dal censimento 2010, il numero di aziende costituite da forme societarie sono passate dalle 32.000 circa del 2000 alle quasi 48.000 del 2010, con importanti conseguenze anche sulla produttività: come rilevato dall’ISTAT queste nuove forme societarie hanno circa 257.000€ di reddito annuo ciascuna, contro i 21.300€ delle aziende individuali. 6840€ di prodotto standard per ettaro contro 3398€; 392€ a giornata contro 159. Solo le società di capitali riescono, con 7.609€ ad ettaro e 407€ a giornata, a superare questi risultati, che restano nettamente più elevati rispetto a quelli di altri piccoli colossi: quali, ad esempio, le cooperative54 . In generale questo processo continua ad aver luogo e il numero di aziende individuali è costantemente in calo, nonostante continui a rappresentare la quasi totalità delle aziende agricole. Nello specifico, le regioni in cui si è verificato il maggior incremento delle forme societarie sono la Valle d’Aosta, la Lombardia, l’Emilia Romagna e il Friuli Venezia Giulia. Leggendo questi dati assieme a quelli dell’aumento della dimensione media delle aziende, si può mettere quindi in luce una graduale tendenza al cambiamento della struttura agricola, con un crescente orientamento verso forme giuridiche diverse al quella della proprietà individuale. Fa eccezione, a questo proposito, la Calabria, unica regione in cui si manifesta un aumento della forma individuale, insieme con le altre forme giuridiche, a scapito delle società. 54 Ibidem.
  • 45. 45 Fig.8. Evoluzione delle forme societarie in agricoltura. Fonte: Elaborazione Confagricoltura su dati UNIONCAMERE, 2013. Fig.9. Forme giuridiche in Italia nel 2013 per regione. Fonte: elaborazione Confagricoltura su dati Union camere, 2013.
  • 46. 46 2.3 Arretratezza tecnologica Il secolo scorso è stato caratterizzato da una grande crescita della produzione agricola a livello globale, anche se concentrata principalmente nei Paesi maggiormente sviluppati e industrializzati. Un aumento della produzione e dell’offerta che ha controbilanciato la forte crescita della domanda globale degli alimenti consentendo un andamento relativamente stabile dei prezzi. Questa crescita produttiva è avvenuta in concomitanza con un netto declino della forza lavoro agricola ed una sostanziale stabilità della superficie agricola coltivata. Tale crescita produttiva si è ottenuta grazie ad una ancora maggiore crescita della produttività delle risorse agricole. Tanto rilevante è stato questo incremento di produttività, che il tema principale su cui gli economisti si sono più a lungo soffermati è proprio la sua spiegazione55 . Certamente, l’intensificazione capitalistica ha avuto un ruolo in agricoltura come nel resto dell’economia. Ma proprio il confronto con il resto dell’economia ha messo in evidenza come nel comparto agricolo deve essere subentrato qualcosa di ulteriore. Questo viene identificato nel continuo e incessante progresso tecnologico; nell’aver trasformato una serie continua di più o meno rivoluzionari passi in avanti della conoscenza scientifica di interesse agricolo (soprattutto dei processi biologici) in conoscenza pratica, cioè capace di generare tecnologia e, infine, di portare innovazioni nel contesto produttivo agricolo. Questa capacità ha consentito all’agricoltura mondiale, e soprattutto della parte più ricca, di sfuggire alla trappola della scarsità alimentare in cui una forte crescita demografica ed economica rischiava di gettarla. Fig.10. Produttività della terra e del lavoro agricolo: tasso di crescita annuo medio (in %), 1960.2005. Fonte: elaborazione INEA su dati Alston e al. (2010). INEA, Il sistema della ricerca agricola in Italia e le dinamiche del processo di innovazione, 2013. Questo fenomeno è estendibile anche all’area italiana, nella quale emerge una crescita in dinamica e intensità non diversa da quanto emerso a livello globale nei primi anni del 55 C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013.
  • 47. 47 dopoguerra (favorita dalla rapida intensificazione capitalistica e dalla rapida uscita dalle condizioni di arretratezza in cui versava il settore agricolo italiano), a cui fa seguito una flessione dell’andamento e una successiva sostanziale stagnazione. Fig.11. Produttività agricola parziale e totale (TFP) e spesa in ricerca agricola (in termini reali) in Italia: tasso di crescita annuo medio (in %), 1960-2002. Fonte: elaborazione INEA su banca dati AGREFIT (2009-2011). INEA, Il sistema della ricerca agricola in Italia e le dinamiche del processo di innovazione, 2013. La stagnazione italiana, nello specifico, è indice di una arretratezza importante del settore dal punto di vista tecnico e tecnologico con il resto dell’Europa e del mondo. L’Italia infatti tende a collocarsi tra i Paesi follower e il ritardo acquisito nei confronti dei Paesi leader è da attribuire al fatto che non è riuscita ad acquisire un ruolo da protagonista nella produzione di conoscenza ed innovazione tecnologica di interesse agricolo. Questa situazione è messa in luce anche da Barberis, il quale afferma che: «Dal punto di vista della dimensione complessiva dell'offerta l'agricoltura italiana è rimasta sostanzialmente uguale a se stessa negli ultimi vent'anni. Ma se si guarda al reddito complessivo messo a punto dal settore agricolo non è pessimismo riconoscere una sostanziale perdita di valore in termini di mercato della sua produzione, e ancora più deludente appare il risultato del reddito netto, considerato il maggior peso, nelle attività di coltivazione e di allevamento, dei mezzi tecnici impiegati, i cui prezzi si sono accresciuti a ritmi ben più sostenuti di quelli realizzati dall'azienda»56 . 56 C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.171.
  • 48. 48 Il giudizio di Barberis cambia però quando si sofferma a valutare l’organizzazione aziendale e la produttività dei singoli fattori; da questa valutazione egli afferma (e conferma) che il settore primario italiano non ha smesso di attraversare momenti di significativa e intensa trasformazione. Ma nonostante quest’ultima valutazione, è innegabile che il comparto agricolo viva una situazione particolarmente difficoltosa dal punto di vista tecnologico. Questa arretratezza tecnologica è sicuramente attribuibile alle forme societarie principali dell’agricoltura italiana, quelle imprese individuali spesso mal gestite (o gestite sono a fini di autoconsumo). Non si vuol far qui di tutta l’erba un fascio (molte aziende individuali sono comunque portatrici di innovazioni), ma è tuttavia innegabile che, come afferma Giovanni Federico, «la lentezza del progresso nelle aree di piccola proprietà contadina è attribuita all’innato conservatorismo dei contadini e alla loro ostilità per ogni innovazione»57 . Allo stesso tempo è anche innegabile che l’agroalimentare italiano presenta comunque delle eccellenze mondiali che sono tali anche in virtù di performance produttive e di livelli tecnologici di prim’ordine. In comparti quali vino, olio d’oliva, ortofrutta e colture protette, allevamenti intensivi, l’Italia mostra, anche solo in porzioni o nicchie di questi comparti, un primato tecnologico mondiale. Ciò è tanto più vero se si considera che il dato nazionale nasconde sempre differenze territoriali molto spiccate, tali per cui è certamente possibile rintracciare anche in Italia aree con una agricoltura che, almeno nei rispettivi comparti di punta, risulta essere sulla frontiera tecnologica a livello internazionale e su questo elemento fonda una porzione essenziale della propria competitività. Come evidenzia la ricerca dell’INEA58 , le complicazioni italiane sono dovute al fatto che il settore agricolo del nostro paese ha operato la scelta di orientare la propria strategia competitiva verso il primato assoluto della food safety, ossia la qualità alimentare e ambientale. Questa vocazione alla qualità dovrebbe essere capace di ampliarsi anche in altri ambiti: sostenibilità ambientale, produzione di beni pubblici e servizi di interesse collettivo, sviluppo rurale. Ma questi fronti sono ben lungi dall’essere ancora sviluppati e definiti, perché chiamano in causa un nuovo fronte tecnologico per l’agricoltura stessa, che si troverebbe ad essere “garante” degli aspetti visti sopra, in quanto argomenti direttamente correlati al suo sviluppo. Uno sviluppo che solo le nuove generazioni di agricoltori possono essere in grado di affrontare. 57 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.85. 58 I. Di Paolo e A. Vagnozzi (a cura di), Il sistema della ricerca agricola in Italia e le dinamiche del processo di innovazione, INEA, Roma, 2014.
  • 49. 49 2.4 I giovani Il tema dell’occupazione giovanile in agricoltura risente di una forte ambiguità delle statistiche, in quanto esiste un problema di raffronto dei dati per la soglia di età in cui si è considerati giovani: fino a 35 anni per le principali fonti di informazione statistica e fino a 40 anni per le azioni di Politica Agricola Comune (PAC) implementate a livello europeo. Questa è una nota necessaria al fine di capire il mondo dell’occupazione giovanile in agricoltura che altrimenti, considerando cioè una fascia di età fino ai 30 anni come per gli altri settori, sarebbe fortemente compromesso. La rivoluzione dell’agricoltura sembra dunque «Guidata da una percentuale significativa di giovani, se diamo al termine un’accezione molto larga, adatta a un paese che fatica ad effettuare il ricambio generazionale. [...] Se estendiamo la definizione di giovani agli under 40 la percentuale [di aziende] arriva all’8%. Le imprese junior funzionano bene: creano in media il 35% di valore aggiunto in più di quelle gestite da agricoltori sopra i 40 anni, grazie ad un maggior grado di dinamismo e creatività, di attitudine al rischio e di propensione all’innovazione e all’export. Ma anche grazie a una più elevata sensibilità per le tematiche sociali e ambientali»59 . Esaminando i dati del 6° Censimento generale dell’agricoltura e confrontandoli con quelli del Censimento precedente, si può notare come il numero dei giovani agricoltori ha subito una variazione negativa pari al 40%, passando da 273.182 a 161.716 (tabella 3.4). Allo stesso modo la diminuzione percentuale ha interessato anche le altre due classi (40-64 e over 65) con diminuzioni percentuali pari, rispettivamente, al 36% e al 38%. Fig.12. Capi d’azienda per classi di età (censimenti 2000 e 2010) Fonte: elaborazione INEA su dati ISTAT 2000-2010. INEA, I giovani e il ricambio generazionale nell’agricoltura italiana, 2013. 59 A. Magistà (a cura di), La Repubblica, Guida a lavoro e professioni, settori che cambiano, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, 2013 (progetto redazionale), p.14.
  • 50. 50 Dunque, la forte riduzione di aziende che si è registrata nel periodo intercensuario ha colpito fortemente anche le aziende condotte da giovani. Rispetto ad una riduzione complessiva delle aziende del 34,4%(da poco più di 2.500.000 a 1.620.000), è proprio la classe di capi azienda più giovani a mostrare la contrazione percentualmente più rilevante (-40,8%), a fronte di una media complessiva del 37,5%. Per i giovani la maggior diminuzione riguarda la classe inferiore ai 19 anni; tale fenomeno potrebbe essere letto come un ritardo dell’entrata dei giovani nel mondo del lavoro, dovuto ad un aumento del livello medio di istruzione, fenomeno peraltro generalizzato a tutte le tipologie di lavoro. Eppure, considerando nel giusto modo la mobilità tra le classi di età, e ipotizzando che non vi siano fuoriuscite dalle classi se non per motivi di età, emerge che dei 161.716 agricoltori “under 40”, 108.870 sono i “veri” nuovi entrati, pari a circa il 60%. Questo dato, sebbene sia apparentemente alto, non può essere pienamente soddisfacente in quanto va letto contemporaneamente ai 220.336 usciti dalla fascia dei giovani. Ciò indica che appena il 50% di coloro che oltrepassano la fascia di età dei giovani sono stati “sostituiti” da nuovi entrati nel mondo agricolo. Appare quindi evidente (ma del resto era forse addirittura scontato) che in Italia esiste un grave problema di ricambio generazionale nel settore agricolo, nonostante negli ultimi anni i dati relativi alle variazioni congiunturali mostrino un leggero aumento del numero di imprese condotte da “under 35”60 . Per quanto riguarda l’istruzione, emerge come la percentuale di conduttori senza titolo di studio cresce progressivamente, passando dalle categorie più giovani a quelle più anziane, fino a raggiungere il 57,2% nel caso del classe oltre i 75 anni, che include ancora circa il 17% del totale dei conduttori. In modo simmetrico si può leggere la frequenza dei diversi titoli di studio per singole classi di età. Il titolo di laurea è prevalente nelle classi più basse, ma resta molto basso (raggiunge il 14% nella classe tra 25 e 29 anni, mettendo assieme laurea specialistica con altre lauree). Il livello di licenza superiore è il più frequente nelle classi fino a 29 anni, per poi cedere la prima posizione alla licenza media (51% nella classe tra 40-49 anni; 42,8% nella classe successiva). A partire dalla classe dai 60 anni in su, è la licenza elementare a prevalere, fino a raggiungere il 74,7% nella classe di età superiore ai 75 anni. 60 Aa.vv., I Giovani e il ricambio generazionale nell’agricoltura italiana, INEA, Roma, 2013.