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LA FABBRICA E IL VILLAGGIO
Modelli di socialità guidata
“Gli stabilimenti erano la nostra anima”
Benigno Crespi
L’avvio del processo di industrializzazione si verificò in Italia con molto ritardo rispetto
ad altri paesi europei come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania, a causa del lento
processo di unità nazionale e per la congenita povertà delle risorse tecnologiche e industriali.
Le prime attività manifatturiere che si avvalsero di impianti meccanizzati e di sistemi di
produzione più moderni furono le industrie tessili situate nelle vicinanze di corsi d’acqua da
cui ricavavano la forza motrice necessaria al funzionamento dei macchinari. L’organizzazione
industriale coinvolse anche i settori della lana e della seta, ma è l’industria cotoniera, in
particolare quella lombarda, a compiere i più rapidi progressi, distinguendosi a partire dal
1870, dalle altre attività tessili, per una maggiore disponibilità finanziaria e per il tentativo di
2
utilizzare manodopera più stabile e meno frazionata dal lavoro domestico. Gli anni seguenti
videro il moltiplicarsi, in Lombardia, di una serie di fiorenti aziende che costituirono la prima
grande concentrazione industriale in senso moderno, divenendo delle vere e proprie imprese
capitalistiche guidate da importanti dinastie di imprenditori come quelle di Eugenio Cantoni,
fondatore della Cucirini-Cantoni, Francesco Turati degli stabilimenti Olcese, Antonio
Vernocchi, Alessandro Maino, Fedele Borghi e Cristoforo Benigno Crespi, che costruì gli
stabilimenti di Vaprio, Vigevano, Ghemme e Capriate d’Adda (1877).
Usufruendo di una serie di condizioni propizie, tra cui una generale fase di progresso
produttivo e una legislazione che favorì dal 1878 una sempre più decisa spinta protezionistica
capace di garantire un mercato nazionale protetto dalla concorrenza estera, l’influenza degli
industriali cotonieri si consolidò e si manifestò non solo nella vita economica della nazione, ma
anche in campo politico con l’elezione di molti suoi membri tra le file dei parlamentari
dell’epoca.
Il concentrarsi dell’industria manifatturiera nelle regioni settentrionali, dalle province di
Novara, Varese e Como sino a Bergamo e alla Val Seriana (dove va sottolineata la presenza di
numerosi imprenditori svizzeri tra i quali si ricordano Legler, Oltiker e Honegger), trae
motivazione dalla grande quantità di energia idrica disponibile sul territorio, dalla vicinanza di
numerosi centri commerciali, da una efficiente rete stradale e ferroviaria e dalla presenza di
una larga manodopera già sufficientemente istruita dal tradizionale lavoro a domicilio. Proprio
l’incipiente meccanizzazione cui andò incontro l’industria cotoniera alla fine dell’Ottocento,
basata su di un regime di fabbrica che permetteva una produttività ininterrotta grazie a turni di
lavoro diurni e notturni, fornisce un’idea della vastità degli effetti e delle conseguenze che una
così profonda trasformazione delle forze e dei rapporti di produzione ebbe sul piano dei
rapporti sociali in una società prevalentemente agricola come quella italiana.
3
Il passaggio da un’economia contadina ad una caratterizzata dal lavoro in fabbrica
comportò un radicale cambiamento culturale che obbligò il lavoratore a confrontarsi con una
realtà produttiva completamente diversa da quella sperimentata nella comunità agricola di
provenienza. Da tale confronto nacquero forzatamente una serie di problemi e di squilibri: la
divisione del lavoro, i massacranti orari dei turni, la dura disciplina di fabbrica, i bassi salari
l’assenza di un’efficace legislazione del lavoro, contribuirono alla nascita della “questione
sociale”.
In Italia, dato il limitato sviluppo industriale, non si può parlare dell’esistenza di una vera e
propria classe operaia ma di una manodopera che resterà legata per lungo tempo alla figura
dell’operaio-contadino.
La dislocazione dei cotonifici, situati per lo più lontano dai grandi centri urbani per
questioni di carattere economico (in provincia il costo dei terreni edificabili era minore),
rispondeva anche alla necessità di poter reperire più facilmente una congrua quota di forza-
lavoro a buon mercato. A causa del misero stato delle campagne, le piccole comunità rurali dei
dintorni risultavano spesso sovrabbondanti di manodopera garantendo così all’imprenditore un
ricambio di personale pressoché illimitato. Ed è proprio la lunga permanenza nel mercato del
lavoro dell’operaio-contadino, pronto a dedicarsi appena possibile alla cura dei campi e restio a
staccarsi definitivamente dalla realtà agricola, a costituire un ostacolo alla formazione di un
moderno proletariato dotato di una coscienza di classe in grado di preservarlo efficacemente
dai tentativi di sfruttamento che coinvolgevano soprattutto le numerose donne e i fanciulli
impiegati nell’industria.
Alla luce di quanto è stato detto sino ad ora riguardo i progressi compiuti
dall’industrializzazione in Italia tra Otto e Novecento e dei mutamenti da essa provocati, si può
delineare un quadro d’insieme che prevede, da una parte una borghesia capitalistica in ascesa, e
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dall’altra un proletariato industriale non ancora completamente formato, proveniente da un
mondo agricolo in bilico tra tradizione e rinnovamento. È evidente come, in tale contesto, gli
scopi e le finalità dichiarate dagli imprenditori divergano completamente da quelli della classe
operaia. Mentre i primi infatti cercano di “educare” i lavoratori alla disciplina e ai ritmi di
lavoro della fabbrica allo scopo di aumentare i profitti, i secondi cercano di ritagliarsi delle
autonomie che li preservino da una alienazione completa.
Alcune frange dell’élite industriale cercarono di modificare ulteriormente a loro favore il
rapporto capitale-lavoro, legittimando anche ideologicamente il proprio operato
destreggiandosi sapientemente tra forme di “paternalismo umanitario” e “autoritarismo
benefico”. Lo sforzo padronale di fissare stabilmente la vita e il destino del lavoratore attorno
alla nuova realtà della fabbrica si realizzò grazie ad un accurato disegno di controllo sociale
che nascondeva, sotto una apparente benevolenza, il tentativo di conciliare gli obbiettivi
imprenditoriali con l’eliminazione di ogni minima conflittualità, lasciando al tempo stesso
immutati i rapporti gerarchici all’interno della azienda. L’interessamento ai problemi operai
manifestato attraverso la realizzazione di infrastrutture volte a migliorare l’adattamento e
l’integrazione del lavoratore nella nuova realtà, rimanda direttamene al complesso ruolo
sociale svolto in età moderna dalla fabbrica, capace di attirare manodopera, servizi, attività
produttive, giungendo così a modificare l’intero tessuto urbano circostante con la nascita di
città industriali che raggiunsero dimensioni pari a quelle di grossi sobborghi periferici.
Prima ancora della nascita di vere e proprie città industriali, nel secolo XIX si diffusero
dapprima nel nord Europa e in seguito in Italia numerosi villaggi operai (che nei paesi
anglosassoni vennero chiamati Garden Cities e in Germania Siedlungen), realizzati
direttamente da aziende economicamente solide che nelle zone periferiche e di campagna
cercavano manodopera stabile specializzata e possibilmente estranea al clima sindacalizzato e
5
politicizzato delle città. La nascita dei villaggi operai si collegava anche alla questione delle
abitazioni da destinare alle classi più povere, questione che nel corso del secolo si fece via via
più sentita a causa dell’espansione dei centri urbani dovuta al fenomeno dell’inurbamento. Nel
tentativo di risolvere tale problema si alterneranno interventi edilizi privati e pubblici sino a
costituire una rete assistenziale (l’albergo dei poveri, i bagni pubblici, gli asili d’infanzia) che,
se non costituì una soluzione definitiva, contribuì ad alleviare l’umile situazione in cui versava
gran parte della popolazione.
Per ciò che concerne i villaggi operai sorti nelle vicinanze di stabilimenti industriali
occorre dire che, se è vero che furono il frutto di un certo tipo di filantropismo attento
soprattutto agli aspetti pratici che ne potevano derivare (legare l’operaio al possesso
temporaneo o permanente di un’abitazione significava attenuarne le rivendicazioni), è
altrettanto vero che l’effetto di tali opere fu di un’importanza rivoluzionaria se si pensa alle
cattive condizioni di vita in città e in campagna. Se la dimensione del fenomeno non raggiunse
in Italia l’ampiezza che si registrò in Inghilterra, dove quasi tutti i più grandi imprenditori
fondarono colonie operaie, in Germania (le Acciaierie Krupp davano lavoro a circa 25.000
operai dislocati in cinque città satellite), e in altri paesi maggiormente industrializzati, si può
affermare che la città operaia di Crespi d’Adda, la “Nuova Schio” di Alessandro Rossi, il
quartiere di Collegno di Napoleone Leumann, e l’esempio di Valdagno, la città-feudo dei conti
Marzotto, rappresentarono nella società italiana un elemento di novità che ebbe una diffusione
larghissima presso i maggiori circoli culturali dell’epoca.
Se il fine dichiarato di tali attività filantropiche consisteva nell’elevare moralmente oltre
che materialmente le condizioni delle classi meno abbienti, tema che si ritrova in tutte le
pubblicazioni di parte che illustrano i successi di questo tipo di iniziative, l’edificazione dei
villaggi operai, isole di armonia e pace sociale, doveva servire a prevenire la scomparsa dei
6
malesseri tipici della civiltà industriale urbana (grandi distanze tra abitazione e lavoro,
insalubre habitat operaio, totale assenza di spazi verdi). Una razionale pianificazione
urbanistica garantiva la realizzazione di queste esigenze: la costruzione degli alloggi e di altri
servizi urbani, la rete di strade per lo più disposte secondo una planimetria ortogonale (vie
diritte, incroci ad angolo retto) in grado di facilitare l’accesso agli stabilimenti riproduceva
anche geometricamente il bisogno di ordine e senso gerarchico, agevolando il quotidiano
contatto tra il lavoratore e il ceto impiegatizio e favorendo così l’assimilazione di un modello
di vita e di una mentalità tipica della piccola borghesia. Poiché la concessione delle case,
spesso singole e dotate di un piccolo orto, era di solito limitata agli impiegati e alle famiglie
degli operai specializzati, appare evidente l’intenzione di creare un’aristocrazia operaia, che
legata al possesso dell’abitazione, condividesse l’operato della classe dirigente. Le velleità
moralistiche insite in questo progetto di comunità globale si coniugavano quindi felicemente a
scopi utilitaristici: tutti i servizi e le infrastrutture messe a disposizione nel villaggio, negozi di
generi alimentari, refettori, servizio medico, canalizzazioni per luce e gas, assistenza malattia,
scuole interne per l’istruzione elementare dei figli degli operai, assicuravano infatti un totale
controllo delle maestranze. Anche la vita privata veniva organizzata attraverso forme
associative e attività promosse direttamente dall’azienda: gruppi sportivi (ad esempio il “Dopo
lavoro Uniti e Forti” di Crespi d’Adda) e teatrali, attività musicali e ricreative, gite e iniziative
culturali servivano a favorire gli incontri tra i lavoratori ed evitare tensioni all’interno della
comunità, rendendola meno permeabile agli influssi politici e culturali esterni.
Un’organizzazione così perfettamente aderente alla gerarchia interna della fabbrica, dove gli
operai risultavano inquadrati e disciplinati dal lavoro sin dentro la sfera familiare, si avvicinava
idealmente alla condizione feudale, in cui il nobile locale instaurava con i propri sudditi un
ferreo rapporto di dipendenza personale.
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Il passaggio da un’economia contadina ad una caratterizzata dal lavoro in fabbrica
comportò un radicale cambiamento culturale che obbligò il lavoratore a confrontarsi con una
realtà produttiva completamente diversa da quella sperimentata nella comunità agricola di
provenienza. Da tale confronto nacquero forzatamente una serie di problemi e di squilibri: la
divisione del lavoro, i massacranti orari dei turni, la dura disciplina di fabbrica, i bassi salari
l’assenza di un’efficace legislazione del lavoro, contribuirono alla nascita della “questione
sociale”.
In Italia, dato il limitato sviluppo industriale, non si può parlare dell’esistenza di una vera e
propria classe operaia ma di una manodopera che resterà legata per lungo tempo alla figura
dell’operaio-contadino.
La dislocazione dei cotonifici, situati per lo più lontano dai grandi centri urbani per
questioni di carattere economico (in provincia il costo dei terreni edificabili era minore),
rispondeva anche alla necessità di poter reperire più facilmente una congrua quota di forza-
lavoro a buon mercato. A causa del misero stato delle campagne, le piccole comunità rurali dei
dintorni risultavano spesso sovrabbondanti di manodopera garantendo così all’imprenditore un
ricambio di personale pressoché illimitato. Ed è proprio la lunga permanenza nel mercato del
lavoro dell’operaio-contadino, pronto a dedicarsi appena possibile alla cura dei campi e restio a
staccarsi definitivamente dalla realtà agricola, a costituire un ostacolo alla formazione di un
moderno proletariato dotato di una coscienza di classe in grado di preservarlo efficacemente
dai tentativi di sfruttamento che coinvolgevano soprattutto le numerose donne e i fanciulli
impiegati nell’industria.
Alla luce di quanto è stato detto sino ad ora riguardo i progressi compiuti
dall’industrializzazione in Italia tra Otto e Novecento e dei mutamenti da essa provocati, si può
delineare un quadro d’insieme che prevede, da una parte una borghesia capitalistica in ascesa, e
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tramonto di questa potente famiglia di imprenditori di origine bustese.
Crespi d’Adda corrisponde pienamente alla tipologia dei villaggi industriali di cui è stata
tratteggiata l’evoluzione nelle pagine precedenti, presentando, a partire dal 1889, una precisa
fisionomia che si ispira ai criteri costruttivi dei villaggi inglesi lungamente studiati da Silvio
Crespi durante i suoi frequenti viaggi in Inghilterra da dove torna persuaso ad adottare un
nuovo atteggiamento imprenditoriale. Nascono così le case mono e bi-familiari al posto dei
precedenti palasoc pluripiano e le villette dirigenziali. Grazie all’opera di importanti architetti
lombardi come A. Mazzocutelli e E. Pirovano, il villaggio si dota di tutta una serie di strutture
indispensabili alla vita quotidiana e sociale ( lo spaccio, il lavatoio coperto, l’ambulatorio) e si
amplia, con il crescente successo degli affari, anche la fabbrica che arriva ad impiegare nel
1915 quasi 3.000 operai. Accanto a queste opere, frutto della liberalità dei Crespi, troviamo
situati rispettivamente all’ingresso, al centro e alla fine dell’abitato, il castello, dimora dei
proprietari, la chiesa e il mausoleo, segni tangibili del potere esercitato sui dipendenti. La villa-
castello, oltre ad essere la residenza più grande e lussuosa, sovrasta l’intera vallata grazie ad un
torrione che si eleva per cinquanta metri, rendendo chiara anche “fisicamente” la distanza che
la separa dalle modeste casette ordinatamente allineate ai suoi piedi. La chiesa, copia perfetta
in scala ridotta, dell’originale opera in stile bramantesco situata a Busto Arsizio, rappresenta il
centro di aggregazione religiosa della comunità tenuta a presenziare ogni domenica alle
funzioni del cappellano sotto il vigile sguardo dei proprietari. Anche il cimitero, che chiude il
perimetro del villaggio, non sfugge all’incombente prassi gerarchica, caratterizzato com’è dalla
presenza dell’enorme mausoleo di famiglia che proietta anche oltre la morte quel senso di
superiorità e riverenza di cui i Crespi pretendevano di essere gli unici depositari.
Appare chiaro allora come, al di là dei dichiarati intenti filantropici, ciò che emerge
realmente sotto la patina di un formale interclassismo sia un progetto complessivo di
9
regolamentazione della vita sociale in ogni minimo particolare allo scopo di evitare la
formazione di una solidarietà rivendicativa. La realizzazione delle opere assistenziali
rispondeva perciò a delle finalità pratiche: alleviare i bisogni dei lavoratori significava renderli
più collaborativi, tranquilli e laboriosi. L’adozione a tal fine di una organica filosofia
paternalistica, peraltro già largamente sperimentata a Schio da un altro grande industriale
tessile come Alessandro Rossi, permetteva di conciliare egregiamente il profitto con le
esigenze di pace sociale. L’impegno profuso nell’edificare un’organizzazione così disciplinata
e ordinata, fa intravedere il tipo di rapporto che legava i Crespi alle loro proprietà.
L’atteggiamento psicologico predominante, tipico di una azienda a conduzione familiare,
consisteva in una profonda identificazione tra imprenditore e impresa. Tale concezione
patrimoniale, oltre a riflettersi sulla gestione effettiva degli stabilimenti (dalla politica di
mercato agli investimenti diretti ad ampliare la fabbrica, tutto era concentrato nelle mani del
proprietario), si estendeva anche agli abitanti del villaggio considerati alla stregua di fedeli
sudditi eternamente riconoscenti. Si comprendono allora la rabbia e lo stupore provati dai
proprietari nel 1920 da quello che la stampa locale definì “L’incidente di Capriate”, durante il
quale i Crespi, duramente contestati dalle associazioni sindacali cattoliche guidate da Romano
Cocchi, vennero inseguiti da una fitta sassaiola fin dentro le loro proprietà. In realtà tale
episodio non costituisce semplicemente un affronto al prestigio e all’orgoglio di una potente
famiglia di industriali, ma rappresenta simbolicamente anche la fine di una forma di
paternalismo che aveva garantito agli imprenditori la possibilità di muoversi liberamente senza
i vincoli della controparte. Ci si avvicinava alla fine di un’epoca: profondi mutamenti erano
avvenuti nella società civile con la fine della Grande Guerra e le nuove organizzazioni
sindacali reclamavano sempre maggior attenzione. Se l’avvento del fascismo sembrò
perpetuare in un primo momento i tradizionali rapporti di dipendenza, in realtà le istituzioni
10
totalitarie del regime ambivano ad occupare tutti gli spazi disponibili non tollerando nessuna
concorrenza. All’antico paternalismo padronale si sostituì così un paternalismo più vasto che
coinvolse tutta la nazione.
Con il tramonto delle funzioni del villaggio operaio anche il gioiello di casa Crespi, la
fabbrica, su cui erano stati investiti praticamente tutti i guadagni, cominciò a declinare per una
serie di motivazioni congiunte, che vanno dalla crisi generale dell’industria cotoniera dovuta
alla sovrapproduzione, alla politica economica fascista che rivalutando la lira (quota 90),
penalizzò le esportazioni che tanta parte avevano nella bilancia commerciale dell’azienda. Alla
congiuntura economica sfavorevole vanno aggiunti poi errori imprenditoriali e speculazioni
sbagliate: l’acquisto di ingenti quantitativi di cotone greggio si tramutò infatti in un pesante
indebitamento nei confronti della Banca Commerciale a causa della caduta dei prezzi favorita
dal disastro economico del 1930.
Tra le ragioni che contribuirono alla decadenza dei Crespi non vanno poi dimenticate le
conseguenze di un cambio di mentalità che comportò l’adozione di un stile di vita e di
comportamenti di stampo aristocratico (partecipazione a ricevimenti mondani e a battute di
caccia in compagnia di nobili e gentiluomini) che distolsero precocemente l’ultima generazione
dei Crespi dalle proprie responsabilità imprenditoriali.
La resa definitiva per i Crespi arrivò nel 1930, quando oberati dai debiti e sull’orlo del
fallimento furono costretti a cedere alla Banca Commerciale (di cui tra l’atro Silvio era il
presidente dimissionario) tutte le proprietà, i palazzi di famiglia e lo stesso stabilimento che,
dopo alterne vicende, subirà una drastica ristrutturazione negli anni settanta ad opera dell’
”Addafilo”, una società del gruppo Legler, mentre il villaggio venne ceduto ai lavoratori nel
1972.1
1
Il cotonificio, rimasto in funzione sino al 2003, venne acquistato nel 2013 dall’imprenditore Antonio Percassi.
11
Silvio Crespi (1868-1944) che nel corso della sua vita aveva ricoperto le cariche di
senatore del Regno, ministro e presidente dell’Associazione Cotoniera, dopo aver tentato
inutilmente di ottenere da Mussolini un aiuto politico nella speranza di riacquistare il suo
“feudo”, si ridurrà a possedere una modesta latteria alla periferia di Milano, mentre il figlio
Benigno rileverà una altrettanto modesta impresa di nettezza urbana. La torre, marchio di
fabbrica dei Crespi e simbolo delle fortune della famiglia, era crollata per sempre trascinando
con sé l’intera dinastia.
Maurizio De Filippis
Bibliografia:
R. Romano, L’Industria cotoniera lombarda dall’Unità al 1914, BCI, 1992;
Id., I Crespi. Origini, fortuna e tramonto di una dinastia lombarda, Franco Angeli, 1985;
E. Quarenghi (a cura di), Crespi d’Adda. La fabbrica e il villaggio, Il filo d’Arianna, 1984;
Autori vari, Crespi d’Adda. Memorie di un’utopia;
http://www.crespidadda.it/

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Maurizio De Filippis
 

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La fabbrica e il villaggio. Modelli di socialità guidata

  • 1. 1 LA FABBRICA E IL VILLAGGIO Modelli di socialità guidata “Gli stabilimenti erano la nostra anima” Benigno Crespi L’avvio del processo di industrializzazione si verificò in Italia con molto ritardo rispetto ad altri paesi europei come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania, a causa del lento processo di unità nazionale e per la congenita povertà delle risorse tecnologiche e industriali. Le prime attività manifatturiere che si avvalsero di impianti meccanizzati e di sistemi di produzione più moderni furono le industrie tessili situate nelle vicinanze di corsi d’acqua da cui ricavavano la forza motrice necessaria al funzionamento dei macchinari. L’organizzazione industriale coinvolse anche i settori della lana e della seta, ma è l’industria cotoniera, in particolare quella lombarda, a compiere i più rapidi progressi, distinguendosi a partire dal 1870, dalle altre attività tessili, per una maggiore disponibilità finanziaria e per il tentativo di
  • 2. 2 utilizzare manodopera più stabile e meno frazionata dal lavoro domestico. Gli anni seguenti videro il moltiplicarsi, in Lombardia, di una serie di fiorenti aziende che costituirono la prima grande concentrazione industriale in senso moderno, divenendo delle vere e proprie imprese capitalistiche guidate da importanti dinastie di imprenditori come quelle di Eugenio Cantoni, fondatore della Cucirini-Cantoni, Francesco Turati degli stabilimenti Olcese, Antonio Vernocchi, Alessandro Maino, Fedele Borghi e Cristoforo Benigno Crespi, che costruì gli stabilimenti di Vaprio, Vigevano, Ghemme e Capriate d’Adda (1877). Usufruendo di una serie di condizioni propizie, tra cui una generale fase di progresso produttivo e una legislazione che favorì dal 1878 una sempre più decisa spinta protezionistica capace di garantire un mercato nazionale protetto dalla concorrenza estera, l’influenza degli industriali cotonieri si consolidò e si manifestò non solo nella vita economica della nazione, ma anche in campo politico con l’elezione di molti suoi membri tra le file dei parlamentari dell’epoca. Il concentrarsi dell’industria manifatturiera nelle regioni settentrionali, dalle province di Novara, Varese e Como sino a Bergamo e alla Val Seriana (dove va sottolineata la presenza di numerosi imprenditori svizzeri tra i quali si ricordano Legler, Oltiker e Honegger), trae motivazione dalla grande quantità di energia idrica disponibile sul territorio, dalla vicinanza di numerosi centri commerciali, da una efficiente rete stradale e ferroviaria e dalla presenza di una larga manodopera già sufficientemente istruita dal tradizionale lavoro a domicilio. Proprio l’incipiente meccanizzazione cui andò incontro l’industria cotoniera alla fine dell’Ottocento, basata su di un regime di fabbrica che permetteva una produttività ininterrotta grazie a turni di lavoro diurni e notturni, fornisce un’idea della vastità degli effetti e delle conseguenze che una così profonda trasformazione delle forze e dei rapporti di produzione ebbe sul piano dei rapporti sociali in una società prevalentemente agricola come quella italiana.
  • 3. 3 Il passaggio da un’economia contadina ad una caratterizzata dal lavoro in fabbrica comportò un radicale cambiamento culturale che obbligò il lavoratore a confrontarsi con una realtà produttiva completamente diversa da quella sperimentata nella comunità agricola di provenienza. Da tale confronto nacquero forzatamente una serie di problemi e di squilibri: la divisione del lavoro, i massacranti orari dei turni, la dura disciplina di fabbrica, i bassi salari l’assenza di un’efficace legislazione del lavoro, contribuirono alla nascita della “questione sociale”. In Italia, dato il limitato sviluppo industriale, non si può parlare dell’esistenza di una vera e propria classe operaia ma di una manodopera che resterà legata per lungo tempo alla figura dell’operaio-contadino. La dislocazione dei cotonifici, situati per lo più lontano dai grandi centri urbani per questioni di carattere economico (in provincia il costo dei terreni edificabili era minore), rispondeva anche alla necessità di poter reperire più facilmente una congrua quota di forza- lavoro a buon mercato. A causa del misero stato delle campagne, le piccole comunità rurali dei dintorni risultavano spesso sovrabbondanti di manodopera garantendo così all’imprenditore un ricambio di personale pressoché illimitato. Ed è proprio la lunga permanenza nel mercato del lavoro dell’operaio-contadino, pronto a dedicarsi appena possibile alla cura dei campi e restio a staccarsi definitivamente dalla realtà agricola, a costituire un ostacolo alla formazione di un moderno proletariato dotato di una coscienza di classe in grado di preservarlo efficacemente dai tentativi di sfruttamento che coinvolgevano soprattutto le numerose donne e i fanciulli impiegati nell’industria. Alla luce di quanto è stato detto sino ad ora riguardo i progressi compiuti dall’industrializzazione in Italia tra Otto e Novecento e dei mutamenti da essa provocati, si può delineare un quadro d’insieme che prevede, da una parte una borghesia capitalistica in ascesa, e
  • 4. 4 dall’altra un proletariato industriale non ancora completamente formato, proveniente da un mondo agricolo in bilico tra tradizione e rinnovamento. È evidente come, in tale contesto, gli scopi e le finalità dichiarate dagli imprenditori divergano completamente da quelli della classe operaia. Mentre i primi infatti cercano di “educare” i lavoratori alla disciplina e ai ritmi di lavoro della fabbrica allo scopo di aumentare i profitti, i secondi cercano di ritagliarsi delle autonomie che li preservino da una alienazione completa. Alcune frange dell’élite industriale cercarono di modificare ulteriormente a loro favore il rapporto capitale-lavoro, legittimando anche ideologicamente il proprio operato destreggiandosi sapientemente tra forme di “paternalismo umanitario” e “autoritarismo benefico”. Lo sforzo padronale di fissare stabilmente la vita e il destino del lavoratore attorno alla nuova realtà della fabbrica si realizzò grazie ad un accurato disegno di controllo sociale che nascondeva, sotto una apparente benevolenza, il tentativo di conciliare gli obbiettivi imprenditoriali con l’eliminazione di ogni minima conflittualità, lasciando al tempo stesso immutati i rapporti gerarchici all’interno della azienda. L’interessamento ai problemi operai manifestato attraverso la realizzazione di infrastrutture volte a migliorare l’adattamento e l’integrazione del lavoratore nella nuova realtà, rimanda direttamene al complesso ruolo sociale svolto in età moderna dalla fabbrica, capace di attirare manodopera, servizi, attività produttive, giungendo così a modificare l’intero tessuto urbano circostante con la nascita di città industriali che raggiunsero dimensioni pari a quelle di grossi sobborghi periferici. Prima ancora della nascita di vere e proprie città industriali, nel secolo XIX si diffusero dapprima nel nord Europa e in seguito in Italia numerosi villaggi operai (che nei paesi anglosassoni vennero chiamati Garden Cities e in Germania Siedlungen), realizzati direttamente da aziende economicamente solide che nelle zone periferiche e di campagna cercavano manodopera stabile specializzata e possibilmente estranea al clima sindacalizzato e
  • 5. 5 politicizzato delle città. La nascita dei villaggi operai si collegava anche alla questione delle abitazioni da destinare alle classi più povere, questione che nel corso del secolo si fece via via più sentita a causa dell’espansione dei centri urbani dovuta al fenomeno dell’inurbamento. Nel tentativo di risolvere tale problema si alterneranno interventi edilizi privati e pubblici sino a costituire una rete assistenziale (l’albergo dei poveri, i bagni pubblici, gli asili d’infanzia) che, se non costituì una soluzione definitiva, contribuì ad alleviare l’umile situazione in cui versava gran parte della popolazione. Per ciò che concerne i villaggi operai sorti nelle vicinanze di stabilimenti industriali occorre dire che, se è vero che furono il frutto di un certo tipo di filantropismo attento soprattutto agli aspetti pratici che ne potevano derivare (legare l’operaio al possesso temporaneo o permanente di un’abitazione significava attenuarne le rivendicazioni), è altrettanto vero che l’effetto di tali opere fu di un’importanza rivoluzionaria se si pensa alle cattive condizioni di vita in città e in campagna. Se la dimensione del fenomeno non raggiunse in Italia l’ampiezza che si registrò in Inghilterra, dove quasi tutti i più grandi imprenditori fondarono colonie operaie, in Germania (le Acciaierie Krupp davano lavoro a circa 25.000 operai dislocati in cinque città satellite), e in altri paesi maggiormente industrializzati, si può affermare che la città operaia di Crespi d’Adda, la “Nuova Schio” di Alessandro Rossi, il quartiere di Collegno di Napoleone Leumann, e l’esempio di Valdagno, la città-feudo dei conti Marzotto, rappresentarono nella società italiana un elemento di novità che ebbe una diffusione larghissima presso i maggiori circoli culturali dell’epoca. Se il fine dichiarato di tali attività filantropiche consisteva nell’elevare moralmente oltre che materialmente le condizioni delle classi meno abbienti, tema che si ritrova in tutte le pubblicazioni di parte che illustrano i successi di questo tipo di iniziative, l’edificazione dei villaggi operai, isole di armonia e pace sociale, doveva servire a prevenire la scomparsa dei
  • 6. 6 malesseri tipici della civiltà industriale urbana (grandi distanze tra abitazione e lavoro, insalubre habitat operaio, totale assenza di spazi verdi). Una razionale pianificazione urbanistica garantiva la realizzazione di queste esigenze: la costruzione degli alloggi e di altri servizi urbani, la rete di strade per lo più disposte secondo una planimetria ortogonale (vie diritte, incroci ad angolo retto) in grado di facilitare l’accesso agli stabilimenti riproduceva anche geometricamente il bisogno di ordine e senso gerarchico, agevolando il quotidiano contatto tra il lavoratore e il ceto impiegatizio e favorendo così l’assimilazione di un modello di vita e di una mentalità tipica della piccola borghesia. Poiché la concessione delle case, spesso singole e dotate di un piccolo orto, era di solito limitata agli impiegati e alle famiglie degli operai specializzati, appare evidente l’intenzione di creare un’aristocrazia operaia, che legata al possesso dell’abitazione, condividesse l’operato della classe dirigente. Le velleità moralistiche insite in questo progetto di comunità globale si coniugavano quindi felicemente a scopi utilitaristici: tutti i servizi e le infrastrutture messe a disposizione nel villaggio, negozi di generi alimentari, refettori, servizio medico, canalizzazioni per luce e gas, assistenza malattia, scuole interne per l’istruzione elementare dei figli degli operai, assicuravano infatti un totale controllo delle maestranze. Anche la vita privata veniva organizzata attraverso forme associative e attività promosse direttamente dall’azienda: gruppi sportivi (ad esempio il “Dopo lavoro Uniti e Forti” di Crespi d’Adda) e teatrali, attività musicali e ricreative, gite e iniziative culturali servivano a favorire gli incontri tra i lavoratori ed evitare tensioni all’interno della comunità, rendendola meno permeabile agli influssi politici e culturali esterni. Un’organizzazione così perfettamente aderente alla gerarchia interna della fabbrica, dove gli operai risultavano inquadrati e disciplinati dal lavoro sin dentro la sfera familiare, si avvicinava idealmente alla condizione feudale, in cui il nobile locale instaurava con i propri sudditi un ferreo rapporto di dipendenza personale.
  • 7. 3 Il passaggio da un’economia contadina ad una caratterizzata dal lavoro in fabbrica comportò un radicale cambiamento culturale che obbligò il lavoratore a confrontarsi con una realtà produttiva completamente diversa da quella sperimentata nella comunità agricola di provenienza. Da tale confronto nacquero forzatamente una serie di problemi e di squilibri: la divisione del lavoro, i massacranti orari dei turni, la dura disciplina di fabbrica, i bassi salari l’assenza di un’efficace legislazione del lavoro, contribuirono alla nascita della “questione sociale”. In Italia, dato il limitato sviluppo industriale, non si può parlare dell’esistenza di una vera e propria classe operaia ma di una manodopera che resterà legata per lungo tempo alla figura dell’operaio-contadino. La dislocazione dei cotonifici, situati per lo più lontano dai grandi centri urbani per questioni di carattere economico (in provincia il costo dei terreni edificabili era minore), rispondeva anche alla necessità di poter reperire più facilmente una congrua quota di forza- lavoro a buon mercato. A causa del misero stato delle campagne, le piccole comunità rurali dei dintorni risultavano spesso sovrabbondanti di manodopera garantendo così all’imprenditore un ricambio di personale pressoché illimitato. Ed è proprio la lunga permanenza nel mercato del lavoro dell’operaio-contadino, pronto a dedicarsi appena possibile alla cura dei campi e restio a staccarsi definitivamente dalla realtà agricola, a costituire un ostacolo alla formazione di un moderno proletariato dotato di una coscienza di classe in grado di preservarlo efficacemente dai tentativi di sfruttamento che coinvolgevano soprattutto le numerose donne e i fanciulli impiegati nell’industria. Alla luce di quanto è stato detto sino ad ora riguardo i progressi compiuti dall’industrializzazione in Italia tra Otto e Novecento e dei mutamenti da essa provocati, si può delineare un quadro d’insieme che prevede, da una parte una borghesia capitalistica in ascesa, e
  • 8. 8 tramonto di questa potente famiglia di imprenditori di origine bustese. Crespi d’Adda corrisponde pienamente alla tipologia dei villaggi industriali di cui è stata tratteggiata l’evoluzione nelle pagine precedenti, presentando, a partire dal 1889, una precisa fisionomia che si ispira ai criteri costruttivi dei villaggi inglesi lungamente studiati da Silvio Crespi durante i suoi frequenti viaggi in Inghilterra da dove torna persuaso ad adottare un nuovo atteggiamento imprenditoriale. Nascono così le case mono e bi-familiari al posto dei precedenti palasoc pluripiano e le villette dirigenziali. Grazie all’opera di importanti architetti lombardi come A. Mazzocutelli e E. Pirovano, il villaggio si dota di tutta una serie di strutture indispensabili alla vita quotidiana e sociale ( lo spaccio, il lavatoio coperto, l’ambulatorio) e si amplia, con il crescente successo degli affari, anche la fabbrica che arriva ad impiegare nel 1915 quasi 3.000 operai. Accanto a queste opere, frutto della liberalità dei Crespi, troviamo situati rispettivamente all’ingresso, al centro e alla fine dell’abitato, il castello, dimora dei proprietari, la chiesa e il mausoleo, segni tangibili del potere esercitato sui dipendenti. La villa- castello, oltre ad essere la residenza più grande e lussuosa, sovrasta l’intera vallata grazie ad un torrione che si eleva per cinquanta metri, rendendo chiara anche “fisicamente” la distanza che la separa dalle modeste casette ordinatamente allineate ai suoi piedi. La chiesa, copia perfetta in scala ridotta, dell’originale opera in stile bramantesco situata a Busto Arsizio, rappresenta il centro di aggregazione religiosa della comunità tenuta a presenziare ogni domenica alle funzioni del cappellano sotto il vigile sguardo dei proprietari. Anche il cimitero, che chiude il perimetro del villaggio, non sfugge all’incombente prassi gerarchica, caratterizzato com’è dalla presenza dell’enorme mausoleo di famiglia che proietta anche oltre la morte quel senso di superiorità e riverenza di cui i Crespi pretendevano di essere gli unici depositari. Appare chiaro allora come, al di là dei dichiarati intenti filantropici, ciò che emerge realmente sotto la patina di un formale interclassismo sia un progetto complessivo di
  • 9. 9 regolamentazione della vita sociale in ogni minimo particolare allo scopo di evitare la formazione di una solidarietà rivendicativa. La realizzazione delle opere assistenziali rispondeva perciò a delle finalità pratiche: alleviare i bisogni dei lavoratori significava renderli più collaborativi, tranquilli e laboriosi. L’adozione a tal fine di una organica filosofia paternalistica, peraltro già largamente sperimentata a Schio da un altro grande industriale tessile come Alessandro Rossi, permetteva di conciliare egregiamente il profitto con le esigenze di pace sociale. L’impegno profuso nell’edificare un’organizzazione così disciplinata e ordinata, fa intravedere il tipo di rapporto che legava i Crespi alle loro proprietà. L’atteggiamento psicologico predominante, tipico di una azienda a conduzione familiare, consisteva in una profonda identificazione tra imprenditore e impresa. Tale concezione patrimoniale, oltre a riflettersi sulla gestione effettiva degli stabilimenti (dalla politica di mercato agli investimenti diretti ad ampliare la fabbrica, tutto era concentrato nelle mani del proprietario), si estendeva anche agli abitanti del villaggio considerati alla stregua di fedeli sudditi eternamente riconoscenti. Si comprendono allora la rabbia e lo stupore provati dai proprietari nel 1920 da quello che la stampa locale definì “L’incidente di Capriate”, durante il quale i Crespi, duramente contestati dalle associazioni sindacali cattoliche guidate da Romano Cocchi, vennero inseguiti da una fitta sassaiola fin dentro le loro proprietà. In realtà tale episodio non costituisce semplicemente un affronto al prestigio e all’orgoglio di una potente famiglia di industriali, ma rappresenta simbolicamente anche la fine di una forma di paternalismo che aveva garantito agli imprenditori la possibilità di muoversi liberamente senza i vincoli della controparte. Ci si avvicinava alla fine di un’epoca: profondi mutamenti erano avvenuti nella società civile con la fine della Grande Guerra e le nuove organizzazioni sindacali reclamavano sempre maggior attenzione. Se l’avvento del fascismo sembrò perpetuare in un primo momento i tradizionali rapporti di dipendenza, in realtà le istituzioni
  • 10. 10 totalitarie del regime ambivano ad occupare tutti gli spazi disponibili non tollerando nessuna concorrenza. All’antico paternalismo padronale si sostituì così un paternalismo più vasto che coinvolse tutta la nazione. Con il tramonto delle funzioni del villaggio operaio anche il gioiello di casa Crespi, la fabbrica, su cui erano stati investiti praticamente tutti i guadagni, cominciò a declinare per una serie di motivazioni congiunte, che vanno dalla crisi generale dell’industria cotoniera dovuta alla sovrapproduzione, alla politica economica fascista che rivalutando la lira (quota 90), penalizzò le esportazioni che tanta parte avevano nella bilancia commerciale dell’azienda. Alla congiuntura economica sfavorevole vanno aggiunti poi errori imprenditoriali e speculazioni sbagliate: l’acquisto di ingenti quantitativi di cotone greggio si tramutò infatti in un pesante indebitamento nei confronti della Banca Commerciale a causa della caduta dei prezzi favorita dal disastro economico del 1930. Tra le ragioni che contribuirono alla decadenza dei Crespi non vanno poi dimenticate le conseguenze di un cambio di mentalità che comportò l’adozione di un stile di vita e di comportamenti di stampo aristocratico (partecipazione a ricevimenti mondani e a battute di caccia in compagnia di nobili e gentiluomini) che distolsero precocemente l’ultima generazione dei Crespi dalle proprie responsabilità imprenditoriali. La resa definitiva per i Crespi arrivò nel 1930, quando oberati dai debiti e sull’orlo del fallimento furono costretti a cedere alla Banca Commerciale (di cui tra l’atro Silvio era il presidente dimissionario) tutte le proprietà, i palazzi di famiglia e lo stesso stabilimento che, dopo alterne vicende, subirà una drastica ristrutturazione negli anni settanta ad opera dell’ ”Addafilo”, una società del gruppo Legler, mentre il villaggio venne ceduto ai lavoratori nel 1972.1 1 Il cotonificio, rimasto in funzione sino al 2003, venne acquistato nel 2013 dall’imprenditore Antonio Percassi.
  • 11. 11 Silvio Crespi (1868-1944) che nel corso della sua vita aveva ricoperto le cariche di senatore del Regno, ministro e presidente dell’Associazione Cotoniera, dopo aver tentato inutilmente di ottenere da Mussolini un aiuto politico nella speranza di riacquistare il suo “feudo”, si ridurrà a possedere una modesta latteria alla periferia di Milano, mentre il figlio Benigno rileverà una altrettanto modesta impresa di nettezza urbana. La torre, marchio di fabbrica dei Crespi e simbolo delle fortune della famiglia, era crollata per sempre trascinando con sé l’intera dinastia. Maurizio De Filippis Bibliografia: R. Romano, L’Industria cotoniera lombarda dall’Unità al 1914, BCI, 1992; Id., I Crespi. Origini, fortuna e tramonto di una dinastia lombarda, Franco Angeli, 1985; E. Quarenghi (a cura di), Crespi d’Adda. La fabbrica e il villaggio, Il filo d’Arianna, 1984; Autori vari, Crespi d’Adda. Memorie di un’utopia; http://www.crespidadda.it/