IL DECRETO BANCHE: DECRETO LEGGE 3 MAGGIO 2016, N. 59
Il rischio penale derivante dalla violazione delle norme antitrust
1. RICCARDO SALOMONE
Difensore S.O.I. nel procedimento penale “Avastin-Lucentis”
Il rischio penale derivante dalla violazione delle norme antitrust:
il caso “Avastin-Lucentis”
(abstract della relazione tenuta)
1. L’intesa restrittiva della concorrenza e la Delibera dell’AGCM del 27/2/14
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha affermato testualmente
che le evidenze dimostrano che Roche e Novartis, anche attraverso le controllate Roche
Italia e Novartis Farma, hanno posto in essere una concertazione pervasiva e continuata
volta a ottenere una “differenziazione” artificiosa dei farmaci Avastin e Lucentis,
manipolando la percezione dei rischi dell’uso in ambito oftalmico di Avastin. Ciò è
avvenuto con l’obiettivo di una illecita massimizzazione dei rispettivi introiti – introiti
derivanti, nel caso del gruppo Novartis, dalle vendite dirette di Lucentis e dalla
partecipazione del 33% detenuta in Roche, nel caso del gruppo Roche dalle royalties
ottenute sulle stesse tramite la propria controllata Genentech – e un’incidenza diretta
sull’equilibrio della spesa sanitaria, sia in ambito pubblico che privato. Le condotte
delle imprese citate sono da ricondurre a un’intesa unica e complessa, contraria all’art.
101, lett. c), TFUE.
Lo scenario generale in cui va considerata l’intesa. La decisione di sviluppare
due farmaci aventi il medesimo meccanismo d’azione (anti-VEGF), destinandoli ad
applicazioni terapeutiche diverse per le quali sono state ottenute distinte registrazioni in
AIC, risulta essere stata adottata da Genentech. Prosegue la decisione dichiarando che, a
valle di tale decisione di Genentech, sono stati sottoscritti accordi verticali di licenza tra
Genentech e Roche da un lato, Genentech e Novartis dall’altro, per la vendita di Avastin
e Lucentis al di fuori degli USA. A causa di eventi su cui le imprese citate non hanno
potuto esercitare alcun controllo – segnatamente, lo sviluppo da parte di ricercatori
indipendenti di applicazioni oftalmiche off-label di Avastin prima del lancio sul mercato
di Lucentis per le medesime applicazioni on-label – entrambi i farmaci si sono trovati a
competere fra di loro nel mercato dei farmaci per la cura di patologie della vista dovute
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a disordini vascolari oculari, così come definito da una domanda che si è in tal senso
manifestata coerente a livello mondiale.
I contenuti specifici dell’intesa. Le condotte delle imprese si sono ispirate ad una
concertazione orizzontale finalizzata ad impedire che le applicazioni off-label di Avastin
erodessero quelle on-label di Lucentis, dalle quali sia Roche che Novartis attendevano i
propri maggiori utili. Si tratta di condotte che, pur presupponendo l’esistenza di rapporti
verticali di licenza, si realizzano al di fuori degli stessi: basti considerare che sin dal
2007, all’interno del gruppo Novartis, si è constatato come ai sensi dell’Accordo G-N
Novartis non avesse strumenti contrattuali per contrastare gli usi di Avastin in ambito
oftalmico. Nell’ambito delle condotte orizzontali delle imprese, emerse chiaramente
dalle risultanze istruttorie, ai fini dell’applicazione dell’art. 101 TFUE risulta, sempre
secondo l’Autorità: (a) un piano condiviso volto a un’artificiosa “differenziazione” di
Avastin e Lucentis, ottenuta manipolando la percezione dei rischi dell’uso in ambito
oftalmico del primo per condizionarne la domanda. Tale manipolazione è stata
perseguita da un lato tramite la produzione e diffusione di notizie in grado d’ingenerare
preoccupazioni pubbliche sulla sicurezza degli usi intravitreali di Avastin, dall’altro con
la minimizzazione dei risultati scientifici di studi comparativi indipendenti relativi
all’equivalenza di Avastin e Lucentis in ambito oftalmico. In altri termini, in presenza di
due farmaci equivalenti sotto ogni profilo in ambito oftalmico, le due imprese hanno
artificiosamente differenziato i prodotti, svalutando le contrarie acquisizioni
scientifiche, al fine di promuovere il prodotto più costoso (Lucentis, inizialmente pari a
1.100 euro ad iniezione e poi sceso a 902 euro dal novembre 2012), dalle cui vendite
derivano profitti per entrambe le società, e impedire, o comunque limitare, l’utilizzo di
quello meno costoso (Avastin, pari a 81,64 euro per iniezione); (b) un interesse
congiunto dei gruppi Roche e Novartis relativamente alla modifica del riassunto delle
caratteristiche del prodotto (RCP) di Avastin in corso presso EMA e a un auspicato
conseguente invio di una comunicazione formale ai professionisti medici (DHCP),
provocati dalle attività di Roche – in quanto Marketing Authorisation Holder (MAH) di
Avastin, dunque unica impresa autorizzata a interventi di farmacovigilanza rispetto a
tale farmaco – e direttamente funzionali al piano di cui sopra; (c) un coordinamento
delle condotte mantenute dalle filiali italiane dei gruppi Roche e Novartis – avvenuto a
mezzo di incontri diretti e scambi di email fra i vertici delle due imprese – per la
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gestione concertata di una serie di questioni più propriamente nazionali relative alla
concorrenza tra Avastin e Lucentis in ambito oftalmico.
2. Rischi penali
A meri fini di studio, e per pura speculazione accademica, si delineano di seguito i
rischi penali che potrebbero conseguire a siffatti comportamenti.
Disastro doloso. L’art. 434 c.p. dispone che chiunque commette un fatto diretto a
cagionare un disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità,
con la reclusione da uno a cinque anni. La pena è della reclusione da tre a dodici anni se
il disastro avviene.
Il reato di disastro è un delitto di comune pericolo che richiede il verificarsi di un
avvenimento grave e complesso con caratteristiche diffusive e con conseguente pericolo
per la vita o l’incolumità di persone indeterminate, anche se appartenenti a categorie
determinate di soggetti, ma non è necessario che queste persone subiscano un danno né
che si realizzi l’accadimento distruttivo di eccezionale gravità (Cass. pen., Sez. IV,
15/5/2012, n. 18678). In altre parole, è un delitto a consumazione anticipata, in quanto
la realizzazione del mero pericolo concreto del disastro è idonea a consumare il reato
mentre il verificarsi dell’evento funge da circostanza aggravante; il dolo è intenzionale
rispetto all’evento di disastro ed è eventuale rispetto al pericolo per la pubblica
incolumità (Cass. pen., Sez. IV, 11/10/2011, n. 36626).
Truffa. Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o
ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre
anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032. La pena è della reclusione da uno a cinque
anni e della multa da euro 309 a euro 1.549 se il fatto è commesso a danno dello Stato o
di un altro ente pubblico (art. 640 c.p.).
A tal proposito, va precisato che sussiste il reato di truffa “contrattuale”
nell’ipotesi in cui venga pagato un giusto corrispettivo a fronte della prestazione
truffaldinamente conseguita, posto che l’illecito si realizza per il solo fatto che la parte
sia addivenuta alla stipulazione del contratto, che altrimenti non avrebbe stipulato, in
ragione degli artifici e dei raggiri posti in essere dall’agente (Cass. pen., Sez. II,
6/2/2014, n. 5801). Del pari, integra gli estremi della truffa “contrattuale” la condotta di
chi ponga in essere artifizi o raggiri consistenti nel tacere o nel dissimulare fatti o
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circostanze tali che, ove conosciuti, avrebbero indotto l’altro contraente ad astenersi dal
concludere il contratto (Cass. pen., Sez. II, 4/7/2013, n. 28703).
Aggiotaggio. L’art. 501 c.p. punisce con la reclusione fino a tre anni e con la
multa da euro 516 a euro 25.822 chiunque, al fine di turbare il mercato interno dei valori
o delle merci, pubblica o altrimenti divulga notizie false, esagerate o tendenziose o
adopera altri artifici atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo delle
merci, ovvero dei valori ammessi nelle liste di borsa o negoziabili nel pubblico mercato.
La fattispecie criminosa di aggiotaggio, nel riferirsi ad “altri artifici”, contempla
comportamenti non giustificati dal punto di vista delle ordinarie regole che presiedono
all’attività d’impresa che, sebbene leciti, risultano posti in essere al fine di perpetrare
l’inganno nei confronti degli operatori di mercato (Cass. pen., Sez. V, 20/1/2009, n.
2063).
Associazione per delinquere. Ai sensi dell’art. 416 c.p., quando tre o più persone
si associano allo scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o
costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione
da tre a sette anni. Per il solo fatto di partecipare all’associazione, la pena è della
reclusione da uno a cinque anni.
Il delitto di associazione per delinquere non deve essere confuso con il concorso
di persone nel reato continuato: il criterio distintivo va individuato nel carattere
dell’accordo criminoso, che nell’indicata ipotesi di concorso si concretizza in via
meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più
reati determinati – anche nell’ambito del medesimo disegno criminoso – con la
realizzazione dei quali si esaurisce l’accordo e cessa ogni motivo di allarme sociale,
mentre nel reato associativo risulta diretto all’attuazione di un più vasto programma
criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza
di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori
dell’effettiva commissione dei singoli reati programmati (Cass. pen., Sez. II, 13/1/2014,
n. 933).
Quanto alla responsabilità da reato degli enti, allorché si proceda per il delitto di
associazione per delinquere e per reati non previsti fra quelli idonei a fondare la
responsabilità del soggetto collettivo, la rilevanza di questi ultimi non può essere
indirettamente recuperata, ai fini della individuazione del profitto confiscabile, per il
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loro carattere di delitti scopo del reato associativo contestato. Inoltre, la sanzione della
confisca del profitto derivante dal reato può essere disposta solo quando la data di
commissione di quest’ultimo è successiva a quella di entrata in vigore della normativa
che introduce nel catalogo dei reati-presupposto la fattispecie per cui si procede,
risultando invece irrilevante il momento in cui il suddetto profitto è, in tutto o in parte,
effettivamente conseguito (Cass. pen., Sez. VI, 24/1/2014, n. 3635: fattispecie in cui la
Corte ha annullato il sequestro preventivo del profitto riferito al reato di associazione
per delinquere e ad illeciti ambientali, derivante da condotte realizzate prima della
entrata in vigore della normativa che ha inserito i reati in questione fra quelli idonei a
fondare la responsabilità dell’ente).
Corruzione. Il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o
ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto
contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne
accetta la promessa, è punito con la reclusione da quattro a otto anni (art. 319 c.p.).
In tema di corruzione, va sottolineato che la nozione di “altra utilità”, quale
oggetto della dazione o promessa, ricomprende qualsiasi vantaggio materiale o morale,
patrimoniale o non patrimoniale, che abbia valore per il pubblico agente (Cass. pen.,
Sez. VI, 11/7/2013, n. 29789).
Finanche un parere meramente consultivo può integrare l’atto di ufficio oggetto di
mercimonio (Cass. pen., Sez. VI, 3/9/2013, n. 36212).
3. Il ruolo degli enti rappresentativi di interessi lesi dal reato nel procedimento
penale
Ai sensi dell’art. 91 c.p.p., gli enti e le associazioni senza scopo di lucro ai quali,
anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede, sono state riconosciute, in
forza di legge, finalità di tutela degli interessi lesi dal reato, possono esercitare, in ogni
stato e grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato
(es.: presentare memorie e indicare elementi di prova; chiedere al giudice del
dibattimento sia di rivolgere domande ai testimoni, periti, consulenti tecnici e alle parti
private, sia di ammettere nuovi mezzi di prova utili all’accertamento dei fatti;
richiedere, con atto motivato, al P.M. di proporre impugnazione agli effetti penali).
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Dal combinato disposto degli artt. 91, 92 e 93 c.p.p., il consenso della persona
offesa, previsto dall’art. 92, è richiesto soltanto per il caso di semplice intervento degli
enti o delle associazioni a norma dell’art. 93, il quale articolo, appunto, prevede la
possibilità di tale intervento per l’esercizio, ex art. 91, dei diritti e delle facoltà attribuiti
alla persona offesa; il consenso della persona non è invece richiesto nel caso in cui
ricorrano i presupposti per la costituzione di parte civile degli enti e delle associazioni
(Cass. pen., Sez. V, 25/1/2005, n. 2245).
4. La sentenza CEDU del 4/3/14, Grande Stevens c. Italia: spunti di riflessione
La Corte EDU, con questa sentenza sul caso Fiat-Ifil, mette in discussione il
sistema italiano in materia di abusi di mercato, sia per violazione del diritto a un equo
processo (art. 6 §1), sia per violazione del diritto a non essere giudicati o puniti due
volte (art. 4 del Protocollo n. 7). Il fatto, contestato a coloro che hanno materialmente
contribuito alla diffusione di un falso comunicato, si è incanalato nel doppio binario di
giudizio (penale e amministrativo) preveduto dalla normativa in materia di abusi di
mercato (artt. 180 e ss. TUF). La Corte EDU ha riscontrato, fra l’altro, la violazione
dell’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU, ossia del diritto a non essere giudicati o puniti due
volte. La Corte ritiene che la procedura davanti la Consob, pur avendo ad oggetto un
illecito formalmente di tipo amministrativo, si sostanzi in un’accusa di natura penale e,
di conseguenza, che debba osservare le garanzie che l’art. 6 della Convenzione riserva
ai processi penali. Anche il riscontro di compatibilità con il principio del ne bis in idem
deriva dalla riconduzione dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 187 ter TUF alla
matière pénale, con conseguente assimilazione del relativo procedimento a quello
vertente su una accusation en matière pénale. La Corte si sofferma sul metodo da
adottare nel test di compatibilità con l’art. 4 del Protocollo n. 7, precisando come non
interessi verificare se gli elementi costitutivi del fatto tipizzato dalle due norme siano o
meno identici, bensì solo se i fatti sussunti in esse e giudicati nei due procedimenti siano
o meno i medesimi.
Spunti di riflessione. Per quanto riguarda le situazioni in cui, analogamente al caso
in esame, vi sia una condanna definitiva nel procedimento (penale-)amministrativo e sia
ancora pendente quello penale(-criminale), simili situazioni potrebbero essere risolte
mediante un’interpretazione conforme alla Convenzione. La disposizione nazionale su
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cui operare in via interpretativa sarebbe l’art. 649 c.p.p., in cui è stabilito il divieto di un
secondo giudizio per “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale
divenuti irrevocabili”. La disposizione è infatti suscettibile di un’interpretazione
adeguatrice alla luce di questa sentenza. L’art. 649 c.p.p. afferma un principio di
garanzia, è norma di portata generale e non certo eccezionale, e può quindi a buon
diritto essere interpretato estensivamente, nel senso di far ricomprendere nel concetto
“di sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili” anche i provvedimenti di condanna
definiti “penali” dalla Corte di Strasburgo. In definitiva, si tratta qui di attribuire
all’elemento normativo “sentenza penale” di cui all’art. 649 c.p.p. il significato indicato
dalla fonte convenzionale.