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sabato 13 febbraio 2016 | pagina99 | IILQUARTINODIP99
il quaderno afghano
nel cuore del bosco
Si chiamava Zaher Rezai. Il suo nome dirà qualcosa a qualcuno.
Aveva tredici anni, o forse un po’ di più. Era partito ancora bambino
da Mazar-i Sharif. Aveva viaggiato avventurosamente fino a Venezia,
l’ultimo tratto nascosto in un traghetto
GIANFRANCO BETTIN
n È da un piccolo ponte sopra un fosso che si
intravede presto il Quaderno, in una radura
dove i sentieri si incrociano e si diramano
verso il folto del bosco. Il Quaderno è un’in-
stallazione in acciaio corten e in ferro e otto-
ne, poggiata su una base circolare attorno
alla quale si aprono e si possono sfogliare al-
cune grandi pagine metalliche – di circa 50
cm per 30 – sorrette da un basamento da cui
si alza di un paio di metri un’asta sottile sulla
quale garrisce uno stendardo che pare scol-
pito nell’aria. L’installazione, un’agile e sug-
gestiva scultura, è opera di Luigi Gardenal,
pittore, incisore, grafico e designer classe
1950, formatosi con Guidi, Vedova, De Lui-
gi, Santomaso. Le pagine color ruggine reca-
no incisi dei versi, la controcopertina simbo-
li e motivi orientali. Qualche anno fa, a Ca’
Pesaro, una mostra antologica di Gardenal
si era ispirata a questi motivi in una sezione
intitolata Afghan Visa. Gardenal conosce
bene i luoghi tra Europa e Asia, raggiunti va-
licando più volte il Khyber Pass, quando an-
coraeraunaviadidialogoediscambioenon
l’incrocio periglioso e devastato che poi è di-
ventato. Conosce e ha visto i Buddha della
valle Bamiyan, distrutti dalla furia talebana
poco prima dell’attacco alle Torri gemelle.
In quei posti favolosi e tragici e in tutta l’area
ora inquieta e sconvolta tra Medio Oriente,
Iraq, Iran, Turchia, Afghanistan, Pakistan,
Nepal, Tibet e India, ha viaggiato e lavorato
come disegnatore archeologico e «cacciato-
re» di segni, di forme e colori, di nutrimenti
culturali e di visioni. Non poteva non restare
colpito dalla storia di chi teneva nelle tasche
il quaderno che ha ispirato quel «monu-
mento» nel bosco.
Il sentiero che porta al Quaderno si inol-
tra nella selva spogliata dall’inverno, tra
gli alberi, gli arbusti di biancospino, le sie-
pi boscate. Le siepi, soprattutto, racconta-
no che cosa c’era prima, qui: un mondo
contadino che altrove, non lontano, è
scomparso sotto colate di cemento e asfal-
to, templi del commercio e del consumo,
capannoni. A suo tempo febbrili cellule del
miracolo economico, i capannoni del nor-
dest, pur provati dalla crisi, sfidano la con-
giuntura, tenendo duro e preparando l’a-
gognata ripresa.
Le siepi invece sono un reperto preserva-
to, una traccia del passato, di quando dava-
no fascine, legname e vimini. Come le col-
tivazioni, i casolari, le campagne: un mon-
do che si è prima spopolato con l’emigra-
zione di massa, poi convertito in universo
industriale e urbano e infine largamente
fatto artigianale intensivo (proprio nei ca-
pannoni) e commerciale alla maniera ame-
ricana e «globale» (dalla bottega di vicina-
to e dal mercato di paese all’outlet e al me-
gacentro aperti sette giorni su sette).
Qui invece, nella zona nord orientale del
territorio di Venezia, dove la conurbazione
che da Porto Marghera, inglobando Mestre,
si sgrana verso l’aeroporto Marco Polo, da
una ventina d’anni sta crescendo un bosco
che riesuma, in un esperimento di re-wilder-
ness guidata, l’antico bosco planiziale, prece-
dente lo stesso mondo contadino. Oggi le
aree aperte alla fruizione pubblica, dopo an-
ni di assoluta chiusura per consentirne la
crescita più libera e tutelata, coprono circa
230 ettari (in totale saranno oltre mille), ar-
ticolati in corpose zone boscate – di farnie,
frassini, carpini, salici, ontani, aceri, robinie,
tigli, platani, olmi: tutte piante autoctone –
collegate da percorsi pedonali e ciclabili e in-
framezzate da prati, bassure, stagni, fossati.
u segue alle pagine II e III
ILLUSTRAZIONIDIKOENIVENS
G+VarW+OZdhOtoscppkYmt0tA9LZ6HorVTHKeX5PFlo=
II | pagina99 | sabato 13 febbraio 2016
u segue da pagina I
n Il bosco in cui si trova il Quaderno copre
una cinquantina di ettari ed è cresciuto dal
2003, anno in cui le nuove semine e pian-
tumazioni sono state integrate nel paesag-
gio agricolo preesistente, allora in buona
parte abbandonato. In pochi passi, dal li-
mitare, si entra nel fitto degli alberi, in una
specie di sovvertimento spazio-temporale
in cui un territorio esempio storico di spe-
culazione edilizia e urbanistica e di una
snaturata e distorta incarnazione della
modernità prova a mutare drasticamente i
propri connotati e a ritrovare un ancestra-
le se stesso in certe radici.
Basta aguzzare la vista, e abituare i sensi
e si entra subito in un microcosmo paral-
lelo all’attiguo universo urbano, un altrove
appena di là da una linea sottile. Tra le
fronde del platano e della farnia ci si può
accorgere del cardellino, insidiato dalla
gazza, che ci va apposta a predarne le uova
anche se per sé, come la ghiandaia e la tor-
tora, predilige il pioppo, nel cui tronco ni-
dificano il picchio rosso e il picchio verde.
Nel fusto del salice si può spiare la cincial-
legra o, più raramente, l’upupa. Nella cep-
paia, il merlo. L’olmo lo si può vedere ospi-
tare fringuelli e colombacci. Cuculi, balie
nere, scriccioli li si nota arrangiarsi tran-
quillamente, come pure, di notte, gufi e ci-
vette, confortati, come i pipistrelli, dalla
(relativa) lontananza del gran bagliore
della città, delle autostrade, dell’aeropor-
to. Dal bosco sono solo un riflesso azzur-
rognolo e giallo tenuto a bada dalle ombre
della vegetazione che fa da immensa volie-
ra all’avifauna, e da libero e protetto habi-
tat a tanti altri animali.
* ** **
Si chiamava Zaher Rezai. Il suo nome
dirà qualcosa a qualcuno. Aveva tredici
anni, o forse un po’ di più. Era partito an-
cora bambino dall’Afghanistan. Era giun-
to in Iran e vi era rimasto a lavorare come
saldatore. Aveva quindi viaggiato avven-
turosamente fino a Venezia, l’ultimo tratto
nascosto in un traghetto per attraversare il
mare. Poi, nel porto di Venezia, si era ag-
grappato sotto un camion per eludere i
controlli di frontiera. Aveva percorso così
gli ultimi otto chilometri. A Mestre, a un
incrocio non lontano da dove sorge il bo-
sco che accoglie il Quaderno e che oggi,
per volontà del Comune, porta il suo nome
– il «Bosco di Zaher» – è caduto, o ha pro-
vato a scendere, ed è morto schiacciato
sotto le ruote. Aveva con sé un quaderno e
alcuni animaletti di plastica: un alce, una
rondine, una giraffa e un leone. Sembrava-
no giocattoli e, al tempo stesso, talismani e
ricordi. Evocavano un’infanzia o un’adole-
scenza, un tempo breve della vita persona-
le, e un tempo lungo, millenario, della sto-
ria naturale e della geografia. Il documen-
to d’identità che aveva in tasca diceva che
era nato a Mazhar-i Sharif tredici anni pri-
ma. Secondo i medici che ne hanno ispe-
zionato il corpo forse aveva tre o quattro
anni di più e forse quel documento era sta-
to contraffatto per agevolarne l’ingresso e
l’accoglienza in Europa. Inutilmente, dun-
que. Peraltro, alla frontiera, Zaher non ha
nemmeno tentato di farla valere, la mino-
re età dichiarata sulla carta, a riprova, for-
se, di un’assenza di premeditazione e con-
traffazione.
Il quaderno, tradotto dagli operatori e
dai mediatori culturali del Comune, con-
teneva un indiretto e toccante racconto
della vita di Zaher nella sua ultima stagio-
ne. C’erano disegni e note sul suo lavoro di
saldatore in Iran. C’erano i poveri conti di
spese e risparmi. E c’erano versi di poesie e
canzoni della tradizione hazara, l’etnia a
cui apparteneva, in parte riprodotti nel-
l’installazione di Gardenal. Una volta tra-
dotti e pubblicati, sono stati soprattutto
questi versi – in lingua hazaragi, un idio-
ma persiano con echi turchi e mongoli,
parlato da circa il 20% della popolazione
afghana – ad attirare l’attenzione di molti,
oltre all’atroce incidente che a Zaher era
costato la vita. Non era il primo incidente
simile, e non era il primo ragazzo a morire
nel tentativo di entrare in Italia, da queste
stesse parti. Ma quei dettagli così singola-
ri, suggestivi – i versi, gli animaletti, il dia-
rio di lavoro – avevano trattenuto più a
lungo del solito l’attenzione sul caso. Non
si era esaurita subito, come sempre, dopo
un attimo di pietà.
La calligrafia era da ragazzino poco
istruito, ma la tradizione poetica e cultu-
rale che in quelle righe echeggiava era pro-
fonda e ricca, spesso trasmessa a voce e
mandata a memoria più che attinta leg-
gendo, studiando.
* ** **
Nei versi che Zaher aveva trascritto, tra-
dotti da Hamed Mohamad Karim e Fran-
cesca Grisot, con la collaborazione di Do-
menico Ingenito, si canta l’amore, la natu-
ra, la bellezza:
Tu porti il profumo delle gemme che
sbocciano/
sei come un fiore di primavera./
È dolce il tuo affetto,/
amo parlare con te./
Tu sei un amico incantevole,/
sei una seta di passione e bellezza.
Si racconta la fatica del viaggio, la pena
dell’incertezza, il timore di non farcela:
Questo corpo così assetato e stanco/
Forse non arriverà all’acqua del mare./
Non so ancora quale sogno mi riserverà
il destino,/
ma promettimi, Dio,/
che non lascerai finisca la primavera./
Oh mio caro, che dolore riserva l’attimo
dell’attesa/
ma promettimi, Dio, che non lascerai fi-
nisca la primavera.
Si esprime l’estrema determinazione, in
cui l’amore per qualcuno (o il desiderio di
amare qualcuno) si confonde con l’amore
per la vita e per la libertà e l’uno e l’altro
motivano l’andare, oltre ogni confine e
asperità, e si invoca l’esaudirsi, nel caso,
dell’ultimo desiderio, inerme e fiero:
Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla
barca del tuo amore/
che, o riuscirò in fine ad amarti o mori-
rò annegato./
Giardiniere, apri la porta del giardino,
io non sono un ladro di fiori,/
io stesso mi sono fatto rosa, non vado in
giro in cerca di un fiore qualsiasi.
Attraverso i media questi versi hanno
circolato e hanno colpito molti, l’opinione
pubblica. Il ragazzino afghano, per una
volta, ha smesso di essere una semplice
nota di cronaca e un numero, parte fredda
di una statistica – i caduti sulla strada del-
le migrazioni, i respinti che cercano infau-
stamente di aggirare la regole, di valicare
la frontiera – per diventare un volto, una
voce, una vita. È stato uno dei primi casi in
cui ciò è successo. Di recente è accaduto al
piccolo Aylan, il bambino siriano di tre an-
ni annegato insieme al fratellino Galip di
cinque e alla madre Rehan, nelle acque
dell’Egeo tra Grecia e Turchia. La foto del
suo corpo riverso sulla spiaggia di Bodrum
ha fatto il giro del mondo e ha prodotto un
salto nella consapevolezza europea del
dramma dei migranti. È uscito dalle stati-
stiche ed è diventato (è tornato a essere)
un volto, una maglietta rossa e un paio di
scarpine fradice, una storia.
La commozione, nel caso di Zaher, è poi
anche diventata richiesta di chiarezza. So-
no state fatte delle domande. Non si è solo
preso atto, più o meno distrattamente,
dell’epilogo. Perché è morto così? È stato
chiesto. Perché ha dovuto ricorrere a quel
temerario, disperato, fatale espediente per
entrare nel continente dei diritti? Cosa
succede davvero al porto di Venezia quan-
do arrivano i migranti?
Succede – è poi emerso – che vengano
spesso respinti senza neanche verificare
chi siano, da dove vengano, da cosa fugga-
no, quali siano i loro diritti e quali i doveri
di uno stato dell’Unione europea e comun-
que come vengano rispettati i diritti uma-
ni su questa frontiera. Che se ne occupi so-
lo la polizia, non i mediatori, non i rappre-
sentanti dell’ufficio per i rifugiati, non gli
operatori del Comune, tagliati fuori. Ci so-
no state manifestazioni, denunce. Il Co-
mune di Venezia ha ritirato, in un primo
tempo, la propria collaborazione con le
autorità di frontiera, per riprenderla solo
quando è stata assicurata una maggiore
attenzione ai migranti, al rispetto delle re-
gole anche da parte delle stesse autorità, e
il rispetto dei diritti umani. Questa atten-
zione ha anche spinto ad approfondire la
storia di Zaher, le motivazioni del suo
viaggio, dei viaggi di molti come lui.
* ** **
Zaher veniva da Mazar-i Sharif, si è sa-
puto, una delle maggiori città afghane,
sulla via della seta percorsa da Marco Polo
e da tanti altri mercanti europei. La città
della splendida moschea blu dedicata al
cugino e genero del Profeta. Infatti, in af-
ghano, il nome della città significa “nobile
santuario”. La partenza di Zaher, su spinta
dei suoi stessi familiari, era legata alla par-
ticolare situazione creatasi a Mazar-i Sha-
rif negli anni Novanta, dopo la conquista
della città da parte dei talebani. Gli haza-
ra, il suo gruppo etnico, di origine mongo-
lo-caucasica, secondo la leggenda discen-
dente dai soldati dell’armata di Gengis
Khan, sono sciiti. Dopo la conquista i ta-
lebani imposero la conversione al sunni-
smo hanafita, pena dure rappresaglie. Gli
hazara avrebbero anche pagato per quan-
to era stato in precedenza commesso nella
zona ai danni dei talebani, soprattutto do-
po che questi nel 1995 avevano ucciso l’ul-
timo importante leader hazara, Abdul Ali
Mazari, capo del partito Hezbe Wahdat,
favorevole a un Afghanistan federalista e
pluralista. Circa ottomila hazara sciiti non
convertitisi furono uccisi nell’estate del
’98. Secondo Amnesty International, «le
vittime sono state ammazzate in modo de-
liberato e arbitrario nelle case e nelle stra-
de, dove i cadaveri sono rimasti per giorni.
Molti degli uccisi erano civili, tra cui don-
ne, vecchi e bambini».
È in questa situazione che la famiglia
decide di far partire Zaher, in cerca di una
vita più sicura. È, del resto, quanto hanno
spesso fatto gli hazara, storicamente emi-
grati in Pakistan, Iran, Australia, Canada,
Regno Unito, nord Europa (Danimarca e
Svezia).
Zaher, dunque, parte, insieme a uno zio.
Contattano un passeur, vengono caricati
con tanti altri in un furgone e arrivano in
Iran, forse a Kashan. Il ragazzo incomin-
cia a lavorare come saldatore, guadagna
poco ma risparmia, in vista di altre mete.
L’Iran, anche se è una meta storica dell’e-
migrazione hazara, non è il posto che de-
sidera. Tra l’altro, anche se sciiti, gli haza-
ra vi sono mal tollerati, soggetti ad abusi e
arbitrii, anche sul lavoro, a espulsioni che
spesso seguono a controlli pretestuosi nei
cantieri, nei campi, nelle botteghe. Zaher
prepara dunque il nuovo viaggio, questa
volta da solo. A quanto se ne sa, va in Kur-
distan, passa in Turchia, pagando con i ri-
sparmi i trafficanti di uomini che possono
fargli attraversare il confine. Arriva così a
Istanbul, poi a Smirne e quindi, via mare,
in Grecia, a Lesbo e da qui a Patrasso, il
porto che allora rappresenta la base di
partenza più frequente verso l’Italia e l’Eu-
ropa centrale e del nord.
Oggi è stata aperta un’altra via, di terra,
attraverso Ungheria e Serbia, ma allora
Patrasso, soprattutto, e Igoumenitsa, rap-
ILQUARTINODIP99
Ilragazzinoafghano
hasmessodiessereunasemplice
notadicronacaeunnumero,
partefreddadiunastatistica,
perdiventareunvolto,
unavoce,unavita
Il quaderno, tradotto dagli
operatori e dai mediatori
culturali del Comune, conteneva
il racconto della vita di Zaher
nella sua ultima stagione.
C’erano disegni e note
L’AUTORE
GIANFRANCO BETTIN
n Gianfranco Bettin, veneziano di Porto
Marghera, è scrittore, ricercatore, attivista
politico e ambientalista.
Collabora con il manifesto, con i quotidia-
ni del gruppo Agl-Repubblica e con il men-
sile Lo straniero.
Ha pubblicato i romanzi: Qualcosa che
brucia (Garzanti, 1989; Baldini e Castoldi,
2003), Sarajevo Maybe (Feltrinelli, 1994),
Nemmeno il destino (Feltrinelli, 1997 e
2004, da cui è stato tratto il film omonimo di
Daniele Gaglianone), Nebulosa del Boome-
rang (Feltrinelli, 2004).
Ha scritto inoltre diverse «indagini narra-
tive»: Dove volano i leoni. Fine secolo a Ve-
nezia (Garzanti, 1991), L’erede. Pietro Maso,
una storia dal vero (Feltrinelli, 1992), Pe-
trolkimiko. Le voci e le storie di un crimine
di pace (Baldini e Castoldi, 1998), La strage.
Piazza Fontana, verità e memoria (con
Maurizio Dianese, Feltrinelli, 1999), Petrol-
killer (con Maurizio Dianese, Feltrinelli,
2002), Eredi. Da Pietro Maso a Erika e
Omar (Feltrinelli, 2007), Gorgo. In fondo al-
la paura (Feltrinelli, 2009).
In Eredi, come già in L’erede, ha indagato
le motivazioni profonde e le influenze del
contesto che hanno portato dei giovani di
provincia a escogitare con totale freddezza e
poi a portare a termine con efferatezza la
strage dei propri genitori, aiutati da loro coe-
tanei.
Con Gorgo ha continuato a interrogarsi
sulla genesi e sulle conseguenze della violen-
za più brutale. Nel 2007 a Gorgo, nel profon-
do Nordest, due anziani coniugi, custodi di
una grande villa, vengono sorpresi nel sonno
da alcuni banditi che li uccidono dopo averli
torturati per costringerli ad aprire la cassa-
forte. È un delitto orrendo. L’intera regione è
sconvolta, e l’arresto dei tre sospetti non at-
tenua la paura crescente. Anche in questo ca-
so, Gianfranco Bettin non si limita a raccon-
tare la violenza nel suo manifestarsi, ma pro-
va a narrare l’effetto che provoca su un’intera
comunità.
Alcuni suoi racconti sono apparsi in volu-
mi e in riviste.
sabato 13 febbraio 2016 | pagina99 | IIIILQUARTINODIP99
Zaher, Aylan e gli altri
Alessandro Leogrande*
Nel Fuoribordo di questa settimana Gianfranco
Bettin, già autore di inchieste narrative che han-
no svelato le fratture e i tormenti del Veneto pro-
fondo, racconta la storia di Zaher Rezai.
Zaher è un ragazzino afghano che, nel porto di
Patrasso, si è aggrappato con tutte le sue forze
sotto un camion salito su un traghetto diretto
verso l’Italia. Quando il tir è sbarcato a Venezia, è
rimasto attaccato alla sua pancia per otto chilo-
metri, per poi essere sbalzato a un incrocio di
Mestre, e rimanere schiacciato sotto le sue ruote.
La storia di Zaher non è rimasta nell’anonimato,
al contrario di quella di migliaia di profughi che
muoiono ogni anno ai bordi delle nostre frontie-
re. È diventata il fulcro di un’opera collettiva di
recupero della memoria. È stato dato il suo nome
al bosco che sorge proprio davanti al luogo del-
l’incidente. Alla sua storia è stata dedicata una
installazione ivi costruita, un fumetto, una poe-
sia, un’opera teatrale, oltre che ovviamente que-
sto long form, che prova a narrare il suo mondo e
i suoi sogni. Come nel caso di Aylan, il bambino
siriano morto nel tentativo di raggiungere un’i-
sola dell’Egeo l’estate scorsa, la storia di Zaher è
una delle pochissime uscite dal cono d’ombra del
rigetto e dell’assuefazione.
Bettin si chiede se queste storie «salvate», e il
semplice fatto di raccontarle, possano essere uno
strumentoutilecontrol’obliocheavvolgelamor-
te in massa davanti ai nostri confini o se, piutto-
sto, tale operazione di recupero delle “singole” vi-
cende umane non rischi paradossalmente, dopo
alcuni giorni di emozione, di semplificare, e
quindi depotenziare, ciò che sta accadendo. È
una questione cruciale, che riguarda gli stessi
modi del narrare: quali sono, in fondo, le forme
giornalistiche o letterarie più adatte?
Raccontare la storia di Zaher, Aylan e gli altri,
provare a ricostruire non solo il modo in cui non
ce l’hanno fatta, ma anche le rotte che hanno se-
guito, le infinite frontiere e le battute d’arresto
che hanno dovuto oltrepassare, i motivi che li
hanno spinti a partire da soli o insieme ai loro fa-
miliari, la devastazione della guerra all’origine di
tutto, è l’unico strumento di cui disponiamo per
rompere la campana di vetro. Ma poi, come dice
Bettin, una volta recuperati i singoli volti, o al-
meno alcuni di essi, andrà anche stabilita una re-
lazione tra quei singoli volti e la dimensione co-
rale, plurale, composita, sfilacciata degli esodi
che si accavallano davanti ai nuovi muri dell’Eu-
ropa.
*curatore dell’inserto
FUORIBORDOpresentavano quasi le sole porte per entra-
re in Europa provenendo dai Balcani e
dall’Oriente. È lì, dunque, che il ragazzo
tenta di imbarcarsi di nascosto nelle navi e
nei traghetti per l’Italia. Viene scoperto
più volte, ma ritenta sempre. L’ultima vol-
ta le guardie scoprono tre ragazzi che ten-
tano insieme a lui, ma non Zaher. Così
parte e, finalmente, nella tarda sera del 10
dicembre del 2008, approda a Venezia.
Forse non sa che, per un tratto, ha percor-
so a ritroso, non da mercante ma da fug-
giasco, da cercatore di futuro e non di spe-
zie o tessuti, la strada di Marco Polo tra
Venezia e l’Oriente. Proprio quel Marco
Polo – eroe dei viaggiatori, dei mercanti e
dei narratori – a cui è intitolato l’aeroporto
internazionale vicino al quale, a un incro-
cio di strada a cui giunge aggrappato con
le unghie sotto un camion, in una mezza-
notte fredda e piovosa, Zaher incontra il
proprio destino.
Un destino che suscita grande emozione
in città e che rimbalza sulle cronache na-
zionali e la cui eco, a distanza di qualche
anno, non si è ancora spenta del tutto. Il
lavoro dei mediatori culturali del Comune,
che hanno tradotto i suoi testi e li hanno
inquadrati nella situazione culturale e
geopolitica in cui trovano origine, ha fatto
sì che i materiali continuino a circolare e
vengano a volte rielaborati e riproposti.
* ** **
Basir Ahang, poeta della diaspora af-
ghana, e giornalista, rifugiato politico in
Italia e attivista per i diritti umani, ha de-
dicato a Zaher una poesia nella sua raccol-
ta Sogni di tregua, edita da Gilgamesh:
Una voce a tutti nota invita la gente in
via Orlanda/
È la morte a parlare/
Le gocce di sangue recitano poesie/
Bimbo affamato, disertore di guerra/
Il mio cuore un aquilone vuol far vola-
re/
E su di esso scrivere:/
giardiniere, apri le porte del tuo giardi-
no/
io non sono un ladro di fiori.
Gianluca Costantini, grande disegnato-
re, ha dedicato a Zaher una breve, strug-
gente graphic novel intitolata 8 Km (la di-
stanza tra il porto di Venezia e l’incrocio di
via Orlanda in cui è avvenuto l’incidente
mortale). 8.008 km. Storia di Zaher Rezai
è invece il titolo di un’inchiesta teatrale di
Riccardo Venturi, più volte messa in sce-
na, una ricostruzione narrativa di forte
impatto del viaggio di Zaher (rintracciabi-
le su YouTube). In molti articoli e saggi la
vicenda viene ogni tanto ricordata, ed è
anche entrata in un romanzo per ragazzi,
Il volo dell’aquilone, di Arturo Buzzat e Ri-
ta Musumeci, editore Tredieci.
Insomma, Zaher non viene dimentica-
to. La sua storia non ha avuto l’eco di quel-
la di Enaiatollah Akbari, fuggito bambino
Zaher, o per Aylan, fondata sulla commo-
zione magari genuina ma circoscritta al
caso per caso, non è una risposta, neppure
parziale, non è neppure, da sé sola, un
buon segno. Zaher e Aylan e qualche altro
sono usciti dalle statistiche e dai loro gran-
di e freddi numeri per diventare volti e sto-
rie, ma quel che serve è invece proprio una
politica che sia all’altezza di quelle statisti-
che, di quei grandi numeri.
dall’Afghanistan e giunto in Italia, raccon-
tata da Fabio Geda nel best-seller Nel ma-
re ci sono i coccodrilli (Baldini e Castoldi),
o della storia di Samia Yusuf Omar atleta
di Mogadiscio, capace di qualificarsi a
prezzo di enormi fatiche e sacrifici per le
Olimpiadi di Pechino a soli diciassette an-
ni e divenuta un simbolo per le donne mu-
sulmane di tutto il mondo, ma poi contra-
stata dagli integralisti al potere in Etiopia
fino al punto di tentare il gran viaggio at-
traverso il Sahara e il mare Mediterraneo,
dove annegherà cercando di arrivare in
Italia, storia narrata nel libro di Giuseppe
Catozzella Non dirmi che hai paura (Fel-
trinelli), un best-seller a sua volta.
Anche se non ha avuto l’impatto pubbli-
co di queste grandi odissee, la storia di
Zaher non è stata dunque dimenticata.
Certo non nella città in cui ha trovato tra-
gico epilogo, che ne coltiva la memoria
perfino letteralmente, dedicando al ragaz-
zo afghano uno dei luoghi ai quali sta le-
gando il proprio stesso cambiamento, il
bosco che sta crescendo ai suoi limiti, dove
il Quaderno ne tiene vivo il ricordo e dove
molti vanno ad annodare, sul basamento
dell’installazione, accanto alle garze colo-
rate poste in origine dall’autore Gardenal
per evocare i colori e le vesti della terra del
ragazzo afghano, altre sciarpe, foulard, ca-
tenine, aggiungendovi un segno proprio,
una propria testimonianza affettuosa e so-
lidale.
Pubblicando i testi di Zaher, Francesca
Grisot, oltre a confermare come sia fre-
quente, nella sua esperienza di mediatrice
culturale, che i ragazzi afghani, anche po-
co istruiti o perfino analfabeti, sappiano a
memoria versi di poesie e canzoni e li usi-
no per darsi forza durante il viaggio, ne ha
trascritti alcuni che sentiva più spesso ri-
petuti, sulla paura di morire lontani da ca-
sa:
Se un giorno in esilio la morte deciderà
di prendersi il mio corpo/
Chi si occuperà della mia sepoltura, chi
cucirà il mio sudario?/
In un luogo alto sia deposta la mia ba-
ra/
Così che il vento restituisca alla mia Pa-
tria il mio profumo.
Era, certamente, anche la paura di
Zaher. In questo caso, però, Venezia ha
fatto di più che aiutare il vento a restituire
il suo profumo alla patria. Ha riportato a
casa il suo corpo, a Mazar-i Sharif. La sua
famiglia è stata rintracciata e nel racconto
di Hamed Mohamad Karim, regista af-
ghano e rifugiato politico da tempo in Ita-
lia, che è riuscito a parlare con il padre di
Zaher, allo strazio per la notizia ricevuta si
accompagna il rimorso.
«Che Dio perdoni me e gli altri, perché
lo abbiamo ucciso con le nostre stesse ma-
ni», ha detto il padre. «Io e i miei coetanei
qui in Afghanistan, che abbiamo creato
solo un ambiente di guerra in cui nessuna
possibilità è lasciata ai giovani, ma anche
coloro che lo hanno accolto, perché hanno
fatto in modo che per cercare salvezza si
dovesse infilare sotto un camion».
Un rimorso che non dovrebbe essere so-
lo della famiglia o della generazione af-
ghana che non ha saputo garantire nulla ai
propri figli, se non l’aiuto a fuggire. Sap-
piamo quanta responsabilità abbiano al-
tre potenze, altre forze, in questa storia, e
come sia stata spinta a un epilogo così cu-
po dalla mancata assunzione di un vero
impegno nei confronti di chi fugge da si-
tuazioni estreme, soprattutto se si tratta di
minori.
Abbiamo visto come Zaher non sia
stato dimenticato. Ma ci dobbiamo chie-
dere a cosa sia servita questa conoscenza
della sua storia da parte di molti, auto-
rità e governi compresi. È cambiato
qualcosa per quelli in fuga come lui? È
più o meno facile, adesso, entrare rego-
larmente in Europa, in Italia? Commuo-
versi su Zaher – o su Aylan – ha signifi-
cato cambiare qualcosa?
Il fatto è che commuoversi su Zaher, co-
me su Aylan e sui tanti, troppi come loro,
dedicargli luoghi e boschi e monumenti
(come quello che Ai Weiwei vuole intitola-
re ai migranti a Lesbo) e poesie e racconti,
e articoli come questo, non può bastare.
Una sola parola trascritta da Zaher nel suo
quaderno, una di quelle incise nel Quader-
no nel bosco, vale tutta la massa di chiac-
chiere riversata sul suo caso e in generale
sulla vicenda dei migranti dei nostri anni.
Parole spesso spese per celare il vuoto di
gestione dell’epocale questione da cui tali
vicende dipendono. Una politica per
ZahervenivadaMazar-iSharif,
unadellemaggioricittàafghane,
sullaviadellasetapercorsa
daMarcoPoloedatantialtri
mercantieuropei.Lacittà
dellasplendida“moscheablu”

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Il quaderno afghano nel cuore del bosco

  • 1. sabato 13 febbraio 2016 | pagina99 | IILQUARTINODIP99 il quaderno afghano nel cuore del bosco Si chiamava Zaher Rezai. Il suo nome dirà qualcosa a qualcuno. Aveva tredici anni, o forse un po’ di più. Era partito ancora bambino da Mazar-i Sharif. Aveva viaggiato avventurosamente fino a Venezia, l’ultimo tratto nascosto in un traghetto GIANFRANCO BETTIN n È da un piccolo ponte sopra un fosso che si intravede presto il Quaderno, in una radura dove i sentieri si incrociano e si diramano verso il folto del bosco. Il Quaderno è un’in- stallazione in acciaio corten e in ferro e otto- ne, poggiata su una base circolare attorno alla quale si aprono e si possono sfogliare al- cune grandi pagine metalliche – di circa 50 cm per 30 – sorrette da un basamento da cui si alza di un paio di metri un’asta sottile sulla quale garrisce uno stendardo che pare scol- pito nell’aria. L’installazione, un’agile e sug- gestiva scultura, è opera di Luigi Gardenal, pittore, incisore, grafico e designer classe 1950, formatosi con Guidi, Vedova, De Lui- gi, Santomaso. Le pagine color ruggine reca- no incisi dei versi, la controcopertina simbo- li e motivi orientali. Qualche anno fa, a Ca’ Pesaro, una mostra antologica di Gardenal si era ispirata a questi motivi in una sezione intitolata Afghan Visa. Gardenal conosce bene i luoghi tra Europa e Asia, raggiunti va- licando più volte il Khyber Pass, quando an- coraeraunaviadidialogoediscambioenon l’incrocio periglioso e devastato che poi è di- ventato. Conosce e ha visto i Buddha della valle Bamiyan, distrutti dalla furia talebana poco prima dell’attacco alle Torri gemelle. In quei posti favolosi e tragici e in tutta l’area ora inquieta e sconvolta tra Medio Oriente, Iraq, Iran, Turchia, Afghanistan, Pakistan, Nepal, Tibet e India, ha viaggiato e lavorato come disegnatore archeologico e «cacciato- re» di segni, di forme e colori, di nutrimenti culturali e di visioni. Non poteva non restare colpito dalla storia di chi teneva nelle tasche il quaderno che ha ispirato quel «monu- mento» nel bosco. Il sentiero che porta al Quaderno si inol- tra nella selva spogliata dall’inverno, tra gli alberi, gli arbusti di biancospino, le sie- pi boscate. Le siepi, soprattutto, racconta- no che cosa c’era prima, qui: un mondo contadino che altrove, non lontano, è scomparso sotto colate di cemento e asfal- to, templi del commercio e del consumo, capannoni. A suo tempo febbrili cellule del miracolo economico, i capannoni del nor- dest, pur provati dalla crisi, sfidano la con- giuntura, tenendo duro e preparando l’a- gognata ripresa. Le siepi invece sono un reperto preserva- to, una traccia del passato, di quando dava- no fascine, legname e vimini. Come le col- tivazioni, i casolari, le campagne: un mon- do che si è prima spopolato con l’emigra- zione di massa, poi convertito in universo industriale e urbano e infine largamente fatto artigianale intensivo (proprio nei ca- pannoni) e commerciale alla maniera ame- ricana e «globale» (dalla bottega di vicina- to e dal mercato di paese all’outlet e al me- gacentro aperti sette giorni su sette). Qui invece, nella zona nord orientale del territorio di Venezia, dove la conurbazione che da Porto Marghera, inglobando Mestre, si sgrana verso l’aeroporto Marco Polo, da una ventina d’anni sta crescendo un bosco che riesuma, in un esperimento di re-wilder- ness guidata, l’antico bosco planiziale, prece- dente lo stesso mondo contadino. Oggi le aree aperte alla fruizione pubblica, dopo an- ni di assoluta chiusura per consentirne la crescita più libera e tutelata, coprono circa 230 ettari (in totale saranno oltre mille), ar- ticolati in corpose zone boscate – di farnie, frassini, carpini, salici, ontani, aceri, robinie, tigli, platani, olmi: tutte piante autoctone – collegate da percorsi pedonali e ciclabili e in- framezzate da prati, bassure, stagni, fossati. u segue alle pagine II e III ILLUSTRAZIONIDIKOENIVENS G+VarW+OZdhOtoscppkYmt0tA9LZ6HorVTHKeX5PFlo=
  • 2. II | pagina99 | sabato 13 febbraio 2016 u segue da pagina I n Il bosco in cui si trova il Quaderno copre una cinquantina di ettari ed è cresciuto dal 2003, anno in cui le nuove semine e pian- tumazioni sono state integrate nel paesag- gio agricolo preesistente, allora in buona parte abbandonato. In pochi passi, dal li- mitare, si entra nel fitto degli alberi, in una specie di sovvertimento spazio-temporale in cui un territorio esempio storico di spe- culazione edilizia e urbanistica e di una snaturata e distorta incarnazione della modernità prova a mutare drasticamente i propri connotati e a ritrovare un ancestra- le se stesso in certe radici. Basta aguzzare la vista, e abituare i sensi e si entra subito in un microcosmo paral- lelo all’attiguo universo urbano, un altrove appena di là da una linea sottile. Tra le fronde del platano e della farnia ci si può accorgere del cardellino, insidiato dalla gazza, che ci va apposta a predarne le uova anche se per sé, come la ghiandaia e la tor- tora, predilige il pioppo, nel cui tronco ni- dificano il picchio rosso e il picchio verde. Nel fusto del salice si può spiare la cincial- legra o, più raramente, l’upupa. Nella cep- paia, il merlo. L’olmo lo si può vedere ospi- tare fringuelli e colombacci. Cuculi, balie nere, scriccioli li si nota arrangiarsi tran- quillamente, come pure, di notte, gufi e ci- vette, confortati, come i pipistrelli, dalla (relativa) lontananza del gran bagliore della città, delle autostrade, dell’aeropor- to. Dal bosco sono solo un riflesso azzur- rognolo e giallo tenuto a bada dalle ombre della vegetazione che fa da immensa volie- ra all’avifauna, e da libero e protetto habi- tat a tanti altri animali. * ** ** Si chiamava Zaher Rezai. Il suo nome dirà qualcosa a qualcuno. Aveva tredici anni, o forse un po’ di più. Era partito an- cora bambino dall’Afghanistan. Era giun- to in Iran e vi era rimasto a lavorare come saldatore. Aveva quindi viaggiato avven- turosamente fino a Venezia, l’ultimo tratto nascosto in un traghetto per attraversare il mare. Poi, nel porto di Venezia, si era ag- grappato sotto un camion per eludere i controlli di frontiera. Aveva percorso così gli ultimi otto chilometri. A Mestre, a un incrocio non lontano da dove sorge il bo- sco che accoglie il Quaderno e che oggi, per volontà del Comune, porta il suo nome – il «Bosco di Zaher» – è caduto, o ha pro- vato a scendere, ed è morto schiacciato sotto le ruote. Aveva con sé un quaderno e alcuni animaletti di plastica: un alce, una rondine, una giraffa e un leone. Sembrava- no giocattoli e, al tempo stesso, talismani e ricordi. Evocavano un’infanzia o un’adole- scenza, un tempo breve della vita persona- le, e un tempo lungo, millenario, della sto- ria naturale e della geografia. Il documen- to d’identità che aveva in tasca diceva che era nato a Mazhar-i Sharif tredici anni pri- ma. Secondo i medici che ne hanno ispe- zionato il corpo forse aveva tre o quattro anni di più e forse quel documento era sta- to contraffatto per agevolarne l’ingresso e l’accoglienza in Europa. Inutilmente, dun- que. Peraltro, alla frontiera, Zaher non ha nemmeno tentato di farla valere, la mino- re età dichiarata sulla carta, a riprova, for- se, di un’assenza di premeditazione e con- traffazione. Il quaderno, tradotto dagli operatori e dai mediatori culturali del Comune, con- teneva un indiretto e toccante racconto della vita di Zaher nella sua ultima stagio- ne. C’erano disegni e note sul suo lavoro di saldatore in Iran. C’erano i poveri conti di spese e risparmi. E c’erano versi di poesie e canzoni della tradizione hazara, l’etnia a cui apparteneva, in parte riprodotti nel- l’installazione di Gardenal. Una volta tra- dotti e pubblicati, sono stati soprattutto questi versi – in lingua hazaragi, un idio- ma persiano con echi turchi e mongoli, parlato da circa il 20% della popolazione afghana – ad attirare l’attenzione di molti, oltre all’atroce incidente che a Zaher era costato la vita. Non era il primo incidente simile, e non era il primo ragazzo a morire nel tentativo di entrare in Italia, da queste stesse parti. Ma quei dettagli così singola- ri, suggestivi – i versi, gli animaletti, il dia- rio di lavoro – avevano trattenuto più a lungo del solito l’attenzione sul caso. Non si era esaurita subito, come sempre, dopo un attimo di pietà. La calligrafia era da ragazzino poco istruito, ma la tradizione poetica e cultu- rale che in quelle righe echeggiava era pro- fonda e ricca, spesso trasmessa a voce e mandata a memoria più che attinta leg- gendo, studiando. * ** ** Nei versi che Zaher aveva trascritto, tra- dotti da Hamed Mohamad Karim e Fran- cesca Grisot, con la collaborazione di Do- menico Ingenito, si canta l’amore, la natu- ra, la bellezza: Tu porti il profumo delle gemme che sbocciano/ sei come un fiore di primavera./ È dolce il tuo affetto,/ amo parlare con te./ Tu sei un amico incantevole,/ sei una seta di passione e bellezza. Si racconta la fatica del viaggio, la pena dell’incertezza, il timore di non farcela: Questo corpo così assetato e stanco/ Forse non arriverà all’acqua del mare./ Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino,/ ma promettimi, Dio,/ che non lascerai finisca la primavera./ Oh mio caro, che dolore riserva l’attimo dell’attesa/ ma promettimi, Dio, che non lascerai fi- nisca la primavera. Si esprime l’estrema determinazione, in cui l’amore per qualcuno (o il desiderio di amare qualcuno) si confonde con l’amore per la vita e per la libertà e l’uno e l’altro motivano l’andare, oltre ogni confine e asperità, e si invoca l’esaudirsi, nel caso, dell’ultimo desiderio, inerme e fiero: Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla barca del tuo amore/ che, o riuscirò in fine ad amarti o mori- rò annegato./ Giardiniere, apri la porta del giardino, io non sono un ladro di fiori,/ io stesso mi sono fatto rosa, non vado in giro in cerca di un fiore qualsiasi. Attraverso i media questi versi hanno circolato e hanno colpito molti, l’opinione pubblica. Il ragazzino afghano, per una volta, ha smesso di essere una semplice nota di cronaca e un numero, parte fredda di una statistica – i caduti sulla strada del- le migrazioni, i respinti che cercano infau- stamente di aggirare la regole, di valicare la frontiera – per diventare un volto, una voce, una vita. È stato uno dei primi casi in cui ciò è successo. Di recente è accaduto al piccolo Aylan, il bambino siriano di tre an- ni annegato insieme al fratellino Galip di cinque e alla madre Rehan, nelle acque dell’Egeo tra Grecia e Turchia. La foto del suo corpo riverso sulla spiaggia di Bodrum ha fatto il giro del mondo e ha prodotto un salto nella consapevolezza europea del dramma dei migranti. È uscito dalle stati- stiche ed è diventato (è tornato a essere) un volto, una maglietta rossa e un paio di scarpine fradice, una storia. La commozione, nel caso di Zaher, è poi anche diventata richiesta di chiarezza. So- no state fatte delle domande. Non si è solo preso atto, più o meno distrattamente, dell’epilogo. Perché è morto così? È stato chiesto. Perché ha dovuto ricorrere a quel temerario, disperato, fatale espediente per entrare nel continente dei diritti? Cosa succede davvero al porto di Venezia quan- do arrivano i migranti? Succede – è poi emerso – che vengano spesso respinti senza neanche verificare chi siano, da dove vengano, da cosa fugga- no, quali siano i loro diritti e quali i doveri di uno stato dell’Unione europea e comun- que come vengano rispettati i diritti uma- ni su questa frontiera. Che se ne occupi so- lo la polizia, non i mediatori, non i rappre- sentanti dell’ufficio per i rifugiati, non gli operatori del Comune, tagliati fuori. Ci so- no state manifestazioni, denunce. Il Co- mune di Venezia ha ritirato, in un primo tempo, la propria collaborazione con le autorità di frontiera, per riprenderla solo quando è stata assicurata una maggiore attenzione ai migranti, al rispetto delle re- gole anche da parte delle stesse autorità, e il rispetto dei diritti umani. Questa atten- zione ha anche spinto ad approfondire la storia di Zaher, le motivazioni del suo viaggio, dei viaggi di molti come lui. * ** ** Zaher veniva da Mazar-i Sharif, si è sa- puto, una delle maggiori città afghane, sulla via della seta percorsa da Marco Polo e da tanti altri mercanti europei. La città della splendida moschea blu dedicata al cugino e genero del Profeta. Infatti, in af- ghano, il nome della città significa “nobile santuario”. La partenza di Zaher, su spinta dei suoi stessi familiari, era legata alla par- ticolare situazione creatasi a Mazar-i Sha- rif negli anni Novanta, dopo la conquista della città da parte dei talebani. Gli haza- ra, il suo gruppo etnico, di origine mongo- lo-caucasica, secondo la leggenda discen- dente dai soldati dell’armata di Gengis Khan, sono sciiti. Dopo la conquista i ta- lebani imposero la conversione al sunni- smo hanafita, pena dure rappresaglie. Gli hazara avrebbero anche pagato per quan- to era stato in precedenza commesso nella zona ai danni dei talebani, soprattutto do- po che questi nel 1995 avevano ucciso l’ul- timo importante leader hazara, Abdul Ali Mazari, capo del partito Hezbe Wahdat, favorevole a un Afghanistan federalista e pluralista. Circa ottomila hazara sciiti non convertitisi furono uccisi nell’estate del ’98. Secondo Amnesty International, «le vittime sono state ammazzate in modo de- liberato e arbitrario nelle case e nelle stra- de, dove i cadaveri sono rimasti per giorni. Molti degli uccisi erano civili, tra cui don- ne, vecchi e bambini». È in questa situazione che la famiglia decide di far partire Zaher, in cerca di una vita più sicura. È, del resto, quanto hanno spesso fatto gli hazara, storicamente emi- grati in Pakistan, Iran, Australia, Canada, Regno Unito, nord Europa (Danimarca e Svezia). Zaher, dunque, parte, insieme a uno zio. Contattano un passeur, vengono caricati con tanti altri in un furgone e arrivano in Iran, forse a Kashan. Il ragazzo incomin- cia a lavorare come saldatore, guadagna poco ma risparmia, in vista di altre mete. L’Iran, anche se è una meta storica dell’e- migrazione hazara, non è il posto che de- sidera. Tra l’altro, anche se sciiti, gli haza- ra vi sono mal tollerati, soggetti ad abusi e arbitrii, anche sul lavoro, a espulsioni che spesso seguono a controlli pretestuosi nei cantieri, nei campi, nelle botteghe. Zaher prepara dunque il nuovo viaggio, questa volta da solo. A quanto se ne sa, va in Kur- distan, passa in Turchia, pagando con i ri- sparmi i trafficanti di uomini che possono fargli attraversare il confine. Arriva così a Istanbul, poi a Smirne e quindi, via mare, in Grecia, a Lesbo e da qui a Patrasso, il porto che allora rappresenta la base di partenza più frequente verso l’Italia e l’Eu- ropa centrale e del nord. Oggi è stata aperta un’altra via, di terra, attraverso Ungheria e Serbia, ma allora Patrasso, soprattutto, e Igoumenitsa, rap- ILQUARTINODIP99 Ilragazzinoafghano hasmessodiessereunasemplice notadicronacaeunnumero, partefreddadiunastatistica, perdiventareunvolto, unavoce,unavita Il quaderno, tradotto dagli operatori e dai mediatori culturali del Comune, conteneva il racconto della vita di Zaher nella sua ultima stagione. C’erano disegni e note L’AUTORE GIANFRANCO BETTIN n Gianfranco Bettin, veneziano di Porto Marghera, è scrittore, ricercatore, attivista politico e ambientalista. Collabora con il manifesto, con i quotidia- ni del gruppo Agl-Repubblica e con il men- sile Lo straniero. Ha pubblicato i romanzi: Qualcosa che brucia (Garzanti, 1989; Baldini e Castoldi, 2003), Sarajevo Maybe (Feltrinelli, 1994), Nemmeno il destino (Feltrinelli, 1997 e 2004, da cui è stato tratto il film omonimo di Daniele Gaglianone), Nebulosa del Boome- rang (Feltrinelli, 2004). Ha scritto inoltre diverse «indagini narra- tive»: Dove volano i leoni. Fine secolo a Ve- nezia (Garzanti, 1991), L’erede. Pietro Maso, una storia dal vero (Feltrinelli, 1992), Pe- trolkimiko. Le voci e le storie di un crimine di pace (Baldini e Castoldi, 1998), La strage. Piazza Fontana, verità e memoria (con Maurizio Dianese, Feltrinelli, 1999), Petrol- killer (con Maurizio Dianese, Feltrinelli, 2002), Eredi. Da Pietro Maso a Erika e Omar (Feltrinelli, 2007), Gorgo. In fondo al- la paura (Feltrinelli, 2009). In Eredi, come già in L’erede, ha indagato le motivazioni profonde e le influenze del contesto che hanno portato dei giovani di provincia a escogitare con totale freddezza e poi a portare a termine con efferatezza la strage dei propri genitori, aiutati da loro coe- tanei. Con Gorgo ha continuato a interrogarsi sulla genesi e sulle conseguenze della violen- za più brutale. Nel 2007 a Gorgo, nel profon- do Nordest, due anziani coniugi, custodi di una grande villa, vengono sorpresi nel sonno da alcuni banditi che li uccidono dopo averli torturati per costringerli ad aprire la cassa- forte. È un delitto orrendo. L’intera regione è sconvolta, e l’arresto dei tre sospetti non at- tenua la paura crescente. Anche in questo ca- so, Gianfranco Bettin non si limita a raccon- tare la violenza nel suo manifestarsi, ma pro- va a narrare l’effetto che provoca su un’intera comunità. Alcuni suoi racconti sono apparsi in volu- mi e in riviste.
  • 3. sabato 13 febbraio 2016 | pagina99 | IIIILQUARTINODIP99 Zaher, Aylan e gli altri Alessandro Leogrande* Nel Fuoribordo di questa settimana Gianfranco Bettin, già autore di inchieste narrative che han- no svelato le fratture e i tormenti del Veneto pro- fondo, racconta la storia di Zaher Rezai. Zaher è un ragazzino afghano che, nel porto di Patrasso, si è aggrappato con tutte le sue forze sotto un camion salito su un traghetto diretto verso l’Italia. Quando il tir è sbarcato a Venezia, è rimasto attaccato alla sua pancia per otto chilo- metri, per poi essere sbalzato a un incrocio di Mestre, e rimanere schiacciato sotto le sue ruote. La storia di Zaher non è rimasta nell’anonimato, al contrario di quella di migliaia di profughi che muoiono ogni anno ai bordi delle nostre frontie- re. È diventata il fulcro di un’opera collettiva di recupero della memoria. È stato dato il suo nome al bosco che sorge proprio davanti al luogo del- l’incidente. Alla sua storia è stata dedicata una installazione ivi costruita, un fumetto, una poe- sia, un’opera teatrale, oltre che ovviamente que- sto long form, che prova a narrare il suo mondo e i suoi sogni. Come nel caso di Aylan, il bambino siriano morto nel tentativo di raggiungere un’i- sola dell’Egeo l’estate scorsa, la storia di Zaher è una delle pochissime uscite dal cono d’ombra del rigetto e dell’assuefazione. Bettin si chiede se queste storie «salvate», e il semplice fatto di raccontarle, possano essere uno strumentoutilecontrol’obliocheavvolgelamor- te in massa davanti ai nostri confini o se, piutto- sto, tale operazione di recupero delle “singole” vi- cende umane non rischi paradossalmente, dopo alcuni giorni di emozione, di semplificare, e quindi depotenziare, ciò che sta accadendo. È una questione cruciale, che riguarda gli stessi modi del narrare: quali sono, in fondo, le forme giornalistiche o letterarie più adatte? Raccontare la storia di Zaher, Aylan e gli altri, provare a ricostruire non solo il modo in cui non ce l’hanno fatta, ma anche le rotte che hanno se- guito, le infinite frontiere e le battute d’arresto che hanno dovuto oltrepassare, i motivi che li hanno spinti a partire da soli o insieme ai loro fa- miliari, la devastazione della guerra all’origine di tutto, è l’unico strumento di cui disponiamo per rompere la campana di vetro. Ma poi, come dice Bettin, una volta recuperati i singoli volti, o al- meno alcuni di essi, andrà anche stabilita una re- lazione tra quei singoli volti e la dimensione co- rale, plurale, composita, sfilacciata degli esodi che si accavallano davanti ai nuovi muri dell’Eu- ropa. *curatore dell’inserto FUORIBORDOpresentavano quasi le sole porte per entra- re in Europa provenendo dai Balcani e dall’Oriente. È lì, dunque, che il ragazzo tenta di imbarcarsi di nascosto nelle navi e nei traghetti per l’Italia. Viene scoperto più volte, ma ritenta sempre. L’ultima vol- ta le guardie scoprono tre ragazzi che ten- tano insieme a lui, ma non Zaher. Così parte e, finalmente, nella tarda sera del 10 dicembre del 2008, approda a Venezia. Forse non sa che, per un tratto, ha percor- so a ritroso, non da mercante ma da fug- giasco, da cercatore di futuro e non di spe- zie o tessuti, la strada di Marco Polo tra Venezia e l’Oriente. Proprio quel Marco Polo – eroe dei viaggiatori, dei mercanti e dei narratori – a cui è intitolato l’aeroporto internazionale vicino al quale, a un incro- cio di strada a cui giunge aggrappato con le unghie sotto un camion, in una mezza- notte fredda e piovosa, Zaher incontra il proprio destino. Un destino che suscita grande emozione in città e che rimbalza sulle cronache na- zionali e la cui eco, a distanza di qualche anno, non si è ancora spenta del tutto. Il lavoro dei mediatori culturali del Comune, che hanno tradotto i suoi testi e li hanno inquadrati nella situazione culturale e geopolitica in cui trovano origine, ha fatto sì che i materiali continuino a circolare e vengano a volte rielaborati e riproposti. * ** ** Basir Ahang, poeta della diaspora af- ghana, e giornalista, rifugiato politico in Italia e attivista per i diritti umani, ha de- dicato a Zaher una poesia nella sua raccol- ta Sogni di tregua, edita da Gilgamesh: Una voce a tutti nota invita la gente in via Orlanda/ È la morte a parlare/ Le gocce di sangue recitano poesie/ Bimbo affamato, disertore di guerra/ Il mio cuore un aquilone vuol far vola- re/ E su di esso scrivere:/ giardiniere, apri le porte del tuo giardi- no/ io non sono un ladro di fiori. Gianluca Costantini, grande disegnato- re, ha dedicato a Zaher una breve, strug- gente graphic novel intitolata 8 Km (la di- stanza tra il porto di Venezia e l’incrocio di via Orlanda in cui è avvenuto l’incidente mortale). 8.008 km. Storia di Zaher Rezai è invece il titolo di un’inchiesta teatrale di Riccardo Venturi, più volte messa in sce- na, una ricostruzione narrativa di forte impatto del viaggio di Zaher (rintracciabi- le su YouTube). In molti articoli e saggi la vicenda viene ogni tanto ricordata, ed è anche entrata in un romanzo per ragazzi, Il volo dell’aquilone, di Arturo Buzzat e Ri- ta Musumeci, editore Tredieci. Insomma, Zaher non viene dimentica- to. La sua storia non ha avuto l’eco di quel- la di Enaiatollah Akbari, fuggito bambino Zaher, o per Aylan, fondata sulla commo- zione magari genuina ma circoscritta al caso per caso, non è una risposta, neppure parziale, non è neppure, da sé sola, un buon segno. Zaher e Aylan e qualche altro sono usciti dalle statistiche e dai loro gran- di e freddi numeri per diventare volti e sto- rie, ma quel che serve è invece proprio una politica che sia all’altezza di quelle statisti- che, di quei grandi numeri. dall’Afghanistan e giunto in Italia, raccon- tata da Fabio Geda nel best-seller Nel ma- re ci sono i coccodrilli (Baldini e Castoldi), o della storia di Samia Yusuf Omar atleta di Mogadiscio, capace di qualificarsi a prezzo di enormi fatiche e sacrifici per le Olimpiadi di Pechino a soli diciassette an- ni e divenuta un simbolo per le donne mu- sulmane di tutto il mondo, ma poi contra- stata dagli integralisti al potere in Etiopia fino al punto di tentare il gran viaggio at- traverso il Sahara e il mare Mediterraneo, dove annegherà cercando di arrivare in Italia, storia narrata nel libro di Giuseppe Catozzella Non dirmi che hai paura (Fel- trinelli), un best-seller a sua volta. Anche se non ha avuto l’impatto pubbli- co di queste grandi odissee, la storia di Zaher non è stata dunque dimenticata. Certo non nella città in cui ha trovato tra- gico epilogo, che ne coltiva la memoria perfino letteralmente, dedicando al ragaz- zo afghano uno dei luoghi ai quali sta le- gando il proprio stesso cambiamento, il bosco che sta crescendo ai suoi limiti, dove il Quaderno ne tiene vivo il ricordo e dove molti vanno ad annodare, sul basamento dell’installazione, accanto alle garze colo- rate poste in origine dall’autore Gardenal per evocare i colori e le vesti della terra del ragazzo afghano, altre sciarpe, foulard, ca- tenine, aggiungendovi un segno proprio, una propria testimonianza affettuosa e so- lidale. Pubblicando i testi di Zaher, Francesca Grisot, oltre a confermare come sia fre- quente, nella sua esperienza di mediatrice culturale, che i ragazzi afghani, anche po- co istruiti o perfino analfabeti, sappiano a memoria versi di poesie e canzoni e li usi- no per darsi forza durante il viaggio, ne ha trascritti alcuni che sentiva più spesso ri- petuti, sulla paura di morire lontani da ca- sa: Se un giorno in esilio la morte deciderà di prendersi il mio corpo/ Chi si occuperà della mia sepoltura, chi cucirà il mio sudario?/ In un luogo alto sia deposta la mia ba- ra/ Così che il vento restituisca alla mia Pa- tria il mio profumo. Era, certamente, anche la paura di Zaher. In questo caso, però, Venezia ha fatto di più che aiutare il vento a restituire il suo profumo alla patria. Ha riportato a casa il suo corpo, a Mazar-i Sharif. La sua famiglia è stata rintracciata e nel racconto di Hamed Mohamad Karim, regista af- ghano e rifugiato politico da tempo in Ita- lia, che è riuscito a parlare con il padre di Zaher, allo strazio per la notizia ricevuta si accompagna il rimorso. «Che Dio perdoni me e gli altri, perché lo abbiamo ucciso con le nostre stesse ma- ni», ha detto il padre. «Io e i miei coetanei qui in Afghanistan, che abbiamo creato solo un ambiente di guerra in cui nessuna possibilità è lasciata ai giovani, ma anche coloro che lo hanno accolto, perché hanno fatto in modo che per cercare salvezza si dovesse infilare sotto un camion». Un rimorso che non dovrebbe essere so- lo della famiglia o della generazione af- ghana che non ha saputo garantire nulla ai propri figli, se non l’aiuto a fuggire. Sap- piamo quanta responsabilità abbiano al- tre potenze, altre forze, in questa storia, e come sia stata spinta a un epilogo così cu- po dalla mancata assunzione di un vero impegno nei confronti di chi fugge da si- tuazioni estreme, soprattutto se si tratta di minori. Abbiamo visto come Zaher non sia stato dimenticato. Ma ci dobbiamo chie- dere a cosa sia servita questa conoscenza della sua storia da parte di molti, auto- rità e governi compresi. È cambiato qualcosa per quelli in fuga come lui? È più o meno facile, adesso, entrare rego- larmente in Europa, in Italia? Commuo- versi su Zaher – o su Aylan – ha signifi- cato cambiare qualcosa? Il fatto è che commuoversi su Zaher, co- me su Aylan e sui tanti, troppi come loro, dedicargli luoghi e boschi e monumenti (come quello che Ai Weiwei vuole intitola- re ai migranti a Lesbo) e poesie e racconti, e articoli come questo, non può bastare. Una sola parola trascritta da Zaher nel suo quaderno, una di quelle incise nel Quader- no nel bosco, vale tutta la massa di chiac- chiere riversata sul suo caso e in generale sulla vicenda dei migranti dei nostri anni. Parole spesso spese per celare il vuoto di gestione dell’epocale questione da cui tali vicende dipendono. Una politica per ZahervenivadaMazar-iSharif, unadellemaggioricittàafghane, sullaviadellasetapercorsa daMarcoPoloedatantialtri mercantieuropei.Lacittà dellasplendida“moscheablu”