A critical study on the 'chesterbelloc' Distributism in its 103th anniversary since birth (1913 - 2016)
1. 1
Libera Università Maria SS. Assunta
MASTER II LIVELLO IN ESPERTI IN POLITICA E RELAZIONI INTERNAZIONALI
Uno studio critico sul Distributismo
‘chesterbellochiano’ nel centotreesimo
anniversario dalla sua nascita (1913 – 2016)
Relatore
Rocco Pezzimenti
Candidato
Francesco Sabatini
Anno accademico 2015/2016
2. 2
Dedicato a Rossella e a Don Dario,
per la loro inesauribile pazienza
nei confronti dello scrivente.
3. 3
INDICE
I. INDICE P. 3
II. INTRODUZIONE. P. 5
III. RADICI STORICHE DEL DISTRIBUTISMO. P. 8
IV. DIFFUSIONE DEL PENSIERO ‘CHESTERBELLOC’ IN INGHILTERRA. P.15
V. LASCITO DEL PENSIERO DISTRIBUTISTA: ‘MORTO’ E ‘SEPOLTO’? P. 39
VI. CONCLUSIONI. P. 45
VII. UN RINGRAZIAMENTO SPECIALE. P. 47
VIII. BIBLIOGRAFIA. P. 48
IX. SITOLOGIA. P. 51
4. 4
“Definisco il cristianesimo l'unica grande maledizione, l'unica grande e più intima
depravazione, l'unico grande istinto della vendetta, per il quale nessun mezzo è abbastanza
velenoso, furtivo, sotterraneo, meschino – lo definisco l'unica immortale macchia d'infamia
dell'umanità.”
- F. Nietzsche
“Il problema dell’universo si può riassumere in due lettere: io!”
- G. K. Chesterton
5. 5
INTRODUZIONE.
Non è possibile iniziare la trattazione dell’oggetto di questa ricerca se non
incominciando a fornire una necessaria definizione. Perciò: che cos’è il distributismo?
In sintesi, è presto detto: si tratta di una corrente di pensiero vecchia di novant’anni, ben
radicata nell’Inghilterra di inizio ‘900 tra le classi conservatrici, tanto da concretizzarsi
in una vera e propria Lega Distributista1
, che poggiava il fondamento del suo essere
attuando un peculiarissimo modus vivendi che faceva propria la Dottrina Sociale della
Chiesa2
e i principi anti-socialisti ed anti-capitalisti quali la difesa della (piccola)
proprietà e del posto di lavoro delle classi afferenti alla piccola borghesia delle botteghe
o dei piccoli negozi, quello che, col senno del poi, altrove sarebbe stata definita ‘micro-
impresa’3
.
Sono passati ormai novant’anni dall’uscita degli articoli che il grande polemista politico
e re del paradosso, Gilbert Keith Chesterton, editorialista del giornale The New
Witness4
, profuse con grande impegno nel nome della suddetta Lega Distributista,
formata con l’assonanza culturale dell’altrettanto sagace Hilaire Belloc, anche lui
prolifico scrittore attivo nel reame della politica britannica, tanto da pubblicare decine di
opere aventi temi estremamente attuali per il suo tempo. Il tutto, tra l’altro, sembra
confermare il famoso detto inglese: ‘Great minds thinks alike’5
.
Ebbene, questo elaborato, suddiviso essenzialmente in tre parti, avrà il compito di
ricostruirne – senza scendere nel grande dettaglio permesso solo dalla possibilità di
accedere pienamente a tutta la bibliografia esistente sul fenomeno – anzitutto le radici
storiche partendo proprio dalla riepilogazione di quel bagaglio, in special modo
idealistico, espresso in questa corrente di pensiero dai due autori che sopra ho citato, i
quali a loro volta, come vedremo, erano divenuti veicolo del pensiero (anche metafisico,
cioè cristiano) del più famoso dei convertiti inglesi dell’XIX secolo, e cioè il Cardinal
John Henry Newman6
, vero astro su cui parve imperniarsi la lotta al pensiero anti-
1
V. infra, pag. 32.
2
“Che cos'è allora la dottrina sociale della Chiesa? Una dottrina rimanda normalmente ad un'azione: la
presenza, quindi [del]l'azione sociale dei cattolici e, con loro[,] degli uomini di buona volontà […] e
questa, in quanto azione cioè insieme di atti dell'uomo, ricade sotto la voce "morale" e ne è null'altro che
la specificazione e l'applicazione alla società: la dottrina sociale della Chiesa è dunque la morale sociale
cattolica e, nella misura in cui la morale cattolica incorpora, perfezionandolo, il dettato della morale
naturale, è morale sociale tout court, valida quindi non solo per il credente ma per tutti gli uomini di
buona volontà. Così la identifica la teologia cattolica […] e così pure il magistero supremo la intende:
secondo Giovanni Paolo II, infatti, la dottrina sociale della Chiesa è "teologia morale" a pieno titolo”.
V. sito internet: http://www.clerus.org/clerus/dati/2000-10/12-999999/DOTTRINA.html.
3
Secondo la Commissione Europea, la ‘micro-impresa’ è quella costituita da meno di dieci occupati ed
un fatturato annuo (od un bilancio annuo) non superiore ai due milioni di euro. V. sito internet:
www.statistica.unimib.it/utenti/minotti/definizione-PMI.docx. È chiaro che il concetto di micro-impresa
come noi lo intendiamo ad oggi era sconosciuto all’Inghilterra di inizio ‘900, essendo queste ricomprese
nella realtà delle botteghe e dei mastri artigiani.
4
V. CHESTERTON GILBERT KEITH; Il Profilo della Ragionevolezza – Il Distributismo, un’alternativa al
capitalismo e al socialismo, Lindau, Torino, 2011, pag. 250.
5
Proverbio traducibile dall’inglese nell’italiano con: “Le grandi menti pensano similmente”. Traduzione
ad opera dell’autore.
6
Nato nel 1801, salito in Cielo nel 1890, dichiarato Beato della Chiesa nel 2010 da Papa Benedetto XVI,
il Cardinal Newman ha costituito per l’Inghilterra momento centrale per la riflessione cattolica britannica
(ed internazionale) su cui si è sviluppata una vera e propria rinascita di intellettuali che aderirono al
cattolicesimo anche grazie (se non soprattutto!) agli scritti del già Venerabile, che ha trattato di moltissimi
campi del sapere scientifico, dalla mariologia fino a giungere alla filosofia politica, ovviamente
6. 6
secolarista7
e post-darwinista8
rivendicato dai cattolici inglesi9
di fine Ottocento ed
inizio Novecento. Tuttociò sarà esposto nel primo capitolo.
Nel secondo capitolo, invece, avrò cura di esaminare come questa filosofia alternativa
tra socialismo e capitalismo – nelle intenzioni dei loro ideatori – fu propagata nella Gran
Bretagna post-edoardiana fino a culminare nella costituzione di un ufficiale movimento
che diverrà attivo all’interno dello stesso Parlamento britannico, in special modo grazie
alla verve dei due grandi autori cristiani e di alcuni coraggiosi parlamentari cattolici
delle Camere10
.
Il terzo ed ultimo capitolo vuole in ultima battuta rendere noto al lettore qualora sia
possibile verificare l’esistenza di taluni profili legati alla corrente Distributista nel
giorno d’oggi. Nasce perciò legittima una domanda: com’è possibile che un
esperimento così particolare possa aver trasmesso alcuni dei suoi valori ad una realtà
lontana di novant’anni, segnata dalla sempre più netta assenza di codici morali comuni11
e dalla frammentazione dei famosi ‘corpi intermedi’12
, sull’onda di un tecnologismo13
connaturata dall’irrinunciabile valore del volontarismo cattolico. V. FROSINI G.; John Henry Newman –
una biografia teologica, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 2014.
7
“Il secolarismo […] è ‘la riduzione della religione trascendente o della morale che ne dipende a
retaggio del passato destinato progressivamente a scomparire’”. DEL NOCE A.; La pedagogia della
secolarizzazione e il conflitto delle culture, citato in: GALAVOTTI E.; Critica laica, Homolaicus editore,
2015, p. 81. Paradossalmente, a citare un eminente pensatore cattolico, è un testo di un autore davvero
poco noto che pare essere animato da un pensiero fondamentalmente laicista…
8
Per spiegare il darwinismo, mi sembra sufficiente fare ricorso alle parole di un famoso storico dei
conflitti bellici, che nella sua capacità di analisi, sembra aver ben inquadrato il fenomeno (e le sue ovvie
ricadute sulle scienze sociali) con grande pregio di sintesi: “l’idea classica del conflitto come elemento
centrale della vita umana era destinata a permanere oltre il mondo antico […]. Essa venne fortemente
rivalutata nel diciannovesimo secolo, quando la scienza, grazie al lavoro di Charles Darwin, si accostò a
un’interpretazione della stessa evoluzione della vita come a una sorta di lotta dentro e fuori le specie. La
sua teoria della selezione del più forte migrò verso la filosofia, le scienze sociali e la politica, e sboccò in
varie forme di socialismo, in particolare nel bolscevismo di Lenin e nel nazionalsocialismo di Adolf
Hitler”. V. KEEGAN J.; La guerra e il nostro tempo. Lezioni alla BBC, Arnoldo Mondadori Editore,
Milano, 2002, pagg. 63-64, citato in: LA VERGATA A.; Guerra e darwinismo sociale, Rubbettino Editore,
Soveria Mannelli, 2015, pag. 9.
9
Parlo non solo di G. K. Chesterton o di H. Belloc ma anche di Gerald Manley Hopkins. O Graham
Greene ed Evelyn Waugh, che hanno entrambi vissuto vite assai più travagliate dei tre autori che li hanno
preceduti cronologicamente. V. sito internet:
http://www.theguardian.com/books/2003/mar/01/classics.evelynwaugh. Cfr. con: KER I.; The Catholic
Revival In English Literature, 1845-1961: Newman, Hopkins, Belloc, Chesterton, Greene, Waugh,
University of Notre Dame Press, 2003.
10
Tra cui vi figura altresì il famosissimo Lord Acton. V. AA. VV; La Civiltà Cattolica – Anno
Quarantesimoquarto – VOL. III della Serie Decimaquinta, Tipografie Befani, Roma, 1893. Visionabile
presso la seguente pagina internet:
https://books.google.it/books?id=WXQRAAAAYAAJ&pg=PA507&lpg=PA507&dq=parlamentari+catto
lici+camera+dei+comuni+inizio+900+inghilterra&source=bl&ots=IS49s-azxe&sig=JXmB-
Yfto1gHhx_ibplkVpCTKEE&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjU4fTCovrMAhXKzRoKHeV1AjIQ6AEIOT
AF#v=onepage&q=parlamentari%20cattolici%20camera%20dei%20comuni%20inizio%20900%20inghil
terra&f=false.
11
V. FFORDE MATTHEW; Desocializzazione. La crisi della post-modernità, Cantagalli, Siena, 2005.
12
“La dottrina dei corpi intermedi costituiva uno sviluppo di quelle teorie, di origine medievale, che
rimandavano al concetto di monarchia limitata e che successivamente, a partire dalla fine del XVI
secolo, condussero alla nozione di stato o governo misto. Nonostante il termine sia abbastanza indefinito
e soggetto a molteplici interpretazioni – tanto che nelle stesse opere di Montesquieu non vi è una
definizione esatta di ciò che erano i corpi intermedi, di quali fossero i poteri di ciascuno e i limiti
costituzionali della loro competenza –, già alla fine del Cinquecento furono identificati da Beze, un
calvinista francese favorevole alla teoria medievale della ribellione e del tirannicidio, negli Stati
7. 7
che sembra assolvere il ruolo di indiscutibile rivelazione messianica’? E’ questo un
interrogativo al quale cercherò di trovare una risposta.
Infine, voglio rispondere in merito al curioso titolo che ho scelto per questa mia ‘piccola
tesi’; ho scritto che sono passati novant’anni dalla nascita di detta corrente Distributista,
imponendo quale sua genesi l’anno 1926: questo perché gli autori che hanno esaminato
questa peculiare ideologia sono concordi nell’affermare che punto centrale – ovvero il
momento ‘in cui tutto è iniziato’- è la pubblicazione degli articoli giornalistici di
Chesterton nel quotidiano da lui fondato G. K’s Weekly14
, avvenuta nel 1926 e seguiti
dalla pubblicazione di questi in un vero e proprio libro-raccolta intitolato dall’autore
‘The Outline of Sanity’, titolo che nella neonata edizione italiana si è voluto tradurre in:
‘Il Profilo della Ragionevolezza’15
, considerato appunto vera opera omnia del
distributismo inglese di inizio ‘900.
Generali, nelle autonomie delle città e delle province, nei parlamenti, gli unici organi che, secondo il
giurista francese, potevano ribellarsi al monarca in nome della società”. V. MATTEUCCI NICOLA;
Organizzazione del potere e libertà, UTET Università, Torino, 1988, pag. 29, citato in: MORELLI
FEDERICA; Territorio o nazione: riforma e dissoluzione dello spazio imperiale in Ecuador, 1765-1830,
Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2001, pag. 266.
13
“Sicuramente il ‘tecnologismo’ attiene di più alla superstizione che alla scienza e regredisce a uno
stadio precedente a quello del pensiero magico. Non sto dicendo che il ‘tecnologismo’ non si serva della
scienza. Dico precisamente che se ne serve: lungi dall’accordarle la sua libertà, riconoscerle un valore
in sé e celebrare la sua gratuità contemplativa, la tiene in schiavitù con l’intento di un sostanzioso
profitto. Perché nelle sue motivazioni più profonde, il ‘tecnologismo’ non è scientifico ma superstizioso.
Secondo Cicerone infatti, la superstizione, che è il contrario della religione, ricerca innanzitutto la
sopravvivenza e il potere mondano e riduce qualsiasi rituale a pratica utilitaristica, fatta non per onorare
e imitare gli dei ma per acquistare i favori…”. V. HADJADJ FABRICE; Fra tecnologismo e superstizione,
meglio la magia di Harry Potter, pubblicato in: Avvenire.it il 14/02/2016, v. pagina internet:
http://www.avvenire.it/rubriche/Pagine/Ultime%20notizie%20dell'uomo/Fra%20tecnologismo%20e%20s
uperstizione%20%20megliola%20magia%20di%20Harry%20Potter_20160214.aspx?Rubrica=Ultime%2
0notizie%20dell%27uomo.
14
Alcuni dei suoi apologeti considerano questa rivista come ‘organo ufficiale del distributismo’. V. sito
internet: http://uomovivo.blogspot.it/p/chi-e-gilbert-keith-chesterton.html. Cfr. con la pagina internet:
http://www.chesterton.org/category/discover-chesterton/chestertons-selected-works/the-distributist/. In
realtà, come vedremo nelle pagine a seguire, soluzione ancora migliore credo sia quella di suddividere le
fasi di sviluppo del pensiero distributista in diversi momenti cronologicamente inquadrati. V. infra, pagg.
15 – 38.
15
V. CHESTERTON GILBERT KEITH; Il Profilo della Ragionevolezza – Il Distributismo, un’alternativa al
capitalismo e al socialismo, Lindau, Torino, 2011. Non sono, a dire il vero, perfettamente d’accordo con
la traduzione che si è data al titolo dell’opera originale; a mio avviso sarebbe stato più aderente
all’originale tentare di tradurre il titolo in: ‘Uno sfondo di sanità’ (contrapposto, evidentemente, a quello
di ‘follia’, rappresentato dalla nuovissime teorie moderniste e negazionistiche avversate da Chesterton
stesso, che, come egli amava dire, avevano la caratteristica di far lui notare “con un misto di tristezza e
divertimento […] visioni sempre più sublimi che accompagnano i salari sempre più infimi”, sedendo lui
“in metropolitana o in tram, in mezzo a greggi di impiegati sfruttati e di operai sottopagati” leggendo
“di quell’idea grandiosa che vorrebbe gli uomini come dei” e chiedendosi invece “quando gli uomini
saranno come uomini”. Ibidem, pagg. 239 – 240.
8. 8
RADICI STORICHE DEL DISTRIBUTISMO.
È piuttosto complesso datare con precisione la data di nascita del fenomeno
distributista. Già nell’introduzione ho osato porre la data del 1926, anno di
pubblicazione del già citato testo chestertoniano ‘The Outline of Sanity’, nel quale il
buffo – ed estremamente saggio – ‘gigante’ della cultura cristiano cattolica britannica
decide di promuovere attivamente tale pensiero (r)innovatore16
. In realtà, un successivo
studio da me effettuato, sembra più che altro collegare a quella data la fase di massima
espansione del distributismo in Inghilterra; come se tale modello socio-economico
stesse per raggiungere a tutti gli effetti la propria ‘età adulta’17
, potendosi affermare
persino nella realtà corporativista britannica. È allora necessario chiarire un altro dato: e
cioè che l’epicentro della nascita di tale pensiero politico inglese si poggia sulle opere di
altri autori, due in special modo, Hilaire Belloc e George Coulehan Heseltine, sui quali
avrò cura di focalizzare la mia attenzione nel secondo capitolo. Ma, ugualmente, questa
non è che una testimonianza insufficiente per poter inquadrare le radici storico-
geografiche del distributismo, che, incredibile dictu, viene elaborato per la prima volta
presso lo Stato della Città del Vaticano a fine ‘800. Come ha scritto Pearce: “in fact,
pace Chesterton, Belloc was merely the propagator and the populariser of the Church’s
social doctrine of subsidiarity as expounded by Pope Leo XIII in Rerum Novarum
(1891)”18
. Ecco che dunque il documento che interessa, promotore di quello che diverrà
il pensiero distributista, è proprio l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII19
, resa nota
16
Innovatore, letteralmente: “chi innova o sostiene la necessità di introdurre delle innovazioni in qualche
campo specifico”. Rinnovatore: “che (o Chi) rinnova, spec. in senso morale o spirituale”. V. ZINGARELLI
NICOLA; Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli Editore, Dodicesima ed., Bologna, 1996. Mi
chiedo se sia più giusto parlare di ideale ‘innovatore’ che non ‘rinnovatore’. Il motivo del mio dubbio è il
seguente: di fatto il distributismo, come vedremo, non farà altro che promuovere valori già propri al
mondo occidentale cristiano, confluiti poi nella Dottrina Sociale della Chiesa, come ho provveduto a
sottolineare già nell’introduzione – dunque dovremmo essere d’accordo nel definirla un’esperienza
rinnovatrice (renovatio, dal latino) ridonando lustro al messaggio evangelico ‘sociale’ (e dunque politico,
e perciò, anche economico). Epperò, al tempo stesso, credo di poterlo definire un’esperienza innovatrice
perché il suo obiettivo era rendere nuova la società, la sempiterna Civitas Dei di memoria santagostiniana.
17
Perché parlare di ‘età adulta’ del distributismo? Parafrasando un grande studioso della filosofia politica,
mi permetto di dichiarare in ‘età adulta’ un qualsiasi pensiero politico–filosofico che ‘si incarni nella
società’ (dunque non quanto accadde nel caso dello ‘spettro del comunismo’, che, pur trovatosi
perfettamente a suo agio nelle neonate élites politiche sorte nelle società segnate da esperienze di governo
monarchico-autoritarie, quali quelle della Russia e, in misura ridotta, di taluni principati balcanici di
inizio ‘900, non ha conosciuto la ‘fase adulta’ della marxiana rivolta proletaria). Questo è invece quanto
accaduto col Capitalismo, fenomeno che trovò la sua genesi nell’imprenditorialità fatta propria dall’antico
impero di Roma e la propria ‘età adulta’ nella creazione fine-seicentesca delle grandi imprese marittime
inglesi, primissimo esempio di notevolissima concentrazione privata di ricchezza capace di circolare su
tutto il globo. Si pensi oppure al concetto di rappresentazione democratica moderna, che si espresse
inizialmente nelle grandi Diete nazionali rappresentative (di tutto il pensiero della società divisa in classi,
evidentemente), le quali produssero, a loro volta, il dato storico a noi noto col termine di
Parlamentarismo. V. PEZZIMENTI ROCCO; Sovrastruttura e struttura – Genesi dello sviluppo economico,
Città Nuova, Roma, 2006, pagg. 40 – 67. Cfr. con: BONINI FRANCESCO; Lezioni di storia delle istituzioni
politiche, G. Giappichelli Editore, Torino, 2002, pag. 86.
18
PEARCE JOSEPH; What is Distributism? Understanding a Controversial Alternative to Socialism and
Plutocracy, citato in: http://www.theimaginativeconservative.org/2014/06/what-is-distributism.html.
19
Personalità che non ha certo bisogno di presentazioni, Leone XIII, ovvero Papa Pecci, segnò la sua vita
e la sua attività ecclesiale nel grande coraggio e spirito di sacrificio che fu votato ad orientare una società
che si apprestava a conoscere tutte le difficoltà insite ai grandi cambiamenti sociali. È bene ricordarne
almeno brevemente il profilo; “Ordinato sacerdote nel 1837, nel 1838 fu nominato delegato apostolico di
9. 9
all’orbe cristiano e ai gentili alla data del 15 maggio 1891. Tale divulgazione, resasi
necessaria dall’“ardente brama di novità che da gran tempo” (§ 1) aveva “cominciato
ad agitare i popoli” (ibidem), rispondeva ai “portentosi progressi delle arti e i nuovi
metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la
ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie
forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo” (ibidem) specificò immediatamente il
panorama del proprio obiettivo; quello che Leone XIII stesso definì essere “la questione
operaia”20
. Il Papa procedette quindi a descrivere nella sua enciclica un’ideale
soluzione agli ostracismi presenti nei rapporti di lavoro fra capitalisti e salariati,
suddividendo il messaggio in differenti paragrafi dai titoli altisonanti quali: “la
soluzione socialista inaccettabile dagli operai”, oppure: “la proprietà privata è di
diritto naturale” e ancora: “la proprietà privata sancita dalle leggi umane e divine”,
proponendo infine, nella Parte Seconda, “il vero rimedio: l’unione delle associazioni”.
In questa parte il Pontefice ha avuto cura di illustrare come dei semplici principi
evangelici, se fatti aderire alla realtà presente, possono mitigare il conflitto presente
nella società. Come ha sintetizzato il Prof. Cova, rilasciando un’intervista relativa
all’omonima enciclica; “Leone XIII innova sul piano della proposta. […] Attraverso le
coordinate tradizionali del Cristianesimo – la specificità dell’uomo come persona, la
carità, l’amore per il prossimo – l’enciclica ricordava che l’operaio è sì un fattore della
produzione, ma con valori, speranze, una famiglia. Per questo il salario doveva tenere
conto delle sue specificità”21
. Procediamo tuttavia con ordine, sintetizzando perché
sembra legittimo definire questa enciclica ‘momento surgivo’ del pensiero distributista.
Il primo concetto espresso dal Pontefice, relativo all’“Opera della Chiesa” (A),
Benevento dove mise in mostra la sua abilità di amministratore e di politico. […] Arcivescovo titolare di
Damiata nel 1843, nello stesso anno fu inviato come nunzio pontificio in Belgio, dove affrontò senza
successo il problema della divisione del clero locale tra intransigenti e seguaci delle idee di Lamennais, e
quello dei contrasti tra governo e partito clericale. Lasciata la diplomazia, nel 1846 gli fu affidato il
vescovato di Perugia, che tenne sino al 1876. […] Nominato camerlengo alla morte del cardinale
Antonelli (nov. 1876), la sua fama di prelato esperto ed equilibrato gli valse l'elezione al trono pontificio,
avvenuta il 20 febbr. 1878”. V. sito internet: http://www.treccani.it/enciclopedia/leonexiiipapa/.
20
“Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è segnare i precisi confini nelle relazioni
tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini turbolenti ed astuti, si
sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione stessa a perturbamento dei popoli” (§ 1).
Papa Pecci aveva estremamente chiaro il peso delle forze in gioco: da un lato il liberalismo filo-capitalista
e dall’altro il socialismo dettato dalla dottrina comunista. Un eminente studioso ha osservato sul merito:
“tale questione [quella operaia NdR] è considerata nella Rerum Novarum soprattutto nella sua
dimensione di conflitto di classe, una specie di conflitto contingente ma esiziale, che bisognava
equamente comporre. Il mondo nato dal capitalismo e dalla rivoluzione industriale è percepito in modo
prevalentemente negativo, come pericolosa rottura di un ordine collaudato (di cui non si percepivano
appieno le profonde ingiustizie). Il carattere gerarchico, statico, a suo modo funzionale, di quest’ordine
dava l’impressione che esso fosse immutabile e inevitabile come la natura materiale. Il nuovo mondo con
il suo carattere apertamente conflittuale rappresentava la rottura di un ordine e perciò qualcosa di
negativo”. V. GATTI GUIDO; Manuale di teologia morale, Editrice Elledici, Torino, 2003, pag. 284. La
copia digitale dell’enciclica è invece visionabile presso l’indirizzo internet:
http://w2.vatican.va/content/leo-xiii/it/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15051891_rerum-
novarum.html.
21
L’intervista, promossa dal quotidiano on-line ‘Il sussidiario.net’, è reperibile alla pagina internet:
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2009/7/27/CHIESALeoneXIIIelaRerumNovarumunarivoluzio
nenelsegnodelladignitaumana/33021/. Tale concetto è a mio avviso sintetizzata da Gatti con grande
efficacia: “la soluzione proposta dalla Rerum Novarum consiste essenzialmente nel ricordare alle due
parti in causa i reciproci diritti e doveri: ‘iura et officia quibus locupletes et proletarios inter se oportet
contineri’”. V. GATTI GUIDO; Manuale di teologia morale, Editrice Elledici, Torino, 2003, pag. 285.
10. 10
costituisce la stessa missio del Popolo di Dio, espresso in tal caso dal clero, avente il
fine “non solo d’illuminare la mente, ma d’informare la vita e i costumi d’ognuno” (§
13), riuscendo a migliorare le condizioni del ‘proletariato’ - e di tutti i fedeli - tramite il
ricorso al Vangelo e “un gran numero di benefiche istituzioni” (ibidem), affermando
però, al tempo stesso, la necessità che lo Stato supporti detto impegno ecclesiale.
Questa, si potrebbe quasi definire, perciò, una iniziale ‘dichiarazione d’intenti’, posta
prudentemente all’apertura della Seconda Parte.
Fatte le debite premesse, Leone XIII appronta la discussione sulla “necessità delle
ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso” (1). ebbene, questa sezione, molto ben
scritta e grandemente evocativa, credo meriti di essere riportata quasi integralmente,
riuscendo tra l’altro a svelare la presenza di un’anima assai solerte e di grande
discernimento nel soggetto che ne declama: “si stabilisca dunque in primo luogo questo
principio, che si deve sopportare la condizione propria dell'umanità: togliere dal
mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni
tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste
per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non
la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità
la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del
civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e
l'impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello
stato. Quanto al lavoro, l'uomo nello stato medesimo d'innocenza non sarebbe rimasto
inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a
ricreazione dell'animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e
molestia, la necessità, secondo quell'oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo
lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17)”22
(§ 14).
Nel paragrafo successivo, poi, l’enciclica tocca l’aspetto relativo alla “necessità della
concordia” (2), ove è grandemente condannata l’attività di demonizzazione operata
dalle classi sociali contrapposte l’una contro l’altra, quasi che si stesse versando in un
conflitto senza possibilità di scampo. Al riguardo, il Papa ricorda ciò:“in vece è
verissimo che, come nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano
quell’armonico temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che nel
civile consorzio armonizzassero tra loro quelle […] classi, e ne risultasse l’equilibrio”
(§ 15).
Il terzo punto viene invece a trattare in merito alle “relazioni tra classi sociali” (3) che
debbono essere orientate alla giustizia (a) (“Agli occhi della ragione e della fede il
lavoro non degrada l'uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere
onestamente con l'opera propria. Quello che veramente è indegno dell'uomo è di
abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i
suoi nervi e le sue forze”. § 16), alla carità (b) (“ma la Chiesa, guidata dagli
insegnamenti e dall'esempio di Cristo, mira più in alto, cioè a riavvicinare il più
possibile le due classi, e a renderle amiche. Le cose del tempo non è possibile
22
Mi permetto di riportare quasi tutto il resto della sezione, che trovo illuminante e di grande
pragmatismo: “Patire e sopportare è dunque il retaggio dell'uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti,
non v'è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo
fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il
popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è
guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai
mali”. Ibidem.
11. 11
intenderle e valutarle a dovere, se l'animo non si eleva ad un'altra vita, ossia a quella
eterna, senza la quale la vera nozione del bene morale necessariamente si dilegua, anzi
l'intera creazione diventa un mistero inspiegabile”. § 18), promuovendo “la vera utilità
delle ricchezze” (c), aspetto che necessita di degno approfondimento per evitare di
ingenerare confusioni23
, non dimenticando i “vantaggi della povertà”24
(d) e
l’intrinseca bontà della “fraternità cristiana”25
(e).
Venendo alle soluzioni avanzate dal Papa per scavalcare tali problematiche, Leone XIII
passa a dettare al riguardo mezzi concreti per la risoluzione del conflitto ‘inter-classe’: e
non deve sorprendere che la prima ‘arma’ messa a disposizione del lavoratore sia
proprio la volontaria accettazione del dono della fede, che è anche la capacità di
‘piegare’ la volontà umana alla disciplina che questa impone per necessità di coerenza
al dettame evangelico26
. Con ancora maggior dettaglio, il testo preparatorio del
documento esprime l’importanza di questa ‘rivoluzione di coscienze’:“la quistione
operaia non potrà mai avere una soluzione veramente pratica che sollevi l’operaio
dalla miseria, se la vita cristiana non venga restaurata in tutta la sua pienezza
nell’organismo sociale. In molti operai la miseria, più che dalla scarsezza ed instabilità
de’salari, spesso dipende piuttosto dalla disorbitanza de’desideri e dalla dissipazione e
mala condotta del vivere: i quali vizi, se danno presto fondo a patrimoni anche
vistosissimi, non è a dire (e l’esperienza purtroppo lo prova) a quale squallore
riducano il povero. Moderare le brame dell’operaio e riordinarne i costumi, è quello
che soprattutto importa”27
. Si auspicava dunque un vero e proprio “ritorno alla vita e
ai costumi cristiani” (§ 22).
23
Come ha giustamente evidenziato il De Rosa: “a questo proposito vale la pena sottolineare che,
nonostante la tradizionale esaltazione dello stato di povertà non si riscontra mai né nella enciclica né
negli scritti patristici, una rassegnazione allo stato di miseria. Anzi, lo spettacolo tragico della povertà
estrema a cui i Padri assistevano in un’epoca in cui le popolazioni erano sottoposte ad una politica
fiscale durissima e all’ondata devastante delle invasioni barbariche, tale spettacolo nei suoi aspetti più
drammatici di privazione, mendicità, lotta per la sopravvivenza, è considerato dai Padri come una
violazione della legge di Dio”. V. DE ROSA GABRIELE; I tempi della ‘Rerum Novarum’, Istituto Luigi
Sturzo, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2002, pag. 363.
24
Aspetto che merita anch’esso di spiegazione per non cadere nell’equivoco opposto rispetto a quanto già
chiarito nella nota precedente: “la tradizionale esaltazione dello stato di povertà […] è positiva ed
assume un’inestimabile valore se è scelta liberamente. […] L’autorevolezza dei Padri in questo campo
deriva proprio dal fatto che tali parole sono sostanziate da un’esperienza vissuta in prima persona. […]
Ambrogio di Milano, prima di assumere la dignità di vescovo donò tutte le sue sostanze ai poveri.
Agostino fuse le suppellettili sacre per sovvenire agli indigenti. […] Giovanni Crisostomo, nato da una
famiglia eminente di Antiochia, rinunciò alla carriera del foro, da cui avrebbe tratto guadagni ed onori,
per dedicarsi alla vita monastica, vissuta ne lla povertà e nella preghiera”. Ibidem, pagg. 361 – 362.
25
“Conosceranno e sentiranno che i beni di natura e di grazia sono patrimonio comune del genere
umano e che nessuno, senza proprio merito, verrà diseredato dal retaggio dei beni celesti: perché se tutti
figli, dunque tutti eredi; eredi di Dio, e coeredi di Gesù Cristo (Rom 8,17). Ecco 1'ideale dei diritti e dei
doveri contenuto nel Vangelo. Se esso prevalesse nel mondo, non cesserebbe subito ogni dissidio e non
tornerebbe forse la pace?” (§ 21).
26
“Nel tempo stesso si studia di penetrare negli animi e di piegare la volontà, perché si lascino
governare dai divini precetti. E in quest’arte, che è di capitale importanza, poiché ne dipende ogni
vantaggio, la Chiesa sola ha vera efficacia. Infatti, gli strumenti che adopera a muovere gli animi le
furono dati a questo fine da Gesù Cristo, ed hanno in sé virtù divina; sì che essi soli possono penetrare
nelle intime fibre dei cuori, e far sì che gli uomini obbediscano alla voce del loro dovere, tengano a freno
le passioni, amino con supremo e singolare amore Iddio e il prossimo, e abbattano coraggiosamente tutti
gli ostacoli che attraversano il cammino della virtù” (§ 22).
27
V. ANTONAZZI GIOVANNI; L’enciclica Rerum Novarum – testo autentico e redazioni preparatorie dai
documenti originali, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1957, III, § 490 – 495.
12. 12
Quanto invece a “l’opera dello Stato” (B), come ho già esposto28
, questi doveva
contribuire allo sforzo promosso dalla Chiesa29
: e ciò promuovendo “il diritto
d’intervento dello Stato” (1) “in modo che ne risulti naturalmente la pubblica e privata
prosperità. Questo infatti è l’ufficio della civile prudenza e il dovere dei reggitori dei
popoli” (§ 26). Ciò è vero in quanto, come riporta il testo preparatorio del documento
papale nella sua seconda versione; “lo stato non può essere indifferente a riguardo
della sorte degli operai. Esso è stabilito per procurare il bene dei sudditi, e de’ sudditi
gli operai costituiscono l’immensa maggioranza: pressoché i nove decimi della nazione.
Lo Stato ha per principale dovere la protezione dei deboli; ed i deboli nella società
sono appunto gli operai, perché generalmente poveri e senza relazioni politiche”30
.
Questa la realtà rispecchiantesi nel tempo in cui Leone XIII scriveva, centennio in cui
nemmeno il concetto di diplomazia sindacale (figuriamoci di moderno ‘sindacato dei
lavoratori’) era di lì a venire31
. È chiaro che tale diritto di intervento statale doveva
essere calmierato con dei necessari limiti posti proprio a difesa della ‘specificità
individuale’ di ognuno: in particolar modo il Papa sottolinea nel testo come “non è
giusto […] che il cittadino e la famiglia siano assorbiti dallo Stato” (§ 28).
In conclusione, il Santo Padre veniva quindi a tracciare i tre principi che avrebbero
permesso – in accordo con il credo cattolico - la creazione di una società maggiormente
contrassegnata da quella auspicata sussidiarietà32
, ove si fosse stata palesata “la difesa
della proprietà privata” (3/a), “la difesa del lavoro” (3/b) e ultimo ma non ultimo, la
promozione di un’“opera delle associazioni” (C). Prima di esaminare questi tre aspetti,
credo sia necessario introdurre anzitutto una definizione di sussidiarietà. Come ha
rilevato Pearce: “Put simply, the principle of subsidiarity rests on the assumption that
the rights of small communities – e.g., families or neighbourhoods – should not be
violated by the intervention of larger communities – e.g., the state or centralized
bureaucracies. Thus, for instance, in practical terms, the rights of parents to educate
their children without the imposition by the state ‘politically correct’ school curricula
would be enshrined by the principle of subsidiarity. Parental influence in school is
subsidiarist; state influence is anti-subsidiarist”33
.
28
V. supra, pag. 10.
29
“Poiché d’ordinario si vede che ogni buon effetto è prodotto dall’armoniosa cooperazione di tutte le
cause dai cui esso dipende” (§ 25).
30
V. ANTONAZZI GIOVANNI; L’enciclica Rerum Novarum – testo autentico e redazioni preparatorie dai
documenti originali, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1957, IV, § 115 – 120.
31
Non è possibile non citare quanto la Rerum Novarum abbia dato alla storia del sindacalismo italiano nel
senso di favorire alla sua evoluzione. Come ha commentato il Prof. Romano, “nella prospettiva
evoluzionistica e non rivoluzionaria del pensiero sociale cristiano, il sindacato è visto in genere come
elemento mediatore del lento passaggio dalla struttura capitalistica disorganica ed inarticolata ad una
struttura economico-sociale in cui, in modo organico, i lavoratori, su un piano di giuridica parità con
tutti gli altri gruppi, possano esprimere le loro esigenze in modo che sia possibile giungere ad un
equilibrio fra i vari gruppi sociali, al fine di favorire e garantire il conseguimento del bene comune”. V.
ROMANI MARIO; Appunti sull’evoluzione del sindacato, Edizioni Lavoro, Roma, 2006, pag. 60. Cfr. nota
n. 39, infra.
32
V. infra.
33
V. nota n. 19, supra. È altrettanto interessante il riferimento diretto che l’autore ricollega a quella che
diverrà la definizione di sussidiarietà all’interno del Catechismo della Chiesa Cattolica, concetto
introdotto discutendo sui pericoli dell’eccessivo interventismo statale nella libertà degli individui: “a
community of a higher order should not interfere in the internal life of a community of a lower order,
depriving the latter of its functions, but rather should support it in case of need and help to co-ordinate its
activity with the activities of the resto f society, always with a view to the common good”. V. sito internet:
http://www.vatican.va/archive/ccc_css/archive/catechism/p3s1c2a1.htm (1883).
13. 13
Per quanto riguarda la difesa della proprietà privata, Leone XIII esprime il suo
inequivocabile parere sfavorevole sia verso quegli operai che, smaniosi, abbracciano
“massime false […] [e] cercano a tutti i costi di eccitare tumulti e sospingere gli altri
alla violenza” (§ 30) che verso i detentori dei mezzi di produzione, che percorrono la
strada “dello spogliamento” (ibidem) dei beni altrui: ciò specialmente per il “tanto
ardore di sfrenate cupidigie [che creano il bisogno] che le popolazioni siano tenute a
freno” (ibidem)34
.
Relativamente invece alla difesa del lavoro, valore ereditato poi dal distributismo,
questo non dovrà “esigere dall'uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per
troppa fatica e da fiaccarne il corpo” (§ 33) né tantomeno si debbono applicare pari
condizioni di lavoro a tutti i diversi soggetti che concorrono nello sforzo, siano essi
donne o bambini. Proprio al riguardo di questi ultimi, il Papa esprime un precipuo
diniego verso quello che la nostra società di oggi definisce ‘lavoro minorile’: “quanto ai
fanciulli, si badi a non ammetterli nelle officine prima che l'età ne abbia
sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella
puerizia sbocciano simili all'erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si
rende impossibile la stessa educazione dei fanciulli”35
(ibidem). Eguale discorso per la
giustizia da applicare nel pagamento della giusta mercede all’operaio, talché questa
tenesse conto di un criterio di effettiva equità36
.
Sul terzo ed ultimo pilastro, quello del libero associazionismo, infine, è stato osservato
come “il Papa sosteneva anche quelle corporazioni che avevano garantito, in passato,
un’equità tra i cittadini e che ora dovevano essere riadattate ai progressi della cultura
e alle nuove abitudini in modo da costituire nuovamente una garanzia sociale”37
.
34
Come è stato osservato da eminenti studiosi, “difendere il diritto di proprietà, non [va] certo solo a
vantaggio dei capitalisti, ma a favore di tutti, in primo luogo dei lavoratori, perché si tratta di garantire
quella parte di salario che essi avranno cercato di trasformare in proprietà, e di impedire [al tempo
stesso] dissennate distruzioni di impianti industriali”. V. AA. VV.; I Cento anni della Rerum Novarum.
Atti del Convegno di Lecce, 25/26 ottobre 1990, Edizioni Studio Domenicano, Roma-Bari, 1990, pag. 18.
35
“È noto che nelle prime fasi dell’industrialismo i ragazzi venivano ammessi in fabbrica sotto lo
specioso pretesto della ‘carità’ oppure per il ‘rispetto’ dovuto al diritto dei genitori di disporre dei propri
figli e che spesso vedevano, nell’abbondanza dei figli, la prospettiva di un supplemento di salario;
tuttavia, essendo fanciulli, essi ‘non avevano diritto’ a un vero e proprio salario… Così si trovavano
bambini di 6, 7, 8 anni in fondo alle miniere a guidare cavalli o a trainare vagoncini (!), o nell’industria
tessile, per giornate di lavoro di sedici o diciassette ore […]. La sola industria tessile inglese occupava,
nel 1857, la bellezza di 117.994 fanciulli. […] L’insufficienza di riposo rendeva il bisogno di sonno
talmente imperioso che spesso i disgraziati fanciulli si addormentavano nel bel mezzo dell’occupazione:
allora, per tenerli svegli, venivano battuti con funicelle, con fruste o con colpi di bastone sulla schiena,
persino sulla testa. […] Nel suo saggio sulla storia dello sviluppo della manifattura inglese, Gibbons
afferma che i ragazzi ivi impiegati erano spesso nutriti con gli stessi ‘cibi’ gettati ai maiali dei padroni:
dormivano a turno in letti sordidi che trovavano già caldi, perché ne era appena stata fatta balzar su la
‘sciolta’ che andava a riprendere il lavoro”. Ibidem, pag. 20.
36
“L'operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità
della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera
volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento
dell'operaio, frugale si intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla necessità o per timore di
peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti dal proprietario o dall'imprenditore, volenti o
nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta”
(§ 34).
37
V. LA ROSA ANGELICA; L’impegno cattolico di Hilaire Belloc, Libera Università Maria Ss. Assunta,
Dipartimento di Scienze economiche, politiche e delle lingue moderne, Cattedra di Storia della cultura
inglese, Anno Accademico 2014 – 2015, pag. 110. E’ curioso il fatto che, come denota la Dott. Ssa La
Rosa, alla stessa enciclica collaborò “il Cardinal Manning che […] era stato decisivo nella conversione
14. 14
Queste erano le società di mutuo soccorso, le neonate aziende di assicurazioni private
“destinate a prendersi cura dell’operaio, della vedova, dei figli orfani, nei casi
improvvisi di infortuni, d’infermità, di altro umano accidente” (§ 36), oppure ancora; i
patronati, venendo, però - per stessa ammissione del Papa - prima “le corporazioni di
arti e di mestieri che nel loro complesso contengono quasi tutte le altre istituzioni”
(ibidem). Questo è vero tanto da spingere Leone XIII a intitolare un paragrafo “il diritto
all’associazione è naturale”, riprendendo all’interno del 36° paragrafo nientemeno che
gli scritti di San Tommaso nell’opera Contra impugnationem Dei cultum et religionem,
dov’è appare per la prima volta l’idea secondo cui: “il sentimento della propria
debolezza spinge l'uomo a voler unire la sua opera all'altrui. […] L'istinto di questa
naturale inclinazione lo muove, come alla società civile, così ad altre particolari
società, piccole certamente e non perfette, ma pur società vere. Fra queste e quella
corre grandissima differenza per la diversità dei loro fini prossimi. Il fine della società
civile è universale, perché è quello che riguarda il bene comune, a cui tutti e singoli i
cittadini hanno diritto nella debita proporzione. Perciò è chiamata pubblica; per essa
gli uomini si mettono in mutua comunicazione al fine di formare uno Stato” (§ 37). Ciò
doveva avvenire favorendo “i congressi cattolici” (3) mantenendone l’“autonomia e
disciplina delle associazioni”38
(4).
Le conclusioni della Rerum Novarum tornavano proprio alle premesse del documento
pontificio, richiamando la necessità di un sollecito ritorno alla fede cattolica e
auspicando un pronto sacrificio da parte della stessa gerarchia ecclesiastica, avendo
sempre davanti a sé quell’auspicata sussidiarietà, pur esercitata nella carità, quale
“sicuro antidoto contro l’orgoglio e l’egoismo del secolo” (§ 45).
della madre di Belloc e successivamente anche nell’impegno sociale dello scrittore stesso”. Ibidem, pag.
106.
38
V. anche § 44 dell’enciclica. Riprendendo il pensiero di Romani già citato (v. nota n. 32, supra), egli
stesso concluderà il paragrafo dedicato alla nascita del fenomeno sindacalista cristiano denotando come “i
punti capitali dell’Enciclica ‘Rerum Novarum’ (libertà e spontaneità dell’associazione sindacale; dovere
dello Stato di difendere le associazioni ed attribuire loro le prerogative proprie di ogni soggetto di diritto
senza tuttavia intromettersi nella loro organizzazione e disciplina; dovere delle associazioni di
perseguire, oltre il fine economico immediato, il perfezionamento religioso e morale degli associati)
consentono ai cattolico-sociali di considerare il sindacato come uno degli organi naturali della società
civile”. V. ROMANI MARIO; Appunti sull’evoluzione del sindacato, Edizioni Lavoro, Roma, 2006, pag. 60
15. 15
DIFFUSIONE DEL PENSIERO ‘CHESTERBELLOC’ IN INGHILTERRA.
Non resta ora che focalizzare la nostra attenzione su come il distributismo sia nato e
(inizialmente) prosperato in Inghilterra. È necessario tuttavia partire da una
chiarificazione, e cioè perché si sia giunti a definire il pensiero alla base del
distributismo di matrice inglese un…‘Chesterbelloc’. Il motivo è presto detto; si trattava
di una ‘crasi’ pratica avente l’intento di riunire i due modelli di pensiero - estremamente
affini – che erano propri ai due autori inglesi alla base dell’omonimo movimento,
rispettivamente i già citati Gilbert K. Chesterton e Hilaire Belloc. Questa
particolarissima etichetta venne tra l’altro ‘affibbiata’ ai due autori, o meglio, al
pensiero filosofico sotteso al duo, dal loro comune ‘avversario intellettuale’, George
Bernard Shaw39
, noto al panorama politico britannico dell’epoca per la sua accesa
critica razionalista contro ogni questione di fede, che tra l’altro contribuì a farlo aderire
all’allora celebre società fabiana40
.
Chiarito questo aspetto, possiamo ora analizzare il ‘vero nettare’ della dottrina
distributista, come recepita nella realtà anglosassone all’inizio del XX° secolo. E per
farlo non mi sembra esservi nulla di meglio che prendere ad esame proprio gli scritti
distribuisti dei due think tank, Chesterton e Belloc… oltre ovviamente all’opera di G. C.
Heseltine, Segretario già negli anni ’20 della Lega Distributista inglese. Mi si consenta
però di effettuare un’ultima digressione, inquadrando, almeno brevemente, le influenze
del cattolicesimo di stampo ‘newmaniano’41
presente nei due principali autori di cui
esaminerò le rispettive opere. Chesterton e Belloc, infatti, avevano probabilmente
ripercorso proprio quel cammino interiorizzato già decenni prima dal Cardinal
39
V. pagina internet: http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/1925/shaw-bio.html.
40
“Movimento politico-sindacale fondato in Gran Bretagna nel 1883-84 da E. Pease sotto la
denominazione di Fabian Society. Vi aderirono alcuni tra i più significativi rappresentanti della cultura
inglese del tempo: S. Webb, G. B. Shaw, H. G. Wells, G. Wallas, A. Besant. Il movimento, di carattere
libertario, si proponeva di risanare gradualmente le tristi condizioni in cui era costretta la classe
proletaria inglese nell'età vittoriana. […]. Come si può desumere dallo scritto Fabian Essays in
Socialism (1889), il fabianesimo voleva tracciare una ‘via inglese al socialismo’”. V. pagina internet:
http://www.sapere.it/enciclopedia/fabian%C3%A9simo+o+fabianismo.html.
41
Mi permetto di definirlo in tal modo poiché è risaputo che la conversione sia di Belloc che di
Chesterton avvenne grazie agli scritti (e all’opera) del Cardinale fatto Beato. Ce lo conferma la Dott. Ssa
La Rosa: “il 12 Maggio 1879, John Henry Newman era stato nominato Cardinale da Papa Leone XIII e
l’anno successivo, precisamente nel Settembre del 1880, Bessie [Parkes-Belloc] chiedeva allo stesso di
ammettere suo figlio [Hilaire Belloc] all’Oratory School di Edgbaston […]. L’istituto era stato fondato
proprio dal Cardinale e, avendo Bessie grande stima di lui e della sua pastorale, aveva fatto una scelta
mirata, auspicando una seria formazione cristiano-cattolica per il figlio”. Per quanto riguarda invece
GKC, questi viene definito “grande amico di Hilaire Belloc, e quindi indirettamente di Newman”.V. LA
ROSA ANGELICA; L’impegno cattolico di Hilaire Belloc, Libera Università Maria Ss. Assunta,
Dipartimento di Scienze economiche, politiche e delle lingue moderne, Cattedra di Storia della cultura
inglese, Anno Accademico 2014 – 2015, pagg. 21 e 32. È interessante questo aspetto poiché, invece, un
ricercatore ha sostenuto la conversione di Chesterton non sia giunta – a dispetto di quanto generalmente è
creduto – dalla lettura delle opere del Cardinale: “In his letters to the Nation in 1907, Chesterton opposed
those who proposed an evolution in the meaning of creeds and introduced his understanding of doctrinal
development following the thought of Newman. The fact that Chesterton mentioned Newman’s name is
interesting because of his claim that he never read any apologetic works. However, he mentioned
Newman’s Apologia in the ‘Scheme of Reading’ for 1908 in T. P.’s Weekly”. V. HRABOVECKY PAVOL;
John Henry Newman’s Essay on the Development of Christian Doctrine in Relation to Gilbert Keith
Chesterton’s Orthodoxy, The Catholic University of America, Faculty of the School of Theology and
Religious Studies, 2011, pag. 17. La tesi è disponibile sia in formato cartaceo che in formato pdf presso il
Centro Studi Internazionale ‘Amici del Cardinal Newman’ in Roma.
16. 16
Newman42
, uno sviluppo interiore – e non solo trascendentale - che lo aveva portato a
quello che veniva definito nell’Inghilterra del ‘20 un puro e semplice ‘papismo’. Il Dott.
Allisiardi, grazie al suo studio, osserva quale fosse la specificità di tale passaggio, così
importante da coinvolgere nientemeno che entrambi gli aspetti della fides e della ratio:
“il Beato sostiene che la grandezza del cattolicesimo non consiste in una filosofia
pratica o in una esaltazione della struttura della società o dello Stato, ma che per essa
la componente fondamentale della società è l’uomo che la costituisce (not society in the
first place, but in second place, and in first place individuals) e, proprio per questo, essa
subordina i valori come il progresso (order), la prosperità[,] i principi mondani
all’immortalità dell’anima”43
.
Se Hilaire Belloc aveva abbracciato tale credo sin dalla tenera età grazie agli
insegnamenti della madre44
e G. K. Chesterton lo aveva scoperto tardi, a quasi
cinquant’anni, tanto che, come lui stesso confessò “almeno sei volte durante gli ultimi
anni mi sono trovato nella situazione di convertirmi senza esitazione al cattolicesimo,
se non mi avesse trattenuto dal compiere il gesto azzardato l’averlo già fatto”45
, non
sembrano esservi, invece, informazioni biografiche relative all’altro massimo
sostenitore del distributismo, G. C. Heseltine.
Veniamo ora a descrivere l’opera di Belloc; ‘The Servile State’, prima espressione del
distributismo ‘storico’ di matrice inglese: l’opera è infatti stata pubblicata nel Regno
Unito nel 191246
. H. Belloc si pone un semplice obiettivo, col suo scritto: dimostrare
che nella libera e moderna società del suo tempo, i mezzi di produzione, che sono
proprietà di pochi, creano un’instabilità sociale, che viene riportata in un successivo
equilibrio, invece, dall’impiego del lavoro dipendente reso obbligatorio per quelli che
questi mezzi di produzione non li possiedono, a vantaggio, ovviamente, di quelli che ne
detengono. Ne scrive al riguardo egli stesso nella parte introduttiva47
. E aggiunge che,
per definire questa stabile società, si dovrà dichiararla ‘Società Servile’, non dandone
una connotazione buona o negativa, ma bensì descrivendone i meccanismi, che in
ultima analisi portano alla “difference of status between possessor and non-possessor”,
dunque, “it will be distasteful to those who regard such a distinction with ill favour or
with dread”48
. La sua analisi, nel secondo capitolo, va inizialmente a concentrarsi sulle
‘definizioni’. Questa parte, effettuando dei passaggi logici aventi una scansione storica,
ci ricorda come la ‘produzione della ricchezza’ (parte ineliminabile della facoltà
creativa umana) ha portato, inizialmente, alla ‘ricchezza’ stessa (necessaria all’uomo
quanto lo è l’aria; visto che questa permette l’acquisto – soprattutto – dei beni necessari
alla sua sussistenza) che è essenzialmente frutto del ‘lavoro’ (quale applicazione
42
Per avere un profilo della personalità del Beato Cardinal Newman si può fare riferimento al suo famoso
‘discorso del biglietto’, che forse è l’opera più altisonante che, nella sua brevità, racconta questa
importante figura del Cattolicesimo. V. PEZZIMENTI ROCCO, Il discorso del biglietto di John Henry
Newman, Aracne Editrice, Roma, 2014.
43
V. ALLISIARDI MARTINO; Critica della conoscenza e pensiero politico in J. H. Newman, pag. 166. La
tesi è disponibile sia in formato cartaceo che in formato pdf presso il Centro Studi Internazionale ‘Amici
del Cardinal Newman’ in Roma.
44
V. nota n. 42, supra.
45
V. CHESTERTON GILBERT KEITH; Perché sono cattolico, Gribaudi, Milano, 1994, pag. 69 e segg.
46
V. BELLOC HILAIRE; The Servile State, T. N. Foulis, Londra & Edinburgo, 1912. L’opera è stata
digitalizzata nel quadro del progetto ‘Internet Archive’ del 2007 promosso dalla Microsoft Corporation. Il
testo è disponibile all’indirizzo internet: http://www.archive.org/details/servilestate00belluoft.
47
Ibidem, pag. 9.
48
Ibidem, pag. 10.
17. 17
dell’energia mentale e fisica umana) che, infine, si proiettano sulla ‘terra’. Si comprende
già, dunque, che il ‘lavoro’ e la ‘terra’ siano elementi strettamente connessi all’uomo,
originari49
. Di qui si arriva a definire il ‘capitale’, ‘i mezzi di produzione’ e,
inevitabilmente, ‘il proletariato’50
. La sua analisi prosegue fornendo definizione di
‘proprietà’51
e di ‘proprietà privata’52
. Segue la definizione di ‘collettivismo’ o
‘socialismo’: una società ideale ove i mezzi di produzione siano in mano agli operatori
politici della comunità53
. Abbiamo poi il ‘capitalismo’, in cui la proprietà privata
terriera e di capitale, focalizzantesi nel possesso e nel controllo dei mezzi di produzione,
viene confinata ad alcuni uomini liberi il cui numero esiguo non completa (ovviamente)
la massa delle persone nello Stato, che non hanno proprietà di questi mezzi di
produzione e dunque sarebbero definibili proletari54
. Parlando del capitalismo, l’autore
riprende le idee classiche dell’epoca – ancora oggi condivisibili nella loro semplicità
quasi ingenua –, ovvero notando che questo è contraddistinto da due elementi: la libertà
politica dei cittadini e la presenza di due classi sociali, appunto i capitalisti e i proletari
(o ‘senza-proprietà’). Di qui si giunge al concetto finale, quello appunto di ‘Stato
Servile’; questo è definito dall’autore come “that arrangement of society in which so
considerable a number of the families and individuals are constrained by positive law to
labour for the advantage of other families and individuals as to stamp the whole
community with the mark of such labour we call THE SERVILE STATE”55
. Dunque,
verrebbe da chiedersi se nella società inglese non vi sarebbero presenti famiglie di serie
A e famiglie di serie B. Ma così non sembrerebbe, e infatti, Belloc, torna a ripetere che
non ci sarebbe un’accezione etica a questa sua definizione56
. Epperò non si può, al
tempo stesso, a suo dire, negare il ritorno di una società schiavista, pardon, di uno
‘Stato Servile’57
: “from a purely Servile conception of production and of the
arrangement of society we Europeans sprang. The immemorial past of Europe is a
Servile past. During some centuries which the Church raised, permeated, and
49
Ibidem, pagg. 13 – 14.
50
Elemento che non poteva sfuggire alle definizioni fornite da Belloc visto il difficile periodo
attraversato, ideologicamente, dall’Europa intera e non solo. Per lui “a man politically free, that is, one
who enjoys the right before the law to exercise his energies when he pleases (or not at all if he does not
so please), but not possessed by legal right of control over any useful amount of the means of production,
we call proletarian, and any considerable class composed of such men we call a proletariat”. Ibidem, pag.
15.
51
“Property is a term used for that arrangement in society whereby the control of land and of wealth
made from land, including therefore all the means of production, is vested in some person or corporation.
Thus we may say of a building, including the land upon which it stands, that it is the ‘property’ of such
and such a citizen, or family, or college, or of the State, meaning that those who ‘‘own’’ such property
are guaranteed by the laws in the right to use it or withhold it from use”. Ibidem.
52
“Private property signifies such wealth (including the means of production) as may, by the
arrangements of society, be in the control of persons or corporations other than the political bodies of
which these persons or corporations are in another aspect members”. Ibidem.
53
Ibidem, pag. 16.
54
Ibidem.
55
“Quella sistemazione di società dove un considerevole numero di famiglie ed individui vengono
costretti dalla legge positiva a lavorare a vantaggio di altre famiglie ed individui è contrassegnata da un
marchio di lavoro che definisce questo quale STATO SERVILE”. Ibidem, pag. 17.
56
“Again, it should be noted that this word ‘servile’ in no way connotes the worst, nor even necessarily a
bad, arrangement of society. This point is so clear that it should hardly delay us; but a confusion between
the rhetorical and the precise use of the word servile I have discovered to embarrass public discussion of
the matter so much that I must once more emphasise what should be self-evident”. Ibidem, pag. 18.
57
18. 18
constructed, Europe was gradually raised or divorced from this immemorial and
fundamental conception of slavery; to that conception, to that institution, our Industrial
or Capitalist society is now upon its return. We are re-establishing the slave”58
.
Il capitolo successivo inizia a fornirci dei primi indizi sulla precedente – e forte –
affermazione di questo ‘Stato Servile’. Si riparte dunque da un’analisi storica e si
verifica come le società pagane fossero essenzialmente ‘servili’, e poi sempre meno
grazie al Cristianesimo. Tuttavia, quello che l’inglese definisce ‘l’istituzione servile’,
non era tanto più facilmente alla portata delle popolazioni pre-medievali barbare del
nord “because barbarism everywhere shows a retrogression of intellectual power”, ma
bensì questa era più che altro una “social arrangement”59
, un modo, in pratica, di
concepire la società. Non solo: le stesse generazioni libere dell’epoca romana non
parevano mai fare oggetto di disonore la presenza di un progenitore schiavo nelle radici
della propria famiglia60
. Al tempo stesso, tale società, non poteva definirsi ‘socialista’
perché, in fondo, la grande maggioranza degli uomini possedeva mezzi di produzione ed
anche un ‘fazzoletto’ di terra61
.
Nel terzo capitolo, invece, il filosofo britannico evidenzia come, per qualche tempo,
l’istituzione servile venne a scomparire. Il Cristianesimo, paradossalmente, non venne
mai a condannare la schiavitù (anzi, in uno stesso passo biblico, il convertito Paolo di
Tarso invita coloro che versano in stato di servitù al rispetto del proprio padrone62
)
bensì, semplicemente, a riguardare la pratica di ‘manleva’, che rendeva allo schiavo la
condizione di liberto, come una ‘buona cosa’63
– ma ciò, allo stesso modo era
considerato dai pagani prima del tempo di Costantino64
. Momento fondamentale per il
mutamento della condizione dello schiavo avviene con le Villæ, un’istituzione
produttiva di natura agricola che connesse direttamente l’età imperiale romana con
quella del basso-medioevo. Qui, il dominus, si avvaleva – notoriamente – dei suoi
schiavi per ottenere il frutto dei suoi campi quasi a titolo gratuito, se non si escludeva
quella irrisoria parte del prodotto ottenuto dal lavoro dei campi che la famiglia degli
schiavi deteneva per il proprio consumo. Ebbene, tale istituzione, iniziò a cambiare
quando la parte di consumo lasciata agli schiavi venne a lievitare poiché il ‘signore della
terra’ non ne aveva più effettivamente bisogno. Belloc avverte che “there was a sort of
implied bargain here, in the absence of public powers and in the decline of the old
highly centralised and vigorous system which could always guarantee to the master the
full product of the Slave’s effort. The bargain implied was, that if the Slave Community
of the Villa would produce for the benefit of its Lord not less than a certain customary
amount of goods from the soil of the Villa, the Lord could count on their always
exercising that effort by leaving to them all the surplus, which they could increase, if
they willed, indefinitely”65
. La Villa del signore venne così a dividersi,
conseguentemente, in tre frazioni: nella prima, chiamata dominio, vi risiedeva il signore,
la seconda, invece, consisteva in quell’appezzamento di terra entrato nel possesso di
fatto della servitù della gleba. La terza, infine, era una proprietà condivisa, dove sia il
58
Ibidem, pag. 25.
59
Ibidem, pag. 28.
60
Ibidem, pag. 29.
61
Ibidem, pag. 30.
62
V. Col 3,22.
63
Lo stesso Hilaire Belloc parla di “good work”. Ibidem, pag. 33.
64
V. sito internet: http://www.instoria.it/home/eccidio_tessalonica.htm.
65
Insomma, in qualche centennio, era venuta a mutare, sostanzialmente, la condizione di schiavitù di
quello che era ora divenuto ‘servo della gleba’. Ibidem, pagg. 35 – 36.
19. 19
signore che il servo esercitavano i loro diritti, contrassegnata da atti giuridici che ne
sottolineavano l’intrinseca sacralità66
. Nel tempo l’ex schiavo ‘servo della gleba’ era
divenuto, sic et simpliciter, bracciante, al quale nessuno poteva chiedere di più che la
sua legittima quota di lavoro, scambiata con la necessaria protezione da invasori e fiere
selvatiche67
di cui abbisognava. Il legame fra bracciante e terra sarebbe poi divenuto,
nel basso Medioevo, così massiccio da impossibilitare qualsiasi autorità territoriale ad
allontanare questi lavoratori dai loro terreni: non solo il signore della campagna avrebbe
proferito dunque le parole “this is my land” verso i propri domini, ma anche i loro stessi
servi lo avrebbero fatto, perlomeno nell’area in cui proiettavano i loro interessi68
. Nelle
comunità urbane sarebbe avvenuto, invece, un processo di ‘crescita organizzativa
razionalizzata’: le industrie d’ogni tipo sarebbero state riorganizzate sotto la protezione
del sistema delle Gilde. Queste società cooperative non erano null’altro che espressione
dei privati che, dotati di mezzi di produzione, avevano promosso l’auto-governo delle
risorse comuni, puntando alla regolarizzazione del ‘momento competitivo’“to prevent
the growth of one at the expense of the other”. Grandissimo merito delle Gilde – ci
avverte lo scrittore – è stato quello di aver salvaguardato la divisione della proprietà
affinché questa fosse effettivamente condivisa secondo criteri di equità, affinché non vi
fosse modo, per un proletariato d’antan, di sorgere dal malcontento fomentato
dall’ingiusta suddivisione della ricchezza. Né tantomeno un fenomeno capitalista come
quello noto alle nostre società ‘post-moderne’ ne sarebbe potuto sorgere69
. E di qui si
arriva forse ad uno dei momenti più importanti del testo bellochiano: l’autore condivide
col lettore, infatti, come il Medioevo avesse, inconsapevolmente, dopo tutti questi
secoli, “brought to existence the DISTRIBUTIVE STATE”70
. Da lì, purtroppo, sarebbe
stato un percorso in discesa verso “the dreadful moral anarchy against which all moral
effort is now turned”71
, ovvero il Capitalismo.
La sezione successiva del libro, intitolata “How the Distributive State failed”, invece, si
focalizza sulla regressione di questo ‘stato ideale’, per l’uomo economicamente libero,
verso la più netta (e già accennata) forma di schiavitù prodotta dalle più moderne forme
di sviluppo umano incontrollate. Già nell’800, ricorda Belloc, erano così sbocciati i
‘fiori velenosi’ di quei ‘semi nefasti’ che avevano prodotto l’iniqua suddivisione dei
mezzi di produzione: la società che si era venuta a formare con la Rivoluzione
industriale, ora, sanciva la netta divisione tra capitalisti e gli spossessati dei mezzi di
produzione72
. Ma, incredibilmente, una netta ‘inversione di marcia’, a dire dell’autore,
66
Ibidem, pag. 36.
67
“In social practice, all that is required of him is that his family should till its quota of servile land, and
that the dues to the lord shall not fail from absence of labour. That duty fulfilled, it is easy and common
for members of the serf-class to enter the professions and the Church, or to go wild; to become men
practically free in the growing industries of the towns. With every passing generation the ancient servile
conception of the labourer’s status grows more and more dim, and the Courts and the practice of society
treat him more and more as a man strictly bound to certain dues and to certain periodical labour within
his industrial unit, but in all other respects free”. Ibidem, pag. 38.
68
“If at the end of the fourteenth century, let us say, or at the beginning of the fifteenth, you had visited
some Squire upon his estate in France or in England, he would have told you of the whole of it, ‘These
are my lands’. But the peasant (as he now was) would have said also of his holding, ‘This is my land’. He
could not be evicted from it. The dues which he was customarily bound to pay were but a fraction of its
total produce. He could not always sell it, but it was always inheritable from father to son…”. Ibidem.
69
Ibidem, pag. 39.
70
Ibidem, pag. 41.
71
Ibidem.
72
Ibidem, pag. 43.
20. 20
si sarebbe già avuta al periodo di Enrico VIII, ove, con la formalizzazione di leggi che
sancivano la confisca di territori e proprietà appartenenti agli ordini monastici, si
sarebbe conclusa la fase delle “demesne lands”73
. Il problema, più che altro, sarebbe
stato da rinvenire nella debolezza mostrata dalla Corona inglese verso la protezione
delle proprietà confiscate… rispetto agli interessi dei grandi proprietari terrieri. Belloc si
spinge fino ad osservare che: “it would have been a very different England indeed from
the England we know, if the King had held fast to his own after the dissolution of the
monasteries”74
. I grandi proprietari terrieri iniziarono infatti ad insistere nel rivendicare
come propri tali territori, a volte giungendo addirittura a fornire meri corrispettivi
simbolici alla Corona, tanto imponente era la loro influenza parlamentare verso la
‘grande’ nobiltà. “They became at a blow the owners of half the land”75
! Questo
processo giunse ad innestarsi completamente quando la Regina Maria s’intronò dopo il
1553: in pochi anni nuove famiglie di ricchissimi proprietari terrieri erano emerse. E
così, “in the place of a powerful Crown disposing of revenues far greater than that of
any subject, you had a Crown at its wit’s end for money, and dominated by subjects
some of whom were its equals in wealth, and who could, especially through the action
of Parliament (which they now controlled), do much what they willed with
Government”76
. In realtà il filosofo britannico dichiara, altresì, che ulteriori elementi di
contorno hanno contribuito a questo processo involutivo77
. Nel ‘700, dunque, accadde
che l’Inghilterra si fosse già trasformata in una realtà capitalistica in senso moderno78
.
Di qui nacque, naturalmente, il disagio delle classi meno fortunate, che si ritrovarono
così impossibilitate ad acquisire i mezzi di produzione precedentemente garantiti dallo
stesso sviluppo del tessuto agricolo inglese (come già discusso). Con il sistema delle
Gilde ridotto moltissimo, sino a rappresentare un’ombra rispetto alla sua precedente
incarnazione, era nato contestualmente il proletariato. E così, tanto più ricca diveniva la
nazione, tanto più questa cedeva il passo all’ineguale distribuzione della ricchezza79
.
Belloc affronta altresì l’interessante questione relativa all’impoverimento culturale
subìto dagli ex piccoli proprietari terrieri80
. Venendo intaccata la cultura che
apparteneva precedentemente alla piccola borghesia britannica, “The spread of
economic oligarchy was everywhere, and not in industry alone. The great landlords
destroyed deliberately and of set purpose and to their own advantage the common
rights over common land. The small plutocracy with which they were knit up, and with
whose mercantile elements they were now fused, directed everything to its own ends.
That strong central government which should protect the community against the
rapacity of a few had gone generations before. Capitalism triumphant wielded all the
mechanism of legislation and of information too”81
. Si era giunti alla fine di un’epoca…
73
H. B. fornisce approfondita spiegazione del funzionamento della demesne, e con grande precisione,
senza dunque che sia necessario fare riferimento alla letteratura storico-giuridica disponibile. Ibidem,
pagg. 46 – 47.
74
Ibidem, pag. 48.
75
Ibidem.
76
Ibidem, pag. 50.
77
Tuttavia questi aspetti sono secondari rispetto alla nostra ricerca, in quanto concernono, come già
scritto, la debolezza delle personalità che si sarebbero avvicendate sul trono d’Inghilterra dopo la morte di
Enrico VIII. Ibidem, pagg. 50 – 51.
78
Ibidem, pag. 51.
79
Ibidem, pag. 53.
80
Ibidem, pagg. 55 – 56.
81
Ibidem, pag. 58.
21. 21
Ma l’autore non mancava di proporre delle soluzioni al problema nella sesta sezione
della sua opera (“The stable solution of this instability”82
) osservando che, se il
capitalismo era di sua natura instabile, questo si doveva, in un modo od in un altro,
portare invece a stabilità. Per Belloc, il fenomeno economico insorto negli ultimi secoli,
era pari ad una piramide che, perfettamente instabile se poggiata sul suo apice, doveva
invece puntare all’insorgenza di uno choc per far sì che, finalmente, potesse fondarsi su
di un lato ben più sicuro83
. I lati di questa figura erano la ‘schiavitù’, il ‘socialismo’ e la
‘proprietà’. Per superare le contraddizioni insite nel Capitalismo, dunque, ci si sarebbe
dovuti disfare di elementi quali la ‘proprietà per pochi’ e della conseguente ‘libertà
economica per pochi’84
. Paradossalmente, l’autore trova la soluzione ai problemi del
capitalismo nella… re-istituzione della schiavitù (!)85
. Ma poi, egli stesso, ci avverte
che, effettivamente, lo spirito cristiano ancora presente nelle società europee, sarebbe
andato a rigettare di fatto quest’opzione fin dal principio86
. Allora, la soluzione viene in
lui ricercata su un doppio binario: negare di fatto l’accesso alla proprietà dei mezzi di
produzione a tutte le genti o, a contrario, cedere a tutto il popolo queste. Ma la prima
strada significa comunque allocare i mezzi di produzione nelle mani di alcuni: i
famigerati ‘operatori politici’ (del sistema socialista). Dunque ciò lo renderebbe,
intrinsecamente, un sistema menzognero già dalle sue premesse. Inoltre, e ad ogni
modo, sottolinea l’autore, persisterebbe il problema secondo cui, una troppo zelante
applicazione di tale principio, porterebbe di fatto il Paese a morire di fame87
.
Rimarrebbe allora la soluzione opposta: dare la proprietà dei mezzi di produzione a tutti
(o quasi). E questo sarebbe il nucleo del Sistema Distributista, che lo scrittore denota
altresì col termine di “Proprietary State”88
.
Il capitolo nono, il penultimo che andrò ad esaminare, “The Servile State has begun”, ci
introduce all’idea che, a tutti gli effetti, lo ‘Stato Servile’ si sia infine insinuato nella
società del periodo in cui Belloc viveva. Egli afferma di basare questa sua idea sulla
mera osservazione fattuale89
. Vediamo come. Tanto per cominciare, è necessario, per
l’inglese, liberare il campo da concezioni errate sul fenomeno: nessun capitalista, infatti,
secondo tale ideologia, farebbe lavorare i ‘suoi proletari’ nel loro interesse, né
tantomeno lo ‘Stato Servile’ poggerebbe su restrizioni imposte a talune forme di
produzione industriale. Il punto, per l’autore, sarebbe un altro, direi, politico-legislativo,
ovvero; stabilire nell’oggetto del contratto il rispettivo status delle parti. Il che si
tradurrebbe con la specificazione della presenza del ‘capitalista’ da una parte ed il
‘proletario’ dall’altra. La legge, dunque, dovrebbe difendere il capitalista e il suo
subordinato in quanto tali, non in via del tutto incidentale, ma, come avviene per le parti
82
Ibidem, pag. 69.
83
Ibidem.
84
In realtà Belloc afferma che il Capitalismo fornirebbe una restrizione che andrebbe ben al di là della
mera libertà di iniziativa economica. Ibidem, pag. 70.
85
Non si tratta di un mio errore o di un refuso presente nel libro; Hilaire Belloc scrive realmente che la
soluzione si troverebbe in ciò. Tenuto conto di quanto analizzato finora, più avanti spiegherò come, in
questo riposi, a suo dire, la soluzione per i mali del Capitalismo…
86
Chissà che, altrettanto paradossalmente, così facendo, la società si ritroverebbe a percorrere il cammino
già fatto dai liberti prima, e poi, dalla servitù della gleba, ritrovatasi nel ‘400 (di fatto) proprietaria dei
territori delle campagne (come già detto). Forse, ciò, dovrebbe però poggiare su di un rinnovato sviluppo
spirituale, in senso cristiano, che ad oggi manca nella società europea (e mondiale). Ibidem.
87
Ibidem, pag. 71.
88
Ibidem, pag. 72.
89
Ibidem, pag. 109.
22. 22
del contratto, in relazione al loro status90
. Belloc trova un esempio concreto di ‘Legge
Servile’ nello Statute Book britannico dell’epoca, una raccolta di leggi non
giurisprudenziali che sanciva, ad esempio, la Employer’s Liability91
. A dire del filosofo,
questa raccolta di norme, conteneva in sé la forma di ‘Legge Servile’ in quanto
riconosceva, con grande concretezza, un ‘nuovo’ fatto sociale: e cioè che le parti
rappresentavano due differenti status sociali92
. E così arriva a chiarirci come le ‘Leggi
Servili’, al pari di quella della Employer’s Liability, debbano tenere conto delle ovvie,
differenti, responsabilità, intrinseche alle due parti (anzi, ai due status!) propulsori del
contratto93
. Ciò significherebbe – né più né meno - fare al pari di quanto viene operato
in Italia dalla legge, che, già da diverso tempo, grazie al principio delle c.d. ‘clausole
vessatorie’94
, inserito nel quadro della ‘tutela del consumatore’, riconosce alla parte
debole del contratto di compravendita di servizi commerciali una maggiore necessità di
tutela e così, una posizione di relativa ‘superiorità negoziale’. Epperò, mi rendo conto di
come questo esempio italiano non renda perfettamente l’idea di quanto voglia
comunicare, mancando un elemento fondamentale: il fulcro del discorso è infatti
imperniato su una considerazione centrale, che come ci fa notare l’autore è “the mere
fact that one man is working and the other not is the fundamental consideration on
which the law is built, and the law says: ‘You are not a free man making a free contract
with all its consequences. You are a worker, and therefore an inferior: you are an
employee, and that status gives you a special position which would not be recognised in
the other party of the contract”95
. Per lo stesso motivo, ove fossero presenti tre soggetti,
che si accordano per una somma nel quadro di un contratto d’opera, qualora costoro
fossero contrassegnati da status differenti, ove uno arrecasse danno ad una parte, l’altro
potrebbe direttamente agire contro il ‘danneggiatore’ solo nella misura in cui lo status
fosse equivalente; altrimenti, al ‘danneggiato’, non resterebbe che chiedere un
risarcimento al mandante, che ha di fatto dato lavoro agli altri due96
. L’autore aggiunge
90
Ibidem, pagg. 109 e segg.
91
Termine traducibile in ‘Responsabilità del Datore di lavoro’.
92
Ibidem, pag. 112.
93
H. B. si presenta questo ragionamento riproponendo i detti meccanismi della regolamentazione sulla
responsabilità dello Statute Book: tenuto conto di un contratto fra ‘A’ (mandante) e ‘B’ (mandatario), se
‘B’, attenendosi alle istruzioni di ‘A’, crea un danno per un terzo (‘C’), quest’ultimo dovrà giocoforza
rifarsi – perlomeno stando al diritto di matrice britannica e non alla civil law nostrana – su di ‘A’, e non
su di ‘B’, che nel contratto rappresenta un mero esecutore materiale e rappresentante degli interessi di ‘A’
(si noti che è fatta ovviamente salva la possibilità per ‘A’ di sporgere denuncia verso ‘B’ per supposta
negligenza). Per converso, se il danno accidentale viene sofferto da ‘B’ e non da un terzo ‘C’, la legge
della Employer’s Liability del 1913 permetteva che il mandatario, esecutore materiale dell’opera,
ottenesse da ‘A’ una maggiorazione di quanto precedentemente concordato per aver sofferto detto danno
accidentale. Ibidem, pagg. 112 – 113.
94
V. pagina internet: http://www.sviluppoeconomico.gov.it/index.php/it/assistenza/domande-
frequenti/2029201-faq-le-clausole-vessatorie-nei-contratti-tra-professionista-e-consumatore.
95
Ibidem, pag. 113 – 114.
96
“A gives a sack of wheat to B and D each if they will dig a well for him. All three parties are cognisant
of the risks and accept them in the contract. B, holding the rope on which D is lowered, lets it slip. If they
were all three men of exactly equal status, obviously D’s action would be against B. But they are not of
equal status in England to-day. B and D are employees, and are therefore in a special and inferior
position before the law compared with their employer A. D’s action is, by this novel principle, no longer
against B, who accidentally injured him by a personal act, however involuntary, for which a free man
would be responsible, but against A, who was innocent of the whole business. Now in all this it is quite
clear that A has peculiar duties not because he is a citizen, but because he is something more: an
23. 23
poi, con ironia, che tutto questo è eccellente; e tuttavia una legislazione perfettamente
inutile ove la proprietà fosse ben distribuita fra i cittadini; poiché lì, in tal caso, se un
cittadino danneggiasse alcuno, avrebbe oltretutto la doverosità di pagare la piena entità
del danno per il proprio dolo o imperizia. Ma non è tutto: qualche pagina più avanti,
Belloc, ha qualcosa da ridire anche sul principio, tutt’oggi molto discusso negli Stati
Uniti97
, del c.d. ‘salario minimo’. Per Belloc, attuare una legislazione che sancisca la
presenza di un salario minimo per il minatore98
, è perfettamente ragionevole, e anzi è
doveroso in un sistema dove è scomparsa la libera contrattazione fra le parti in merito al
contenuto del contratto di lavoro, quale risultato conseguito dal Capitalismo. E c’è di
più: “the neglect of older principles as abstract and doctrinaire; the immediate need of
both parties immediately satisfied; the unforeseen but necessary consequence of
satisfying such needs in such a fashion all these, which are apparent in the settlement
the mining industry has begun, are the typical forces producing the Servile State”99
. E
questo principio può addirittura estendersi al caso dei sussidi di disoccupazione, che
nell’Inghilterra del 1913 erano calcolati in base al precedente lavoro svolto dal
disoccupato: ebbene, per ragioni di maggiore giustizia, per evitare cioè che i disoccupati
venissero a guadagnare di più col detto sussidio che con l’accesso ad un lavoro più
umile di quello svolto in precedenza, lo Stato avrebbe potuto fissare – per giustizia
sociale - un sussidio unico per tutti, come riferito espressamente da H. B. Anche questo,
per l’autore, sarebbe perfettamente ricomprendibile nel meccanismo insito nello ‘Stato
Servile’100
. Il pensatore britannico esprime altresì ulteriori considerazioni sullo
spostamento dell’Inghilterra del suo tempo verso una condizione di ‘Servile State’,
aspetti però in cui ritengo di tralasciare l’analisi, per andarmi a concentrare, invece,
sulle considerazioni finali al riguardo.
Nelle conclusioni, Belloc, effettua una previsione: annuncia che lo ‘Stato Servile’
arriverà, magari in forme differenti, ma, specialmente in quelle aree come la stessa Gran
Bretagna ed il Nord della Germania, nelle società ovvero che hanno rotto (nel
sedicesimo secolo) con la continuità indotta dalla civilizzazione cristiana, questo si
manifesterà inevitabilmente. Non c’è per lui alternativa alla giusta suddivisione della
proprietà (dunque dei mezzi di produzione) od all’ineguale distribuzione di questa con
la conseguente instaurazione della servitù. Non può dirsi perciò vincente, a suo dire,
l’ipotesi ultima preconizzata dal marxismo, ovvero l’instaurazione di una dittatura del
proletariato101
. A dire di Belloc, che scrive ad inizio del ‘900, tra le società che
maggiormente si sarebbero opposte a questo declino morale – mantenendo così le
proprie tradizioni -, nel centro-nord Europa, vi sarebbero state proprio quella francese e
quella irlandese102
. Questo perché, all’interno di queste, vi sarebbe rimasta una società
employer; and B and D have special claims on A, not because they are citizens, but because they are
something less: viz. employees”. Ibidem, pag. 114.
97
V. sito internet: http://www.lavoce.info/archives/34353/la-lotta-per-il-salario-minimo-in-america/. Cfr.
con: http://www.repubblica.it/economia/2016/03/29/news/salario_minimo_california-136481952/.
98
Si tratta semplicemente di un esempio; questa legislazione, per lo scrittore, infatti, andrebbe
ovviamente estesa a qualsiasi ‘categoria debole’.
99
Ibidem, pag. 118.
100
Ibidem, pag. 121.
101
Ibidem, pagg. 131 – 132.
102
Questo poteva forse affermarsi cento anni fa. Ad oggi, nessuno oserebbe dire che la società irlandese è
in larga parte ancora attaccata al proprio tradizionale insieme di valori di natura romano-cattolica, visto il
risultato del referendum sulle nozze gay del 2015… né, tantomeno, nessuno oserebbe definire le
tradizioni francesi quali legate ad una differente tradizione religiosa che non sia quella afferente al credo
dello Stato, una specie di ‘laicismo illuminato (talvolta) nazionalisteggiante’!
24. 24
effettivamente libera, che con l’esempio, o l’attacco diretto, avrebbero dimostrato – a
tempo debito - la limitatezza dello ‘Stato Servile’. E del Paganesimo, nelle quali le
società del tempo di Hilaire Belloc parevano esserne fortemente intrise103
.
Passiamo ora a descrivere l’ideale distributista espresso nello scritto di Chesterton ‘The
Outline of Sanity’ del 1926. Per farlo, è necessario operare una premessa di valore
storico: anche qui, il testo, come nel caso di ‘The Servile State’, contesta il capitalismo
di matrice industriale e solo in piccolissima parte quello ‘terziario’, giacché
quest’ultimo apparve, nella sua minacciosità all’iniziativa imprenditoriale dei singoli,
solo pochi anni prima del completamento di questo testo. Dapprima flebilmente, e poi in
tutta la sua gravità, i distributisti riuscirono anche in tal caso a riconoscere il pericolo
insito nella trappola della concentrazione di capitali nelle mani di pochi e delle grandi
coalizioni di interessi che sostituivano, in questo caso, alle molteplici botteghe, i
grandissimi centri commerciali (eliminando, dunque, quel tessuto socio-economico di
base che si rifaceva alla storica ‘micro-impresa’ fino ad allora esistita, come ho già
sottolineato nell’introduzione104
). Il testo è suddiviso in cinque parti – vi è addirittura un
cenno finale dedicato al problema dell’emigrazione (sic), evidentemente un problema
già sentito all’epoca105
.
Incominciando a descrivere la prima parte, in questa, l’autore inizia immediatamente a
sottolineare la bontà dell’iniziativa privata nei confronti del “capitalismo” ed
“affarismo”106
che vanno contrastati con una sana opera di giustizia distributiva, visto
che a suo dire “ciò che chiamiamo capitalismo dovrebbe essere chiamato
proletarismo” essendo il “punto essenziale non […] che alcuni abbino il capitale, ma
che la maggior parte abbia solo il salario perché non ha il capitale”107
. Poi G.K.
Chesterton passa a spiegare come fu lanciato il manifesto distributista inglese delle
origini108
e, successivamente, viene introdotta anche la polemica verso l’intrinseca
perversione del meccanismo di privazione dei mezzi di produzione, operato via via ai
danni del contado e dei bottegai (“la verità è che non esiste una tendenza economica
103
Ibidem, pag. 133.
104
V. pag. 5, supra.
105
Non sarà ovviamente possibile approfondire questo aspetto per necessità di sintesi. Posso tuttavia
testimoniare che Chesterton, in breve, contesta, nel capitolo, la necessità della classe politica di obbligare
una parte dei compatrioti a fare le valigie ed a spostarsi nelle colonie della Corona (alle quali, tra l’altro,
ricollega la propria contrarietà all’applicazione di un tipo di colonialismo eccessivamente invasivo, di
fatto imperialista, nei confronti delle popolazioni locali) pur di far loro trovare lavoro. Nella seconda
parte, l’autore, invece, passa a sottolineare la bontà di un diverso indirizzo di sviluppo civile quale quello
franco-canadese dell’epoca, arrivando sino a giungere a toni che quasi potremmo rinvenire in una
‘Laudato Sì’: “invece di gente rozza che si limita ad allargare la propria rozzezza, chiamando questo
processo colonizzazione, sarebbe possibile per le persone coltivare la terra come coltivano l’anima. Ma
per questo è necessario avere rispetto per la terra così come per l’anima; e avere persino una
venerazione nei suoi confronti, poiché è in qualche modo associata a cose sacre”. V. CHESTERTON
GILBERT KEITH; Il Profilo della Ragionevolezza – Il Distributismo, un’alternativa al capitalismo e al
socialismo, Lindau, Torino, 2011, pagg. 193 – 217.
106
Ibidem, pag. 9.
107
Ibidem, pag. 11.
108
“Circa quindici anni fa, sulle pagine dei vecchi ‘The New Age’ e ‘The New Witness’, alcuni di noi
iniziarono a predicare una politica basata sulla distribuzione della piccola proprietà, come avremmo
dovuto dire allora, contro i due estremi del capitalismo e del comunismo. In seguito quella politica fu
chiamata Distributismo, un nome goffo ma preciso. I primi a criticarci furono i fabiani più brillanti, in
particolare il signor Bernard Shaw. Si limitarono a dire che il nostro era un ideale impossibile, il tipico
esempio della propensione cattolica a credere nelle favole”. Ibidem, pag. 15.
25. 25
verso la scomparsa della piccola proprietà, finché questa non diventa così piccola da
smettere di funzionare come una proprietà. Se un uomo ha cento acri e un altro ne
possiede mezzo, è abbastanza probabile che quest’ultimo non riuscirà a vivere del suo
mezzo acro”109
). Il secondo capitolo scende maggiormente nel dettaglio, riscontrando il
“pericolo del momento”110
nella posizione di stra-potere dei capitalisti, contrapposta
allo stesso potenziale ‘capitale umano’ che – ieri come oggi – si presenta nelle sedi
aziendali dopo i colloqui di lavoro conclusisi nel successo, anche (se non soprattutto)
per instaurare una dialettica che effettivamente s’incentri sulla contrattazione delle
condizioni di lavoro111
. Il ragionamento sul meccanismo ‘mercatorio’ del capitalismo
giunge poi fino alla contraddizione paradossale che vede contrapposte le figure della
persona quale ‘salariato’ ed al tempo stesso ‘cliente’ del capitalista112
. Successivamente,
l’attenzione dell’inglese si sposta sull’avvento dell’automazione aziendale di massa, che
viene contestata in quanto toglie lavoro ai singoli, pur favorendo la produttività degli
interessi capitalistici113
. Viene infine presentata un’idea piuttosto ardita; quella che
consta sul ripristino della società contadina, alternativa al fallimento di quella basata
esclusivamente sul “commercio che ha già fallito”114
.
La seconda parte del testo del polemista britannico si apre invece trattando
relativamente ad “alcuni aspetti della grande impresa”115
. Il discorso viene
immediatamente incentrato sul “bluff dei grandi negozi”116
, che per Chesterton
costituiscono un inganno volto ai danni del cittadino in quanto – più che essere
comodi117
(sic), poiché permettono al cliente di comprare cose al coperto (“o più spesso
sottoterra”118
), non costringendolo a raggiungere altre parti del quartiere, sarebbero
comodi specialmente per il monopolista, in quanto concentrerebbero la ricchezza e gli
affari nelle mani di una fetta sempre più esigua di persone. Si fa dunque necessario far
rivivere le piccole proprietà. Viene addirittura esposto un fenomeno peculiare,
anch’esso nascente, per l’epoca; quello del marketing, quale studio psicologico basato
109
Ibidem, pag. 21.
110
Ibidem, pag. 27.
111
È ovvio che la dinamica odierna è fortemente condizionata dai c.d. contratti di lavoro collettivi, che
impediscono un’effettiva negoziazione delle condizioni di lavoro, e forse, proprio per questa ‘comodità’,
“tutti hanno abbandonato il principio fondante del vecchio capitalismo: quello secondo cui se gli uomini
potessero contrattare individualmente, la cosa tornerebbe automaticamente a vantaggio del bene
pubblico”. Ibidem, pag. 33.
112
“Il capitalismo è contraddittorio non appena si realizza, poiché tratta la massa delle persone in due
modi opposti. Quando la maggior parte degli uomini è salariata, diventa sempre più difficile per loro
essere clienti. Il capitalista, infatti, cerca sempre di limitare le richieste dei suoi servitori, e così facendo
riduce ciò che i suoi clienti possono spendere. Appena la sua impresa versa in difficoltà, come avviene
ora nell’industria del carbone, egli tenta di ridurre ciò che deve spendere in salari, riducendo in questo
modo ciò che gli altri possono spendere in carbone. Vuole che lo stesso uomo sia ricco e al contempo
povero”. Ibidem, pag. 34. Effettivamente, a pensarci bene, il reciproco di questo ragionamento, fu proprio
la lezione di macro-economia che gli statunitensi ci impartirono nel ’50 con il Piano Marshall…
113
Ibidem, pag. 37.
114
Ibidem, pag. 39.
115
Ibidem, pag. 67.
116
Ibidem, pag. 69.
117
Letteralmente, G. K. C., riferendosi a questi grandi centri commerciali nascenti, ci parla della loro
comodità in termini di concentrazione di prodotti sulle brevi distanze circoscritte all’area del centro
commerciale stesso. Non viene fatto cenno al concetto di utilità, né tantomeno a quello di bontà; e sia
quando il discorso viene affrontato dal lato del consumatore che da quello ‘dell’offerente’. Ibidem, pag.
71.
118
Ibidem.
26. 26
sul mercato e – in special modo – sui bisogni indotti degli individui119
. Nel secondo
capitolo della seconda parte, invece, il discorso si approfondisce intorno alla necessità di
ripensare il capitalismo, sempre più filo-monopolista e disumano. Lo scrittore afferma:
“la mia tesi generale [è] cioè che non stiamo facendo tutto il possibile per resistere
all’assalto del monopolio; e che quando la gente parla come se ora non si potesse fare
nulla, quell’affermazione è falsa; e che le soluzioni possibili sono molteplici”. Queste
‘soluzioni’ vengono però anticipate da un monito, e cioè il chiarimento che il
capitalismo in sé vada mantenuto in quanto necessario alla società. Si avrebbe avuto
dunque da evitare, da un lato, l’eccesso comunista, e dall’altro, l’attuale caos che stava
sconquassando di già la società120
. Le alternative programmatiche offerte dal pensiero
distributista sono, invece, le seguenti: un primo atto di civiltà sarebbe l’allargamento
graduale di compartecipazione agli utili verso il personale in subordine di un’impresa;
se poi tale azienda concentrasse in sé attività commerciali estese, tali da designarla
quale realtà medio/grande, una gilda ne avrebbe dovuto “mettere insieme i contributi e
divide[re] i guadagni”121
. Da ciò ne sarebbe altresì ridiscesa la necessità di
centralizzare le tasse verso le diverse realtà aziendali, tenendo conto delle differenti
tipologie di associazionismo ‘lavorista’. Ancora; l’autore consiglia, successivamente, di
effettuare la tassazione di quei contratti di cessazione delle piccole attività a favore dei
grandi proprietari e, all’inverso, auspica che venga incoraggiato (dal Governo) il
frazionamento delle grandi proprietà fra i piccoli proprietari. Viene addirittura
incoraggiato “qualcosa di simile alla legge testamentaria napoleonica e alla
soppressione della primogenitura”122
. Ma c’è dell’altro: viene caldeggiata anche la
possibilità di rendere l’assistenza legale per i poveri gratuita, perlomeno, nel caso in cui
questi debbano difendersi dalle ‘mire espansionistiche’ (ovviamente commerciali!) dei
grandi proprietari. G. K. C., inoltre, propone anche la tesi (ancora oggi non messa in
crisi dalle recenti teorie sul commercio internazionale) di un sano protezionismo volto a
difendere gli interessi locali123
. Ciò andrebbe ovviamente accompagnato da una politica
di sovvenzioni rivolta ai bottegai e ai negozianti124
. Il penultimo capitolo della seconda
parte è invece maggiormente ispirato a concetti filosofici, simili a quelli che hanno
movimentato il secolo diciannovesimo e ventesimo. Qui, l’autore, auspica la nascita di
una nuova cultura di classe, la terza125
, quella dei piccoli negozianti e dei contadini,
119
“Non fanno che dirci ce il successo del commercio moderno dipende dalla creazione di un’atmosfera,
dalla fabbricazione di una mentalità, dall’assunzione di un punto di vista. In breve, insistono che il loro
commercio non è puramente commerciale, o persino economico o politico, ma puramente psicologico.
Spero che continuino a dirlo, così forse un giorno tutti si accorgeranno improvvisamente che è vero”.
Ibidem, pag. 73.
120
Chesterton intende ovviamente la società ‘dei consumi’… e anche quella civile in sé. Ibidem, pag. 84.
121
Ibidem, pag. 87.
122
Ibidem, pag. 88.
123
Esattamente l’opposto di ciò che sta accadendo nell’internazionalizzata Londra di oggi, ad esempio,
dove interi quartieri residenziali del centro sono di fatto di proprietà di stranieri. V. sito internet:
http://www.independent.co.uk/news/business/news/london-property-foreign-buyers-from-iran-expected-
to-rise-by-a-quarter-in-2016-a6931971.html. Cfr. con la pagina internet:
http://www.telegraph.co.uk/business/2016/05/16/foreign-buyers-cool-on-central-london-but-crest-
nicholson-confid/.
124
Ibidem, pag. 89.
125
V. nota a seguire.
27. 27
cosa che, a suo dire, eliminerebbe in nuce la presenza del conflitto ‘inter-classi’126
. Ciò
andrebbe ovviamente accompagnato ad una riforma in “due fasi: […] [di] riforma
positiva e […] negativa: se i piccoli negozi cominciassero a guadagnare clienti e i
grandi a perderne, ciò significherebbe due cose, entrambe certamente preliminari ma
anche concrete. Vorrebbe dire che la corsa centripeta ha subito un rallentamento, se
non l’arresto vero e proprio, e che potrebbe finalmente trasformarsi in un movimento
centrifugo. E significherebbe anche che all’interno dello Stato sono molti i cittadini a
cui non si possono applicare le solite argomentazioni socialiste o servili”127
. Viene
infine rilanciata l’idea del sistema delle gilde medievali quale soluzione per la scansione
esatta delle attività di queste piccole, virtuose, realtà commerciali128
. L’area finale della
seconda parte è invece dedicata non all’apologia del trust, quale istituto di diritto
britannico basato sulla vicendevole fiducia riposta dalle parti, bensì alla sua
declinazione in senso negativo129
. A suo dire l’insorgenza dell’istituto del trust
nell’Inghilterra del suo tempo è corrisposto ad un vero e proprio ‘furto legalizzato’
andatosi ad espandere, ben peggiore dell’attacco – perlomeno a carte scoperte –
promosso dai socialisti filo-marxisti nel Parlamento come nelle taverne ai lati delle
strade130
. L’autore effettua poi un salto tematico, tornando a concettualizzare nuovi
modi per contrastare, nella propria vita di consumatore, l’insorgenza di questi centri di
potere capitalistico: sembra venire così ventilata l’ipotesi di una sorta di ‘protesta
passiva’131
. Questo sarebbe altrettanto legittimo visto che i grandi capitalisti avrebbero
fatto propria la pratica del “dumping, ossia la politica di vendere intenzionalmente
sottocosto per distruggere il mercato altrui”. Si passa poi a definire prestito usurario
quello concesso a condizioni eccessivamente gravose per il piccolo proprietario; è
quello che poggia, evidentemente, non solo su clausole apertamente ‘vessatorie’, ma
anche su una (sic et simpliciter) dilazione eccessiva. Chiude il capitolo un breve appello
‘ai giovani e forti’ piuttosto evocativo: “se per ottenere la giustizia le persone
scegliessero di correre la metà dei rischi che hanno già corso per ottenere
l’abbrutimento, se per far diventare bello qualcosa lavorassero con metà dell’impegno
con cui hanno lavorato per rendere brutta ogni cosa, se servissero Dio come hanno
servito il Re del maiale o il Re del petrolio, il successo della democrazia distributista
126
“E l’esistenza stessa di questa sterza classe metterebbe fine a quella che è stata chiamata la guerra di
classe, poiché la teoria su cui si basa quest’ultima divide tutti gli uomini in datori di lavoro e
dipendenti”. Ibidem, pag. 95.
127
Ibidem.
128
Ibidem, pag. 97.
129
“’Property is a trust’: così si esprime per indicare al mondo intorno a lui che la proprietà è un
deposito affidatoci dalla Provvidenza. Ma la sua toccante frasetta assume il carattere di uno spaventoso
gioco di parole, nel momento in cui ‘trust’ non viene più interpretato nell’accezione di deposito, bensì di
monopolio. Eccola dunque ritornare con l’eco di cento voci urlanti, che ripetono ancora e ancora, come
la risata di cento demoni dell’inferno: ‘la proprietà è un trust’”. Ibidem, pag. 100.
130
“Non potrei riassumere meglio ciò che intendevo dire in questa prima sezione che esaminando il
modo curioso in cui il tipo rappresentato dal caro sacerdote anziano e conservatore è stato prima colto
alla sprovvista mentre sonnecchiava e poi, per così dire, colpito in testa. La prima cosa che abbiamo
dovuto spiegargli è espressa in quell’orribile gioco di parole sul duplice significato di ‘trust’. Mentre
protestava con veemenza contro ladri immaginari, che lui definisce socialisti, è stato preso e portato di
peso da ladri veri, che ancora non riesce nemmeno a immaginare. Poiché le bande di speculatori dietro
le grandi concentrazioni industriali sono in realtà bande di ladri, nel senso che hanno molta meno
sensibilità di chiunque altro per la responsabilità individuale verso i doni individuali di Dio che
giustamente il vecchio sacerdote definisce un dovere cristiano”. Ibidem.
131
Ibidem, pag. 109.