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Il campo oltre le sbarre
AVELLINO, la Piazza d’Armi
«Esiste in Italia una squadra che gioca come il Brasile,
che profuma di cibo genuino e campi in fiore.
Una squadra che, però, non è brasiliana: si chiama Avellino»
Gianni Brera
Ogni città d’Italia un tempo aveva una Piazza d’Armi, il Campo di Marte,
luogo extra civico di antica memoria romana destinato alle esercitazioni mi-
litari, ma anche ad altri avvenimenti episodici come le evoluzioni aviatorie
dei piloti e le ammalianti esibizioni di circhi e spettacoli itineranti. A Firenze,
ma anche a Como e Milano, arrivò pure l’esotico Wild West Show di William
Frederick Cody, il leggendario “Buffalo Bill”. Altrove furono ospitate le più
diverse e strabilianti manifestazioni e ogni tipo di evento ludico immaginabi-
le. Gare equestri e giostre navali, ma anche sfilate di elefanti, spettacoli piro-
tecnici, banchetti collettivi, gare di tiro al piccione fino alle ascensioni di pal-
loni aerostatici e mongolfiere. Non mancarono, ovviamente, le celebrazioni
politiche, prima le feste operaie del primo maggio, poi le adunate oceaniche
di Balilla, Giovani Italiane e Avanguardisti. Proprio l’avvento del Fascismo
rafforzò la destinazione sportiva della Piazza d’Armi che in molte città, fino
ad allora, aveva già ospitato praticamente ogni disciplina, comprese la “palla
al cesto” e la “palla ovale”, senza tuttavia trovare mai una certa regolarità
negli eventi. Poi arrivò il calcio. Il pallone di cuoio, quello scuro e duro dei
pionieri del foot-ball, trovò proprio negli ampi spazi polverosi della piazza
militare l’ambiente ideale (l’unico, spesso) per sviluppare regole e schemi, tra
risse e sfide infernali, in attesa di organizzarsi e rivelarsi al mondo su palco-
scenici più evoluti e nobili.
Ad Avellino, dove spazi e tempi da sempre seguono una logica diversa, il
campo sportivo della Piazza d’Armi – incredibile dictu – fu utilizzato ininter-
rottamente fino al 1970, allorché fu demolito per far posto al nuovo Tribunale.
Cos’è il tempo, si chiedeva Sant’Agostino da Ippona, se non una distensione
dell’anima? Un valore psicologico, non un divenire della realtà naturale. E
non sorprenda allora che mentre nel resto d’Italia si giocava su verdi prati
posti all’ombra di spalti sempre più alti, in Irpinia la palla rotolava ancora tra
polvere e gradoni improvvisati. Del resto, di Avellino si parlava come di un
fuori, una città a parte, di rigori e nitori nordici, altro che assolata Campania
Felix e Ager Campanus. Hyrpus, “lupo” in lingua osca, un branco all’ombra del
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Monte Partenio, tra il Subappennino Dauno, la Valle Caudina e i Monti Pi-
centini. Irpinia viridis et acquosa, semmai, serrata tra i venti umidi del Tirreno
e quelle piogge che ai napoletani danno il magone e agli avellinesi il sorriso
nel rigenerare ruscelli, fiumi, torrenti e cascate dei suoi monti incantati. E il
vino, denso ma sempre dolcissimo, oppure secco – ma secco davvero – da
rimescolare il sangue nelle vene, accompagnato alle castagne e alle noci che i
romani chiamavano atellanae da cui – dicunt – il nome della città. Ma andiamo
per ordine. Terminata la guerra, quella Grande, si imponeva una ripresa. Ad
Avellino lo sport aiutò molto la gente irpina a superare il doloroso ricordo
dei tanti familiari caduti sulle sponde del Piave e sui rilievi carsici senza ri-
vedere la propria terra. Lo sport era festa, come quella organizzata alla Villa
Comunale dall’U.S. Avellino il 15 luglio del ’23, tra musica, danze, incontri di
scherma, esibizioni ginniche, gare podistiche per i bimbi e sfide di lotta greco
romana. Dal libro di Leondino Pescatore “Avellino: una squadra, una storia
(1912-1985)” [Poligrafica Ruggiero Editore, Avellino, 1985] apprendo che a
sostenere gli eventi, spesso attraverso l’attribuzione di premi vari, erano i
commercianti avellinesi come l’elettricista Capone, il cappellaio Nicola Ian-
naccone, Ciro Alvino, Palumbo Latticini, Vignola Calzature, Papa, Lanzara
Pasticceria, Riccardo Pergola, Caffè Centrale, Borriello Mobiliere e così via.
L’Italia in camicia nera andava nella stessa direzione e in quegli anni molti uo-
Esercitazioni militari sulla Piazza d’Armi nel lontano 1904. Sullo sfondo Montevegine, il cui celebre
santuario è ancora oggi consueta meta di pellegrinaggio per la squadra irpina
(Foto T. Rotondi, Ed. C. Pettisani)
19
Il carcere borbonico affacciato sul campo irpino
mini e donne si avvicinarono alle discipline atletiche. Il Fascismo riconosceva
il prestigio delle affermazioni sportive considerandole un efficace mezzo per
formare le genti italiche; nello sport e nel suo sempre maggiore seguito di
massa il regime vedeva un importante terreno di consolidamento e di amplia-
mento del consenso sociale. Del resto, a curare archivio e amministrazione
della squadra avellinese era il padre dell’avvocato Alfredo de Marsico, all’e-
poca dirigente del PNF in Piazza della Libertà, già del Tribunale, lo spiazzo
dove ai tempi della rivolta di Nola fu giurata la nuova Costituzione voluta da
Michele Morelli tra lo sventolio delle bandiere della Carboneria. “Ad Avel-
lino – scrive Antonio Scotti in “Fozavellino!” [Nuovedizioni Sportive, 1986]
– le autorità militari concessero la Piazza d’Armi. Al mattino correvano giù
e su i bersaglieri con il fez rosso e il “bigio” della divisa di fatica, o i fantacci-
ni dal kepì bianco di campagna, nel pomeriggio erano di scena i calciatori”.
Il primo incontro di calcio ufficiale, promosso in città con la stampa di mol-
tissime locandine che pubblicizzavano l’avvenimento, fu disputato il 23 set-
tembre 1923. L’Unione Liberi Calciatori Avellinesi sfidava l’Unione Sportiva
Santangiolese davanti a un pubblico perplesso ma divertito che pagò una lira
per accedere al campo e usufruire delle sedie a noleggio (il resto dell’incasso
servì per l’organizzazione delle trasferte successive). Ricorda Scotti che vi era
anche un lato signorile del campo a disposizione delle signore e dei gentiluo-
mini e, naturalmente, delle autorità. Il fotografo ufficiale era il figlio del tito-
lare dello Studio Velle mentre le cronache erano affidate all’avvocato Nicola
20
Archidiacono, corrispondente della Gazzetta del Mezzogiorno. Moltissimi i
giovani calciatori che a quel tempo si alternavano sul terreno della Piazza
d’Armi e in giro per i campi del Sannio e dell’Agro Nocerino. L’ossatura del-
la squadra era in gran parte formata dagli studenti del Liceo Classico Pietro
Colletta che partecipavano ai vari campionati studenteschi. Storici i derby
con gli acerrimi rivali del Benevento, passati alla storia più per le scazzottate
tra i tifosi delle due squadre che per le gesta sportive degli atleti in campo.
Cose sannite, se ne parlava già ai tempi di Abellinum e poi anche durante la
guerra civile tra Mario e Silla, in epoca romana; ad Avellino scelsero il primo e
fu un acquisto azzeccato quanto quelli di Skov e Anastopoulos duemila anni
dopo, e non parliamo delle scelte portate avanti durante lo scontro tra Bizan-
tini e Longobardi, un’altra campagna acquisti poco riuscita.
Il terreno di gioco, opportunamente sistemato per poter ospitare gli incontri,
fu inaugurato come Campo Littorio alle ore 17 del 2 giugno 1929 con l’inter-
vento dell’onorevole. avvocato Gigi Lanfranconi dinanzi alle massime auto-
rità civili e religiose della città. Le cerimonie inaugurali andarono avanti per
tutto il pomeriggio con l’esibizione della banda musicale che intonò la Marcia
Reale e uno spettacolo pirotecnico da fare invidia alla napoletana Piedigrotta.
Nel suo piccolo, Avellino partecipava all’alba degli anni Trenta, contribuen-
do a forgiare la nuova gioventù d’Italia, tra slogan e motivetti tormentone,
treni in orario, il jazz che sbarcava in Europa, le gesta lirico-eroiche (e altro)
del Vate D’Annunzio e le avventure coloniali verso Tripoli bel suol d’amo-
La tribuna del nuovo campo Ugo De Fazio, inaugurato il 7 luglio 1940 (Archivio L. Pescatore)
21
re. Inizialmente l’impianto aveva una capienza limitata a cinquecento posti
ed era delimitato dalla recinzione in legno fatta costruire nel 1934 dal presi-
dente Alfonso Di Marzio, proprietario delle famose miniere di zolfo di Tufo.
Successivamente venne aggiunta una piccola tribuna e, attraverso successivi
interventi di ampliamento, la struttura arrivò a poter ospitare complessiva-
mente 2.000 persone a sedere. Il campo, così rinnovato, venne intitolato alla
memoria di Ugo De Fazio, Centurione delle Camicie Nere d’Eritrea caduto
in battaglia sul suolo africano il 27 febbraio 1936; l’inaugurazione avvenne il
7 luglio 1940 con una sfida contro il Benevento, valevole per il campionato di
Serie C. Si imposero i sanniti per 4 a 2, dinanzi a un folto pubblico nel quale
erano presenti il prefetto Nicola Trifuoggi, attivissimo tifoso della squadra, il
podestà Edoardo Grella e il presidente degli ospiti, Tonino Maffei, originario
proprio di Avellino.
I venti bellici si fecero sentire anche in Irpinia, seppur non direttamente.
Napoli era invece al centro della guerra e Avellino fu vicina al capoluogo cam-
pano inviando alimenti, vestiario e uomini. Una solidarietà ricambiata anni
dopo quando la terra irpina tremò nel 1980. Al termine del conflitto il Campo
Littorio, tornato Piazza d’Armi, era ridotto a una landa; come l’omonimo cam-
po dei partenopei al Vomero, del resto. Gli americani, che avevano occupato
la città, l’avevano reso simile a pietra infuocata e vi giocavano il loro bizzarro
La Piazza d’Armi, foto d’epoca (ma non troppo)
22
football. Non mancarono in quel periodo una gara dal sapore internazionale
disputata contro una rappresentativa polacca e un’amichevole prestigiosa con
la Fiorentina (il Milan di Liedholm e Nordahl arrivò invece anni dopo, il 7
ottobre 1953, e a segnare l’unica rete fu proprio il pompiere svedese).
Nel 1945 il terreno di gioco fu dotato di una nuova recinzione, eretta dalla
ditta di Alfredo Iandolo utilizzando materiale di risulta e le pietre di tufo
destinate in un primo momento alla costruzione del rione Corea da parte
dell’Istituto Case Popolari. Il campo in terra battuta venne risistemato ma
rimaneva infuocato nelle giornate più calde; fu sostituito solamente nel 1965
con l’innesto del manto erboso. Alla terna arbitrale, per raggiungere gli spo-
gliatoi ricavati in una Ricevitoria del Lotto, occorreva una camminata di oltre
trecento metri e capitava sovente che – soprattutto nel tragitto di ritorno –
non fosse una passeggiata piacevole.
Lo stadio lungo il lato sud confinava con il Carcere Borbonico realizzato nel
1821, una struttura di forma esagonale collocata al centro di quello che sareb-
be poi diventato un distretto molto trafficato della città, in modo da inserire i
detenuti in un contesto “sociale” e non isolato, favorendone la rieducazione al
termine della pena. La vicinanza al campo concedeva ai carcerati di Avellino
l’ulteriore privilegio di poter seguire le partite dalle loro celle, interrompendo
così il silenzio, la noia e il buio di una vita dietro le sbarre. Il Carcere manten-
ne le sue funzioni fino al 1980, l’anno del sisma, poi venne dismesso e oggi
ospita la Soprintendenza BAP di Avellino, una collezione di presepi, la Pina-
coteca Irpina, il Museo del Risorgimento e una ricca esposizione di Lapidario.
Sul finire degli anni Sessanta l’impianto avellinese cominciò a mostrare tut-
ti i suoi limiti come terreno di gioco, evidenziati drammaticamente alla ven-
tiseiesima giornata della stagione 1968-69 del campionato di Serie C, quando
la gara persa con la Salernitana terminò con l’invasione di campo da parte
del pubblico inferocito, l’aggressione all’arbitro Lattanzi e l’inevitabile squa-
lifica del campo per cinque mesi. Contro il Cosenza, il 29 novembre 1970, fu
giocata l’ultima partita sul terreno della Piazza d’Armi, stravolta oggi nel suo
nuovo assetto urbano, eppure talvolta ancora utilizzata dai tifosi biancover-
di per dar vita a colorati caroselli nei momenti di esultanza collettiva. Due
settimane dopo, con la gara Avellino – Brindisi terminata a reti inviolate nel
giorno di Santa Lucia, fu inaugurato il nuovo stadio comunale, il Partenio di
Contrada Zoccolari, realizzato dall’ingegnere Palmolella di Roma e costruito
dalla ditta Innocenti di Bologna. Con i nuovi spalti, di lì a breve, ebbe inizio
anche la celebre Legge del Partenio, dieci anni di successi nella massima serie
colti grazie al sostegno di una tifoseria calda e passionale stretta attorno a
una vagonata di campioni che non sapevano di essere campioni, da Tacco-
ni a Vignola, da Juary a Criscimanni, da Beruatto a Diaz, fino all’icona pop
vintage Barbadillo; ma successi figli anche di un clima di intimidazione fisica
continua, dentro e fuori dal campo, con presenze inquietanti nei pressi della
linea laterale (anche cani ringhianti, comunque più socievoli di certi perso-
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naggi odierni) di un terreno di gioco dove dominavano fango e buche (così
Stefano Olivari, sul Guerino). E acido muriatico nelle docce ospiti, a sentire
Maurizio Ganz, per non parlare di certe ambigue e pericolose frequentazioni
del presidente Antonio Sibilia, il padre-padrone dai modi burberi e dal cer-
vello fino, dall’esilarante eloquio dialettale e dall’ineguagliabile fiuto calcisti-
co. Degni di menzione anche i metodi democristiani di un certo presidente
del consiglio irpino allegoria cult della Prima Repubblica, ma il discorso ci
porterebbe lontano. In ogni caso il Partenio era una trappola per tutti, anche
per chi pareva invincibile, “il campo più difficile sul quale giocare”, come
ebbe a dire una volta il Mancio. Era il miracolo dell’Avellino, racconta Ivo
Romano sull’Unità, il prodigio della provinciale di lusso, parente povera del
calcio issatasi fin sui quartieri alti e rimastavi appollaiata per dieci stagioni
di fila, lottando col coltello tra i denti domenica dopo domenica, sfidando le
grandi con la sfacciataggine di chi non ha nulla da perdere, tirando la cinghia
ogni anno di più. Dieci anni, un’eternità. Vissuta a braccetto con l’aristocrazia
del pallone, come in un sogno da cui nessuno avrebbe più voluto svegliarsi.
Prima o poi al Partenio caddero tutti e saltarono tante gerarchie e rapporti di
forza. ‘A carn’ sott e i maccaruni ncopp.

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  • 1. 17 Il campo oltre le sbarre AVELLINO, la Piazza d’Armi «Esiste in Italia una squadra che gioca come il Brasile, che profuma di cibo genuino e campi in fiore. Una squadra che, però, non è brasiliana: si chiama Avellino» Gianni Brera Ogni città d’Italia un tempo aveva una Piazza d’Armi, il Campo di Marte, luogo extra civico di antica memoria romana destinato alle esercitazioni mi- litari, ma anche ad altri avvenimenti episodici come le evoluzioni aviatorie dei piloti e le ammalianti esibizioni di circhi e spettacoli itineranti. A Firenze, ma anche a Como e Milano, arrivò pure l’esotico Wild West Show di William Frederick Cody, il leggendario “Buffalo Bill”. Altrove furono ospitate le più diverse e strabilianti manifestazioni e ogni tipo di evento ludico immaginabi- le. Gare equestri e giostre navali, ma anche sfilate di elefanti, spettacoli piro- tecnici, banchetti collettivi, gare di tiro al piccione fino alle ascensioni di pal- loni aerostatici e mongolfiere. Non mancarono, ovviamente, le celebrazioni politiche, prima le feste operaie del primo maggio, poi le adunate oceaniche di Balilla, Giovani Italiane e Avanguardisti. Proprio l’avvento del Fascismo rafforzò la destinazione sportiva della Piazza d’Armi che in molte città, fino ad allora, aveva già ospitato praticamente ogni disciplina, comprese la “palla al cesto” e la “palla ovale”, senza tuttavia trovare mai una certa regolarità negli eventi. Poi arrivò il calcio. Il pallone di cuoio, quello scuro e duro dei pionieri del foot-ball, trovò proprio negli ampi spazi polverosi della piazza militare l’ambiente ideale (l’unico, spesso) per sviluppare regole e schemi, tra risse e sfide infernali, in attesa di organizzarsi e rivelarsi al mondo su palco- scenici più evoluti e nobili. Ad Avellino, dove spazi e tempi da sempre seguono una logica diversa, il campo sportivo della Piazza d’Armi – incredibile dictu – fu utilizzato ininter- rottamente fino al 1970, allorché fu demolito per far posto al nuovo Tribunale. Cos’è il tempo, si chiedeva Sant’Agostino da Ippona, se non una distensione dell’anima? Un valore psicologico, non un divenire della realtà naturale. E non sorprenda allora che mentre nel resto d’Italia si giocava su verdi prati posti all’ombra di spalti sempre più alti, in Irpinia la palla rotolava ancora tra polvere e gradoni improvvisati. Del resto, di Avellino si parlava come di un fuori, una città a parte, di rigori e nitori nordici, altro che assolata Campania Felix e Ager Campanus. Hyrpus, “lupo” in lingua osca, un branco all’ombra del
  • 2. 18 Monte Partenio, tra il Subappennino Dauno, la Valle Caudina e i Monti Pi- centini. Irpinia viridis et acquosa, semmai, serrata tra i venti umidi del Tirreno e quelle piogge che ai napoletani danno il magone e agli avellinesi il sorriso nel rigenerare ruscelli, fiumi, torrenti e cascate dei suoi monti incantati. E il vino, denso ma sempre dolcissimo, oppure secco – ma secco davvero – da rimescolare il sangue nelle vene, accompagnato alle castagne e alle noci che i romani chiamavano atellanae da cui – dicunt – il nome della città. Ma andiamo per ordine. Terminata la guerra, quella Grande, si imponeva una ripresa. Ad Avellino lo sport aiutò molto la gente irpina a superare il doloroso ricordo dei tanti familiari caduti sulle sponde del Piave e sui rilievi carsici senza ri- vedere la propria terra. Lo sport era festa, come quella organizzata alla Villa Comunale dall’U.S. Avellino il 15 luglio del ’23, tra musica, danze, incontri di scherma, esibizioni ginniche, gare podistiche per i bimbi e sfide di lotta greco romana. Dal libro di Leondino Pescatore “Avellino: una squadra, una storia (1912-1985)” [Poligrafica Ruggiero Editore, Avellino, 1985] apprendo che a sostenere gli eventi, spesso attraverso l’attribuzione di premi vari, erano i commercianti avellinesi come l’elettricista Capone, il cappellaio Nicola Ian- naccone, Ciro Alvino, Palumbo Latticini, Vignola Calzature, Papa, Lanzara Pasticceria, Riccardo Pergola, Caffè Centrale, Borriello Mobiliere e così via. L’Italia in camicia nera andava nella stessa direzione e in quegli anni molti uo- Esercitazioni militari sulla Piazza d’Armi nel lontano 1904. Sullo sfondo Montevegine, il cui celebre santuario è ancora oggi consueta meta di pellegrinaggio per la squadra irpina (Foto T. Rotondi, Ed. C. Pettisani)
  • 3. 19 Il carcere borbonico affacciato sul campo irpino mini e donne si avvicinarono alle discipline atletiche. Il Fascismo riconosceva il prestigio delle affermazioni sportive considerandole un efficace mezzo per formare le genti italiche; nello sport e nel suo sempre maggiore seguito di massa il regime vedeva un importante terreno di consolidamento e di amplia- mento del consenso sociale. Del resto, a curare archivio e amministrazione della squadra avellinese era il padre dell’avvocato Alfredo de Marsico, all’e- poca dirigente del PNF in Piazza della Libertà, già del Tribunale, lo spiazzo dove ai tempi della rivolta di Nola fu giurata la nuova Costituzione voluta da Michele Morelli tra lo sventolio delle bandiere della Carboneria. “Ad Avel- lino – scrive Antonio Scotti in “Fozavellino!” [Nuovedizioni Sportive, 1986] – le autorità militari concessero la Piazza d’Armi. Al mattino correvano giù e su i bersaglieri con il fez rosso e il “bigio” della divisa di fatica, o i fantacci- ni dal kepì bianco di campagna, nel pomeriggio erano di scena i calciatori”. Il primo incontro di calcio ufficiale, promosso in città con la stampa di mol- tissime locandine che pubblicizzavano l’avvenimento, fu disputato il 23 set- tembre 1923. L’Unione Liberi Calciatori Avellinesi sfidava l’Unione Sportiva Santangiolese davanti a un pubblico perplesso ma divertito che pagò una lira per accedere al campo e usufruire delle sedie a noleggio (il resto dell’incasso servì per l’organizzazione delle trasferte successive). Ricorda Scotti che vi era anche un lato signorile del campo a disposizione delle signore e dei gentiluo- mini e, naturalmente, delle autorità. Il fotografo ufficiale era il figlio del tito- lare dello Studio Velle mentre le cronache erano affidate all’avvocato Nicola
  • 4. 20 Archidiacono, corrispondente della Gazzetta del Mezzogiorno. Moltissimi i giovani calciatori che a quel tempo si alternavano sul terreno della Piazza d’Armi e in giro per i campi del Sannio e dell’Agro Nocerino. L’ossatura del- la squadra era in gran parte formata dagli studenti del Liceo Classico Pietro Colletta che partecipavano ai vari campionati studenteschi. Storici i derby con gli acerrimi rivali del Benevento, passati alla storia più per le scazzottate tra i tifosi delle due squadre che per le gesta sportive degli atleti in campo. Cose sannite, se ne parlava già ai tempi di Abellinum e poi anche durante la guerra civile tra Mario e Silla, in epoca romana; ad Avellino scelsero il primo e fu un acquisto azzeccato quanto quelli di Skov e Anastopoulos duemila anni dopo, e non parliamo delle scelte portate avanti durante lo scontro tra Bizan- tini e Longobardi, un’altra campagna acquisti poco riuscita. Il terreno di gioco, opportunamente sistemato per poter ospitare gli incontri, fu inaugurato come Campo Littorio alle ore 17 del 2 giugno 1929 con l’inter- vento dell’onorevole. avvocato Gigi Lanfranconi dinanzi alle massime auto- rità civili e religiose della città. Le cerimonie inaugurali andarono avanti per tutto il pomeriggio con l’esibizione della banda musicale che intonò la Marcia Reale e uno spettacolo pirotecnico da fare invidia alla napoletana Piedigrotta. Nel suo piccolo, Avellino partecipava all’alba degli anni Trenta, contribuen- do a forgiare la nuova gioventù d’Italia, tra slogan e motivetti tormentone, treni in orario, il jazz che sbarcava in Europa, le gesta lirico-eroiche (e altro) del Vate D’Annunzio e le avventure coloniali verso Tripoli bel suol d’amo- La tribuna del nuovo campo Ugo De Fazio, inaugurato il 7 luglio 1940 (Archivio L. Pescatore)
  • 5. 21 re. Inizialmente l’impianto aveva una capienza limitata a cinquecento posti ed era delimitato dalla recinzione in legno fatta costruire nel 1934 dal presi- dente Alfonso Di Marzio, proprietario delle famose miniere di zolfo di Tufo. Successivamente venne aggiunta una piccola tribuna e, attraverso successivi interventi di ampliamento, la struttura arrivò a poter ospitare complessiva- mente 2.000 persone a sedere. Il campo, così rinnovato, venne intitolato alla memoria di Ugo De Fazio, Centurione delle Camicie Nere d’Eritrea caduto in battaglia sul suolo africano il 27 febbraio 1936; l’inaugurazione avvenne il 7 luglio 1940 con una sfida contro il Benevento, valevole per il campionato di Serie C. Si imposero i sanniti per 4 a 2, dinanzi a un folto pubblico nel quale erano presenti il prefetto Nicola Trifuoggi, attivissimo tifoso della squadra, il podestà Edoardo Grella e il presidente degli ospiti, Tonino Maffei, originario proprio di Avellino. I venti bellici si fecero sentire anche in Irpinia, seppur non direttamente. Napoli era invece al centro della guerra e Avellino fu vicina al capoluogo cam- pano inviando alimenti, vestiario e uomini. Una solidarietà ricambiata anni dopo quando la terra irpina tremò nel 1980. Al termine del conflitto il Campo Littorio, tornato Piazza d’Armi, era ridotto a una landa; come l’omonimo cam- po dei partenopei al Vomero, del resto. Gli americani, che avevano occupato la città, l’avevano reso simile a pietra infuocata e vi giocavano il loro bizzarro La Piazza d’Armi, foto d’epoca (ma non troppo)
  • 6. 22 football. Non mancarono in quel periodo una gara dal sapore internazionale disputata contro una rappresentativa polacca e un’amichevole prestigiosa con la Fiorentina (il Milan di Liedholm e Nordahl arrivò invece anni dopo, il 7 ottobre 1953, e a segnare l’unica rete fu proprio il pompiere svedese). Nel 1945 il terreno di gioco fu dotato di una nuova recinzione, eretta dalla ditta di Alfredo Iandolo utilizzando materiale di risulta e le pietre di tufo destinate in un primo momento alla costruzione del rione Corea da parte dell’Istituto Case Popolari. Il campo in terra battuta venne risistemato ma rimaneva infuocato nelle giornate più calde; fu sostituito solamente nel 1965 con l’innesto del manto erboso. Alla terna arbitrale, per raggiungere gli spo- gliatoi ricavati in una Ricevitoria del Lotto, occorreva una camminata di oltre trecento metri e capitava sovente che – soprattutto nel tragitto di ritorno – non fosse una passeggiata piacevole. Lo stadio lungo il lato sud confinava con il Carcere Borbonico realizzato nel 1821, una struttura di forma esagonale collocata al centro di quello che sareb- be poi diventato un distretto molto trafficato della città, in modo da inserire i detenuti in un contesto “sociale” e non isolato, favorendone la rieducazione al termine della pena. La vicinanza al campo concedeva ai carcerati di Avellino l’ulteriore privilegio di poter seguire le partite dalle loro celle, interrompendo così il silenzio, la noia e il buio di una vita dietro le sbarre. Il Carcere manten- ne le sue funzioni fino al 1980, l’anno del sisma, poi venne dismesso e oggi ospita la Soprintendenza BAP di Avellino, una collezione di presepi, la Pina- coteca Irpina, il Museo del Risorgimento e una ricca esposizione di Lapidario. Sul finire degli anni Sessanta l’impianto avellinese cominciò a mostrare tut- ti i suoi limiti come terreno di gioco, evidenziati drammaticamente alla ven- tiseiesima giornata della stagione 1968-69 del campionato di Serie C, quando la gara persa con la Salernitana terminò con l’invasione di campo da parte del pubblico inferocito, l’aggressione all’arbitro Lattanzi e l’inevitabile squa- lifica del campo per cinque mesi. Contro il Cosenza, il 29 novembre 1970, fu giocata l’ultima partita sul terreno della Piazza d’Armi, stravolta oggi nel suo nuovo assetto urbano, eppure talvolta ancora utilizzata dai tifosi biancover- di per dar vita a colorati caroselli nei momenti di esultanza collettiva. Due settimane dopo, con la gara Avellino – Brindisi terminata a reti inviolate nel giorno di Santa Lucia, fu inaugurato il nuovo stadio comunale, il Partenio di Contrada Zoccolari, realizzato dall’ingegnere Palmolella di Roma e costruito dalla ditta Innocenti di Bologna. Con i nuovi spalti, di lì a breve, ebbe inizio anche la celebre Legge del Partenio, dieci anni di successi nella massima serie colti grazie al sostegno di una tifoseria calda e passionale stretta attorno a una vagonata di campioni che non sapevano di essere campioni, da Tacco- ni a Vignola, da Juary a Criscimanni, da Beruatto a Diaz, fino all’icona pop vintage Barbadillo; ma successi figli anche di un clima di intimidazione fisica continua, dentro e fuori dal campo, con presenze inquietanti nei pressi della linea laterale (anche cani ringhianti, comunque più socievoli di certi perso-
  • 7. 23 naggi odierni) di un terreno di gioco dove dominavano fango e buche (così Stefano Olivari, sul Guerino). E acido muriatico nelle docce ospiti, a sentire Maurizio Ganz, per non parlare di certe ambigue e pericolose frequentazioni del presidente Antonio Sibilia, il padre-padrone dai modi burberi e dal cer- vello fino, dall’esilarante eloquio dialettale e dall’ineguagliabile fiuto calcisti- co. Degni di menzione anche i metodi democristiani di un certo presidente del consiglio irpino allegoria cult della Prima Repubblica, ma il discorso ci porterebbe lontano. In ogni caso il Partenio era una trappola per tutti, anche per chi pareva invincibile, “il campo più difficile sul quale giocare”, come ebbe a dire una volta il Mancio. Era il miracolo dell’Avellino, racconta Ivo Romano sull’Unità, il prodigio della provinciale di lusso, parente povera del calcio issatasi fin sui quartieri alti e rimastavi appollaiata per dieci stagioni di fila, lottando col coltello tra i denti domenica dopo domenica, sfidando le grandi con la sfacciataggine di chi non ha nulla da perdere, tirando la cinghia ogni anno di più. Dieci anni, un’eternità. Vissuta a braccetto con l’aristocrazia del pallone, come in un sogno da cui nessuno avrebbe più voluto svegliarsi. Prima o poi al Partenio caddero tutti e saltarono tante gerarchie e rapporti di forza. ‘A carn’ sott e i maccaruni ncopp.