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Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
1
Analisi comparata delle Supply Chains
nel settore ortofrutticolo
Melaranci Michele,
Università degli studi Roma III
Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
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INDICE
1. INTRODUZIONE....................................................................................................................................4
1.1 OBIETTIVI E MOTIVAZIONI........................................................................................................................6
1.2 LA FILIERA CORTA....................................................................................................................................9
1.2.1 Il Farmers’ Market .........................................................................................................................13
1.3 FOOD MILES ...........................................................................................................................................17
2. ANALISI DELLA LETTERATURA .......................................................................................................22
2.1 PANORAMICA DEGLI STUDI SUL GENERE................................................................................................22
3. METODOLOGIA.......................................................................................................................................29
3.1 CASE STUDY RESEARCH.........................................................................................................................30
3.1.1 Il mercato contadino dei Castelli Romani ......................................................................................32
3.1.2 CONAD, Genzano di Roma ............................................................................................................36
4. RISULTATI................................................................................................................................................38
3.1 LE FILIERE DEI PRODUTTORI...................................................................................................................39
3.2 IL CONTRIBUTO DELL’ULTIMO CHILOMETRO .........................................................................................42
4. CONCLUSIONI .........................................................................................................................................47
5.BIBLIOGRAFIA.........................................................................................................................................54
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1. INTRODUZIONE
Uno dei processi demografici più importanti che ha caratterizzato tutto il secolo scorso è
stato il progressivo abbandono della vita contadina per una nuova vita in città. La
concentrazione delle funzioni produttive all’interno delle città, secondo una tendenza
sviluppatasi nei paesi occidentali a seguito della rivoluzione industriale, la domanda di
lavoro a basso costo, la crescita edilizia e il conseguente sviluppo dei servizi urbani,
creava le condizioni per ingenti spostamenti demografici dalla campagna alla città.
Diventava così possibile, per larghe fasce di popolazione, cercare condizioni di vita
migliori allontanandosi dalla fatica dei campi e vivere con i frutti della propria autonoma
capacità di emancipazione piuttosto che con quelli elargiti dalla terra. Le campagne si
svuotavano e grazie all’introduzione di nuove tecnologie nei macchinari agricoli, sempre
meno braccianti erano necessari alla produzione. L’urbanesimo del diciannovesimo e
ventesimo secolo che ha interessato in generale tutte le economie del mondo
occidentale più sviluppato, conosce una accelerazione vertiginosa negli ultimi
cinquant’anni fin oltre la fine del ventesimo secolo, seppure tra alterne pause che però
non hanno compromesso un paradigma di sviluppo economico centrato
sull’investimento immobiliare (Bartolini, 2010; Martinotti, 1993).
Nel 2006, in seguito ad una massiccia speculazione nel mercato immobiliare
americano, questo percorso esponenziale di sviluppo subisce una brusca interruzione.
Scoppia la bolla dei sub-primes e s’innesca una reazione a catena che getterà gran
parte delle economie del mondo in una profonda crisi economica che, fatte le debite
distinzioni tra contesti e congiunture che presentano diverse caratterizzazioni, perdura
ancora oggi. In questo nuovo mondo complicato dalla crisi, la città non è più solo un
luogo di aggregazione, un melting pot culturale, un polo di attrazione, è anche un luogo
di stenti, disagi e malessere. In questo nuovo contesto si ripropone, sia nelle
opportunità lavorative che nell’immaginario sociale, uno stile di vita che aspira alla
autosufficienza, per certi aspetti agreste, legato alla terra e lontano dalle ansie e dalle
paure che genera la vita urbana contemporanea. La sussistenza è riscoperta come
valore: si comincia a parlare di un ritorno alla terra (Cersosimo, 2012).
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Come in tutti i fenomeni sistemici ovviamente la spiegazione del perché il ritorno alla
terra sia percepito come una nuova opportunità, non risiede in un'unica variabile, ma è
piuttosto frutto dell’interazione nel tempo, di una moltitudine di esse. In questo caso
bisogna senz’altro considerare il processo di sensibilizzazione sul tema della
sostenibilità ambientale e di sviluppo virtuoso, che inizia nella seconda metà del
ventesimo secolo e con il rapporto Bruntland del 1987 si sancisce in modo formale il
paradigma dello sviluppo sostenibile: “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi
i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di
soddisfare i propri ” (WCED,1987). Anche in Italia, dove la tradizione contadina è stata
forte e profondamente radicata nella cultura dei territori (INEA, 2013), scorgiamo un
incipiente fenomeno in gran parte promosso dalle nuove generazione che riscoprono il
lavoro dei padri e dei nonni, approcciandolo con tecniche e conoscenze nuove.
Per inquadrare il fenomeno, è necessario definire il contesto di riferimento con l’aiuto di
dati tratti dal sesto censimento sull’agricoltura del 2010. L’estensione del territorio
nazionale è di 302.071 km quadrati e la superficie agricola totale (SAT) italiana è pari a
17,1 milioni di ettari, di cui 12,9 milioni appartenenti alla superficie agricola utilizzata
(SAU). È importante considerare in questo ambito il fenomeno crescente della vendita
di prodotti direttamente in azienda, che rappresenta una grande novità, se intesa come
strutturata strategia di mercato (INEA, 2013). Se infatti in passato, questo metodo di
compravendita rappresentava (assieme al mercato cittadino) la via principale di vendita,
oggi diventa il modo per svincolarsi dagli schemi della grande distribuzione che
deprimono il valore in sé del prodotto. Sempre secondo i dati del 6° censimento
dell’agricoltura, sono 270.579 nel 2010, le aziende italiane che utilizzano il canale della
vendita diretta al consumatore (Ibidem). Esse rappresentano il 26% del totale delle
aziende che commercializza nei prodotti agricoli. Tale metodo di vendita è più diffuso
nelle circoscrizioni del Centro e del Sud Italia, dove la tradizione familiare della terra è
rimasta più radicata e la percentuale sale, rispettivamente, al 35% e 31%. Le regioni
che presentano il maggior numero di aziende con vendita diretta sono la Calabria, con il
16,3% sul totale delle aziende, la Sicilia (12,2%) e la Campania (11,7%). Scendendo
nel dettaglio della distinzione tra vendita diretta effettuata in azienda e vendita diretta
che avviene fuori dai locali dell’azienda, emerge che, a livello nazionale, è
maggiormente frequente la vendita in azienda, presente nel 78% dei casi (ibidem). Per
quanto riguarda la distribuzione delle aziende per regione e classe di superficie agricola
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si evidenzia una correlazione positiva tra le aziende di piccola dimensione e la
frequenza nell’utilizzo del canale di vendita diretta. Esse infatti non potendo sviluppare i
volumi delle grandi aziende agricole, aggirano volentieri le fasi intermedie della grande
distribuzione organizzata (o GDO) arrivando direttamente al consumatore senza diluire
il proprio profitto. Il 76% di queste aziende si concentra nella classe 0-3 ettari, la
percentuale scende al 21% per quanto riguarda la classe 3-5 ettari.
Per quanto concerne la forma giuridica assunta dalle aziende con vendita diretta, si
registra nel 94% delle unità la declinazione dell’impresa individuale, rispecchiando il
quadro generale delle aziende italiane nel settore agricolo. Significativo è, inoltre, il dato
che riguarda i dati sull’occupazione, dove possiamo notare che, in forte controtendenza
alla percentuale di disoccupati a livello nazionale (41%, 2013), dal comparto agricolo
provengono (per lo meno in riferimento ai giovani lavoratori) segnali incoraggianti: nel
2013 la classe di lavoratori al di sotto dei 35 anni impiegati in agricoltura ha registrato
un incremento del 5,1%. Agricoltura, ambiente e alimenti è un trinomio che attrae le
nuove generazioni che vogliono investire nel loro futuro, promuovendo la qualità con
tecniche diverse da quelle dei loro nonni. La facoltà di Agraria ha sorprendentemente
registrato nel 2013 un incremento delle immatricolazioni del 45%, a differenza delle
altre facoltà che complessivamente hanno registrato un calo del 12,5%. (Cersosimo,
2012).
1.1 Obiettivi e motivazioni
In questo quadro di rinnovato interesse verso il settore primario, ed in generale verso le
questioni ambientali, si inserisce il presente studio, basato sul presupposto che sia
giusto e necessario indagare le sfaccettature di un settore in così forte trasformazione.
Proprio perché deve necessariamente alimentarsi di una visione integrata delle qualità
del territorio, può fare del virtuosismo ambientale e qualitativo un obiettivo
imprescindibile.
L’idea della ricerca nasce principalmente dalla questione ambientale legata
all’approvvigionamento di risorse alimentari. Le filiere logistiche della grande
distribuzione su scala nazionale e quella della piccola/micro distribuzione sono
enormemente diverse per un gran numero di variabili, prima fra tutte quella della
distanza. Infatti la distanza che percorre il cibo dal luogo di produzione alle nostre tavole
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gioca un ruolo fondamentale nella quantificazione dell’impatto ambientale ascrivibile alla
produzione alimentare.
Lo scopo della ricerca è quindi di determinare se la short supply chain produca
effettivamente un minor impatto ambientale, in termini di emissioni di CO2 per
tonnellata di prodotto trasportata, rispetto alla filiera di distribuzione tradizionale.
Segnatamente riferite all'area dei Castelli Romani saranno prese in esame le filiere
logistiche di un mercato contadino e di un supermercato, al fine di quantificarne gli
impatti per ogni segmento.
Il contesto di riferimento è dunque quello dei Castelli Romani, dove la tradizione
contadina è ancora radicata, anche se fortemente ridimensionata negli ultimi trenta anni
a seguito della esuberante crescita della domanda immobiliare generata dalla capitale
che ha portato ad un consumo di suolo molto consistente a scapito proprio dell’area
agricola. Qui i mercati rionali, o settimanali, sono stati un tempo il luogo dove il
consumatore sapeva di poter acquistare i prodotti della propria terra, interfacciandosi
direttamente con il produttore, stabilendovi un rapporto di fiducia, che inevitabilmente si
è perso con l’avvento della grande distribuzione e quindi dei supermercati.
Anche il mercato rionale o settimanale, ha perduto con il tempo le proprie
caratteristiche, di piazza di distribuzione dei prodotti locali, trasformandosi sempre più in
mera agglomerazione di banchi di distribuzione di prodotti provenienti dai mercati
generali nazionali e internazionali. Questi non sono più da tempo i luoghi dove poter
apprezzare le tipicità nostrane dei Castelli Romani.
La ricerca, pertanto, muove da questo quadro contestuale e dal riconoscimento che il
fenomeno dei “mercati contadini” risponde proprio al vuoto di mercato creatosi con
l’insorgere di una maggiore sensibilità sociale e ambientale verso certi temi. In
definitiva, da una domanda rimasta inevasa rispetto ai quei criteri di genuinità, salute e
tipicità sopra richiamati.
Il luogo prescelto come studio di caso è il mercato contadino della cittadina di Ariccia, a
30 km da Roma.
All’incirca all’inizio del 2010 l’associazione Coltivendo istituisce l’organizzazione di
Farmer’s Market a cadenza settimanale. Essi sono infatti reperibili in alcune città dei
Castelli ed anche nel quartiere di Capannelle a sud Roma. Proprio nella capitale, le
associazioni Campagna Amica e Coldiretti, danno corpo a queste nuove esigenze di
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qualità e sostenibilità istituendo nel 2009 il Mercato dei Contadini in zona Circo
Massimo nell’antico mercato ebraico del pesce. Analizzando la letteratura specifica
vedremo come questi nuovi “centri commerciali di prossimità” stiano avendo un
rimarchevole successo. Il contatto diretto con il produttore, il biologico, lo “slow-food”, il
buono, pulito e giusto; la filiera corta in generale, sono ormai percepiti come valori
aggiunti ai prodotti ed il tutto non sarebbe certo possibile senza una presa di coscienza
forte da parte del consumatore.
Per questi motivi può essere interessante condurre una ricerca ambientale attraverso il
confronto con un supermercato inserito nella grande distribuzione organizzata da un
lato ed un mercato contadino dall’altro. Nonostante in prima analisi possa sembrare
scontato il risultato che si potrebbe ottenere da tale indagine, l’elevato numero di
variabili che si inseriscono possono ribaltare la conclusione in modo sorprendente.
Relativamente a tali questioni infatti, lo scenario italiano rappresenta un caso
abbastanza particolare, nel senso che gli schemi della grande distribuzione organizzata
non si sono affermati profondamente tanto quanto in altre realtà europee. L’Italia è
infatti caratterizzata da un basso grado di efficienza e integrazione del sistema logistico
ed un estensione delle filiere distributive più contenute della media (Marletto e Sillig,
2014). L’impatto ambientale ascrivibile al solo trasporto del cibo è stato, ed è tutt’ora
oggetto di grande dibattito nella comunità scientifica specializzata in logistica, agraria e
sviluppo sostenibile.
Una volta definito l’obiettivo principale del lavoro, va sottolineato però come la ricerca
non si esaurisca in questo. Nei prossimi paragrafi sarà trattato nello specifico il
fenomeno della filiera corta per definire il quadro di riferimento e fornire la percezione, al
di là della logistica, delle enormi potenzialità che possiede il commercio di prossimità
dal punto di vista economico, sociale e culturale.
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1.2 La filiera corta
Come già accennato, la crisi del modello economico dominante ha contribuito alla
nascita di modalità particolari di fare imprenditoria, nel campo dell’agroalimentare ad
esempio ha dato respiro a quelle realtà che si trovano a metà tra la conservazione di
tradizioni locali e la spinta innovativa di nuove generazioni di agricoltori e consumatori
(INEA 2012). Il concetto di filiera corta si definisce in contrapposizione alla grande
distribuzione organizzata (GDO), dove il ricavato del lavoro agricolo viene diluito dalla
moltitudine di passaggi che deve affrontare il prodotto. Attraverso l’abbattimento di molti
di questi passaggi si ottiene una filiera di distribuzione accorciata, dove il produttore si
riappropria di quel ruolo chiave, che da lungo tempo si era perso negli schemi della
distribuzione di massa, passando quindi da attore passivo ad attore attivo nel sistema
(Giuca, 2012).
Fig. 1: Giuca, 2012 p13
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Al concetto di filiera corta di distribuzione è giustamente associato quello di “chilometro
zero”, oltre alla riduzione degli intermediari commerciali vi è quindi una riduzione di
chilometri che il cibo percorre, dal luogo di produzione alla nostra tavola. In Italia questa
distanza è generalmente considerata di circa 100 km (Slow Food, 2013), mentre negli
stati uniti si considera un raggio di 100 miglia (Martinez et al., 2010). Secondo Parker
(2005) infatti, si può definire filiera corta di distribuzione un sistema nel quale distanza
geografica e numerosità degli intermediari è ridotta, solo combinando insieme questi
due criteri si può avere un network alternativo del cibo.
Anche Martinez (2010) concorda con tale definizione ed amplia questo concetto
riflettendo sul consumatore che associa alla propria comunità il cibo che viene prodotto,
elaborato e distribuito all’interno di un’area geografica circoscritta, inevitabilmente tutto il
processo si carica di attributi assolutamente estranei alla grande distribuzione. Quando
nel 1986 nasce l’associazione no-profit Slow Food Movement, fondata da Carlo Petrini,
che fa propri i concetti di cibo buono, pulito e giusto, raccoglie da subito un larghissimo
consenso espandendosi in tutta Italia ed arrivando oggi, ad essere attiva a livello
mondiale. La filiera corta non è dunque una moda, un fenomeno transitorio, ma
piuttosto una risposta fisiologica alla sempre più ridotta capacità d’acquisto del
consumatore unita alla crescente attenzione spostata sulla sicurezza alimentare (Slow
Food, 2013). In un contesto territoriale circoscritto, il cosiddetto «movimento del cibo» è
stato definito infatti come «uno sforzo di collaborazione per costruire un’economia
alimentare auto-sufficiente a livello locale in cui la produzione, la trasformazione, la
distribuzione ed il consumo del cibo sono attività integrate nell’obiettivo di migliorare la
salute economica, ambientale e sociale di un determinato luogo» (Kloppenburg et al.,
2000).
In tutte le regioni italiane, in aggiunta ai mercati contadini (Farmers’ Markets) si sono
diffusi altri diversi schemi di vendita diretta praticati già da molto tempo dai paesi
dell’Europa Settentrionale e Nord America come il metodo “Pick-your-own”, la tipologia
dei “Box-schemes”e i gruppi organizzati di domanda e offerta (GODO).
Il metodo del Pick-your-own (“raccoglitelo da te”, se si volesse tradurre), compare negli
anni ’20 e ’30, dopo la prima guerra mondiale, negli Stati Uniti. Nasce essenzialmente
per motivi di necessità, in quanto per gli agricoltori, nel periodo della grande
depressione, era più conveniente lasciar cogliere i prodotti dal terreno direttamente agli
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avventori, facendo così fronte ai costi di raccolta, imballaggio e trasporto (Guidi, 2009).
Oggi fortunatamente questa metodologia ha perso la caratteristica di sussistenza
dettata dalla disperazione che la contraddistingueva, e il pick-your-own viene vissuto
come un esperienza ricreativa, didattica, da fare in comune all’aria aperta, di riscoperta
e scelta del prodotto direttamente dalla terra (Hand & Martinez, 2010). Secondo il report
del 2010 di COLDIRETTI e AGRI2000, in Italia questo metodo di vendita continua ad
essere poco diffuso limitandosi ad essere praticato da non più di un centinaio di
aziende.
Fig. 2, Wareham, UK
1
.
La tipologia dei Box-schemes rappresenta il canale principale di vendita diretta del
Regno Unito ed è comunque molto diffusa in tutta l’Europa settentrionale. Consiste nel
ricevere (ogni una o due settimane) un box (cesto, cassetta ecc.) contenente prodotti di
genere agroalimentare forniti da uno o più produttori. Il consumatore in alcuni casi può
scegliere cosa ricevere, ma di norma non ha la possibilità di sapere quale sia il
contenuto del box, che viene riempito con i prodotti stagionali, freschi e disponibili al
momento, il prezzo invece viene concordato con il produttore (Slow Movement, 2013).
Quello che può sembrare dunque un commercio di nicchia, operato da piccole aziende
tradizionali e limitato agli amanti del biologico ed dell’eco-sostenibile, è invece una
normale consuetudine nelle società del nord Europa, nelle quali tantissimi produttori
1
Fonte: www.holmeforgardens.co.uk
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all’ingrosso dell’agroalimentare propongo servizi di box-schemes, che hanno successo
soprattutto tra la popolazione più anziana (Ibidem).
In Italia, la tipologia di vendita diretta dei Box schemes può essere individuata nei
gruppi d’acquisto solidale (GAS), nei quali gruppi di amici, colleghi, familiari o membri di
un’associazione, acquistano all’ingrosso dai produttori agroalimentari per motivi
ideologici o puramente economici (Giuca, 2012). Questi gruppi sono definiti solidali
perché si fondano sui principi etici della stagionalità, del biologico e dell’eco-sostenibilità
del prodotto. I GAS in Italia hanno una lunga tradizione, ma ne sono state stabilite in
modo formale le finalità, gli obiettivi, ma soprattutto l’aspetto non lucrativo, solamente
con la legge 244/2007, che all’art. 1, comma 266 così li definisce:
Fig. 3 Veg Box Delivering System
2
.
2
Fonte: http://www.myvegbox.co.uk/
“soggetti associativi senza scopo di lucro costituiti al fine di svolgere attività di acquisto collettivo di
beni e distribuzione dei medesimi, senza applicazione di alcun ricarico, esclusivamente agli aderenti,
con finalità etiche, di solidarietà e di sostenibilità ambientale, in diretta attuazione degli scopi
istituzionali e con esclusione di attività di somministrazione e di vendita”.
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Un altro caso è rappresentato dai gruppi organizzati di domanda e offerta, in Italia sono
iniziative promosse dall’associazione AIAB3
(Associazione Italiana Agricoltura
Biologica), operando in un contesto normativo ben definito dal Reg. CE 2092/91. I
GODO possono essere visti come strutture che intervenendo in un contesto specifico,
hanno come obiettivo quello di far incontrare la domanda e l’offerta di prodotti biologici,
organizzando ordini e distribuzione ed imponendo controlli qualitativi comuni. Non
limitandosi a queste fasi, l’AIAB ha come scopo principale quello della tutela e della
riqualificazione dello spazio rurale e del ruolo del contadino nell’economia. Per
perseguire tale obiettivo offre una serie di servizi agli associati quali corsi di
aggiornamento e divulgazione di nuove tecniche produttive e tecnologie tramite
periodici, inoltre in sinergia con università ed enti di sviluppo e informazione, si occupa
di ricerca e perfezionamento nell’efficienza del metodo del biologico (D’Amico et al.,
2013).
Tra le tipologie di vendita diretta, la più diffusa e famosa è certamente quella del
mercato contadino (COLDIRETTI - AGRI2000, 2010), essendo proprio questa tipologia
il caso di studio di questa ricerca, si è ritenuto di approfondire l’argomento nel prossimo
paragrafo.
1.2.1 Il Farmers’ Market
Nel vasto panorama della filiera corta di approvvigionamento (short food supply chain) il
Farmers’ Market ha senz’altro un ruolo dominante (R. Tchoukaleyska 2013).
Rappresenta la declinazione più conosciuta di vendita diretta e sta avendo in generale,
una larga diffusione, soprattutto nelle zone con una forte tradizione contadina, dove il
prodotto tipico rappresenta una forma di identificazione culturale importante (Ibidem).
Anche in Italia l’argomento del “local-food” sta diventando sempre più popolare e
nell’ultimo decennio si sta avendo un inquadramento giuridico del fenomeno sempre più
puntuale. Il D.L. 228/2001 ad esempio permette ai contadini la vendita diretta del
prodotto esclusivamente proveniente dalla propria fattoria; il D.L. 1468/2002 invece
fissa il confine, entro il quale si può parlare di filiera corta, 80 km dal luogo di
3
Per saperne di più: http://www.aiab.it/
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produzione a luogo di vendita; infine, con il D.L. De Castro, del 20 Novembre 2007, si
offrono le linee guida per la creazione di mercati dedicati all’esclusiva vendita diretta,
all’identificazione dei soggetti che possono farvi parte e i termini di vendita dei prodotti
agricoli.
Questi spazi regolamentati fanno sovente riferimento alle due maggiori organizzazioni
Italiane specializzate nell’agroalimentare: lo Union Coldiretti sotto il brand “Campagna
amica” e “Earth Market” format di “slow food Movement”. La sola “Campagna Amica”
nel 2011 registra 878 FMs ed anche “Earth Market” acquista rapidamente popolarità
raggiungendo nel 2012, 23 mercati in Italia.
Tiemann nei suoi studi (2004) ha individuato diverse tipologie di mercati contadini:
street-markets, mercati del weekend o della domenica, mercati giornalieri urbani,
mercati in occasione di feste di paese. Tra questi si distinguono altre due categorie
principali: gli “indigenous market” i quali operano senza regole scritte, ma più che altro
con accordi informali fra i commercianti, e gli “experience markets” i quali si sviluppano
all’interno di un dettagliato insieme di regole prestabilite dagli stessi produttori. Nello
studio di R. Tchoukaleyska (2013) emerge come sia preponderante il ruolo degli stessi
attori dei FMs nel condurre un controllo severo in questi spazi: se il successo passa
soprattutto attraverso la percezione che ha il cliente del prodotto che compra e il
rapporto di fiducia che instaura con chi lo vende, i produttori sono autorizzati ad una
verifica qualitativa dei prodotti sui quali si abbia un sospetto, così da individuare ed
allontanare, chi cerca di ingannare il consumatore proponendo prodotti non genuini o
semplicemente non provenienti dall’area geografica stabilita (“fake farmers”).
Nei mercati locali si intrecciano relazioni immediate, personali e spontanee, si
scambiano informazioni sui prodotti e la loro produzione (Lyson e Green, 1999;
Hinrichs, 2000). Si stringe un legame che trascende il semplice ”andare a fare la spesa”
e diventa una occasione per venire in contatto con la comunità che si percepisce come
propria (Feenstra, 1997). Alcune amministrazioni locali virtuose utilizzano questo
fenomeno in senso politico preferendo l’affermarsi (o il valorizzarsi) di una comunità
agricola intrecciata al tessuto cittadino, piuttosto che lasciare spazio all’urbanizzazione
(Aubry et al., 2008).
Il grande successo del mercato contadino passa dunque soprattutto attraverso il clima
di sicurezza e familiarità nel quale si trova l’acquirente. Gli studi volti ad indagare sui
motivi che spingono ad acquistare in un farmers’ market hanno evidenziato come
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l’attributo “locale” riferito al cibo giochi un ruolo chiave (Szmigin et al., 2003;Youngs,
2003; Zepeda e Li, 2006; Connell et al., 2008; Feagan e Morris, 2009).
Meno evidenti appaiono invece le motivazioni economiche che spingono all’acquisto. Si
può essere spinti a pensare infatti che i beni commercializzati attraverso il canale della
vendita diretta siano percepiti come più economici (Festing, 1998), ma da altri sudi
emerge, al contrario, come l’aspetto economico sia poco o per nulla considerato,
rispetto ai consumatori dei supermercati tradizionali (Brown, 2002; Mc Garry et al.,
2005).
In altri studi ancora è stata addirittura rilevata, nei confronti dei prodotti locali, una
willingness to pay (disponibilità a pagare) più alta rispetto a prodotti Bio od OGM-free
(Louriero e Hine, 2002; Darby et al., 2006). Oltre alla garanzia di freschezza e genuinità
quindi va tenuta in forte considerazione la tendenza ad attribuire ai prodotti provenienti
dal proprio territorio un valore aggiunto importante, anche perché si sente di dare
sostegno alle aziende locali e per associazione all’economia del territorio al quale si
sente di appartenere (Carey et al., 2011).
Nel report dell’associazione inglese Friends of the Earth (2000) è stato condotto uno
studio qualitativo, monitorando diversi farmers’ market in territorio statunitense per un
periodo di quindici anni, essendo negli Stati Uniti, una realtà ben consolidata (Ibidem).
Emerge come si generino meccanismi virtuosi, ad esempio nel rafforzamento
dell’economia locale e nella sua diversificazione, generando occupazione ed
aumentando il volume delle spese circoscritte ad una precisa area geografica, inoltre si
ritiene che possa incrementare il flusso turistico data la naturale nota folcloristica che
contraddistingue questi eventi (Hilchey et al., 1995). È molto importante questo
contributo fornito alle aree rurali e periferiche in termini di occupazione e di slancio
economico. Ad esempio nell’area della Cornovaglia, dove sono spesi 500 milioni di
sterline all’anno nell’approvvigionamento del cibo, per il 75% esso è reperito al di fuori e
si calcola che se si riducesse questa percentuale dell’ 1% si registrerebbe un
investimento nell’economia locale pari a 5 milioni di sterline (Ross, 2000).
Dunque, il contadino trae giovamento da questo schema in quanto diventa di nuovo il
price maker del proprio prodotto e può rendersi competitivo in un mercato diverso da
quello globalizzato, nel quale altrimenti avrebbe un sottile margine di guadagno (Hilchey
et al., 1995) o forse non riuscirebbe a sopravvivere affatto. Un’altra caratteristica
importante dei FMs è quella, infatti, di permettere alle tante piccole imprese
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agroalimentari di continuare la propria attività, oltre che rappresentare, per quelle
aziende più grandi, un’utilissima occasione di extra profitti e diversificazione (Ibidem).
Un’altra ragione di virtuosismo, sempre più popolare, è legata all’impatto ambientale
contenuto che hanno i mercati contadini ed in generale tutte le forme di filiera corta di
approvvigionamento. Fondamentalmente la riduzione dell’impatto può essere ascritta
ad una minore produzione di rifiuti legati alla produzione, con particolare riferimento alla
fase finale del packaging (Festing, 1998), e soprattutto alla grande riduzione di kilometri
e quindi di CO2 emessa, che deve percorrere il cibo dal luogo di produzione alla tavola
(Ibidem). Questa distanza prende il nome di “food miles”, attorno a questo concetto
sono stati condotti numerosissimi studi ed in letteratura si è creato un acceso dibattito
sul ruolo delle food miles nella quantificazione dell’impatto ambientale di una filiera di
distribuzione. La domanda principale che ricorre in tantissimi studi è infatti se la
riduzione dei chilometri del cibo inneschino automaticamente una riduzione delle
emissioni totali. Prima di entrare nello specifico è opportuno definire più precisamente
cosa siano le Food Miles e come si inseriscono in questa discussione.
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1.3 Food Miles
Il tema delle food miles inizia ad acquistare importanza durante l’ultimo decennio del
secolo scorso, in un momento della nostra storia nel quale la sensibilità ambientale
comincia a perdere la connotazione puramente filosofica ed un po’ elitaria che prima la
distingueva, per diventare sempre più drammaticamente una seria necessità (WCED,
1987). L’autore più prolifico e teorico del concetto di food miles è senza dubbio Tim
Lang, che nell’articolo (ancora intriso di filosofia) scritto insieme ad Heasman, “Food
Wars” (Tim Lang & Michael Heasman, 2004), redige le 15 regole da seguire per un
consumo consapevole e sostenibile:
Tim Lang (2004)Mangia meno e meglio
Mangia in modo semplice
Mangia morigeratamente
Mangia in modo solidale: non togliere il cibo da un’altra bocca!
Adotta una dieta vegetariana e mangia carne con parsimonia, se proprio devi
Apprezza la varietà; ricerca la biodiversità dal campo al tuo piatto; punta ad
assumere 20-30 specie diverse a settimana
Pensa ai combustibili fossili; l’energia utilizzata per trasportare il cibo da te o te
al cibo = consumo di petrolio
Mangia cibi stagionali se possibile
Mangia in accordo ai principi di prossimità, nel modo più locale possibile;
supportando I produttori locali
Impara a cucinare velocemente pasti semplici; limita il cibo ricercato alle
occasioni speciali
Sii preparato a sopportare tutti i costi delle esternalità prodotte , se non lo farai
lo dovranno fare altri
Bevi acqua, non bibite
Stai attento agli ingredienti nascosti; controlla l’etichetta per individuare I Sali e
gli zuccheri non necessari; se ve ne sono, non comprare
Educa te stesso senza diventare nevrotico!
Goditi il cibo nel breve periodo, ma preoccupati del suo impatto nel lungo; sii
fiducioso. È il tuo cibo, il futuro dei tuoi figli!
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
18
Successivamente, in un altro articolo nel 2005, definisce per la prima volta i chilometri
percorsi dal cibo, riflettendo sul loro ruolo nel totale dell’impatto ambientale, nello stesso
anno è stato infatti pubblicato il report del Department for Environment, Food & Rural
Affairs (DEFRA), il quale si è occupato soprattutto di stimare l’attendibilità dell’indicatore
delle food miles:
Tim Lang (2005)
Nell’articolo “locale/globale (food miles)” pubblicato dalla rivista Slow Food (Bra, Cuneo)
nel 2006, giustifica importanza crescente dei chilometri del cibo attraverso una
esperienza diretta di negoziazione con i policy makers del GATT (General Agreement
on Tariffs and Trade):
Tim Lang (2006)
“The idea behind food miles was and remains simple. We wanted people to think about where
their food came from, to reinject a cultural dimension into arcane environmental debates about
biodiversity in farms. The Defra report confirms that there is a real problem. Food miles have
rocketed in recent years. Between 1978 and 2002, the amount of food trucked by heavy goods
vehicles (HGVs) increased by 23%. And the distance for each trip increased by over 50%. (…)
But consumers also contribute to the food-miles problem. Car use for buying food in towns has
risen by 27% since 1992. (…)
So what can shoppers do? Simple: shop locally and buy local produce.”
“I chose to highlight this issue at that time, as I was writing and campaigning a lot about the
absurdity of food trade. I was working in a NGO, with others around the world, trying to
persuade policy-makers renegotiating the General Agreement on Tariffs and Trade (GATT, the
forerunner of the World Trade Organisation) to think about the public health and environmental
implications of their proposals to liberalise trade in agricultural products. Big food
manufacturers and traders, obviously, wanted to open up new markets. They saw
environmental, health and cultural critics as small-minded protectionists, against progress. My
colleagues and I took a different view. That what is meant by ‘progress’ is something to be
debated. Progress for whom? At what cost?”
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
19
Inizia una vera e propria battaglia per le food miles perpetrata attraverso la
pubblicazione, con diversi team di scienziati del settore, di report sull’affidabilità di
questo concetto come indicatore dell’impatto ambientale delle filiere logistiche e di
sensibilizzazione in generale sul tema. Da un punto di vista strettamente scientifico
dunque, lo studio più sostanzioso è stato condotto nel 2005 da un team di scienziati
facenti riferimento al UK Department of Environment, Food & Rural Affairs (DEFRA) con
lo scopo di individuare un indicatore capace di riassumere adeguatamente i termini e le
cause dell’impatto ambientale legato all’approvvigionamento di risorse alimentari. Le
conclusioni di questa ricerca si possono riassumere in quattro punti principali:
1. Si conclude che un singolo indicatore basato esclusivamente sui chilometri totali
percorsi dal cibo risulta limitativo, l’impatto legato al trasporto è infatti un fenomeno
complesso determinato dall’interagire di diverse variabili, per questo invece di un
singolo indicatore risulta opportuno integrare l’analisi con un insieme di questi, capaci di
interagire.
2. È stato possibile creare un database contenente, ad esempio, i fattori di emissione
per segmento logistico e per tipologia di trasporto (che si suddivide principalmente in
trasporto su gomma, su ferro, via mare e via aria), capace di aggiornare su base annua
un insieme significativo di indicatori.
3. Il trasporto del cibo registra un significativo incremento, solo nel Regno Unito ad
esempio arriva ad impiegare un quarto di tutti gli HGVs (heavy goods vehicles)
circolanti, i quali risultano essere i mezzi più inquinanti della categoria di trasporto su
gomma. I chilometri per tonnellata trasportata (t/vkm) percorsi sono aumentati del 36%
dal 1991 al 2002 e in riferimento ai chilometri percorsi in ambito urbano (comprendenti
anche agli spostamenti del consumatore) si registra per gli stessi anni un incremento
del 27%. È stato rilevato inoltre che il metodo di trasporto merci condotto via aria risulta
avere l’impatto maggiore in termini di emissioni di CO2. Esso contribuisce solo per lo
0.1% dei chilometri percorsi in totale, per il trasporto di cibo, mentre raggiunge l’11%
per il contributo fornito alle emissioni totali ed ha avuto un incremento di impiego del
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
20
140%. Il grafico in figura 4 mostra la percentuale di emissioni associate al metodo di
trasporto, nel Regno Unito.
HGV UK
33%
HGV UK to
overseas
12%
HGV overseas
12%
LGV UK
6%
LGV overseas
2%
Car
13%
Rail
0%
Sea
12%
Air long haul
10%
Air short haul
0%
HGV UK
33%
HGV UK to
overseas
12%
HGV overseas
12%
LGV UK
6%
LGV overseas
2%
Car
13%
Rail
0%
Sea
12%
Air long haul
10%
Air short haul
0%
Fig. 4, DEFRA, 2005 p31.
4. Il costo socio-economico derivante dall’inquinamento e dalla congestione del
traffico è enorme ed è stato quantificato, con una metodologia che prende in
considerazione un elevato numero di variabili (come inquinamento atmosferico,
acustico, danni alle infrastrutture, incidenti, congestione del traffico ecc..), in 9 miliardi di
sterline ogni anno.
Le Food Miles hanno quindi una funzione molto importante negli studi volti a
considerare l’impatto ambientale delle filiere di approvvigionamento, ma come abbiamo
visto devono essere integrate da altri indicatori. I chilometri del cibo infatti risentono di
alcuni effetti che distorcono e annullano l’effetto distanza, è il caso ad esempio
dell’orticoltura intensiva, potrebbe infatti essere più conveniente in termini di dispendio
energetico ed impatto ambientale, importare determinate tipologie di prodotti da paesi
caldi a quelli freddi, piuttosto che coltivarli in territorio nazionale in serra. Uno studio
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
21
svedese mostra infatti come il consumo di pomodori freschi provenienti dai paesi del
sud Europa generi meno emissioni di gas serra del consumo dello stesso bene,
prodotto localmente. Si evince infatti che il pomodoro coltivato in Svezia sotto serra
abbia bisogno di circa 10 volte l’energia utilizzata per coltivarlo in un campo di uno stato
mediterraneo (Carlssonn-Kanyama et al., 2003). Ancora, in un altro studio il “local is
good” viene messo in discussione, analizzando la produzione di mele del regno unito
stagionalmente e fuori stagione, si conclude che importando da paesi più caldi, prima
che inizi in Gran Bretagna la stagione delle mele, faccia aumentare l’efficienza
energetica e quindi riassorbire l’impatto ambientale ascrivibile al lungo trasporto (Milà i
Canals et al., 2007). Si riscontra inoltre che la riduzione dei chilometri del cibo
incrementerebbe il traffico locale generando conseguentemente sempre più frequenti
congestioni, incidenti e le altre esternalità negative legate al traffico e come puntualizza
Waye (2008), una mole di emissioni certamente maggiore rispetto ai lunghi trasporti
oceanici, ad esempio, o comunque ai trasporti operati con veicoli con grande capacità
di carico (load factor), capaci di diluire l’impatto per tonnellata trasportata.
Anche dopo una breve introduzione dell’argomento appare chiaro come l’utilizzo di un
indicatore capace di spiegare le dinamiche ambientali, sociali ed economiche di un
fenomeno sia un lavoro complesso. Nel prossimo capitolo dedicato alla scelta
metodologica, si cercherà di far luce sul problema esaminando alcuni risultati di
importanti studi e nel contempo, saranno commentati la moltitudine di approcci operativi
rilevati nei lavori onde giustificare l’approccio metodologico adottato per questa ricerca.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
22
2. ANALISI DELLA LETTERATURA
Per introdurre l’approccio metodologico scelto per questo lavoro si reputa necessario
prima di tutto avere una panoramica dei lavori svolti sull’argomento. Attraverso l’analisi
della letteratura sarà possibile delineare gli obiettivi e gli scopi principali delle ricerche e
stabilire quindi che linea operativa da adottare per perseguire i propri.
2.1 Panoramica degli studi sul genere
In questo capitolo verranno presentati, in ordine cronologico, alcuni dei lavori più
interessanti svolti sul tema del commercio di filiera corta (ciascuno ovviamente con un
focus di ricerca diverso) e sul comportamento del consumatore, che hanno apportato un
grande contributo agli studi in questo ambito.
Nel 1998 viene pubblicato il lavoro di Hanley (et al.). “Contingent valuation versus
choice experiments: estimating the benefits of environmentally sensitive areas in
Scotland”. Lo studio si occupa di operare un’indagine attraverso il Contingent Valuation
Method e il Choice Experimet per determinare la disponibilità a pagare (DAP o
willingness to pay) del consumatore per tipologie di prodotti che ridurrebbero l’impatto
ambientale in una Environmentally Sensitive Area (ESA) scozzese.
Lo studio non è quindi esattamente incentrato sulle filiere commerciali alternative, ma
comunque rappresenta uno dei primi studi nei quali vengono utilizzati strumenti
sociologici ed econometrici per far luce sull’impatto ambientale. Sono quindi chiariti
punti di forza e limiti del Contingent Valuation Method (CVM) e del Choice Experiment
(CE), giungendo alla conclusione che il CVM può essere più utile per la determinazione
di una policy generale, ma risente inevitabilmente delle distorsioni derivanti da dati
particolari, mentre nel CE c’è la possibilità di disaggregare molti risultati e valori
valutando singolarmente le caratteristiche fondamentali che compongono la policy. Le
potenzialità dell’individuazione di una DAP in relazione a questi beni, sono enormi.
Abbiamo già parlato di come studi sociologici abbiano rilevato come l’attributo “locale”
giochi un ruolo chiave nella scelta del prodotto, interessanti strategie di business
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
23
potrebbero essere quindi realizzate se supportate nella fase preliminare da studi come
questo (Janssen, 2010; Gracia, 2012; Gracia, 2014; Kathryn A. Boys et al., 2014).
Lo studio di Pretty (et al.), “Farm costs and food miles: An assessment of the full cost of
the UK weekly food basket”, del 2005, si pone l’obiettivo di quantificare il costo totale
dei prodotti contenuti in un box ideale (box schemes) nel regno unito, segmentando il
percorso che il cibo percorre dal campo alla tavola. Viene adottata quindi una
metodologia improntata su costo marginale: si quantificano i costi dell’inquinamento in
base alle esternalità negative che si riflettono sul prodotto. Sulla base dei dati si giunge
quindi alla conclusione che il consumatore dovrebbe pagare il 3% in più se tutti questi
costi fossero cumulati nel prezzo finale del prodotto. Dallo studio appare anche come se
il prodotto avesse origine entro un raggio di 20 km dal punto di consumo, i costi
ambientali sarebbero ridotti del 90%, infine in linea con molti altri studi appare come il
cosiddetto ultimo chilometro (lo spostamento del consumatore) incida pesantemente nel
bilancio complessivo.
L’articolo “The ecology of scale: assessment of regional energy turnover and
comparison with global food” di Schlich (et al.) dello stesso anno, si pone come obiettivo
la quantificazione del dispendio energetico relativo alle filiere distributive degli alimenti
nel Regno Unito. Viene posta particolare attenzione nel confrontare l’impianto logistico
delle piccole compagnie e di quelle, che invece, operano a livello globale.
Sorprendentemente appare chiaro come l’efficienza energetica delle filiere logistiche sia
direttamente proporzionale alla grandezza delle imprese, nello specifico risulta come
una piccola/media impresa di trasporto (di frutta in questo caso) abbia un consumo di
energia che oscilla tra 0,5 - 0,8 kWh/l (valore relativo al litro di prodotto trasportato),
mentre a dispetto delle enormi distanze percorse, un’impresa di livello globale registra
un consumo compreso tra 0,1 – 0,3 kWh/l. Non è comunque possibile generalizzare in
quanto è stato registrato come anche piccole imprese riescano a competere con i
colossi globali. I risultati di questo studio mettono quindi in luce un aspetto
fondamentale del dispendio energetico legato al trasporto del cibo, quello della
grandissima attenzione dedicata all’assetto logistico da parte delle organizzazioni di
livello globale, supportata anche dall’enorme load factor dei veicoli impiegati, che
consentono una forte diluizione dell’impatto per tonnellata trasportata.
Lo studio di Schlich adotta in parte la linea operativa della valutazione del ciclo di vita
del prodotto (life cycle assessment o LCA), che come definito dalla norma ISO4
14040 e
4
International Organization for Standardization.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
24
14044, che standardizzano la procedura a livello internazionale, si occupa di indagare
come tutte le fasi di produzione del prodotto interagiscano con l’ambiente in termini di
impoverimento delle risorse, qualità dell’ecosistema, salute umana ed anche impatti di
carattere economico e sociale. Il Life Cycle Assessment viene dunque largamente
utilizzato anche in questi campi della ricerca ed è sovente integrato con strumenti
statistici, in altri studi ha messo in luce ad esempio come vi sia una scarsa correlazione
fra i diversi sistemi agricoli (integrato o organico) e gli impatti ambientali indicati nella
procedura, mentre risulta cruciale l’organizzazione che si da al sistema agricolo, nello
specifico la scelta di destinare una certa parte degli input di produzione a fattori rilevanti
sotto il punto di vista dell’impatto ambientale, come serre, pesticidi, fertilizzanti (Mouron
et al, 2006). In altri studi ancora, determinando il dispendio energetico (quantificato in
Mj/kg) per tutto il ciclo di produzione (coltivazione, stoccaggio, trasporto), si evince
come esso risulti minore per prodotti non importati anche se non stagionali (Milà i
Canals et al., 2007) e ancora, come la concezione filosofica positiva del local-food e
l’utilizzo delle food miles, come indicatore chiave dell’impatto ambientale, possano
essere fortemente riduttivi o addirittura errati (Ibidem).
Va però ricordato che non è possibile standardizzare questa affermazione, che è valida
per un determinato caso studio e può non esserlo affatto per un altro (Eduards-Jones et
al., 2008). Altri autori hanno invece fatto delle food miles il cardine dei loro studi,
integrando ovviamente con molti dei contributi forniti dalle ricerche LCA, come ad
esempio l’attenzione sul dispendio energetico in fase di produzione e in fase di
stoccaggio. Emerge come grandi ipermercati abbiano in proporzione un efficienza
logistica ed energetica maggiore di centri più piccoli, che è però compensata in negativo
dall’ultimo chilometro o spostamento del consumatore (Rizet et al., 2008). In altri casi
ancora, l’individuazione della DAP correlata, in questo caso, alla minore emissione di
CO2 ha evidenziato risultati interessanti. In uno studio condotto in Giappone realizzato
con la metodologia del Real Choice Experiment emerge come essa aumenti con
l’incremento della consapevolezza del consumatore nei confronti delle emissioni per le
varie fasi produttive. Un altro risultato interessante riguarda la composizione del
campione di indagine, un gruppo di giovani con un buon livello di istruzione saranno
disposti a pagare di più (0,417 yen per la riduzione di un grammo di CO2) e ancor più
volentieri di un campione generazionale diverso, per bassi livelli di emissioni totali
associati ad un prodotto. È auspicabile in futuro infatti, che l’etichettatura dei generi
alimentari (tutti e in tutto il mondo) mostri le informazioni relative all’impatto ambientale
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
25
espresso in emissione di CO2 ovvero di dispendio energetico in modo da permettere la
diffusione di una cultura del consumo consapevole, ma anche perché, come dimostrato,
può essere economicamente profittevole (Aoki, 2009). Rimanendo sull’argomento,
nell’indagine condotta da Jerome K. Vanclay (et al., 2011), su un paniere di beni
eterogeneo venduti in un supermercato per un periodo di 3 mesi, si raggiungono
conclusioni simili. Nello specifico si ottengono risultati statisticamente rilevanti solo
quando il prodotto etichettato come migliore, in termini di “carbon footprint” è anche il
più economico e registra infatti un incremento di vendite del 20%.
Fig. 5 Eco-Label
5
, si possono notare il paese di provenienza e i chilometri percorsi.
In un altro studio condotto in Italia (Caputo, 2012) nel campo dell’agroalimentare,
attraverso l’utilizzo della metodologia dei modelli a scelta discreta, si giunge alla
conclusione che il consumatore sarebbe fortemente interessato ad avere informazioni
sul prodotto che riguardano principalmente i chilometri percorsi dal cibo e il suo tempo
di percorrenza. Il 55% del campione intervistato sostiene infatti che lunghe distanze e
tempi di percorrenza incidano negativamente sulla qualità e genuinità del prodotto,
mentre circa un terzo associa alle grandi distanza effetti negativi in termini di emissioni
di CO2. L’adozione di un sistema di etichettatura riportante informazioni sulle food miles
potrebbe ridurre l’asimmetria informativa esistente su questo tipo di prodotti
accrescendo l’utilità per una tipologia (sempre meno di nicchia) di consumatori
consapevoli. Va detto comunque, che per assecondare queste nuove esigenze di
5
Fonte: http://www.treehugger.com/green-food/far-foods-food-mile-labeling-lays-on-guilt-trip.html
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
26
qualità e sostenibilità, pur non mostrando food miles o l’ammontare di dispendio
energetico, il tema dell’ecolabelling ha acquisito importanza, non solo per i classici beni
alimentari, ma per tutta un’altra gamma di prodotti, rappresentando un valore aggiunto
da sfoggiare sul mercato per spiccare sulla concorrenza. Ad esempio, in base al
regolamento CE n. 66/2010, è stata creata una Eco Label che attesta il basso impatto
ambientale dei prodotti nel loro intero ciclo di vita. Si riferisce ad un paniere ristretto di
beni che non hanno a che fare con le risorse e i prodotti alimentari (detersivi, saponi,
elettrodomestici ed apparecchiature elettroniche in generale, carta, accessori per la
casa e per il giardinaggio, abbigliamento, servizi turistici e lubrificanti) e l’assegnazione
di Eco Label ai prodotti italiani rappresenta più del 50% sul totale dei paesi europei (fig.
6).
9067
3839
1616
663
441
322
317
291
285
278
635
Italia
Francia
Regno Unito
Paesi Bassi
Spagna
Svezia
Germania
Finlandia
Danimarca
Ungheria
Altri
9067
3839
1616
663
441
322
317
291
285
278
635
Italia
Francia
Regno Unito
Paesi Bassi
Spagna
Svezia
Germania
Finlandia
Danimarca
Ungheria
Altri
Fig.6, Numero di licenze EU Eco Label rilasciate per paese (Gennaio 2012)
6
In riferimento invece ad Eco Labels per prodotti alimentari, abbiamo tantissimi esempi di
certificazioni7
, le quali godono di un buon indice di gradimento da parte dei consumatori,
che percepiscono la cosa come un possibile aumento di utilità economica come già
6
Fonte: http://ec.europa.eu/environment/index_en.htm
7
Indice delle maggiori certificazioni di qualità e sostenibilità ambientale:
http://www.ecolabelindex.com/ecolabels/?st=category,food
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
27
detto, ma anche ambientale, etica e salutare (Erskine et al., 1997; Walter e Smidt,
2008; A.N. Sarkar, 2012; Bradu et al., 2014). La sovrabbondanza di informazioni o di
marchi su un prodotto però possono generare confusione nel consumatore incidendo
sulla volontà d’acquisto, come dimostrato nel report della Commissione Europea
sull’ambiente del 2011, che comunque in generale concorda con la linea che sostiene
gli effetti positivi dell’ecolabelling. Sarebbe auspicabile in futuro assistere ad una
unificazione dell’etichettatura di questo tipo, stabilendo ad esempio standard ISO, come
è stato fatto nel caso della metodologia LCA (Brady e Noble, 2008).
Le filiere logistiche locali e il commercio a chilometro zero, che possono sembrare
tematiche non troppo complesse in prima analisi, si rivelano dunque tanto più difficili da
analizzare tanto più si allarga e si dettaglia il focus della ricerca. Il dibattito è più che mai
aperto e sempre più articoli godono dei contributi non solo di esperti di logista ed
impatto ambientale ma anche di economisti, sociologi e filosofi politici. È stata infatti
applicata a queste tematiche un’interessante metodologia di ricerca (impiegata di solito
per indagini di marketing e policy pubblica) capace di generare una sinergia tra gli
studiosi esperti in diversi campi, utile a trarre conclusioni sulla domanda di ricerca che ci
si pone, è il caso del Delphi Method. Attraverso la consultazione di un “panel” di esperti,
passando per varie fasi dette “round”, si cerca di far convergere le opinioni verso una
singola conclusione. Uno dei primi studi condotti in questo modo sull’argomento
dell’agroalimentare è italiano a cura dei professori dell’università Alma Mater Studiorum
di Bologna, Claudia Bazzani e Maurizio Canavari. Nell’articolo del 2013 “Forecasting a
scenario of the fresh tomato market in Italy and in Germany using the Delphi method”, è
svolta una ricerca qualitativa sul mercato del pomodoro fresco in Italia e in Germania ed
anche in questo caso si conclude che esso può essere fortemente influenzato da
certificazioni di qualità e tipicità sul prodotto.
Esistono diversi tipi di approcci metodologici allo studio delle filiere agroalimentari
alternative e come si può evincere da questa breve analisi della letteratura ognuna è
mirata allo studio di uno specifico fenomeno qualitativo o quantitativo. A questo punto è
evidente come l’individuazione di un area di ricerca precisa possa risultare cruciale per
il conseguimento degli obiettivi e può generare a volte risultati interessanti. Nel caso di
Marletto e Sillig (2014) si è rilevata una maggiore efficienza in termini di impatti
ambientali, ascrivibili alle tonnellate di output trasportate, di una media impresa rispetto
ad una di livello nazionale. In altri, ad esempio, lo studio di due mercati contadini, uno in
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
28
ambito urbano ed uno in periferia mostra come il farmers’ market cittadino abbia una
performance ambientale migliore, perché abbatte i tempi di viaggio (Mundler et al.,
2012). Il focus di ricerca scelto per uno studio è definito caso di studio (case study) e
prima di parlare di quello relativo a questa ricerca è opportuno definirne, nel prossimo
capitolo, l’impianto teorico.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
29
3. METODOLOGIA
Questa ricerca si pone come obiettivo la quantificazione dell’impatto ambientale di due
fenomeni simili, ma strutturalmente diversi: il commercio di filiera corta e quello
tradizionale di un supermercato. Come abbiamo visto, vi sono caratteristiche particolari
che contraddistinguono entrambi i casi e sicuramente la variabile logistica spicca per
importanza. Per questo motivo, dopo un’analisi letteraria è stata tratta maggiore
ispirazione dallo studio svolto dai prof. Gerardo Marletto e Cécile Sillig. Nel loro articolo
del 2014 “Environmental impact of Italian canned tomato logistics: national vs. regional
supply chains”, vengono prese in analisi le filiere relative alla distribuzione del
pomodoro in scatola di due diverse aziende produttrici, una che opera a livello
nazionale (CIRIO) e l’altra circoscritta alla sola Sardegna (CASAR). In questo studio
sono dettagliatamente analizzati tutti i segmenti della produzione, dalla raccolta alla
trasformazione infine alla tavola e si giunge alla conclusione che l’organizzazione
logistica del brand di livello nazionale sia meno efficiente di quella del produttore
regionale. Nello specifico si è osservato come le grandi distanze percorse non siano
assorbite dal maggiore load factor e da un ben strutturato impianto logistico,
diversamente dal produttore regionale, che risulta più organizzato sotto questo punto di
vista e conta molti punti vendita che possono essere raggiunti a piedi dal consumatore,
abbattendo così l’effetto negativo derivante dall’”ultimo chilometro”. Anche in questo
studio emerge infine come il reperimento dei prodotti da parte del consumatore incida
enormemente sull’ammontare di CO2 totale emessa, se si utilizza l’automobile.
Adattando questa struttura metodologica al presente lavoro è stato possibile anche in
questo caso suddividere le filiere distributive in segmenti logistici per poi calcolarne i
singoli impatti, distinguendo per stili di guida diversi 8
ed utilizzando lo stesso indicatore
usato in Marletto e Sillig. Per calcolare un impatto ambientale è essenziale definire le
qualità dell’indicatore da sfruttare in base agli obiettivi da perseguire, essendo il focus
della ricerca indirizzato appunto al peso ambientale delle filiere, ho scelto l’emissione di
CO2/km per tonnellata di prodotto trasportata, in modo da poter attribuire l’impatto
direttamente ai beni di riferimento in relazione ovviamente ai chilometri percorsi per il
loro trasporto. Nelle questioni ambientali l’indicatore principalmente usato sono le
8
Cfr. fig 14, cap. 4
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
30
emissioni di CO2, considerato il principale responsabile del surriscaldamento globale.
Per quanto riguarda il livello di impatto sulla salute umana invece viene spesso
utilizzato (come anche in Marletto e Sillig) l’indicatore generico PM10: ovvero Materia
Particolata dal diametro aerodinamico inferiore o uguale a 10 millesimi di millimetro, più
il particolato è sottile, più risulta nocivo (il PM1 arriva a danneggiare fino agli alveoli
polmonari). Occupandosi solo della quantificazione dell’impatto che incide
sull’ambiente, comunque, questa ricerca difetta purtroppo di un approfondimento sulla
relazione che intercorre fra trasporti e impatto sulla salute umana. Per la parte relativa
all’ultimo chilometro, oltre all’elaborazione dei dati reali, ho ipotizzato diversi scenari in
cui il consumatore seguisse un certo comportamento, per avere come in Marletto e
Sillig, un quadro finale completo delle interazioni fra le variabili principali.
3.1 Case Study Research
La ricerca tramite caso di studio è un’indagine empirica volta ad investigare un
fenomeno contemporaneo all’interno del suo contesto di riferimento per definirne le
dinamiche, le caratteristiche fondamentali e le interazioni con il contesto stesso (Yin,
1984). È una metodologia sfruttata in diverse aree della scienza e trova particolare
impiego nelle scienze sociali. Un panel di esperti del settore (R. E. Stake, H. Simons, R.
K. Yin) hanno elaborato le fasi di elaborazione ed impostazione della ricerca del Case
Study in questo modo:
I. Determinazione e definizione dei quesiti di ricerca
II. Selezione dei casi e determinazione della raccolta dei dati e delle tecniche di analisi
III. Preparazione alla raccolta dei dati
IV. Raccolta dei dati sul campo
V. Valutazione e analisi dei dati
VI. Preparazione della relazione
Come si può vedere dai punti chiave, la case study research presenta un impianto
teorico facilmente assimilabile da diverse discipline per i più diversi scopi, rendendola
una strategia di ricerca fra le più versatili e può essere integrata indifferentemente dalla
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
31
raccolta di dati qualitativi e quantitativi, a seconda dell’obiettivo di ricerca che ci si pone
(Yin, 1984). Le critiche poste a questo modello riguardano principalmente il numero di
casi studio da prendere in esame, si ritiene infatti che considerandone un piccolo
numero si potrebbero ottenere risultati non rappresentativi di un fenomeno e se al
contrario se ne analizzassero troppi, si registrerebbero risultati distortivi, giungendo a
conclusioni inesatte (Ibidem). È pur vero che se nelle ricerche che indagano su
questioni sociologiche, la numerosità del campione di riferimento gioca un ruolo
fondamentale, come attesta l’esistenza di tantissimi modelli statistici sull’indagine
campionaria, potrebbe non essere necessariamente vero per indagini ambientali
relative ad un contesto preciso.
Questo non vuol dire però che i risultati di questa ricerca vadano considerati come
attendibili in generale, la scelta di confrontare un solo mercato contadino ed un solo
supermercato infatti annulla il criterio di rappresentatività (su scala generale), che vi
sarebbe in un campione più esteso. Però, guardando al solo ambito dei castelli romani,
la ricerca fornisce un’interessante panoramica rispetto ai movimenti delle filiere dei
mercati e dei supermercati. La collocazione dei mercati e dei supermercati ai castelli
segue infatti schemi abbastanza ricorrenti, rispetto ai primi lo schema è ancor più
preciso in quanto sul territorio vi è una sola (o per lo meno la più grande ed attiva)
organizzazione che si occupa di organizzare questi mercati, i quali (principalmente per
ragioni di visibilità) vengono collocati nella quasi totalità dei casi all’interno o al di poco
fuori dal centro abitato. Per i supermercati (di medie dimensioni) il posizionamento
avviene nella maggior parte dei casi appena fuori il centro abitato e sorgono su strade
ad alta intensità di scorrimento. Per questi motivi quindi questa ricerca, se non
rappresentativa a livello generale, può esserlo segnatamente al contesto dei castelli
romani.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
32
3.1.1 Il mercato contadino dei Castelli Romani
Il mercato contadino dei Castelli Romani si evolve da un gruppo di acquisto solidale
(GAS), nato per volontà di un gruppo di consumatori di valorizzare e tutelare le
tradizioni contadine dei castelli romani, che abbraccia e fa propria la teoria dello “slow
food” per il consumo consapevole di prodotti buoni, puliti e giusti. I castelli romani sono
un territorio a sud di Roma che comprende le città di Frascati, Monte Porzio Catone,
Monte Compatri, Rocca Priora, Grottaferrata, Rocca di Papa, Marino, Castel Gandolfo,
Albano, Ariccia, Genzano, Nemi, Lanuvio, Velletri e Lariano.
Fig. 11 Illustrazione panoramica dei Castelli Romani
9
.
In questi paesi vi è una radicata identità culturale, forte di una tradizione secolare ed il
rapporto con il prodotto tipico e locale è ancora molto considerato e motivo di orgoglio.
Purtroppo negli ultimi anni molte aziende tradizionali sono scomparse e tante altre
stanno scomparendo a causa dello scarso interesse della nuova generazione di
investire in un settore dominato dalla competizione dei colossi della produzione a basso
9
Fonte: http://www.parcocastelliromani.it/
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
33
costo. Così un gruppo di consumatori decide di unirsi in un gruppo d’acquisto,
realmente solidale nella sostanza in quanto il motivo non era ascrivibile alla ricerca di
una facilitazione economica nella compera all’ingrosso (come si è visto in altri casi), ma
unicamente volto alla tutela delle aziende tradizionali e al reperimento di prodotti
genuini, freschi e a basso impatto ambientale.
Nel 2011 il GAS si trasforma nel primo Farmers’ Market dei castelli romani, sotto
l’associazione “km0”, inserita nel circuito “Coltivendo” iniziativa della provincia di Roma.
L’idea di valorizzare le aziende agroalimentari tradizionali riscuote da subito un grande
successo e il mercato contadino arriva a contare ad oggi circa cento aziende
collaboratrici. In soli tre anni l’associazione, per soddisfare i grandi volumi di richieste,
sia da parte dei produttori sia dei consumatori, si è estesa molto, arrivando a
organizzare mercati contadini nelle città di Ariccia, Albano (prossimamente anche
Genzano), Rocca di Papa, Grottaferrata, Frascati, Pavona ed anche a Roma nella zona
di Capannelle.
L’organizzazione di questi mercati persegue il principio della stagionalità del prodotto
generando una continua rotazione fra gli espositori del mercato i quali sono per altro
soggetti a controlli qualitativi scadenzati ad opera di Agrivol in collaborazione con il
ministero delle politiche agricole alimentari e forestali.
Oggi per assecondare le richieste di visibilità, l’associazione km0 si avvale dell’aiuto
delle amministrazioni locali per esortare il pubblico e le aziende locali a partecipare ai
mercati, inoltre è in previsione l’installazione di nuovi mercati soprattutto in zone
residenziali e centri storici di alcuni paesi per abbattere il contributo negativo dell’ultimo
chilometro.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
34
Fig. 12, Mercato contadino di Monte Gentile, Ariccia.
10
Questo studio si focalizza sul Farmers’ Market di Monte Gentile ad Ariccia, che ricorre
tre volte la settimana, nel quale ho effettuato rilevazioni sull’azienda ortofrutticola a
conduzione familiare “Massimo Mancini” di Lanuvio e sugli spostamenti del
consumatore. Sono principalmente due le ragioni che mi hanno spinto a considerare
questo mercato in particolare, la prima è che essendo uno dei primi ad essere stato
sperimentato, ha raggiunto ormai una grande visibilità (specialmente nei paesi limitrofi),
qualità questa che mi ha permesso di ottenere un campione di consumatori abbastanza
eterogeneo e rappresentativo di un’area che trascende la sola Ariccia. In secondo
luogo, trovandosi a poco più di un chilometro (1,6 km) dal centro abitato non è quasi
mai raggiunto a piedi e questo mi ha permesso di quantificare meglio l’impatto del
consumatore che si sposta in automobile. Il periodo considerato è quello della prima
settimana di Agosto 2014, in questa settimana gli espositori di ortofrutta del mercato
contadino erano distribuiti geograficamente in modo eterogeneo. Si potevano osservare
infatti alcuni produttori provenienti dalla fertile vallata vulcanica che si apre ai piedi della
stessa Ariccia, come produttori provenienti da ben più lontano come Velletri, Lariano,
Monte Compatri o Frascati. Fissando quindi una fascia di distanza intermedia è stata
scelta l’azienda agricola a conduzione familiare “Massimo Mancini”, distante dal
mercato 9,5 km, inoltre grazie ai buoni volumi di vendita è stato possibile considerare il
viaggio di ritorno a carico vuoto. L’individuazione del produttore “tipo”, rappresentativo
10
Fonte: mio.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
35
dell’intera popolazione del caso di studio è stato un passaggio importante e
fortunatamente, viste le direttive degli organizzatori del mercato contadino, che
impongono agli espositori la vendita di prodotti ortofrutticoli di stagione, ho potuto
rilevare un paniere di beni in vendita pressoché identico in ogni banco. Un ulteriore
semplificazione è derivata dal fatto che nelle rilevazioni è emerso come la tipologia di
mezzo impiegato nel trasporto fosse omogenea (LCV, diesel < 3,5t), in primo luogo
perché il punto di vendita (parcheggio di un centro sportivo) è troppo piccolo per potervi
accedere con veicoli più grandi di un camioncino e in secondo luogo perché i volumi di
vendita non giustificherebbero un trasporto, nella maggior parte dei casi, maggiore di 4
quintali di merce.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
36
3.1.2 CONAD, Genzano di Roma
Fig. 13, CONAD Genzano di Roma, esterno.
11
Il secondo caso di studio di questa ricerca è un supermercato CONAD. Questa azienda
è una cooperativa di associazioni (7 in tutto il territorio nazionale) che si occupano di
rifornire i mercati finali. Pac2000 è quella che fa riferimento alle regioni Umbria, Lazio,
Campania e Calabria. Il centro di distribuzione regionale (RDC) per il Lazio è nella
località di Fiano Romano a 35 chilometri da Roma. Il sistema di approvvigionamento del
supermercato finale è piuttosto efficiente, non effettuando magazzino si lavora solo sul
venduto, richiedendo in base alle necessità la merce al RDC che elabora l’ordine il
giorno stesso, completandolo nella prima mattina del giorno successivo. In casi di
necessità improvvisa vengono garantite consegne espresse, e le tipologie di veicoli
impiegati variano in relazione al tonnellaggio da trasportare. Per quanto concerne il
reparto ortofrutticolo il supermercato preso in analisi effettua ordini giornalieri, è rifornito
da una compagnia specializzata nell’approvvigionamento ortofrutticolo nel RDC di Fiano
Romano (CEDOF), che oltre ad elaborare i diversi ordini si occupa di far rispettare i
rigidi standard qualitativi richiesti da Pac2000 per conto di CONAD.
Nel supermercato di Genzano di Roma si può apprezzare nel reparto ortofrutta un’area
dedicata alla vendita prodotti stagionali, in ogni caso però per soddisfare un tipo di
domanda eterogenea si trovano numerosi tipi di prodotti (come arance, mandarini) che
11
Fonte: http://win.telecountrynews.it/CONAD.htm
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
37
sarebbero impossibili da reperire nella stagione estiva (momento in cui è stata condotta
la ricerca) o addirittura esotici (noce di cocco, ananas, mango, avocado). Lo studio della
filiera logistica in questo caso si è focalizzato solo sul paniere di beni stagionali, reperiti
da CEDOF in Italia, per aver le stesse basi di confronto nella quantificazione delle food
miles del supermercato con quelle del mercato contadino (nello specifico: melanzane
tonde/viola/striate/lunghe, zucchine verdi/romanesche, pomodoro verde tondo/oblungo,
pomodoro rosso tondo/oblungo, pomodoro cuore di bue, pomodorini, pesche,
albicocche, meloni) Ho deciso di analizzare questo supermercato non solo perché
presenta pochi e organizzati segmenti logistici, ma anche perché la distanza dal primo
centro abitato è simile a quella del mercato contadino (1,9 km), caratteristica utile per il
confronto.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
38
4. RISULTATI
Nell’analisi delle filiere logistiche verrà utilizzato, come già accennato, un approccio
simile a quello adottato nello studio di Marletto e Sillig. Tuttavia risulta difficile operare
un confronto, in quanto il livello di dettaglio in cui scende questa ricerca non è
paragonabile a quello dello studio a cui si ispira o ad altri, simili negli obiettivi. Nello
specifico questa indagine difetta di una quantificazione di dispendio energetico e di
emissioni di agenti inquinanti a monte, cioè nella fase iniziale della produzione dei beni
(dalla coltivazione al packaging), e non tiene conto inoltre dell’orario in cui si effettuano
le consegne, altra variabile che potrebbe incidere sull’impatto ambientale in modi diversi
se esse si effettuano di notte o nella prima mattinata piuttosto che nell’ora di punta, o al
fatto che il trasporto tramite veicoli refrigerati genera dispendio energetico (Marletto e
Sillig, 2014). Segnatamente ad altri studi questa ricerca avverte la mancanza di indagini
qualitative che potrebbero arricchire l’indagine quantitativa sulle emissioni fornendo
interessanti strategie di mercato o di marketing (Aoki, 2009; Caputo, 2012).
Personalmente considero le lacune della mia ricerca una causa fisiologica della scarsa
esperienza su un argomento così vasto e complesso ed esse sono lo stimolo per una
futura ricerca più dettagliata. I risultati ottenuti dovranno quindi essere referenziati
all’area geografica analizzata e riferiti al segmento finale delle filiere agroalimentari: la
distribuzione.
Per quantificare l’impatto ambientale mi sono affidato all’indicatore gCO2/km per
tonnellata trasportata12
che indica il quantitativo di emissioni di CO2 per tonnellata di
prodotto trasportata in relazione ai chilometri percorsi. Per gli specifici fattori di
emissione mi sono affidato alla banca dati del Sistema Informativo Nazionale
Ambientale (SINAnet), facente riferimento all’Istituto Superiore per la Protezione e la
Ricerca Ambientale (ISPRA13
). Ho potuto quindi sfruttare un database aggiornato (al
12
I dati SINANET forniscono valori di emissioni per veicolo (gCO2/v-km), la formula utilizzata per
ottenere i dati di interesse è stata: Distanza * N.Veicoli/Tonnellate nette di ortofrutta trasportate * fattore
di emissione gCO2/v-km (Marletto, 2014)
13
L’archivio è consultabile al link: http://www.sinanet.isprambiente.it/it/sia-ispra/fetransp/ ed è possibile
avere chiarimenti sulla nomenclatura utilizzata al link: http://www.sinanet.isprambiente.it/it/sia-
ispra/fetransp/note-esplicative/at_download/file
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
39
2013) e dettagliato14
, tanto da poter distinguere i cicli di guida in urbano, extraurbano o
autostradale.
Fig. 14, Dati SINAnet 2013, relativi a Light Commercial Vehicles, Hig Commercial Vehicles (rigidi ed
autoarticolati) e Passenger Car, per cicli di guida Urbano, Extraurbano, Autostradale e Totale (ovvero una
media ponderata dei tre, per i casi di incertezza).
3.1 Le filiere dei produttori
In questo paragrafo verranno quantificati gli impatti ambientali delle filiere distributive
dei produttori del Mercato Contadino e del supermercato.
Ricostruendo a monte la catena di approvvigionamento del supermercato si sono
delineati due segmenti principali, il primo è quello che parte dal produttore per arrivare
al centro regionale di distribuzione di Fiano Romano, il secondo è quello che dal CRD
arriva al supermercato finale.
Nella settimana considerata nell’indagine è stato registrato, relativamente al primo
segmento, un volume di 9,5 tonnellate15
di prodotti ortofrutticoli trasportati al centro di
14
Le stime sono state elaborate sulla base dei dati di input italiani riguardanti il parco e la circolazione
dei veicoli (numerosità del parco, percorrenze e consumi medi, velocità per categoria veicolare), ed è
possibile scegliere il fattore di emissione su cui focalizzarsi da una dettagliata lista.
Impatto per ciclo di guida
Tipologia Veicolo
gCO2/v-km
U
gCO2/v-km
E
gCO2/v-km
A
gCO2/v-
km
T
LCV Diesel, <3,5t 348,734 200,469 337,338 264,908949
HCV Rigid, 14 - 20 t 1011,046 612,799 575,35 632,026549
HCV Art, 20 - 38 t 1.198,17 720,30 648,78 725,177373
Pass. Car, Dies. 1.4 - 2.0 l 274,701 142,557 191,194 176,969552
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
40
distribuzione. Il produttore si è avvalso per il trasporto di una motrice refrigerata con una
capacità di 18t, percorrendo in totale una distanza di 95 chilometri su tratto
autostradale. Il veicolo utilizzato registra segnatamente al ciclo di guida autostradale
una quantità di emissioni pari a 575,350 gCO2/v-km, ma grazie alla grande capacità di
carico il valore relativo all’impatto per tonnellata netta scende a 60,563 gCO2, facendo
registrare in questo primo segmento un totale di 11,507 kgCO216
, che come vedremo
incidono solo per l’ 8% sul totale della filiera.
Nella stessa settimana, le rilevazioni sul secondo segmento distributivo hanno
quantificato un totale di 283 kg di merce trasportata giornalmente da CEDOF al
supermercato di Genzano. Questo trasporto giornaliero avviene per mezzo di un auto
articolato refrigerato da 22,5t il quale genera un quantitativo di emissioni pari a 720,302
gCO2/v-km per il ciclo di guida extraurbano e 648,782 gCO2/v-km per quello
autostradale. Il calcolo di questo segmento è stato più complicato rispetto agli altri in
quanto il mezzo di riferimento viene sfruttato anche dagli altri reparti del CDR di Fiano
Romano, consegnando oltre che ortofrutta, anche pesce fresco e carne. Nel grafico in
figura 15 possiamo vedere nello specifico la distribuzione del carico nella settimana
considerata.
15
Valore riferito ad un paniere di prodotti ortofrutticoli stagionali quali: melanzane
tonde/viola/striate/lunghe, zucchine verdi/romanesche, pomodoro verde tondo/oblungo, pomodoro rosso
oblungo, pomodoro cuore di bue, pesche, susine, albicocche, angurie, meloni.
16
I valori finali sono ottenuti calcolando il prodotto tra il valore gCO2 e il doppio della distanza, in
chilometri, percorsa. Viene considerata la doppia distanza in quanto si tiene conto del viaggio di ritorno a
carico vuoto. Non viene inoltre usata la specifica dicitura t-km per l’impatto filane per motivi di
chiarezza, in quanto tale dicitura viene adoperata per il carico massimo possibile e non quello effettivo
come in questo caso.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
41
Distribuzione del Carico
0,283
16%
0,265
15%
1,260
69%
t quotidiane di Ortofrutta
t quotidiane di Pesce
t quotidiane di Carne
Distribuzione del Carico
0,283
16%
0,265
15%
1,260
69%
t quotidiane di Ortofrutta
t quotidiane di Pesce
t quotidiane di Carne
Fig. 15 Mia elaborazione.
Conoscendo nello specifico il carico è stato possibile ponderare il totale dell’impatto
(ottenuto considerando il totale del carico e la distanza complessiva di 67 km percorsa
dall’autoarticolato) per la quota di ortofrutta trasportata ottenendo un emissione, per
0,283 tonnellate di output, di 7,932 kgCO2, valore che incide sul totale della filiera per il
5,5%.
Le indagini sul produttore del Farmers’ Market hanno individuato, come ci si poteva
aspettare, un solo segmento principale, quello che dall’azienda agricola porta
direttamente al mercato. Il produttore in questo caso si avvale di un LCV da 3,5 t il
quale è più che necessario per soddisfare la domanda giornaliera che ammonta a 4
quintali di merce, ma come già accennato la ridotta capacità di carico e quindi lo scarso
volume trasportato è il punto debole di questa catena distributiva. Percorrendo infatti
una distanza di 9,5 km in ambito urbano (dall’azienda al mercato), con un veicolo che
emette 348,734 gCO2/v-km, il totale di emissioni per tonnellata di output è di 16,565
kgCO2, il 69,47% in più del segmento Produttore – CRD, caratterizzato da una distanza
dieci volte maggiore. Tuttavia questo risultato non è affatto eclatante, per le ragioni già
spiegate, e sul totale di impatto della filiera corta rappresenta solamente il 7,64%. Più
avanti vedremo come in più scenari che ipotizzano comportamenti diversi del
consumatore, a parità di condizioni, i risultati possano essere ribaltati.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
42
3.2 Il contributo dell’ultimo chilometro
Nella fase relativa all’indagine sugli spostamenti del consumatore, le ricerche sono state
finalizzate all’individuazione della distanza media percorsa per raggiungere il punto
vendita dalla propria abitazione e la tipologia di veicolo impiegato.
In altri studi relativamente a questa fase sono stati proposti ad esempio questionari
online volti a stimare tipologia di veicolo, distanza, tipo di acquisto e motivo di
spostamento. Relativamente all’ultima variabile, per definire precisamente quanta parte
dell’impatto ambientale è ascrivibile all’acquisto, occorre sapere se lo spostamento
avviene unicamente per la compera o è parte di un giro più lungo (Rizet et al., 2008). In
un altro caso, volto a chiarire attraverso un’indagine trasversale17
il motivo che spinge il
consumatore a rifornirsi da filiere alternative e locali, in Francia e nel Regno Unito, sono
stati inviati questionari per posta ad alcuni campioni di consumatori che aderissero ad
iniziative di Box Schemes (Brown et al., 2009).
In questa ricerca sono state intervistate 100 persone acquirenti di prodotti ortofrutticoli,
per entrambi i casi di studio, alle quali sono state sottoposte le domande circa:
• Distanza percorsa in chilometri dall’abitazione al punto vendita.
• Metodo di spostamento (a piedi/bicicletta, trasporto pubblico18
, vettura privata)
• Nel caso dello spostamento in macchina è stato domandato di specificarne
alimentazione e cilindrata.
Queste rilevazioni sono state fatte in prima persona, era infatti essenziale intervistare
un campione di persone che stesse comperando o avesse intenzione di acquistare
prodotti ortofrutticoli, inoltre data la tipologia di informazioni richieste (piuttosto tecniche)
spesso si destava negli avventori curiosità o addirittura diffidenza, che era presto fugata
dalle mie spiegazioni. Si è creato velocemente (soprattutto nel mercato contadino) un
rapporto informale tra me e gli avventori, che sempre più incuriositi venivano ad offrire il
loro contributo spontaneamente ed in questo diverso clima ho potuto carpire
informazioni specifiche anche sul carico di spesa. È stato infatti importante quantificare
17
Per approfondire sulla metodologia Cross-Section, Brady et al., 2008.
18
Relativamente a questa voce è stato specificato autobus, navetta, treno, metropolitana, ma in entrambi i
campioni non si è ottenuto nemmeno un riscontro.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
43
il carico medio del consumatore tipo, in modo da poter stimare anche per l’ultimo
chilometro l’impatto di CO2 emessa per tonnellata trasportata. Dalle interviste è stato
quindi stimato un carico pari a 10,28 kg19
di spesa in ortofrutta, valore che è stato
adottato per il consumatore di entrambe le filiere.
Entrando nello specifico del mercato contadino, la distribuzione della distanza percorsa
dal consumatore (mostrata in fig. 16), ha registrato frequenze più alte per le zone di
provenienza limitrofe al mercato (fascia 0-2 km), diminuendo progressivamente con
l’aumentare della distanza, registrando però un nuovo picco nell’ultima classe 20
(10+
km).
0
5
10
15
20
25
30
35
40
(0-2) (2-4) (4-6) (6-8) (8-10) (10+)
0
5
10
15
20
25
30
35
40
(0-2) (2-4) (4-6) (6-8) (8-10) (10+)
Fig. 16, Distribuzione del consumatore per classe di distanza, mia elaborazione.
La distanza media percorsa è quindi risultata pari a 5,87 km ed il veicolo “tipo” è
risultato un’automobile diesel di 1,4 l di cilindrata. Per determinare un veicolo standard
mi sono affidato alla distribuzione dei consumatori arrivati in macchina, calcolando una
media ponderata per le cilindrate e considerando la distribuzione di frequenza, invece,
per le alimentazioni. In fig 17 troviamo il grafico relativo al metodo di raggiungimento e
all’alimentazione nel caso della vettura privata, da questo si evince come la maggior
parte (93%) degli intervistati utilizzi per gli spostamenti la propria macchina e solo il 4%
invece raggiunge il mercato a piedi. Il Mercato Contadino è infatti sicuramente troppo
19
Quantità riferita ad una spesa settimanale.
20
Relativamente alla classe (10+) è stata stabilita una distanza di 29,55 km, calcolando la media
ponderata della distribuzione degli undici avventori provenienti da più di 10 km di distanza.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
44
distante (1,6 km) dalla città di Ariccia per essere raggiunto a piedi e sicuramente la
bassa percentuale di avventori che si spostano in questo modo è spiegata da questa
variabile. Bisogna comunque considerare che il mercato sorge anche nelle immediate
vicinanze di un centro residenziale di medie dimensioni (circa 500 famiglie) e che quindi
non sarebbe un problema effettuare lo shopping a piedi per molti dei consumatori. Dalle
interviste emerge però la tendenza ad effettuare in un’unica spesa
l’approvvigionamento ortofrutticolo settimanale, caratteristica probabilmente anche
legata al fatto che il farmers’ market di riferimento non è giornaliero, bensì ricorre solo
tre volte la settimana21
. Queste rilevazioni sono in linea comunque, con il quantitativo di
carico stimato mediamente per il consumatore (10,28 kg), che quindi è spinto a
percorrere in macchina anche distanze molto inferiori al chilometro.
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
A piedi/bicicletta
Motorino 50cc
Moto 100cc
Vettura privata
Diesel Benzina GPL Metano Ibrida
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
A piedi/bicicletta
Motorino 50cc
Moto 100cc
Vettura privata
Diesel Benzina GPL Metano Ibrida
Fig. 17 Metodo di raggiungimento del consumatore, mia elaborazione.
Il veicolo utilizzato dall’avventore ideale registra quindi un impatto pari a 176,970
gCO2/v-km, valore sicuramente inferiore a quelli generati dai veicoli dei produttori visti
in precedenza, ma il carico estremamente ridotto e la distanza piuttosto elevata (5,82
km) da percorrere portano ad un totale di 200,382 kgCO2 per tonnellata di output, che
sommati a quelli del segmento del produttore portano a 216,947 kgCO2 per l’intera
filiera. È il segmento meno efficiente in assoluto ed in questo caso specifico arriva ad
incidere per il 92,36% sull’ammontare totale di emissioni registrate per questa filiera.
21
Un appuntamento infrasettimanale il mercoledì, e nel fine settimana il sabato e la domenica.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
45
Impatto per segmento - Mercato
7,64%
92,36%
Produttore - Mercato Consumatore
Impatto per segmento - Mercato
7,64%
92,36%
Produttore - Mercato Consumatore
Fig. 18 Mia elaborazione.
Nel caso del supermercato Conad è stata rilevata una distribuzione di provenienza che
rispecchia lo standard di scelta del consumatore medio, che si muove alla ricerca di un
supermercato rispettando criteri di vicinanza (oltre che chiaramente economici)
0
5
10
15
20
25
30
35
40
(0-2) (2-4) (4-6) (6-8) (8-10) (10+)
0
5
10
15
20
25
30
35
40
(0-2) (2-4) (4-6) (6-8) (8-10) (10+)
Fig. 19 Mia elaborazione.
In fig. 19 il grafico mostra quindi le fasce di provenienza del campione di 100
consumatori intervistati. Nel contesto del supermercato, ho incontrato, come
prevedibile, più difficoltà nello svolgere le mie interviste, che purtroppo non si sono
potute dilungare troppo costringendomi a carpire solamente le informazioni standard
richieste per la stima del consumatore medio. Ai clienti provenienti dai 6 chilometri in su
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
46
(i quali rappresentano il 19% della distribuzione), ho però domandato cosa li spingesse
a coprire una tale distanza per fare la spesa, e le ragioni addotte si riferiscono
principalmente alla grande varietà di prodotti reperibili22
in quel supermercato specifico
e alla fiducia nella qualità del marchio Conad. La media delle distanze percorse dai
consumatori è comunque inferiore a quella del mercato contadino, arrivando a 3,62 km.
Segnatamente al metodo di raggiungimento del centro è stato rilevato il 99%23
dei
consumatori arrivati in macchina ed in nessun caso è stato invece raggiunto a piedi.
Nonostante il supermercato sia frequentato anche da consumatori che non fanno spese
per rifornirsi per l’intera settimana e quindi potrebbe essere raggiunto agevolmente a
piedi da tale tipologia, la distanza di 1,9 chilometri scoraggia questi clienti imponendo
uno spostamento in macchina. Il veicolo standard è risultato uguale a quello rilevato nel
mercato contadino (diesel 1.4 l), ed il carico è stato assunto lo stesso per entrambe le
filiere (10,28 kg). In questo modo il totale di emissioni dell’ultimo chilometro relativo al
consumatore del supermercato è risultato pari a 124,636 kgCO2, che sommato ai
segmenti dei produttori, arriva ad un totale di 144,075 kgCO2, incidendo per l’ 86,5%
sull’insieme della filiera.
Impatto per segmento - Supermercato
8,0%
5,5%
86,5%
Produttore - CRD CRD - Supermercato Consumatore
Impatto per segmento - Supermercato
8,0%
5,5%
86,5%
Produttore - CRD CRD - Supermercato Consumatore
Fig. 20 Mia elaborazione
22
Bisogna tener presente che nella zona dei Landi (frazione di Genzano) o nelle campagne a nord della
città di Velletri, questo punto vendita rappresenta il primo vero grande supermercato che si trova nelle
loro vicinanze, nel quale poter trovare tipologie di prodotti più sofisticate rispetto all’ alimentari sotto
casa.
23
In un solo caso abbiamo uno spostamento con un quadri ciclo 50 cc.
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
47
4. CONCLUSIONI
Sulla base dei dati raccolti possiamo concludere che in questo caso la catena
distributiva del farmers’ market generi risultati inferiori in termini di efficienza di impatto
ambientale.
Distribuzione degli impatti
0 20 40 60 80 100 120 140 160 180 200 220 240
Mercato contadino
Supermercato
kgCO2/t
Produttore CRD Consumatore
Distribuzione degli impatti
0 20 40 60 80 100 120 140 160 180 200 220 240
Mercato contadino
Supermercato
kgCO2/t
Produttore CRD Consumatore
Fig. 21 Mia elaborazione.
Nel grafico in fig. 21 sono riportate entrambe le filiere dettagliate per segmento logistico,
dal quale si può evincere come l’efficienza della catena distributiva del mercato
contadino sia penalizzata dal segmento dell’ultimo chilometro. Coerentemente con altri
studi, infatti, lo spostamento del consumatore rappresenta una parte fondamentale
dell’impatto sul totale della filiera (Rizet et al., 2008; Coley et al., 2009; Mundler et al.,
2012; Marletto e Sillig, 2014). Guardando alle emissioni relative agli spostamenti dei
produttori, possiamo vedere da un lato come la filiera industriale, dotata di mezzi
dall’elevata capacità di carico, assorba, grazie a questa qualità, gli impatti delle
relativamente lunghe distanze. Dall’altro come, nonostante il contadino-espositore si
sposti con veicoli leggeri ma a bassa capacità di carico, assorba anche egli questo
difetto grazie al ridotto tragitto.
Nel grafico in fig. 22 viene mostrato come il load factor incida sulla performance
ambientale in termini di emissione in relazione alla distanza percorsa. La forbice che si
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
48
crea, progressivamente sempre più ampia, offre la percezione di come un maggior
carico diluisca enormemente gli impatti relativi ai chilometri di percorrenza.
Impatti progressivi dei produttori
0
20000
40000
60000
80000
100000
120000
1 20 40 60 80 100 120
Km
gCO2/kmpertonn.
Produttore mercato Produttore supermercato
Impatti progressivi dei produttori
0
20000
40000
60000
80000
100000
120000
1 20 40 60 80 100 120
Km
gCO2/kmpertonn.
Produttore mercato Produttore supermercato
Fig. 22 Mia elaborazione
Per ottenere risultati migliori, bisognerebbe fondamentalmente aumentare il carico del
produttore del mercato ad ogni viaggio ed ottimizzare al massimo la distanza fra
mercato e i produttori. D’altra parte un altro tipo di intervento sarebbe possibile (ed
anche di più agevole attuazione): la riduzione al massimo dei chilometri percorsi dal
consumatore. In questo caso di studio basterebbe diminuire la distanza media percorsa
dall’avventore del mercato a 3,7 km ad esempio, per registrare la stessa efficienza
ambientale della filiera industriale. Nello studio di D. Coley (2009) invece emerge come
il consumatore non debba effettuare tragitti più lunghi di 6,7 km, soglia oltre la quale la
distribuzione industriale (comprensiva di produzione, stoccaggio in condizioni
refrigerate, distribuzione a centri di smistamento e consegna porta a porta tramite
servizio box schemes) genera performances ambientali migliori. Analizzando le
distribuzioni secondo la provenienza dei campioni di consumatori intervistati, però,
emerge un dato interessante. La media di chilometri percorsa dall’avventore tipo per
raggiungere il mercato contadino risulta pari a 5,87 km con una deviazione standard di
8,731 , mentre la media percorsa dal cliente del supermercato è risultata pari a 3,62 km
registrando una deviazione standard nettamente minore di 2,976. Questo ci suggerisce
come il consumatore sia propenso a percorrere distanze maggiori per acquistare un
prodotto non tanto più conveniente dal punto di vista economico, quanto da quello
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
49
ambientale e soprattutto salutare e qualitativo, tale da giustificare, in alcuni casi, un
viaggio superiore ai 30 chilometri. In questo senso sarebbe molto interessante a mio
avviso eseguire un’indagine economica basata sulla willingness to pay verso i prodotti
biologici venduti nei mercati contadini di questa area. Come già accennato, altri studi
sono stati svolti sul tema generando risultati interessanti. Nello studio di Gracia (2012)
ad esempio si conclude che il consumatore attento non solo al proprio benessere (in
termini di qualità e salute), ma spinto a consumare locale anche da motivi etici, solidali
e culturali, sia più propenso a pagare di più per questi beni.
Inoltre il fenomeno è risultato più accentuato per la popolazione femminile (soprattutto
giovane e con un buon livello di istruzione). Questi dati possono essere utili per
sviluppare importanti linee di policy e marketing soprattutto dalle pubbliche
amministrazioni, che con interventi mirati a rafforzare il legame con il territorio,
potrebbero ottenere una rivalutazione e fornire un buono slancio al mercato dei prodotti
locali (Gracia et al., 2012). In tal senso un ottimo esempio è offerto dalle esperienze
americane delle “fattorie agricole supportate dalla comunità”24
nelle quali il forte livello di
integrazione economico e culturale fra comunità territoriale e agricoltura crea una
sinergia virtuosa in termini economici, sociali ed ambientali (B. Janssen et al., 2010).
Un altro studio della ricercatrice Gracia (2014), ha messo il punto sulla questione,
evidenziando come a parità di condizioni il consumatore sia disposto a pagare il 9% in
più del prezzo di mercato per il bene di riferimento (carne di agnello in quel caso), se
esponesse un marchio che ne attestasse le origini locali. Questo tipo di conclusione
offre interessanti spunti legati al marketing. Dalla stessa studiosa è infatti calcolato che
se in un ipotetico mercato composto unicamente da carne di agnello di una specifica
qualità venisse introdotto un prodotto identico tranne per il fatto che esponga
un’etichetta che ne attesti la provenienza locale, quel bene conquisterebbe il 18% del
mercato se venisse venduto a 3,5€ e il 10% se venisse venduto a 4€. Un altro
contributo simile è offerto dalla Boys (et al., 2014), che nella ricerca condotta sul
mercato agricolo dominicano25
conclude come il consumatore sarebbe disposto a
24
Iowa’s Community-Supported Agricolture (CSA).
25
Un utile metro di giudizio sull’importanza di implementare da parte delle amministrazioni, il mercato
del biologico e del local food, può essere fornito proprio dal caso dello stato insulare della Dominica
(Commonwealth of Dominica). Privo quasi del tutto delle classiche spiagge caraibiche, bianche e
cristalline, ma ricchissimo di paesaggi incontaminati, la Dominica si è specializzata nell’eco-turismo, il
quale sta acquistando crescente popolarità. Attraverso la manovra governativa “Organic Dominica” è in
previsione di riconvertire l’intera produzione agroalimentare al biologico entro il 2015, per fare di questo
piccolo stato un’eccellenza a livello mondiale nell’ambito dell’ “organic food” ed attrarre quindi ancor
più eco-viaggiatori. Inoltre dallo studio di Kathryn A. Boys (et al., 2014), si evidenziano anche una serie
di possibili effetti positivi a lungo termine che possono incidere sull’offerta di lavoro (in quanto le
Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo.
50
pagare il 17,5% in più per prodotti biologici e il 12% in più per quelli strettamente locali.
Anche in questo caso emerge una correlazione tra la propensione a pagare di più e le
caratteristiche anagrafiche, di genere e livello di educazione.
Per concludere la riflessione sui dati ottenuti potrebbe essere utile analizzare diversi
ipotetici scenari.
CONSUMATORE
2 KM
CONSUMATOR
E 1 KM
CONSUMATOR
E A PIEDI
FILIERA
MERCATO
CONTADINO
85,425 50,995 16,565
kgCO2/km
per t
FILIERA
SUPERMERCATO
88,299 53,869 19,439
kgCO2/km
per t
Fig. 23, Tabella che mostra l’impatto di entrambe le filiere al variare della sola distanza del consumatore
secondo tre ipotetici scenari.
Nella tabella in fig. 23 viene mostrato come a parità di condizioni vari l’impatto sul totale
delle filiere al variare degli spostamenti del consumatore. In tutti i casi considerati si può
notare come seppure non di molto, la catena distributiva del mercato contadino registri
risultati migliori, generati principalmente dal fatto di avere un solo segmento distributivo
(Produttore – Mercato), rispetto ai due (Produttore – CDR, CDR – Supermercato) della
filiera industriale. L’ipotesi del consumatore a piedi risulta abbastanza improbabile per il
supermercato, in quanto anche se se ne trovasse uno all’interno di un centro abitato
facilmente raggiungibile a piedi da un’ampia popolazione di clienti, la tendenza del
consumatore di ottimizzare i propri spostamenti acquistando anche la spesa di una o
due settimane in una volta sola, annullerebbe l’effetto vicinanza. La stessa cosa però
può non essere vera per la filiera del mercato contadino. Come dimostrato nello studio
di Mundler (2012), la vendita diretta esercitata in ambito urbano comporta spostamenti
di molto inferiori rispetto a quella di ambito extraurbano, con una densità abitativa più
bassa, generando performances ambientali molto migliori. Il consumatore infatti
potrebbe raggiungere il mercato grazie ai mezzi pubblici o in bicicletta o semplicemente
a piedi, scoraggiato dalla quotidiana congestione della città si concederebbe una
coltivazioni biologiche sono “labour intensive” a differenza di quelle industriali estensive, che sono
“capital intensive”) e l’aumento del pil procapite.
Analisi comparata delle supply chains nel settore ortofrutticolo
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Analisi comparata delle supply chains nel settore ortofrutticolo

  • 1. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 1 Analisi comparata delle Supply Chains nel settore ortofrutticolo Melaranci Michele, Università degli studi Roma III Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo
  • 2. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 2 INDICE 1. INTRODUZIONE....................................................................................................................................4 1.1 OBIETTIVI E MOTIVAZIONI........................................................................................................................6 1.2 LA FILIERA CORTA....................................................................................................................................9 1.2.1 Il Farmers’ Market .........................................................................................................................13 1.3 FOOD MILES ...........................................................................................................................................17 2. ANALISI DELLA LETTERATURA .......................................................................................................22 2.1 PANORAMICA DEGLI STUDI SUL GENERE................................................................................................22 3. METODOLOGIA.......................................................................................................................................29 3.1 CASE STUDY RESEARCH.........................................................................................................................30 3.1.1 Il mercato contadino dei Castelli Romani ......................................................................................32 3.1.2 CONAD, Genzano di Roma ............................................................................................................36 4. RISULTATI................................................................................................................................................38 3.1 LE FILIERE DEI PRODUTTORI...................................................................................................................39 3.2 IL CONTRIBUTO DELL’ULTIMO CHILOMETRO .........................................................................................42 4. CONCLUSIONI .........................................................................................................................................47 5.BIBLIOGRAFIA.........................................................................................................................................54
  • 3. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 3
  • 4. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 4 1. INTRODUZIONE Uno dei processi demografici più importanti che ha caratterizzato tutto il secolo scorso è stato il progressivo abbandono della vita contadina per una nuova vita in città. La concentrazione delle funzioni produttive all’interno delle città, secondo una tendenza sviluppatasi nei paesi occidentali a seguito della rivoluzione industriale, la domanda di lavoro a basso costo, la crescita edilizia e il conseguente sviluppo dei servizi urbani, creava le condizioni per ingenti spostamenti demografici dalla campagna alla città. Diventava così possibile, per larghe fasce di popolazione, cercare condizioni di vita migliori allontanandosi dalla fatica dei campi e vivere con i frutti della propria autonoma capacità di emancipazione piuttosto che con quelli elargiti dalla terra. Le campagne si svuotavano e grazie all’introduzione di nuove tecnologie nei macchinari agricoli, sempre meno braccianti erano necessari alla produzione. L’urbanesimo del diciannovesimo e ventesimo secolo che ha interessato in generale tutte le economie del mondo occidentale più sviluppato, conosce una accelerazione vertiginosa negli ultimi cinquant’anni fin oltre la fine del ventesimo secolo, seppure tra alterne pause che però non hanno compromesso un paradigma di sviluppo economico centrato sull’investimento immobiliare (Bartolini, 2010; Martinotti, 1993). Nel 2006, in seguito ad una massiccia speculazione nel mercato immobiliare americano, questo percorso esponenziale di sviluppo subisce una brusca interruzione. Scoppia la bolla dei sub-primes e s’innesca una reazione a catena che getterà gran parte delle economie del mondo in una profonda crisi economica che, fatte le debite distinzioni tra contesti e congiunture che presentano diverse caratterizzazioni, perdura ancora oggi. In questo nuovo mondo complicato dalla crisi, la città non è più solo un luogo di aggregazione, un melting pot culturale, un polo di attrazione, è anche un luogo di stenti, disagi e malessere. In questo nuovo contesto si ripropone, sia nelle opportunità lavorative che nell’immaginario sociale, uno stile di vita che aspira alla autosufficienza, per certi aspetti agreste, legato alla terra e lontano dalle ansie e dalle paure che genera la vita urbana contemporanea. La sussistenza è riscoperta come valore: si comincia a parlare di un ritorno alla terra (Cersosimo, 2012).
  • 5. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 5 Come in tutti i fenomeni sistemici ovviamente la spiegazione del perché il ritorno alla terra sia percepito come una nuova opportunità, non risiede in un'unica variabile, ma è piuttosto frutto dell’interazione nel tempo, di una moltitudine di esse. In questo caso bisogna senz’altro considerare il processo di sensibilizzazione sul tema della sostenibilità ambientale e di sviluppo virtuoso, che inizia nella seconda metà del ventesimo secolo e con il rapporto Bruntland del 1987 si sancisce in modo formale il paradigma dello sviluppo sostenibile: “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri ” (WCED,1987). Anche in Italia, dove la tradizione contadina è stata forte e profondamente radicata nella cultura dei territori (INEA, 2013), scorgiamo un incipiente fenomeno in gran parte promosso dalle nuove generazione che riscoprono il lavoro dei padri e dei nonni, approcciandolo con tecniche e conoscenze nuove. Per inquadrare il fenomeno, è necessario definire il contesto di riferimento con l’aiuto di dati tratti dal sesto censimento sull’agricoltura del 2010. L’estensione del territorio nazionale è di 302.071 km quadrati e la superficie agricola totale (SAT) italiana è pari a 17,1 milioni di ettari, di cui 12,9 milioni appartenenti alla superficie agricola utilizzata (SAU). È importante considerare in questo ambito il fenomeno crescente della vendita di prodotti direttamente in azienda, che rappresenta una grande novità, se intesa come strutturata strategia di mercato (INEA, 2013). Se infatti in passato, questo metodo di compravendita rappresentava (assieme al mercato cittadino) la via principale di vendita, oggi diventa il modo per svincolarsi dagli schemi della grande distribuzione che deprimono il valore in sé del prodotto. Sempre secondo i dati del 6° censimento dell’agricoltura, sono 270.579 nel 2010, le aziende italiane che utilizzano il canale della vendita diretta al consumatore (Ibidem). Esse rappresentano il 26% del totale delle aziende che commercializza nei prodotti agricoli. Tale metodo di vendita è più diffuso nelle circoscrizioni del Centro e del Sud Italia, dove la tradizione familiare della terra è rimasta più radicata e la percentuale sale, rispettivamente, al 35% e 31%. Le regioni che presentano il maggior numero di aziende con vendita diretta sono la Calabria, con il 16,3% sul totale delle aziende, la Sicilia (12,2%) e la Campania (11,7%). Scendendo nel dettaglio della distinzione tra vendita diretta effettuata in azienda e vendita diretta che avviene fuori dai locali dell’azienda, emerge che, a livello nazionale, è maggiormente frequente la vendita in azienda, presente nel 78% dei casi (ibidem). Per quanto riguarda la distribuzione delle aziende per regione e classe di superficie agricola
  • 6. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 6 si evidenzia una correlazione positiva tra le aziende di piccola dimensione e la frequenza nell’utilizzo del canale di vendita diretta. Esse infatti non potendo sviluppare i volumi delle grandi aziende agricole, aggirano volentieri le fasi intermedie della grande distribuzione organizzata (o GDO) arrivando direttamente al consumatore senza diluire il proprio profitto. Il 76% di queste aziende si concentra nella classe 0-3 ettari, la percentuale scende al 21% per quanto riguarda la classe 3-5 ettari. Per quanto concerne la forma giuridica assunta dalle aziende con vendita diretta, si registra nel 94% delle unità la declinazione dell’impresa individuale, rispecchiando il quadro generale delle aziende italiane nel settore agricolo. Significativo è, inoltre, il dato che riguarda i dati sull’occupazione, dove possiamo notare che, in forte controtendenza alla percentuale di disoccupati a livello nazionale (41%, 2013), dal comparto agricolo provengono (per lo meno in riferimento ai giovani lavoratori) segnali incoraggianti: nel 2013 la classe di lavoratori al di sotto dei 35 anni impiegati in agricoltura ha registrato un incremento del 5,1%. Agricoltura, ambiente e alimenti è un trinomio che attrae le nuove generazioni che vogliono investire nel loro futuro, promuovendo la qualità con tecniche diverse da quelle dei loro nonni. La facoltà di Agraria ha sorprendentemente registrato nel 2013 un incremento delle immatricolazioni del 45%, a differenza delle altre facoltà che complessivamente hanno registrato un calo del 12,5%. (Cersosimo, 2012). 1.1 Obiettivi e motivazioni In questo quadro di rinnovato interesse verso il settore primario, ed in generale verso le questioni ambientali, si inserisce il presente studio, basato sul presupposto che sia giusto e necessario indagare le sfaccettature di un settore in così forte trasformazione. Proprio perché deve necessariamente alimentarsi di una visione integrata delle qualità del territorio, può fare del virtuosismo ambientale e qualitativo un obiettivo imprescindibile. L’idea della ricerca nasce principalmente dalla questione ambientale legata all’approvvigionamento di risorse alimentari. Le filiere logistiche della grande distribuzione su scala nazionale e quella della piccola/micro distribuzione sono enormemente diverse per un gran numero di variabili, prima fra tutte quella della distanza. Infatti la distanza che percorre il cibo dal luogo di produzione alle nostre tavole
  • 7. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 7 gioca un ruolo fondamentale nella quantificazione dell’impatto ambientale ascrivibile alla produzione alimentare. Lo scopo della ricerca è quindi di determinare se la short supply chain produca effettivamente un minor impatto ambientale, in termini di emissioni di CO2 per tonnellata di prodotto trasportata, rispetto alla filiera di distribuzione tradizionale. Segnatamente riferite all'area dei Castelli Romani saranno prese in esame le filiere logistiche di un mercato contadino e di un supermercato, al fine di quantificarne gli impatti per ogni segmento. Il contesto di riferimento è dunque quello dei Castelli Romani, dove la tradizione contadina è ancora radicata, anche se fortemente ridimensionata negli ultimi trenta anni a seguito della esuberante crescita della domanda immobiliare generata dalla capitale che ha portato ad un consumo di suolo molto consistente a scapito proprio dell’area agricola. Qui i mercati rionali, o settimanali, sono stati un tempo il luogo dove il consumatore sapeva di poter acquistare i prodotti della propria terra, interfacciandosi direttamente con il produttore, stabilendovi un rapporto di fiducia, che inevitabilmente si è perso con l’avvento della grande distribuzione e quindi dei supermercati. Anche il mercato rionale o settimanale, ha perduto con il tempo le proprie caratteristiche, di piazza di distribuzione dei prodotti locali, trasformandosi sempre più in mera agglomerazione di banchi di distribuzione di prodotti provenienti dai mercati generali nazionali e internazionali. Questi non sono più da tempo i luoghi dove poter apprezzare le tipicità nostrane dei Castelli Romani. La ricerca, pertanto, muove da questo quadro contestuale e dal riconoscimento che il fenomeno dei “mercati contadini” risponde proprio al vuoto di mercato creatosi con l’insorgere di una maggiore sensibilità sociale e ambientale verso certi temi. In definitiva, da una domanda rimasta inevasa rispetto ai quei criteri di genuinità, salute e tipicità sopra richiamati. Il luogo prescelto come studio di caso è il mercato contadino della cittadina di Ariccia, a 30 km da Roma. All’incirca all’inizio del 2010 l’associazione Coltivendo istituisce l’organizzazione di Farmer’s Market a cadenza settimanale. Essi sono infatti reperibili in alcune città dei Castelli ed anche nel quartiere di Capannelle a sud Roma. Proprio nella capitale, le associazioni Campagna Amica e Coldiretti, danno corpo a queste nuove esigenze di
  • 8. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 8 qualità e sostenibilità istituendo nel 2009 il Mercato dei Contadini in zona Circo Massimo nell’antico mercato ebraico del pesce. Analizzando la letteratura specifica vedremo come questi nuovi “centri commerciali di prossimità” stiano avendo un rimarchevole successo. Il contatto diretto con il produttore, il biologico, lo “slow-food”, il buono, pulito e giusto; la filiera corta in generale, sono ormai percepiti come valori aggiunti ai prodotti ed il tutto non sarebbe certo possibile senza una presa di coscienza forte da parte del consumatore. Per questi motivi può essere interessante condurre una ricerca ambientale attraverso il confronto con un supermercato inserito nella grande distribuzione organizzata da un lato ed un mercato contadino dall’altro. Nonostante in prima analisi possa sembrare scontato il risultato che si potrebbe ottenere da tale indagine, l’elevato numero di variabili che si inseriscono possono ribaltare la conclusione in modo sorprendente. Relativamente a tali questioni infatti, lo scenario italiano rappresenta un caso abbastanza particolare, nel senso che gli schemi della grande distribuzione organizzata non si sono affermati profondamente tanto quanto in altre realtà europee. L’Italia è infatti caratterizzata da un basso grado di efficienza e integrazione del sistema logistico ed un estensione delle filiere distributive più contenute della media (Marletto e Sillig, 2014). L’impatto ambientale ascrivibile al solo trasporto del cibo è stato, ed è tutt’ora oggetto di grande dibattito nella comunità scientifica specializzata in logistica, agraria e sviluppo sostenibile. Una volta definito l’obiettivo principale del lavoro, va sottolineato però come la ricerca non si esaurisca in questo. Nei prossimi paragrafi sarà trattato nello specifico il fenomeno della filiera corta per definire il quadro di riferimento e fornire la percezione, al di là della logistica, delle enormi potenzialità che possiede il commercio di prossimità dal punto di vista economico, sociale e culturale.
  • 9. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 9 1.2 La filiera corta Come già accennato, la crisi del modello economico dominante ha contribuito alla nascita di modalità particolari di fare imprenditoria, nel campo dell’agroalimentare ad esempio ha dato respiro a quelle realtà che si trovano a metà tra la conservazione di tradizioni locali e la spinta innovativa di nuove generazioni di agricoltori e consumatori (INEA 2012). Il concetto di filiera corta si definisce in contrapposizione alla grande distribuzione organizzata (GDO), dove il ricavato del lavoro agricolo viene diluito dalla moltitudine di passaggi che deve affrontare il prodotto. Attraverso l’abbattimento di molti di questi passaggi si ottiene una filiera di distribuzione accorciata, dove il produttore si riappropria di quel ruolo chiave, che da lungo tempo si era perso negli schemi della distribuzione di massa, passando quindi da attore passivo ad attore attivo nel sistema (Giuca, 2012). Fig. 1: Giuca, 2012 p13
  • 10. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 10 Al concetto di filiera corta di distribuzione è giustamente associato quello di “chilometro zero”, oltre alla riduzione degli intermediari commerciali vi è quindi una riduzione di chilometri che il cibo percorre, dal luogo di produzione alla nostra tavola. In Italia questa distanza è generalmente considerata di circa 100 km (Slow Food, 2013), mentre negli stati uniti si considera un raggio di 100 miglia (Martinez et al., 2010). Secondo Parker (2005) infatti, si può definire filiera corta di distribuzione un sistema nel quale distanza geografica e numerosità degli intermediari è ridotta, solo combinando insieme questi due criteri si può avere un network alternativo del cibo. Anche Martinez (2010) concorda con tale definizione ed amplia questo concetto riflettendo sul consumatore che associa alla propria comunità il cibo che viene prodotto, elaborato e distribuito all’interno di un’area geografica circoscritta, inevitabilmente tutto il processo si carica di attributi assolutamente estranei alla grande distribuzione. Quando nel 1986 nasce l’associazione no-profit Slow Food Movement, fondata da Carlo Petrini, che fa propri i concetti di cibo buono, pulito e giusto, raccoglie da subito un larghissimo consenso espandendosi in tutta Italia ed arrivando oggi, ad essere attiva a livello mondiale. La filiera corta non è dunque una moda, un fenomeno transitorio, ma piuttosto una risposta fisiologica alla sempre più ridotta capacità d’acquisto del consumatore unita alla crescente attenzione spostata sulla sicurezza alimentare (Slow Food, 2013). In un contesto territoriale circoscritto, il cosiddetto «movimento del cibo» è stato definito infatti come «uno sforzo di collaborazione per costruire un’economia alimentare auto-sufficiente a livello locale in cui la produzione, la trasformazione, la distribuzione ed il consumo del cibo sono attività integrate nell’obiettivo di migliorare la salute economica, ambientale e sociale di un determinato luogo» (Kloppenburg et al., 2000). In tutte le regioni italiane, in aggiunta ai mercati contadini (Farmers’ Markets) si sono diffusi altri diversi schemi di vendita diretta praticati già da molto tempo dai paesi dell’Europa Settentrionale e Nord America come il metodo “Pick-your-own”, la tipologia dei “Box-schemes”e i gruppi organizzati di domanda e offerta (GODO). Il metodo del Pick-your-own (“raccoglitelo da te”, se si volesse tradurre), compare negli anni ’20 e ’30, dopo la prima guerra mondiale, negli Stati Uniti. Nasce essenzialmente per motivi di necessità, in quanto per gli agricoltori, nel periodo della grande depressione, era più conveniente lasciar cogliere i prodotti dal terreno direttamente agli
  • 11. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 11 avventori, facendo così fronte ai costi di raccolta, imballaggio e trasporto (Guidi, 2009). Oggi fortunatamente questa metodologia ha perso la caratteristica di sussistenza dettata dalla disperazione che la contraddistingueva, e il pick-your-own viene vissuto come un esperienza ricreativa, didattica, da fare in comune all’aria aperta, di riscoperta e scelta del prodotto direttamente dalla terra (Hand & Martinez, 2010). Secondo il report del 2010 di COLDIRETTI e AGRI2000, in Italia questo metodo di vendita continua ad essere poco diffuso limitandosi ad essere praticato da non più di un centinaio di aziende. Fig. 2, Wareham, UK 1 . La tipologia dei Box-schemes rappresenta il canale principale di vendita diretta del Regno Unito ed è comunque molto diffusa in tutta l’Europa settentrionale. Consiste nel ricevere (ogni una o due settimane) un box (cesto, cassetta ecc.) contenente prodotti di genere agroalimentare forniti da uno o più produttori. Il consumatore in alcuni casi può scegliere cosa ricevere, ma di norma non ha la possibilità di sapere quale sia il contenuto del box, che viene riempito con i prodotti stagionali, freschi e disponibili al momento, il prezzo invece viene concordato con il produttore (Slow Movement, 2013). Quello che può sembrare dunque un commercio di nicchia, operato da piccole aziende tradizionali e limitato agli amanti del biologico ed dell’eco-sostenibile, è invece una normale consuetudine nelle società del nord Europa, nelle quali tantissimi produttori 1 Fonte: www.holmeforgardens.co.uk
  • 12. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 12 all’ingrosso dell’agroalimentare propongo servizi di box-schemes, che hanno successo soprattutto tra la popolazione più anziana (Ibidem). In Italia, la tipologia di vendita diretta dei Box schemes può essere individuata nei gruppi d’acquisto solidale (GAS), nei quali gruppi di amici, colleghi, familiari o membri di un’associazione, acquistano all’ingrosso dai produttori agroalimentari per motivi ideologici o puramente economici (Giuca, 2012). Questi gruppi sono definiti solidali perché si fondano sui principi etici della stagionalità, del biologico e dell’eco-sostenibilità del prodotto. I GAS in Italia hanno una lunga tradizione, ma ne sono state stabilite in modo formale le finalità, gli obiettivi, ma soprattutto l’aspetto non lucrativo, solamente con la legge 244/2007, che all’art. 1, comma 266 così li definisce: Fig. 3 Veg Box Delivering System 2 . 2 Fonte: http://www.myvegbox.co.uk/ “soggetti associativi senza scopo di lucro costituiti al fine di svolgere attività di acquisto collettivo di beni e distribuzione dei medesimi, senza applicazione di alcun ricarico, esclusivamente agli aderenti, con finalità etiche, di solidarietà e di sostenibilità ambientale, in diretta attuazione degli scopi istituzionali e con esclusione di attività di somministrazione e di vendita”.
  • 13. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 13 Un altro caso è rappresentato dai gruppi organizzati di domanda e offerta, in Italia sono iniziative promosse dall’associazione AIAB3 (Associazione Italiana Agricoltura Biologica), operando in un contesto normativo ben definito dal Reg. CE 2092/91. I GODO possono essere visti come strutture che intervenendo in un contesto specifico, hanno come obiettivo quello di far incontrare la domanda e l’offerta di prodotti biologici, organizzando ordini e distribuzione ed imponendo controlli qualitativi comuni. Non limitandosi a queste fasi, l’AIAB ha come scopo principale quello della tutela e della riqualificazione dello spazio rurale e del ruolo del contadino nell’economia. Per perseguire tale obiettivo offre una serie di servizi agli associati quali corsi di aggiornamento e divulgazione di nuove tecniche produttive e tecnologie tramite periodici, inoltre in sinergia con università ed enti di sviluppo e informazione, si occupa di ricerca e perfezionamento nell’efficienza del metodo del biologico (D’Amico et al., 2013). Tra le tipologie di vendita diretta, la più diffusa e famosa è certamente quella del mercato contadino (COLDIRETTI - AGRI2000, 2010), essendo proprio questa tipologia il caso di studio di questa ricerca, si è ritenuto di approfondire l’argomento nel prossimo paragrafo. 1.2.1 Il Farmers’ Market Nel vasto panorama della filiera corta di approvvigionamento (short food supply chain) il Farmers’ Market ha senz’altro un ruolo dominante (R. Tchoukaleyska 2013). Rappresenta la declinazione più conosciuta di vendita diretta e sta avendo in generale, una larga diffusione, soprattutto nelle zone con una forte tradizione contadina, dove il prodotto tipico rappresenta una forma di identificazione culturale importante (Ibidem). Anche in Italia l’argomento del “local-food” sta diventando sempre più popolare e nell’ultimo decennio si sta avendo un inquadramento giuridico del fenomeno sempre più puntuale. Il D.L. 228/2001 ad esempio permette ai contadini la vendita diretta del prodotto esclusivamente proveniente dalla propria fattoria; il D.L. 1468/2002 invece fissa il confine, entro il quale si può parlare di filiera corta, 80 km dal luogo di 3 Per saperne di più: http://www.aiab.it/
  • 14. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 14 produzione a luogo di vendita; infine, con il D.L. De Castro, del 20 Novembre 2007, si offrono le linee guida per la creazione di mercati dedicati all’esclusiva vendita diretta, all’identificazione dei soggetti che possono farvi parte e i termini di vendita dei prodotti agricoli. Questi spazi regolamentati fanno sovente riferimento alle due maggiori organizzazioni Italiane specializzate nell’agroalimentare: lo Union Coldiretti sotto il brand “Campagna amica” e “Earth Market” format di “slow food Movement”. La sola “Campagna Amica” nel 2011 registra 878 FMs ed anche “Earth Market” acquista rapidamente popolarità raggiungendo nel 2012, 23 mercati in Italia. Tiemann nei suoi studi (2004) ha individuato diverse tipologie di mercati contadini: street-markets, mercati del weekend o della domenica, mercati giornalieri urbani, mercati in occasione di feste di paese. Tra questi si distinguono altre due categorie principali: gli “indigenous market” i quali operano senza regole scritte, ma più che altro con accordi informali fra i commercianti, e gli “experience markets” i quali si sviluppano all’interno di un dettagliato insieme di regole prestabilite dagli stessi produttori. Nello studio di R. Tchoukaleyska (2013) emerge come sia preponderante il ruolo degli stessi attori dei FMs nel condurre un controllo severo in questi spazi: se il successo passa soprattutto attraverso la percezione che ha il cliente del prodotto che compra e il rapporto di fiducia che instaura con chi lo vende, i produttori sono autorizzati ad una verifica qualitativa dei prodotti sui quali si abbia un sospetto, così da individuare ed allontanare, chi cerca di ingannare il consumatore proponendo prodotti non genuini o semplicemente non provenienti dall’area geografica stabilita (“fake farmers”). Nei mercati locali si intrecciano relazioni immediate, personali e spontanee, si scambiano informazioni sui prodotti e la loro produzione (Lyson e Green, 1999; Hinrichs, 2000). Si stringe un legame che trascende il semplice ”andare a fare la spesa” e diventa una occasione per venire in contatto con la comunità che si percepisce come propria (Feenstra, 1997). Alcune amministrazioni locali virtuose utilizzano questo fenomeno in senso politico preferendo l’affermarsi (o il valorizzarsi) di una comunità agricola intrecciata al tessuto cittadino, piuttosto che lasciare spazio all’urbanizzazione (Aubry et al., 2008). Il grande successo del mercato contadino passa dunque soprattutto attraverso il clima di sicurezza e familiarità nel quale si trova l’acquirente. Gli studi volti ad indagare sui motivi che spingono ad acquistare in un farmers’ market hanno evidenziato come
  • 15. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 15 l’attributo “locale” riferito al cibo giochi un ruolo chiave (Szmigin et al., 2003;Youngs, 2003; Zepeda e Li, 2006; Connell et al., 2008; Feagan e Morris, 2009). Meno evidenti appaiono invece le motivazioni economiche che spingono all’acquisto. Si può essere spinti a pensare infatti che i beni commercializzati attraverso il canale della vendita diretta siano percepiti come più economici (Festing, 1998), ma da altri sudi emerge, al contrario, come l’aspetto economico sia poco o per nulla considerato, rispetto ai consumatori dei supermercati tradizionali (Brown, 2002; Mc Garry et al., 2005). In altri studi ancora è stata addirittura rilevata, nei confronti dei prodotti locali, una willingness to pay (disponibilità a pagare) più alta rispetto a prodotti Bio od OGM-free (Louriero e Hine, 2002; Darby et al., 2006). Oltre alla garanzia di freschezza e genuinità quindi va tenuta in forte considerazione la tendenza ad attribuire ai prodotti provenienti dal proprio territorio un valore aggiunto importante, anche perché si sente di dare sostegno alle aziende locali e per associazione all’economia del territorio al quale si sente di appartenere (Carey et al., 2011). Nel report dell’associazione inglese Friends of the Earth (2000) è stato condotto uno studio qualitativo, monitorando diversi farmers’ market in territorio statunitense per un periodo di quindici anni, essendo negli Stati Uniti, una realtà ben consolidata (Ibidem). Emerge come si generino meccanismi virtuosi, ad esempio nel rafforzamento dell’economia locale e nella sua diversificazione, generando occupazione ed aumentando il volume delle spese circoscritte ad una precisa area geografica, inoltre si ritiene che possa incrementare il flusso turistico data la naturale nota folcloristica che contraddistingue questi eventi (Hilchey et al., 1995). È molto importante questo contributo fornito alle aree rurali e periferiche in termini di occupazione e di slancio economico. Ad esempio nell’area della Cornovaglia, dove sono spesi 500 milioni di sterline all’anno nell’approvvigionamento del cibo, per il 75% esso è reperito al di fuori e si calcola che se si riducesse questa percentuale dell’ 1% si registrerebbe un investimento nell’economia locale pari a 5 milioni di sterline (Ross, 2000). Dunque, il contadino trae giovamento da questo schema in quanto diventa di nuovo il price maker del proprio prodotto e può rendersi competitivo in un mercato diverso da quello globalizzato, nel quale altrimenti avrebbe un sottile margine di guadagno (Hilchey et al., 1995) o forse non riuscirebbe a sopravvivere affatto. Un’altra caratteristica importante dei FMs è quella, infatti, di permettere alle tante piccole imprese
  • 16. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 16 agroalimentari di continuare la propria attività, oltre che rappresentare, per quelle aziende più grandi, un’utilissima occasione di extra profitti e diversificazione (Ibidem). Un’altra ragione di virtuosismo, sempre più popolare, è legata all’impatto ambientale contenuto che hanno i mercati contadini ed in generale tutte le forme di filiera corta di approvvigionamento. Fondamentalmente la riduzione dell’impatto può essere ascritta ad una minore produzione di rifiuti legati alla produzione, con particolare riferimento alla fase finale del packaging (Festing, 1998), e soprattutto alla grande riduzione di kilometri e quindi di CO2 emessa, che deve percorrere il cibo dal luogo di produzione alla tavola (Ibidem). Questa distanza prende il nome di “food miles”, attorno a questo concetto sono stati condotti numerosissimi studi ed in letteratura si è creato un acceso dibattito sul ruolo delle food miles nella quantificazione dell’impatto ambientale di una filiera di distribuzione. La domanda principale che ricorre in tantissimi studi è infatti se la riduzione dei chilometri del cibo inneschino automaticamente una riduzione delle emissioni totali. Prima di entrare nello specifico è opportuno definire più precisamente cosa siano le Food Miles e come si inseriscono in questa discussione.
  • 17. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 17 1.3 Food Miles Il tema delle food miles inizia ad acquistare importanza durante l’ultimo decennio del secolo scorso, in un momento della nostra storia nel quale la sensibilità ambientale comincia a perdere la connotazione puramente filosofica ed un po’ elitaria che prima la distingueva, per diventare sempre più drammaticamente una seria necessità (WCED, 1987). L’autore più prolifico e teorico del concetto di food miles è senza dubbio Tim Lang, che nell’articolo (ancora intriso di filosofia) scritto insieme ad Heasman, “Food Wars” (Tim Lang & Michael Heasman, 2004), redige le 15 regole da seguire per un consumo consapevole e sostenibile: Tim Lang (2004)Mangia meno e meglio Mangia in modo semplice Mangia morigeratamente Mangia in modo solidale: non togliere il cibo da un’altra bocca! Adotta una dieta vegetariana e mangia carne con parsimonia, se proprio devi Apprezza la varietà; ricerca la biodiversità dal campo al tuo piatto; punta ad assumere 20-30 specie diverse a settimana Pensa ai combustibili fossili; l’energia utilizzata per trasportare il cibo da te o te al cibo = consumo di petrolio Mangia cibi stagionali se possibile Mangia in accordo ai principi di prossimità, nel modo più locale possibile; supportando I produttori locali Impara a cucinare velocemente pasti semplici; limita il cibo ricercato alle occasioni speciali Sii preparato a sopportare tutti i costi delle esternalità prodotte , se non lo farai lo dovranno fare altri Bevi acqua, non bibite Stai attento agli ingredienti nascosti; controlla l’etichetta per individuare I Sali e gli zuccheri non necessari; se ve ne sono, non comprare Educa te stesso senza diventare nevrotico! Goditi il cibo nel breve periodo, ma preoccupati del suo impatto nel lungo; sii fiducioso. È il tuo cibo, il futuro dei tuoi figli!
  • 18. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 18 Successivamente, in un altro articolo nel 2005, definisce per la prima volta i chilometri percorsi dal cibo, riflettendo sul loro ruolo nel totale dell’impatto ambientale, nello stesso anno è stato infatti pubblicato il report del Department for Environment, Food & Rural Affairs (DEFRA), il quale si è occupato soprattutto di stimare l’attendibilità dell’indicatore delle food miles: Tim Lang (2005) Nell’articolo “locale/globale (food miles)” pubblicato dalla rivista Slow Food (Bra, Cuneo) nel 2006, giustifica importanza crescente dei chilometri del cibo attraverso una esperienza diretta di negoziazione con i policy makers del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade): Tim Lang (2006) “The idea behind food miles was and remains simple. We wanted people to think about where their food came from, to reinject a cultural dimension into arcane environmental debates about biodiversity in farms. The Defra report confirms that there is a real problem. Food miles have rocketed in recent years. Between 1978 and 2002, the amount of food trucked by heavy goods vehicles (HGVs) increased by 23%. And the distance for each trip increased by over 50%. (…) But consumers also contribute to the food-miles problem. Car use for buying food in towns has risen by 27% since 1992. (…) So what can shoppers do? Simple: shop locally and buy local produce.” “I chose to highlight this issue at that time, as I was writing and campaigning a lot about the absurdity of food trade. I was working in a NGO, with others around the world, trying to persuade policy-makers renegotiating the General Agreement on Tariffs and Trade (GATT, the forerunner of the World Trade Organisation) to think about the public health and environmental implications of their proposals to liberalise trade in agricultural products. Big food manufacturers and traders, obviously, wanted to open up new markets. They saw environmental, health and cultural critics as small-minded protectionists, against progress. My colleagues and I took a different view. That what is meant by ‘progress’ is something to be debated. Progress for whom? At what cost?”
  • 19. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 19 Inizia una vera e propria battaglia per le food miles perpetrata attraverso la pubblicazione, con diversi team di scienziati del settore, di report sull’affidabilità di questo concetto come indicatore dell’impatto ambientale delle filiere logistiche e di sensibilizzazione in generale sul tema. Da un punto di vista strettamente scientifico dunque, lo studio più sostanzioso è stato condotto nel 2005 da un team di scienziati facenti riferimento al UK Department of Environment, Food & Rural Affairs (DEFRA) con lo scopo di individuare un indicatore capace di riassumere adeguatamente i termini e le cause dell’impatto ambientale legato all’approvvigionamento di risorse alimentari. Le conclusioni di questa ricerca si possono riassumere in quattro punti principali: 1. Si conclude che un singolo indicatore basato esclusivamente sui chilometri totali percorsi dal cibo risulta limitativo, l’impatto legato al trasporto è infatti un fenomeno complesso determinato dall’interagire di diverse variabili, per questo invece di un singolo indicatore risulta opportuno integrare l’analisi con un insieme di questi, capaci di interagire. 2. È stato possibile creare un database contenente, ad esempio, i fattori di emissione per segmento logistico e per tipologia di trasporto (che si suddivide principalmente in trasporto su gomma, su ferro, via mare e via aria), capace di aggiornare su base annua un insieme significativo di indicatori. 3. Il trasporto del cibo registra un significativo incremento, solo nel Regno Unito ad esempio arriva ad impiegare un quarto di tutti gli HGVs (heavy goods vehicles) circolanti, i quali risultano essere i mezzi più inquinanti della categoria di trasporto su gomma. I chilometri per tonnellata trasportata (t/vkm) percorsi sono aumentati del 36% dal 1991 al 2002 e in riferimento ai chilometri percorsi in ambito urbano (comprendenti anche agli spostamenti del consumatore) si registra per gli stessi anni un incremento del 27%. È stato rilevato inoltre che il metodo di trasporto merci condotto via aria risulta avere l’impatto maggiore in termini di emissioni di CO2. Esso contribuisce solo per lo 0.1% dei chilometri percorsi in totale, per il trasporto di cibo, mentre raggiunge l’11% per il contributo fornito alle emissioni totali ed ha avuto un incremento di impiego del
  • 20. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 20 140%. Il grafico in figura 4 mostra la percentuale di emissioni associate al metodo di trasporto, nel Regno Unito. HGV UK 33% HGV UK to overseas 12% HGV overseas 12% LGV UK 6% LGV overseas 2% Car 13% Rail 0% Sea 12% Air long haul 10% Air short haul 0% HGV UK 33% HGV UK to overseas 12% HGV overseas 12% LGV UK 6% LGV overseas 2% Car 13% Rail 0% Sea 12% Air long haul 10% Air short haul 0% Fig. 4, DEFRA, 2005 p31. 4. Il costo socio-economico derivante dall’inquinamento e dalla congestione del traffico è enorme ed è stato quantificato, con una metodologia che prende in considerazione un elevato numero di variabili (come inquinamento atmosferico, acustico, danni alle infrastrutture, incidenti, congestione del traffico ecc..), in 9 miliardi di sterline ogni anno. Le Food Miles hanno quindi una funzione molto importante negli studi volti a considerare l’impatto ambientale delle filiere di approvvigionamento, ma come abbiamo visto devono essere integrate da altri indicatori. I chilometri del cibo infatti risentono di alcuni effetti che distorcono e annullano l’effetto distanza, è il caso ad esempio dell’orticoltura intensiva, potrebbe infatti essere più conveniente in termini di dispendio energetico ed impatto ambientale, importare determinate tipologie di prodotti da paesi caldi a quelli freddi, piuttosto che coltivarli in territorio nazionale in serra. Uno studio
  • 21. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 21 svedese mostra infatti come il consumo di pomodori freschi provenienti dai paesi del sud Europa generi meno emissioni di gas serra del consumo dello stesso bene, prodotto localmente. Si evince infatti che il pomodoro coltivato in Svezia sotto serra abbia bisogno di circa 10 volte l’energia utilizzata per coltivarlo in un campo di uno stato mediterraneo (Carlssonn-Kanyama et al., 2003). Ancora, in un altro studio il “local is good” viene messo in discussione, analizzando la produzione di mele del regno unito stagionalmente e fuori stagione, si conclude che importando da paesi più caldi, prima che inizi in Gran Bretagna la stagione delle mele, faccia aumentare l’efficienza energetica e quindi riassorbire l’impatto ambientale ascrivibile al lungo trasporto (Milà i Canals et al., 2007). Si riscontra inoltre che la riduzione dei chilometri del cibo incrementerebbe il traffico locale generando conseguentemente sempre più frequenti congestioni, incidenti e le altre esternalità negative legate al traffico e come puntualizza Waye (2008), una mole di emissioni certamente maggiore rispetto ai lunghi trasporti oceanici, ad esempio, o comunque ai trasporti operati con veicoli con grande capacità di carico (load factor), capaci di diluire l’impatto per tonnellata trasportata. Anche dopo una breve introduzione dell’argomento appare chiaro come l’utilizzo di un indicatore capace di spiegare le dinamiche ambientali, sociali ed economiche di un fenomeno sia un lavoro complesso. Nel prossimo capitolo dedicato alla scelta metodologica, si cercherà di far luce sul problema esaminando alcuni risultati di importanti studi e nel contempo, saranno commentati la moltitudine di approcci operativi rilevati nei lavori onde giustificare l’approccio metodologico adottato per questa ricerca.
  • 22. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 22 2. ANALISI DELLA LETTERATURA Per introdurre l’approccio metodologico scelto per questo lavoro si reputa necessario prima di tutto avere una panoramica dei lavori svolti sull’argomento. Attraverso l’analisi della letteratura sarà possibile delineare gli obiettivi e gli scopi principali delle ricerche e stabilire quindi che linea operativa da adottare per perseguire i propri. 2.1 Panoramica degli studi sul genere In questo capitolo verranno presentati, in ordine cronologico, alcuni dei lavori più interessanti svolti sul tema del commercio di filiera corta (ciascuno ovviamente con un focus di ricerca diverso) e sul comportamento del consumatore, che hanno apportato un grande contributo agli studi in questo ambito. Nel 1998 viene pubblicato il lavoro di Hanley (et al.). “Contingent valuation versus choice experiments: estimating the benefits of environmentally sensitive areas in Scotland”. Lo studio si occupa di operare un’indagine attraverso il Contingent Valuation Method e il Choice Experimet per determinare la disponibilità a pagare (DAP o willingness to pay) del consumatore per tipologie di prodotti che ridurrebbero l’impatto ambientale in una Environmentally Sensitive Area (ESA) scozzese. Lo studio non è quindi esattamente incentrato sulle filiere commerciali alternative, ma comunque rappresenta uno dei primi studi nei quali vengono utilizzati strumenti sociologici ed econometrici per far luce sull’impatto ambientale. Sono quindi chiariti punti di forza e limiti del Contingent Valuation Method (CVM) e del Choice Experiment (CE), giungendo alla conclusione che il CVM può essere più utile per la determinazione di una policy generale, ma risente inevitabilmente delle distorsioni derivanti da dati particolari, mentre nel CE c’è la possibilità di disaggregare molti risultati e valori valutando singolarmente le caratteristiche fondamentali che compongono la policy. Le potenzialità dell’individuazione di una DAP in relazione a questi beni, sono enormi. Abbiamo già parlato di come studi sociologici abbiano rilevato come l’attributo “locale” giochi un ruolo chiave nella scelta del prodotto, interessanti strategie di business
  • 23. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 23 potrebbero essere quindi realizzate se supportate nella fase preliminare da studi come questo (Janssen, 2010; Gracia, 2012; Gracia, 2014; Kathryn A. Boys et al., 2014). Lo studio di Pretty (et al.), “Farm costs and food miles: An assessment of the full cost of the UK weekly food basket”, del 2005, si pone l’obiettivo di quantificare il costo totale dei prodotti contenuti in un box ideale (box schemes) nel regno unito, segmentando il percorso che il cibo percorre dal campo alla tavola. Viene adottata quindi una metodologia improntata su costo marginale: si quantificano i costi dell’inquinamento in base alle esternalità negative che si riflettono sul prodotto. Sulla base dei dati si giunge quindi alla conclusione che il consumatore dovrebbe pagare il 3% in più se tutti questi costi fossero cumulati nel prezzo finale del prodotto. Dallo studio appare anche come se il prodotto avesse origine entro un raggio di 20 km dal punto di consumo, i costi ambientali sarebbero ridotti del 90%, infine in linea con molti altri studi appare come il cosiddetto ultimo chilometro (lo spostamento del consumatore) incida pesantemente nel bilancio complessivo. L’articolo “The ecology of scale: assessment of regional energy turnover and comparison with global food” di Schlich (et al.) dello stesso anno, si pone come obiettivo la quantificazione del dispendio energetico relativo alle filiere distributive degli alimenti nel Regno Unito. Viene posta particolare attenzione nel confrontare l’impianto logistico delle piccole compagnie e di quelle, che invece, operano a livello globale. Sorprendentemente appare chiaro come l’efficienza energetica delle filiere logistiche sia direttamente proporzionale alla grandezza delle imprese, nello specifico risulta come una piccola/media impresa di trasporto (di frutta in questo caso) abbia un consumo di energia che oscilla tra 0,5 - 0,8 kWh/l (valore relativo al litro di prodotto trasportato), mentre a dispetto delle enormi distanze percorse, un’impresa di livello globale registra un consumo compreso tra 0,1 – 0,3 kWh/l. Non è comunque possibile generalizzare in quanto è stato registrato come anche piccole imprese riescano a competere con i colossi globali. I risultati di questo studio mettono quindi in luce un aspetto fondamentale del dispendio energetico legato al trasporto del cibo, quello della grandissima attenzione dedicata all’assetto logistico da parte delle organizzazioni di livello globale, supportata anche dall’enorme load factor dei veicoli impiegati, che consentono una forte diluizione dell’impatto per tonnellata trasportata. Lo studio di Schlich adotta in parte la linea operativa della valutazione del ciclo di vita del prodotto (life cycle assessment o LCA), che come definito dalla norma ISO4 14040 e 4 International Organization for Standardization.
  • 24. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 24 14044, che standardizzano la procedura a livello internazionale, si occupa di indagare come tutte le fasi di produzione del prodotto interagiscano con l’ambiente in termini di impoverimento delle risorse, qualità dell’ecosistema, salute umana ed anche impatti di carattere economico e sociale. Il Life Cycle Assessment viene dunque largamente utilizzato anche in questi campi della ricerca ed è sovente integrato con strumenti statistici, in altri studi ha messo in luce ad esempio come vi sia una scarsa correlazione fra i diversi sistemi agricoli (integrato o organico) e gli impatti ambientali indicati nella procedura, mentre risulta cruciale l’organizzazione che si da al sistema agricolo, nello specifico la scelta di destinare una certa parte degli input di produzione a fattori rilevanti sotto il punto di vista dell’impatto ambientale, come serre, pesticidi, fertilizzanti (Mouron et al, 2006). In altri studi ancora, determinando il dispendio energetico (quantificato in Mj/kg) per tutto il ciclo di produzione (coltivazione, stoccaggio, trasporto), si evince come esso risulti minore per prodotti non importati anche se non stagionali (Milà i Canals et al., 2007) e ancora, come la concezione filosofica positiva del local-food e l’utilizzo delle food miles, come indicatore chiave dell’impatto ambientale, possano essere fortemente riduttivi o addirittura errati (Ibidem). Va però ricordato che non è possibile standardizzare questa affermazione, che è valida per un determinato caso studio e può non esserlo affatto per un altro (Eduards-Jones et al., 2008). Altri autori hanno invece fatto delle food miles il cardine dei loro studi, integrando ovviamente con molti dei contributi forniti dalle ricerche LCA, come ad esempio l’attenzione sul dispendio energetico in fase di produzione e in fase di stoccaggio. Emerge come grandi ipermercati abbiano in proporzione un efficienza logistica ed energetica maggiore di centri più piccoli, che è però compensata in negativo dall’ultimo chilometro o spostamento del consumatore (Rizet et al., 2008). In altri casi ancora, l’individuazione della DAP correlata, in questo caso, alla minore emissione di CO2 ha evidenziato risultati interessanti. In uno studio condotto in Giappone realizzato con la metodologia del Real Choice Experiment emerge come essa aumenti con l’incremento della consapevolezza del consumatore nei confronti delle emissioni per le varie fasi produttive. Un altro risultato interessante riguarda la composizione del campione di indagine, un gruppo di giovani con un buon livello di istruzione saranno disposti a pagare di più (0,417 yen per la riduzione di un grammo di CO2) e ancor più volentieri di un campione generazionale diverso, per bassi livelli di emissioni totali associati ad un prodotto. È auspicabile in futuro infatti, che l’etichettatura dei generi alimentari (tutti e in tutto il mondo) mostri le informazioni relative all’impatto ambientale
  • 25. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 25 espresso in emissione di CO2 ovvero di dispendio energetico in modo da permettere la diffusione di una cultura del consumo consapevole, ma anche perché, come dimostrato, può essere economicamente profittevole (Aoki, 2009). Rimanendo sull’argomento, nell’indagine condotta da Jerome K. Vanclay (et al., 2011), su un paniere di beni eterogeneo venduti in un supermercato per un periodo di 3 mesi, si raggiungono conclusioni simili. Nello specifico si ottengono risultati statisticamente rilevanti solo quando il prodotto etichettato come migliore, in termini di “carbon footprint” è anche il più economico e registra infatti un incremento di vendite del 20%. Fig. 5 Eco-Label 5 , si possono notare il paese di provenienza e i chilometri percorsi. In un altro studio condotto in Italia (Caputo, 2012) nel campo dell’agroalimentare, attraverso l’utilizzo della metodologia dei modelli a scelta discreta, si giunge alla conclusione che il consumatore sarebbe fortemente interessato ad avere informazioni sul prodotto che riguardano principalmente i chilometri percorsi dal cibo e il suo tempo di percorrenza. Il 55% del campione intervistato sostiene infatti che lunghe distanze e tempi di percorrenza incidano negativamente sulla qualità e genuinità del prodotto, mentre circa un terzo associa alle grandi distanza effetti negativi in termini di emissioni di CO2. L’adozione di un sistema di etichettatura riportante informazioni sulle food miles potrebbe ridurre l’asimmetria informativa esistente su questo tipo di prodotti accrescendo l’utilità per una tipologia (sempre meno di nicchia) di consumatori consapevoli. Va detto comunque, che per assecondare queste nuove esigenze di 5 Fonte: http://www.treehugger.com/green-food/far-foods-food-mile-labeling-lays-on-guilt-trip.html
  • 26. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 26 qualità e sostenibilità, pur non mostrando food miles o l’ammontare di dispendio energetico, il tema dell’ecolabelling ha acquisito importanza, non solo per i classici beni alimentari, ma per tutta un’altra gamma di prodotti, rappresentando un valore aggiunto da sfoggiare sul mercato per spiccare sulla concorrenza. Ad esempio, in base al regolamento CE n. 66/2010, è stata creata una Eco Label che attesta il basso impatto ambientale dei prodotti nel loro intero ciclo di vita. Si riferisce ad un paniere ristretto di beni che non hanno a che fare con le risorse e i prodotti alimentari (detersivi, saponi, elettrodomestici ed apparecchiature elettroniche in generale, carta, accessori per la casa e per il giardinaggio, abbigliamento, servizi turistici e lubrificanti) e l’assegnazione di Eco Label ai prodotti italiani rappresenta più del 50% sul totale dei paesi europei (fig. 6). 9067 3839 1616 663 441 322 317 291 285 278 635 Italia Francia Regno Unito Paesi Bassi Spagna Svezia Germania Finlandia Danimarca Ungheria Altri 9067 3839 1616 663 441 322 317 291 285 278 635 Italia Francia Regno Unito Paesi Bassi Spagna Svezia Germania Finlandia Danimarca Ungheria Altri Fig.6, Numero di licenze EU Eco Label rilasciate per paese (Gennaio 2012) 6 In riferimento invece ad Eco Labels per prodotti alimentari, abbiamo tantissimi esempi di certificazioni7 , le quali godono di un buon indice di gradimento da parte dei consumatori, che percepiscono la cosa come un possibile aumento di utilità economica come già 6 Fonte: http://ec.europa.eu/environment/index_en.htm 7 Indice delle maggiori certificazioni di qualità e sostenibilità ambientale: http://www.ecolabelindex.com/ecolabels/?st=category,food
  • 27. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 27 detto, ma anche ambientale, etica e salutare (Erskine et al., 1997; Walter e Smidt, 2008; A.N. Sarkar, 2012; Bradu et al., 2014). La sovrabbondanza di informazioni o di marchi su un prodotto però possono generare confusione nel consumatore incidendo sulla volontà d’acquisto, come dimostrato nel report della Commissione Europea sull’ambiente del 2011, che comunque in generale concorda con la linea che sostiene gli effetti positivi dell’ecolabelling. Sarebbe auspicabile in futuro assistere ad una unificazione dell’etichettatura di questo tipo, stabilendo ad esempio standard ISO, come è stato fatto nel caso della metodologia LCA (Brady e Noble, 2008). Le filiere logistiche locali e il commercio a chilometro zero, che possono sembrare tematiche non troppo complesse in prima analisi, si rivelano dunque tanto più difficili da analizzare tanto più si allarga e si dettaglia il focus della ricerca. Il dibattito è più che mai aperto e sempre più articoli godono dei contributi non solo di esperti di logista ed impatto ambientale ma anche di economisti, sociologi e filosofi politici. È stata infatti applicata a queste tematiche un’interessante metodologia di ricerca (impiegata di solito per indagini di marketing e policy pubblica) capace di generare una sinergia tra gli studiosi esperti in diversi campi, utile a trarre conclusioni sulla domanda di ricerca che ci si pone, è il caso del Delphi Method. Attraverso la consultazione di un “panel” di esperti, passando per varie fasi dette “round”, si cerca di far convergere le opinioni verso una singola conclusione. Uno dei primi studi condotti in questo modo sull’argomento dell’agroalimentare è italiano a cura dei professori dell’università Alma Mater Studiorum di Bologna, Claudia Bazzani e Maurizio Canavari. Nell’articolo del 2013 “Forecasting a scenario of the fresh tomato market in Italy and in Germany using the Delphi method”, è svolta una ricerca qualitativa sul mercato del pomodoro fresco in Italia e in Germania ed anche in questo caso si conclude che esso può essere fortemente influenzato da certificazioni di qualità e tipicità sul prodotto. Esistono diversi tipi di approcci metodologici allo studio delle filiere agroalimentari alternative e come si può evincere da questa breve analisi della letteratura ognuna è mirata allo studio di uno specifico fenomeno qualitativo o quantitativo. A questo punto è evidente come l’individuazione di un area di ricerca precisa possa risultare cruciale per il conseguimento degli obiettivi e può generare a volte risultati interessanti. Nel caso di Marletto e Sillig (2014) si è rilevata una maggiore efficienza in termini di impatti ambientali, ascrivibili alle tonnellate di output trasportate, di una media impresa rispetto ad una di livello nazionale. In altri, ad esempio, lo studio di due mercati contadini, uno in
  • 28. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 28 ambito urbano ed uno in periferia mostra come il farmers’ market cittadino abbia una performance ambientale migliore, perché abbatte i tempi di viaggio (Mundler et al., 2012). Il focus di ricerca scelto per uno studio è definito caso di studio (case study) e prima di parlare di quello relativo a questa ricerca è opportuno definirne, nel prossimo capitolo, l’impianto teorico.
  • 29. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 29 3. METODOLOGIA Questa ricerca si pone come obiettivo la quantificazione dell’impatto ambientale di due fenomeni simili, ma strutturalmente diversi: il commercio di filiera corta e quello tradizionale di un supermercato. Come abbiamo visto, vi sono caratteristiche particolari che contraddistinguono entrambi i casi e sicuramente la variabile logistica spicca per importanza. Per questo motivo, dopo un’analisi letteraria è stata tratta maggiore ispirazione dallo studio svolto dai prof. Gerardo Marletto e Cécile Sillig. Nel loro articolo del 2014 “Environmental impact of Italian canned tomato logistics: national vs. regional supply chains”, vengono prese in analisi le filiere relative alla distribuzione del pomodoro in scatola di due diverse aziende produttrici, una che opera a livello nazionale (CIRIO) e l’altra circoscritta alla sola Sardegna (CASAR). In questo studio sono dettagliatamente analizzati tutti i segmenti della produzione, dalla raccolta alla trasformazione infine alla tavola e si giunge alla conclusione che l’organizzazione logistica del brand di livello nazionale sia meno efficiente di quella del produttore regionale. Nello specifico si è osservato come le grandi distanze percorse non siano assorbite dal maggiore load factor e da un ben strutturato impianto logistico, diversamente dal produttore regionale, che risulta più organizzato sotto questo punto di vista e conta molti punti vendita che possono essere raggiunti a piedi dal consumatore, abbattendo così l’effetto negativo derivante dall’”ultimo chilometro”. Anche in questo studio emerge infine come il reperimento dei prodotti da parte del consumatore incida enormemente sull’ammontare di CO2 totale emessa, se si utilizza l’automobile. Adattando questa struttura metodologica al presente lavoro è stato possibile anche in questo caso suddividere le filiere distributive in segmenti logistici per poi calcolarne i singoli impatti, distinguendo per stili di guida diversi 8 ed utilizzando lo stesso indicatore usato in Marletto e Sillig. Per calcolare un impatto ambientale è essenziale definire le qualità dell’indicatore da sfruttare in base agli obiettivi da perseguire, essendo il focus della ricerca indirizzato appunto al peso ambientale delle filiere, ho scelto l’emissione di CO2/km per tonnellata di prodotto trasportata, in modo da poter attribuire l’impatto direttamente ai beni di riferimento in relazione ovviamente ai chilometri percorsi per il loro trasporto. Nelle questioni ambientali l’indicatore principalmente usato sono le 8 Cfr. fig 14, cap. 4
  • 30. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 30 emissioni di CO2, considerato il principale responsabile del surriscaldamento globale. Per quanto riguarda il livello di impatto sulla salute umana invece viene spesso utilizzato (come anche in Marletto e Sillig) l’indicatore generico PM10: ovvero Materia Particolata dal diametro aerodinamico inferiore o uguale a 10 millesimi di millimetro, più il particolato è sottile, più risulta nocivo (il PM1 arriva a danneggiare fino agli alveoli polmonari). Occupandosi solo della quantificazione dell’impatto che incide sull’ambiente, comunque, questa ricerca difetta purtroppo di un approfondimento sulla relazione che intercorre fra trasporti e impatto sulla salute umana. Per la parte relativa all’ultimo chilometro, oltre all’elaborazione dei dati reali, ho ipotizzato diversi scenari in cui il consumatore seguisse un certo comportamento, per avere come in Marletto e Sillig, un quadro finale completo delle interazioni fra le variabili principali. 3.1 Case Study Research La ricerca tramite caso di studio è un’indagine empirica volta ad investigare un fenomeno contemporaneo all’interno del suo contesto di riferimento per definirne le dinamiche, le caratteristiche fondamentali e le interazioni con il contesto stesso (Yin, 1984). È una metodologia sfruttata in diverse aree della scienza e trova particolare impiego nelle scienze sociali. Un panel di esperti del settore (R. E. Stake, H. Simons, R. K. Yin) hanno elaborato le fasi di elaborazione ed impostazione della ricerca del Case Study in questo modo: I. Determinazione e definizione dei quesiti di ricerca II. Selezione dei casi e determinazione della raccolta dei dati e delle tecniche di analisi III. Preparazione alla raccolta dei dati IV. Raccolta dei dati sul campo V. Valutazione e analisi dei dati VI. Preparazione della relazione Come si può vedere dai punti chiave, la case study research presenta un impianto teorico facilmente assimilabile da diverse discipline per i più diversi scopi, rendendola una strategia di ricerca fra le più versatili e può essere integrata indifferentemente dalla
  • 31. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 31 raccolta di dati qualitativi e quantitativi, a seconda dell’obiettivo di ricerca che ci si pone (Yin, 1984). Le critiche poste a questo modello riguardano principalmente il numero di casi studio da prendere in esame, si ritiene infatti che considerandone un piccolo numero si potrebbero ottenere risultati non rappresentativi di un fenomeno e se al contrario se ne analizzassero troppi, si registrerebbero risultati distortivi, giungendo a conclusioni inesatte (Ibidem). È pur vero che se nelle ricerche che indagano su questioni sociologiche, la numerosità del campione di riferimento gioca un ruolo fondamentale, come attesta l’esistenza di tantissimi modelli statistici sull’indagine campionaria, potrebbe non essere necessariamente vero per indagini ambientali relative ad un contesto preciso. Questo non vuol dire però che i risultati di questa ricerca vadano considerati come attendibili in generale, la scelta di confrontare un solo mercato contadino ed un solo supermercato infatti annulla il criterio di rappresentatività (su scala generale), che vi sarebbe in un campione più esteso. Però, guardando al solo ambito dei castelli romani, la ricerca fornisce un’interessante panoramica rispetto ai movimenti delle filiere dei mercati e dei supermercati. La collocazione dei mercati e dei supermercati ai castelli segue infatti schemi abbastanza ricorrenti, rispetto ai primi lo schema è ancor più preciso in quanto sul territorio vi è una sola (o per lo meno la più grande ed attiva) organizzazione che si occupa di organizzare questi mercati, i quali (principalmente per ragioni di visibilità) vengono collocati nella quasi totalità dei casi all’interno o al di poco fuori dal centro abitato. Per i supermercati (di medie dimensioni) il posizionamento avviene nella maggior parte dei casi appena fuori il centro abitato e sorgono su strade ad alta intensità di scorrimento. Per questi motivi quindi questa ricerca, se non rappresentativa a livello generale, può esserlo segnatamente al contesto dei castelli romani.
  • 32. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 32 3.1.1 Il mercato contadino dei Castelli Romani Il mercato contadino dei Castelli Romani si evolve da un gruppo di acquisto solidale (GAS), nato per volontà di un gruppo di consumatori di valorizzare e tutelare le tradizioni contadine dei castelli romani, che abbraccia e fa propria la teoria dello “slow food” per il consumo consapevole di prodotti buoni, puliti e giusti. I castelli romani sono un territorio a sud di Roma che comprende le città di Frascati, Monte Porzio Catone, Monte Compatri, Rocca Priora, Grottaferrata, Rocca di Papa, Marino, Castel Gandolfo, Albano, Ariccia, Genzano, Nemi, Lanuvio, Velletri e Lariano. Fig. 11 Illustrazione panoramica dei Castelli Romani 9 . In questi paesi vi è una radicata identità culturale, forte di una tradizione secolare ed il rapporto con il prodotto tipico e locale è ancora molto considerato e motivo di orgoglio. Purtroppo negli ultimi anni molte aziende tradizionali sono scomparse e tante altre stanno scomparendo a causa dello scarso interesse della nuova generazione di investire in un settore dominato dalla competizione dei colossi della produzione a basso 9 Fonte: http://www.parcocastelliromani.it/
  • 33. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 33 costo. Così un gruppo di consumatori decide di unirsi in un gruppo d’acquisto, realmente solidale nella sostanza in quanto il motivo non era ascrivibile alla ricerca di una facilitazione economica nella compera all’ingrosso (come si è visto in altri casi), ma unicamente volto alla tutela delle aziende tradizionali e al reperimento di prodotti genuini, freschi e a basso impatto ambientale. Nel 2011 il GAS si trasforma nel primo Farmers’ Market dei castelli romani, sotto l’associazione “km0”, inserita nel circuito “Coltivendo” iniziativa della provincia di Roma. L’idea di valorizzare le aziende agroalimentari tradizionali riscuote da subito un grande successo e il mercato contadino arriva a contare ad oggi circa cento aziende collaboratrici. In soli tre anni l’associazione, per soddisfare i grandi volumi di richieste, sia da parte dei produttori sia dei consumatori, si è estesa molto, arrivando a organizzare mercati contadini nelle città di Ariccia, Albano (prossimamente anche Genzano), Rocca di Papa, Grottaferrata, Frascati, Pavona ed anche a Roma nella zona di Capannelle. L’organizzazione di questi mercati persegue il principio della stagionalità del prodotto generando una continua rotazione fra gli espositori del mercato i quali sono per altro soggetti a controlli qualitativi scadenzati ad opera di Agrivol in collaborazione con il ministero delle politiche agricole alimentari e forestali. Oggi per assecondare le richieste di visibilità, l’associazione km0 si avvale dell’aiuto delle amministrazioni locali per esortare il pubblico e le aziende locali a partecipare ai mercati, inoltre è in previsione l’installazione di nuovi mercati soprattutto in zone residenziali e centri storici di alcuni paesi per abbattere il contributo negativo dell’ultimo chilometro.
  • 34. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 34 Fig. 12, Mercato contadino di Monte Gentile, Ariccia. 10 Questo studio si focalizza sul Farmers’ Market di Monte Gentile ad Ariccia, che ricorre tre volte la settimana, nel quale ho effettuato rilevazioni sull’azienda ortofrutticola a conduzione familiare “Massimo Mancini” di Lanuvio e sugli spostamenti del consumatore. Sono principalmente due le ragioni che mi hanno spinto a considerare questo mercato in particolare, la prima è che essendo uno dei primi ad essere stato sperimentato, ha raggiunto ormai una grande visibilità (specialmente nei paesi limitrofi), qualità questa che mi ha permesso di ottenere un campione di consumatori abbastanza eterogeneo e rappresentativo di un’area che trascende la sola Ariccia. In secondo luogo, trovandosi a poco più di un chilometro (1,6 km) dal centro abitato non è quasi mai raggiunto a piedi e questo mi ha permesso di quantificare meglio l’impatto del consumatore che si sposta in automobile. Il periodo considerato è quello della prima settimana di Agosto 2014, in questa settimana gli espositori di ortofrutta del mercato contadino erano distribuiti geograficamente in modo eterogeneo. Si potevano osservare infatti alcuni produttori provenienti dalla fertile vallata vulcanica che si apre ai piedi della stessa Ariccia, come produttori provenienti da ben più lontano come Velletri, Lariano, Monte Compatri o Frascati. Fissando quindi una fascia di distanza intermedia è stata scelta l’azienda agricola a conduzione familiare “Massimo Mancini”, distante dal mercato 9,5 km, inoltre grazie ai buoni volumi di vendita è stato possibile considerare il viaggio di ritorno a carico vuoto. L’individuazione del produttore “tipo”, rappresentativo 10 Fonte: mio.
  • 35. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 35 dell’intera popolazione del caso di studio è stato un passaggio importante e fortunatamente, viste le direttive degli organizzatori del mercato contadino, che impongono agli espositori la vendita di prodotti ortofrutticoli di stagione, ho potuto rilevare un paniere di beni in vendita pressoché identico in ogni banco. Un ulteriore semplificazione è derivata dal fatto che nelle rilevazioni è emerso come la tipologia di mezzo impiegato nel trasporto fosse omogenea (LCV, diesel < 3,5t), in primo luogo perché il punto di vendita (parcheggio di un centro sportivo) è troppo piccolo per potervi accedere con veicoli più grandi di un camioncino e in secondo luogo perché i volumi di vendita non giustificherebbero un trasporto, nella maggior parte dei casi, maggiore di 4 quintali di merce.
  • 36. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 36 3.1.2 CONAD, Genzano di Roma Fig. 13, CONAD Genzano di Roma, esterno. 11 Il secondo caso di studio di questa ricerca è un supermercato CONAD. Questa azienda è una cooperativa di associazioni (7 in tutto il territorio nazionale) che si occupano di rifornire i mercati finali. Pac2000 è quella che fa riferimento alle regioni Umbria, Lazio, Campania e Calabria. Il centro di distribuzione regionale (RDC) per il Lazio è nella località di Fiano Romano a 35 chilometri da Roma. Il sistema di approvvigionamento del supermercato finale è piuttosto efficiente, non effettuando magazzino si lavora solo sul venduto, richiedendo in base alle necessità la merce al RDC che elabora l’ordine il giorno stesso, completandolo nella prima mattina del giorno successivo. In casi di necessità improvvisa vengono garantite consegne espresse, e le tipologie di veicoli impiegati variano in relazione al tonnellaggio da trasportare. Per quanto concerne il reparto ortofrutticolo il supermercato preso in analisi effettua ordini giornalieri, è rifornito da una compagnia specializzata nell’approvvigionamento ortofrutticolo nel RDC di Fiano Romano (CEDOF), che oltre ad elaborare i diversi ordini si occupa di far rispettare i rigidi standard qualitativi richiesti da Pac2000 per conto di CONAD. Nel supermercato di Genzano di Roma si può apprezzare nel reparto ortofrutta un’area dedicata alla vendita prodotti stagionali, in ogni caso però per soddisfare un tipo di domanda eterogenea si trovano numerosi tipi di prodotti (come arance, mandarini) che 11 Fonte: http://win.telecountrynews.it/CONAD.htm
  • 37. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 37 sarebbero impossibili da reperire nella stagione estiva (momento in cui è stata condotta la ricerca) o addirittura esotici (noce di cocco, ananas, mango, avocado). Lo studio della filiera logistica in questo caso si è focalizzato solo sul paniere di beni stagionali, reperiti da CEDOF in Italia, per aver le stesse basi di confronto nella quantificazione delle food miles del supermercato con quelle del mercato contadino (nello specifico: melanzane tonde/viola/striate/lunghe, zucchine verdi/romanesche, pomodoro verde tondo/oblungo, pomodoro rosso tondo/oblungo, pomodoro cuore di bue, pomodorini, pesche, albicocche, meloni) Ho deciso di analizzare questo supermercato non solo perché presenta pochi e organizzati segmenti logistici, ma anche perché la distanza dal primo centro abitato è simile a quella del mercato contadino (1,9 km), caratteristica utile per il confronto.
  • 38. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 38 4. RISULTATI Nell’analisi delle filiere logistiche verrà utilizzato, come già accennato, un approccio simile a quello adottato nello studio di Marletto e Sillig. Tuttavia risulta difficile operare un confronto, in quanto il livello di dettaglio in cui scende questa ricerca non è paragonabile a quello dello studio a cui si ispira o ad altri, simili negli obiettivi. Nello specifico questa indagine difetta di una quantificazione di dispendio energetico e di emissioni di agenti inquinanti a monte, cioè nella fase iniziale della produzione dei beni (dalla coltivazione al packaging), e non tiene conto inoltre dell’orario in cui si effettuano le consegne, altra variabile che potrebbe incidere sull’impatto ambientale in modi diversi se esse si effettuano di notte o nella prima mattinata piuttosto che nell’ora di punta, o al fatto che il trasporto tramite veicoli refrigerati genera dispendio energetico (Marletto e Sillig, 2014). Segnatamente ad altri studi questa ricerca avverte la mancanza di indagini qualitative che potrebbero arricchire l’indagine quantitativa sulle emissioni fornendo interessanti strategie di mercato o di marketing (Aoki, 2009; Caputo, 2012). Personalmente considero le lacune della mia ricerca una causa fisiologica della scarsa esperienza su un argomento così vasto e complesso ed esse sono lo stimolo per una futura ricerca più dettagliata. I risultati ottenuti dovranno quindi essere referenziati all’area geografica analizzata e riferiti al segmento finale delle filiere agroalimentari: la distribuzione. Per quantificare l’impatto ambientale mi sono affidato all’indicatore gCO2/km per tonnellata trasportata12 che indica il quantitativo di emissioni di CO2 per tonnellata di prodotto trasportata in relazione ai chilometri percorsi. Per gli specifici fattori di emissione mi sono affidato alla banca dati del Sistema Informativo Nazionale Ambientale (SINAnet), facente riferimento all’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA13 ). Ho potuto quindi sfruttare un database aggiornato (al 12 I dati SINANET forniscono valori di emissioni per veicolo (gCO2/v-km), la formula utilizzata per ottenere i dati di interesse è stata: Distanza * N.Veicoli/Tonnellate nette di ortofrutta trasportate * fattore di emissione gCO2/v-km (Marletto, 2014) 13 L’archivio è consultabile al link: http://www.sinanet.isprambiente.it/it/sia-ispra/fetransp/ ed è possibile avere chiarimenti sulla nomenclatura utilizzata al link: http://www.sinanet.isprambiente.it/it/sia- ispra/fetransp/note-esplicative/at_download/file
  • 39. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 39 2013) e dettagliato14 , tanto da poter distinguere i cicli di guida in urbano, extraurbano o autostradale. Fig. 14, Dati SINAnet 2013, relativi a Light Commercial Vehicles, Hig Commercial Vehicles (rigidi ed autoarticolati) e Passenger Car, per cicli di guida Urbano, Extraurbano, Autostradale e Totale (ovvero una media ponderata dei tre, per i casi di incertezza). 3.1 Le filiere dei produttori In questo paragrafo verranno quantificati gli impatti ambientali delle filiere distributive dei produttori del Mercato Contadino e del supermercato. Ricostruendo a monte la catena di approvvigionamento del supermercato si sono delineati due segmenti principali, il primo è quello che parte dal produttore per arrivare al centro regionale di distribuzione di Fiano Romano, il secondo è quello che dal CRD arriva al supermercato finale. Nella settimana considerata nell’indagine è stato registrato, relativamente al primo segmento, un volume di 9,5 tonnellate15 di prodotti ortofrutticoli trasportati al centro di 14 Le stime sono state elaborate sulla base dei dati di input italiani riguardanti il parco e la circolazione dei veicoli (numerosità del parco, percorrenze e consumi medi, velocità per categoria veicolare), ed è possibile scegliere il fattore di emissione su cui focalizzarsi da una dettagliata lista. Impatto per ciclo di guida Tipologia Veicolo gCO2/v-km U gCO2/v-km E gCO2/v-km A gCO2/v- km T LCV Diesel, <3,5t 348,734 200,469 337,338 264,908949 HCV Rigid, 14 - 20 t 1011,046 612,799 575,35 632,026549 HCV Art, 20 - 38 t 1.198,17 720,30 648,78 725,177373 Pass. Car, Dies. 1.4 - 2.0 l 274,701 142,557 191,194 176,969552
  • 40. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 40 distribuzione. Il produttore si è avvalso per il trasporto di una motrice refrigerata con una capacità di 18t, percorrendo in totale una distanza di 95 chilometri su tratto autostradale. Il veicolo utilizzato registra segnatamente al ciclo di guida autostradale una quantità di emissioni pari a 575,350 gCO2/v-km, ma grazie alla grande capacità di carico il valore relativo all’impatto per tonnellata netta scende a 60,563 gCO2, facendo registrare in questo primo segmento un totale di 11,507 kgCO216 , che come vedremo incidono solo per l’ 8% sul totale della filiera. Nella stessa settimana, le rilevazioni sul secondo segmento distributivo hanno quantificato un totale di 283 kg di merce trasportata giornalmente da CEDOF al supermercato di Genzano. Questo trasporto giornaliero avviene per mezzo di un auto articolato refrigerato da 22,5t il quale genera un quantitativo di emissioni pari a 720,302 gCO2/v-km per il ciclo di guida extraurbano e 648,782 gCO2/v-km per quello autostradale. Il calcolo di questo segmento è stato più complicato rispetto agli altri in quanto il mezzo di riferimento viene sfruttato anche dagli altri reparti del CDR di Fiano Romano, consegnando oltre che ortofrutta, anche pesce fresco e carne. Nel grafico in figura 15 possiamo vedere nello specifico la distribuzione del carico nella settimana considerata. 15 Valore riferito ad un paniere di prodotti ortofrutticoli stagionali quali: melanzane tonde/viola/striate/lunghe, zucchine verdi/romanesche, pomodoro verde tondo/oblungo, pomodoro rosso oblungo, pomodoro cuore di bue, pesche, susine, albicocche, angurie, meloni. 16 I valori finali sono ottenuti calcolando il prodotto tra il valore gCO2 e il doppio della distanza, in chilometri, percorsa. Viene considerata la doppia distanza in quanto si tiene conto del viaggio di ritorno a carico vuoto. Non viene inoltre usata la specifica dicitura t-km per l’impatto filane per motivi di chiarezza, in quanto tale dicitura viene adoperata per il carico massimo possibile e non quello effettivo come in questo caso.
  • 41. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 41 Distribuzione del Carico 0,283 16% 0,265 15% 1,260 69% t quotidiane di Ortofrutta t quotidiane di Pesce t quotidiane di Carne Distribuzione del Carico 0,283 16% 0,265 15% 1,260 69% t quotidiane di Ortofrutta t quotidiane di Pesce t quotidiane di Carne Fig. 15 Mia elaborazione. Conoscendo nello specifico il carico è stato possibile ponderare il totale dell’impatto (ottenuto considerando il totale del carico e la distanza complessiva di 67 km percorsa dall’autoarticolato) per la quota di ortofrutta trasportata ottenendo un emissione, per 0,283 tonnellate di output, di 7,932 kgCO2, valore che incide sul totale della filiera per il 5,5%. Le indagini sul produttore del Farmers’ Market hanno individuato, come ci si poteva aspettare, un solo segmento principale, quello che dall’azienda agricola porta direttamente al mercato. Il produttore in questo caso si avvale di un LCV da 3,5 t il quale è più che necessario per soddisfare la domanda giornaliera che ammonta a 4 quintali di merce, ma come già accennato la ridotta capacità di carico e quindi lo scarso volume trasportato è il punto debole di questa catena distributiva. Percorrendo infatti una distanza di 9,5 km in ambito urbano (dall’azienda al mercato), con un veicolo che emette 348,734 gCO2/v-km, il totale di emissioni per tonnellata di output è di 16,565 kgCO2, il 69,47% in più del segmento Produttore – CRD, caratterizzato da una distanza dieci volte maggiore. Tuttavia questo risultato non è affatto eclatante, per le ragioni già spiegate, e sul totale di impatto della filiera corta rappresenta solamente il 7,64%. Più avanti vedremo come in più scenari che ipotizzano comportamenti diversi del consumatore, a parità di condizioni, i risultati possano essere ribaltati.
  • 42. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 42 3.2 Il contributo dell’ultimo chilometro Nella fase relativa all’indagine sugli spostamenti del consumatore, le ricerche sono state finalizzate all’individuazione della distanza media percorsa per raggiungere il punto vendita dalla propria abitazione e la tipologia di veicolo impiegato. In altri studi relativamente a questa fase sono stati proposti ad esempio questionari online volti a stimare tipologia di veicolo, distanza, tipo di acquisto e motivo di spostamento. Relativamente all’ultima variabile, per definire precisamente quanta parte dell’impatto ambientale è ascrivibile all’acquisto, occorre sapere se lo spostamento avviene unicamente per la compera o è parte di un giro più lungo (Rizet et al., 2008). In un altro caso, volto a chiarire attraverso un’indagine trasversale17 il motivo che spinge il consumatore a rifornirsi da filiere alternative e locali, in Francia e nel Regno Unito, sono stati inviati questionari per posta ad alcuni campioni di consumatori che aderissero ad iniziative di Box Schemes (Brown et al., 2009). In questa ricerca sono state intervistate 100 persone acquirenti di prodotti ortofrutticoli, per entrambi i casi di studio, alle quali sono state sottoposte le domande circa: • Distanza percorsa in chilometri dall’abitazione al punto vendita. • Metodo di spostamento (a piedi/bicicletta, trasporto pubblico18 , vettura privata) • Nel caso dello spostamento in macchina è stato domandato di specificarne alimentazione e cilindrata. Queste rilevazioni sono state fatte in prima persona, era infatti essenziale intervistare un campione di persone che stesse comperando o avesse intenzione di acquistare prodotti ortofrutticoli, inoltre data la tipologia di informazioni richieste (piuttosto tecniche) spesso si destava negli avventori curiosità o addirittura diffidenza, che era presto fugata dalle mie spiegazioni. Si è creato velocemente (soprattutto nel mercato contadino) un rapporto informale tra me e gli avventori, che sempre più incuriositi venivano ad offrire il loro contributo spontaneamente ed in questo diverso clima ho potuto carpire informazioni specifiche anche sul carico di spesa. È stato infatti importante quantificare 17 Per approfondire sulla metodologia Cross-Section, Brady et al., 2008. 18 Relativamente a questa voce è stato specificato autobus, navetta, treno, metropolitana, ma in entrambi i campioni non si è ottenuto nemmeno un riscontro.
  • 43. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 43 il carico medio del consumatore tipo, in modo da poter stimare anche per l’ultimo chilometro l’impatto di CO2 emessa per tonnellata trasportata. Dalle interviste è stato quindi stimato un carico pari a 10,28 kg19 di spesa in ortofrutta, valore che è stato adottato per il consumatore di entrambe le filiere. Entrando nello specifico del mercato contadino, la distribuzione della distanza percorsa dal consumatore (mostrata in fig. 16), ha registrato frequenze più alte per le zone di provenienza limitrofe al mercato (fascia 0-2 km), diminuendo progressivamente con l’aumentare della distanza, registrando però un nuovo picco nell’ultima classe 20 (10+ km). 0 5 10 15 20 25 30 35 40 (0-2) (2-4) (4-6) (6-8) (8-10) (10+) 0 5 10 15 20 25 30 35 40 (0-2) (2-4) (4-6) (6-8) (8-10) (10+) Fig. 16, Distribuzione del consumatore per classe di distanza, mia elaborazione. La distanza media percorsa è quindi risultata pari a 5,87 km ed il veicolo “tipo” è risultato un’automobile diesel di 1,4 l di cilindrata. Per determinare un veicolo standard mi sono affidato alla distribuzione dei consumatori arrivati in macchina, calcolando una media ponderata per le cilindrate e considerando la distribuzione di frequenza, invece, per le alimentazioni. In fig 17 troviamo il grafico relativo al metodo di raggiungimento e all’alimentazione nel caso della vettura privata, da questo si evince come la maggior parte (93%) degli intervistati utilizzi per gli spostamenti la propria macchina e solo il 4% invece raggiunge il mercato a piedi. Il Mercato Contadino è infatti sicuramente troppo 19 Quantità riferita ad una spesa settimanale. 20 Relativamente alla classe (10+) è stata stabilita una distanza di 29,55 km, calcolando la media ponderata della distribuzione degli undici avventori provenienti da più di 10 km di distanza.
  • 44. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 44 distante (1,6 km) dalla città di Ariccia per essere raggiunto a piedi e sicuramente la bassa percentuale di avventori che si spostano in questo modo è spiegata da questa variabile. Bisogna comunque considerare che il mercato sorge anche nelle immediate vicinanze di un centro residenziale di medie dimensioni (circa 500 famiglie) e che quindi non sarebbe un problema effettuare lo shopping a piedi per molti dei consumatori. Dalle interviste emerge però la tendenza ad effettuare in un’unica spesa l’approvvigionamento ortofrutticolo settimanale, caratteristica probabilmente anche legata al fatto che il farmers’ market di riferimento non è giornaliero, bensì ricorre solo tre volte la settimana21 . Queste rilevazioni sono in linea comunque, con il quantitativo di carico stimato mediamente per il consumatore (10,28 kg), che quindi è spinto a percorrere in macchina anche distanze molto inferiori al chilometro. 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 A piedi/bicicletta Motorino 50cc Moto 100cc Vettura privata Diesel Benzina GPL Metano Ibrida 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 A piedi/bicicletta Motorino 50cc Moto 100cc Vettura privata Diesel Benzina GPL Metano Ibrida Fig. 17 Metodo di raggiungimento del consumatore, mia elaborazione. Il veicolo utilizzato dall’avventore ideale registra quindi un impatto pari a 176,970 gCO2/v-km, valore sicuramente inferiore a quelli generati dai veicoli dei produttori visti in precedenza, ma il carico estremamente ridotto e la distanza piuttosto elevata (5,82 km) da percorrere portano ad un totale di 200,382 kgCO2 per tonnellata di output, che sommati a quelli del segmento del produttore portano a 216,947 kgCO2 per l’intera filiera. È il segmento meno efficiente in assoluto ed in questo caso specifico arriva ad incidere per il 92,36% sull’ammontare totale di emissioni registrate per questa filiera. 21 Un appuntamento infrasettimanale il mercoledì, e nel fine settimana il sabato e la domenica.
  • 45. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 45 Impatto per segmento - Mercato 7,64% 92,36% Produttore - Mercato Consumatore Impatto per segmento - Mercato 7,64% 92,36% Produttore - Mercato Consumatore Fig. 18 Mia elaborazione. Nel caso del supermercato Conad è stata rilevata una distribuzione di provenienza che rispecchia lo standard di scelta del consumatore medio, che si muove alla ricerca di un supermercato rispettando criteri di vicinanza (oltre che chiaramente economici) 0 5 10 15 20 25 30 35 40 (0-2) (2-4) (4-6) (6-8) (8-10) (10+) 0 5 10 15 20 25 30 35 40 (0-2) (2-4) (4-6) (6-8) (8-10) (10+) Fig. 19 Mia elaborazione. In fig. 19 il grafico mostra quindi le fasce di provenienza del campione di 100 consumatori intervistati. Nel contesto del supermercato, ho incontrato, come prevedibile, più difficoltà nello svolgere le mie interviste, che purtroppo non si sono potute dilungare troppo costringendomi a carpire solamente le informazioni standard richieste per la stima del consumatore medio. Ai clienti provenienti dai 6 chilometri in su
  • 46. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 46 (i quali rappresentano il 19% della distribuzione), ho però domandato cosa li spingesse a coprire una tale distanza per fare la spesa, e le ragioni addotte si riferiscono principalmente alla grande varietà di prodotti reperibili22 in quel supermercato specifico e alla fiducia nella qualità del marchio Conad. La media delle distanze percorse dai consumatori è comunque inferiore a quella del mercato contadino, arrivando a 3,62 km. Segnatamente al metodo di raggiungimento del centro è stato rilevato il 99%23 dei consumatori arrivati in macchina ed in nessun caso è stato invece raggiunto a piedi. Nonostante il supermercato sia frequentato anche da consumatori che non fanno spese per rifornirsi per l’intera settimana e quindi potrebbe essere raggiunto agevolmente a piedi da tale tipologia, la distanza di 1,9 chilometri scoraggia questi clienti imponendo uno spostamento in macchina. Il veicolo standard è risultato uguale a quello rilevato nel mercato contadino (diesel 1.4 l), ed il carico è stato assunto lo stesso per entrambe le filiere (10,28 kg). In questo modo il totale di emissioni dell’ultimo chilometro relativo al consumatore del supermercato è risultato pari a 124,636 kgCO2, che sommato ai segmenti dei produttori, arriva ad un totale di 144,075 kgCO2, incidendo per l’ 86,5% sull’insieme della filiera. Impatto per segmento - Supermercato 8,0% 5,5% 86,5% Produttore - CRD CRD - Supermercato Consumatore Impatto per segmento - Supermercato 8,0% 5,5% 86,5% Produttore - CRD CRD - Supermercato Consumatore Fig. 20 Mia elaborazione 22 Bisogna tener presente che nella zona dei Landi (frazione di Genzano) o nelle campagne a nord della città di Velletri, questo punto vendita rappresenta il primo vero grande supermercato che si trova nelle loro vicinanze, nel quale poter trovare tipologie di prodotti più sofisticate rispetto all’ alimentari sotto casa. 23 In un solo caso abbiamo uno spostamento con un quadri ciclo 50 cc.
  • 47. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 47 4. CONCLUSIONI Sulla base dei dati raccolti possiamo concludere che in questo caso la catena distributiva del farmers’ market generi risultati inferiori in termini di efficienza di impatto ambientale. Distribuzione degli impatti 0 20 40 60 80 100 120 140 160 180 200 220 240 Mercato contadino Supermercato kgCO2/t Produttore CRD Consumatore Distribuzione degli impatti 0 20 40 60 80 100 120 140 160 180 200 220 240 Mercato contadino Supermercato kgCO2/t Produttore CRD Consumatore Fig. 21 Mia elaborazione. Nel grafico in fig. 21 sono riportate entrambe le filiere dettagliate per segmento logistico, dal quale si può evincere come l’efficienza della catena distributiva del mercato contadino sia penalizzata dal segmento dell’ultimo chilometro. Coerentemente con altri studi, infatti, lo spostamento del consumatore rappresenta una parte fondamentale dell’impatto sul totale della filiera (Rizet et al., 2008; Coley et al., 2009; Mundler et al., 2012; Marletto e Sillig, 2014). Guardando alle emissioni relative agli spostamenti dei produttori, possiamo vedere da un lato come la filiera industriale, dotata di mezzi dall’elevata capacità di carico, assorba, grazie a questa qualità, gli impatti delle relativamente lunghe distanze. Dall’altro come, nonostante il contadino-espositore si sposti con veicoli leggeri ma a bassa capacità di carico, assorba anche egli questo difetto grazie al ridotto tragitto. Nel grafico in fig. 22 viene mostrato come il load factor incida sulla performance ambientale in termini di emissione in relazione alla distanza percorsa. La forbice che si
  • 48. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 48 crea, progressivamente sempre più ampia, offre la percezione di come un maggior carico diluisca enormemente gli impatti relativi ai chilometri di percorrenza. Impatti progressivi dei produttori 0 20000 40000 60000 80000 100000 120000 1 20 40 60 80 100 120 Km gCO2/kmpertonn. Produttore mercato Produttore supermercato Impatti progressivi dei produttori 0 20000 40000 60000 80000 100000 120000 1 20 40 60 80 100 120 Km gCO2/kmpertonn. Produttore mercato Produttore supermercato Fig. 22 Mia elaborazione Per ottenere risultati migliori, bisognerebbe fondamentalmente aumentare il carico del produttore del mercato ad ogni viaggio ed ottimizzare al massimo la distanza fra mercato e i produttori. D’altra parte un altro tipo di intervento sarebbe possibile (ed anche di più agevole attuazione): la riduzione al massimo dei chilometri percorsi dal consumatore. In questo caso di studio basterebbe diminuire la distanza media percorsa dall’avventore del mercato a 3,7 km ad esempio, per registrare la stessa efficienza ambientale della filiera industriale. Nello studio di D. Coley (2009) invece emerge come il consumatore non debba effettuare tragitti più lunghi di 6,7 km, soglia oltre la quale la distribuzione industriale (comprensiva di produzione, stoccaggio in condizioni refrigerate, distribuzione a centri di smistamento e consegna porta a porta tramite servizio box schemes) genera performances ambientali migliori. Analizzando le distribuzioni secondo la provenienza dei campioni di consumatori intervistati, però, emerge un dato interessante. La media di chilometri percorsa dall’avventore tipo per raggiungere il mercato contadino risulta pari a 5,87 km con una deviazione standard di 8,731 , mentre la media percorsa dal cliente del supermercato è risultata pari a 3,62 km registrando una deviazione standard nettamente minore di 2,976. Questo ci suggerisce come il consumatore sia propenso a percorrere distanze maggiori per acquistare un prodotto non tanto più conveniente dal punto di vista economico, quanto da quello
  • 49. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 49 ambientale e soprattutto salutare e qualitativo, tale da giustificare, in alcuni casi, un viaggio superiore ai 30 chilometri. In questo senso sarebbe molto interessante a mio avviso eseguire un’indagine economica basata sulla willingness to pay verso i prodotti biologici venduti nei mercati contadini di questa area. Come già accennato, altri studi sono stati svolti sul tema generando risultati interessanti. Nello studio di Gracia (2012) ad esempio si conclude che il consumatore attento non solo al proprio benessere (in termini di qualità e salute), ma spinto a consumare locale anche da motivi etici, solidali e culturali, sia più propenso a pagare di più per questi beni. Inoltre il fenomeno è risultato più accentuato per la popolazione femminile (soprattutto giovane e con un buon livello di istruzione). Questi dati possono essere utili per sviluppare importanti linee di policy e marketing soprattutto dalle pubbliche amministrazioni, che con interventi mirati a rafforzare il legame con il territorio, potrebbero ottenere una rivalutazione e fornire un buono slancio al mercato dei prodotti locali (Gracia et al., 2012). In tal senso un ottimo esempio è offerto dalle esperienze americane delle “fattorie agricole supportate dalla comunità”24 nelle quali il forte livello di integrazione economico e culturale fra comunità territoriale e agricoltura crea una sinergia virtuosa in termini economici, sociali ed ambientali (B. Janssen et al., 2010). Un altro studio della ricercatrice Gracia (2014), ha messo il punto sulla questione, evidenziando come a parità di condizioni il consumatore sia disposto a pagare il 9% in più del prezzo di mercato per il bene di riferimento (carne di agnello in quel caso), se esponesse un marchio che ne attestasse le origini locali. Questo tipo di conclusione offre interessanti spunti legati al marketing. Dalla stessa studiosa è infatti calcolato che se in un ipotetico mercato composto unicamente da carne di agnello di una specifica qualità venisse introdotto un prodotto identico tranne per il fatto che esponga un’etichetta che ne attesti la provenienza locale, quel bene conquisterebbe il 18% del mercato se venisse venduto a 3,5€ e il 10% se venisse venduto a 4€. Un altro contributo simile è offerto dalla Boys (et al., 2014), che nella ricerca condotta sul mercato agricolo dominicano25 conclude come il consumatore sarebbe disposto a 24 Iowa’s Community-Supported Agricolture (CSA). 25 Un utile metro di giudizio sull’importanza di implementare da parte delle amministrazioni, il mercato del biologico e del local food, può essere fornito proprio dal caso dello stato insulare della Dominica (Commonwealth of Dominica). Privo quasi del tutto delle classiche spiagge caraibiche, bianche e cristalline, ma ricchissimo di paesaggi incontaminati, la Dominica si è specializzata nell’eco-turismo, il quale sta acquistando crescente popolarità. Attraverso la manovra governativa “Organic Dominica” è in previsione di riconvertire l’intera produzione agroalimentare al biologico entro il 2015, per fare di questo piccolo stato un’eccellenza a livello mondiale nell’ambito dell’ “organic food” ed attrarre quindi ancor più eco-viaggiatori. Inoltre dallo studio di Kathryn A. Boys (et al., 2014), si evidenziano anche una serie di possibili effetti positivi a lungo termine che possono incidere sull’offerta di lavoro (in quanto le
  • 50. Università degli studi Roma III, Scienze politiche per la cooperazione e lo sviluppo. 50 pagare il 17,5% in più per prodotti biologici e il 12% in più per quelli strettamente locali. Anche in questo caso emerge una correlazione tra la propensione a pagare di più e le caratteristiche anagrafiche, di genere e livello di educazione. Per concludere la riflessione sui dati ottenuti potrebbe essere utile analizzare diversi ipotetici scenari. CONSUMATORE 2 KM CONSUMATOR E 1 KM CONSUMATOR E A PIEDI FILIERA MERCATO CONTADINO 85,425 50,995 16,565 kgCO2/km per t FILIERA SUPERMERCATO 88,299 53,869 19,439 kgCO2/km per t Fig. 23, Tabella che mostra l’impatto di entrambe le filiere al variare della sola distanza del consumatore secondo tre ipotetici scenari. Nella tabella in fig. 23 viene mostrato come a parità di condizioni vari l’impatto sul totale delle filiere al variare degli spostamenti del consumatore. In tutti i casi considerati si può notare come seppure non di molto, la catena distributiva del mercato contadino registri risultati migliori, generati principalmente dal fatto di avere un solo segmento distributivo (Produttore – Mercato), rispetto ai due (Produttore – CDR, CDR – Supermercato) della filiera industriale. L’ipotesi del consumatore a piedi risulta abbastanza improbabile per il supermercato, in quanto anche se se ne trovasse uno all’interno di un centro abitato facilmente raggiungibile a piedi da un’ampia popolazione di clienti, la tendenza del consumatore di ottimizzare i propri spostamenti acquistando anche la spesa di una o due settimane in una volta sola, annullerebbe l’effetto vicinanza. La stessa cosa però può non essere vera per la filiera del mercato contadino. Come dimostrato nello studio di Mundler (2012), la vendita diretta esercitata in ambito urbano comporta spostamenti di molto inferiori rispetto a quella di ambito extraurbano, con una densità abitativa più bassa, generando performances ambientali molto migliori. Il consumatore infatti potrebbe raggiungere il mercato grazie ai mezzi pubblici o in bicicletta o semplicemente a piedi, scoraggiato dalla quotidiana congestione della città si concederebbe una coltivazioni biologiche sono “labour intensive” a differenza di quelle industriali estensive, che sono “capital intensive”) e l’aumento del pil procapite.