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L’ETICA IN SCHOPENHAUER


           Dopo aver esaminato ciò che concerne la visione dell’arte in generale e
della musica in particolare, in quanto prima via verso la liberazione dalla
volontà, bisogna ora affrontare la sua morale. Come dice Fernando Savater la
morale nella filosofia di Schopenhauer, da Savater definita sezione pratica della
sua filosofia, non può essere considerata un corollario, ma la ragion d’essere del
sistema. La tematica del dolore e della noia, dell’infelicità umana costituiscono
un’intuizione fondamentale per comprendere quello che, in Schopenhauer, è la
nascita del bisogno metafisico dovuto alla nostra incompatibilità con il mondo.
Pertanto, secondo Savater, la risposta a questo bisogno è pratica e non teorica;
una pratica che porta ad una vera e propria ribellione contro l’obbligo di voler
vivere1. Schopenhauer stesso nella sua memoria Sul fondamento della morale
(1840) spiegò che la sua etica non è scindibile dalla sua metafisica. Anche per
Riconda, l’unico interesse perseguito da Schopenhauer, è una penetrazione del
reale che ne sveli il significato profondo; i problemi etici, estetici e psicologici
hanno in comune la preoccupazione di sciogliere l’enigma del mondo, pertanto,
la sua filosofia è dal principio alla fine esposizione della sua metafisica, della
sua Weltanschauung. L’aspetto gnoseologico del suo pensiero fa parte di questa
metafisica: il fatto stesso che la sua prima opera Sulla quadruplice radice del
principio di ragion sufficiente (1813) abbia come obiettivo distinguere il
significato che il principio di ragione assume nelle quattro classi di
rappresentazioni umane indica come la gnoseologia sia comunque il suo punto
di partenza così come la stessa frase con cui si apre la sua opera principale, Il
mondo come volontà e rappresentazione, ovvero “il mondo è una mia
rappresentazione” fa pensare2.




1
    F. Savater, Filosofia contro accademia, il melangolo, Genova, 1994.
2
    G. Riconda, Schopenhauer interprete dell’Occidente, Mursia, 1986.


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La libertà in Schopenhauer


         Tutto il contenuto della natura, il complesso dei suoi fenomeni, è
assolutamente necessario mentre la volontà non è determinata come effetto da
una causa e non conosce necessità, ossia è libera. Il concetto di libertà è dunque
propriamente concetto negativo, essendo il suo contenuto nient’altro che
negazione della necessità, ovvero del rapporto di causa ed effetto, conforme al
principio di ragione. Ciascuna cosa in quanto fenomeno, in quanto oggetto, è
assolutamente necessaria, ma la stessa cosa è in sé volontà, e questa è del tutto
libera in eterno: in questo consiste l’unione della libertà e della necessità, che
risultano compresenti nel fenomeno in gradi diversi secondo il grado di
oggettivazione della volontà in idee platoniche, ma che nella loro compresenza,
sono su piani diversi: la libertà è trascendentale non fenomenica3.
         La libertà è dunque un concetto negativo, assenza di ostacolo, se lo si
intende come forza deve essere, a detta dell’autore, un termine positivo.
Distingue tre tipi di libertà:


         -fisica: assenza di ostacoli materiali di ogni specie. Attribuibile anche
         agli animali. Nel significato popolare si riferisce al potere. La libertà
         politica si riconduce a quella fisica4.


         -intellettuale: questa e la successiva fanno parte del significato
         filosofico.


         -morale: quella del libero arbitrium. Oltre la libertà fisica occorre
         introdurre il motivo. Siamo ancora liberi se senza ostacoli materiali,
         abbiamo un forte motivo contrario? La libertà fisica si riferisce

3
  A. Schopenhauer, I due problemi fondamentali dell’etica, trad. ita di Giuseppe Faggin,
Boringhieri, Torino, 1961, Memoria sulla libertà del volere.
4
  “Ancora, si dice libero un popolo quando e’ governato soltanto da leggi che egli stesso si e’
dato, poiche’ allora esso non obbedisce che alla sua volontà. La libertà politica perciò
dev’essere ricondotta alla libertà’ fisica” ivi, p. 70


                                                                                                  2
all’assenza di ostacoli materiali; l’autore verifica che alcuni motivi quali
         minacce, promesse, pericoli possono costituire un ostacolo; la questione
         è se a questo punto si possa ancora dire che esso è libero, oppure se
         effettivamente un motivo contrario possa agire contro un’azione
         conforme alla propria volontà. Un motivo non può mai agire come un
         ostacolo fisico, che facilmente supera la forza fisica dell’uomo, né può
         mai essere non irresistibile in se stesso, può soltanto essere
         controbilanciato da un motivo contrario più forte. Rimane aperto il
         problema se la volontà stessa sia libera. Si passa dal potere al volere5.


La volontà stessa è libera? Puoi tu volere ciò che vuoi? Puoi tu volere? Sono
queste le domande fondamentali per dirimere la questione secondo l’autore. Il
concetto di libertà ricavato dall’agire non si connette direttamente con quello
della volontà; rendendo astratto il concetto di libertà, lo si può definire come
assenza in generale di necessità. In tal modo però, il concetto conserva il
carattere negativo; “bisogna dunque esaminare senz'altro il concetto della
necessità”, come concetto positivo, che contribuisce a dare un significato a
quello negativo della libertà6.
         Necessario è ciò che deriva da una ragione sufficiente data. A seconda
che questa ragione sufficiente appartenga all’ordine logico, all’ordine
matematico o all’ordine fisico, nel quale è detta causa, la necessità diventa
logica, matematica, oppure fisica - reale, ma è sempre inerente alla conseguenza
con lo stesso rigore, una volta data la ragione sufficiente. Riconoscendo
qualcosa come la conseguenza di una ragione sufficiente (e viceversa), noi
concepiamo che essa sia necessaria. Questa è la spiegazione positiva che da
l’autore: necessità e conseguenza di una ragione sufficiente sono concetti
convertibili, pertanto l’assenza di necessità è identica all’assenza di una ragion
sufficiente determinante7.


5
  ivi, p. 72
6
  ivi, p. 73
7
  ivi, p. 74


                                                                                     3
Il contingente è opposto al necessario. Ogni avvenimento è necessario
in rapporto alla causa, contingente rispetto a tutte le cose in cui si imbatte nello
spazio e nel tempo. Per essere assenza di necessità la libertà deve essere definita
come la contingenza assoluta, come liberum arbitrium indifferentiae: un
individuo in una circostanza data può agire in due modi diametralmente
opposti.
        Ognuno si ritiene libero a priori in tutte le azioni, nel senso che pensa
che a lui, in ciascun dato caso, ogni azione sia possibile; solo a posteriori, per
esperienza e per meditazione dell’esperienza, riconosce che la sua condotta
risulta determinata con necessità dell’incontro del carattere con i motivi. Il
carattere intellegibile di un uomo è da considerare come un atto di volontà, che
sta fuori del tempo, ed è quindi indivisibile e immutabile, mentre il fenomeno di
quello, sviluppato e frazionato nel tempo e nello spazio e in tutte le forme del
principio di ragione, è il carattere empirico, quale si palesa sperimentalmente in
tutta la condotta e in tutta la vita dell’uomo medesimo8. Ne abbiamo una prova
empirica, quando ci sta davanti una scelta difficile e importante, e tuttavia
soggetta a una condizione che non s’è ancora avverata; sì ché lì per lì non
possiamo fare nulla e dobbiamo attendere passivamente, allora prendiamo a
riflettere quale sarà la nostra decisione, quando si saranno presentate le
circostanze, che ci permettano libera azione; entrambe le risoluzioni possono
apparire come egualmente possibili: questa è appunto l’illusione dell’empirica
libertà del volere. “Se un uomo potesse, in pari circostanze, agire una volta in
un modo e una volta in modo diverso9, ciò significherebbe essersi la sua volontà
frattanto mutata; e la volontà starebbe adunque nel tempo, ché sol nel tempo
può aversi mutazione”10. Quindi la contesa intorno alla libertà dell’azione
individuale, intorno al liberum arbitrium indifferentiae, rientra propriamente
nella questione se la volontà stia o meno nel tempo. Questo per l’impostazione
8
  A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. ita di P.Savj-Lopez e G.
De Lorenzo, Laterza, Bari, 1928, §55
9
  Questa è la definizione di liberum arbitrium indiferrentie per la cui trattazione A.
Schopenhauer, I due problemi fondamentali dell’etica, trad. ita di Giuseppe Faggin,
Boringhieri, Torino, 1961.
10
   Il mondo come volontà e rappresentazione, §55


                                                                                              4
di Schopenhauer non è possibile per definizione. Questa tematica è strettamente
connessa con la critica che l’autore porta agli altri filosofi, soprattutto a quelli
che si riconoscono nell’idealismo di Fichte. L’errore degli altri filosofi è di
considerare l’essere umano prima come un essere conoscente e poi come un
essere volitivo, mentre in Schopenhauer la conoscenza è un mezzo, una faticosa
scala di elevazione platonica volta a comprendere che non esiste distinzione tra
volizione e conoscenza poiché in ogni momento siamo mossi dalla medesima
volontà; quello che rimane da fare è comprendere, a posteriori, nelle azioni,
quale fosse il motivo stesso del nostro agire. Inoltre porre la conoscenza come
primaria rispetto alla volizione esclude gli animali e le piante, nonché tutto il
mondo inanimato da una trattazione gerarchico - olistica, poiché solo all’uomo
spetta la conoscenza, mentre la volontà è in ogni fenomeno del mondo
empirico. “La volontà fu perfino considerata come un atto di pensiero e
identificata col giudizio; particolarmente per opera di Cartesio e Spinoza”. 11, ma
“la volontà è l’elemento primo e originario; la conoscenza non sopraggiunge
che più tardi, appartenendo al fenomeno della volontà, come strumento di
questa” 12. Un’interessante riflessione di Cimarra a tal proposito, ricorda che
esiste tuttavia un momento in cui la conoscenza si è svincolata nel suo uso
teorico dal servizio alla volontà. In questo momento essa risulta separata, in
linea di principio, dalle azioni; ad esempio, è facoltà di un uomo riconoscere
che in un dato momento “avrebbe fatto meglio” ad agire in maniera diversa da
quanto effettivamente avvenuto. Questo momento costituisce come tale l’unica
libertà dell’uomo nella sfera fenomenica. “Se è senza’altro vero che non vi è
nessuna azione libera, non è difatti meno vero che l’uomo non si esprime solo
in azioni. Egli è anche capace di conoscenza, e soprattutto egli soltanto è capace
di una conoscenza “abusiva”, svincolata dal servizio alla volontà. … Tale
minimo momento di libertà apre, in prospettiva morale, lo spiraglio dell’auto
negazione come prevalere non volitivo, libero da volontà” 13. Così come la

11
   ivi, §55
12
   ivi, §55
13
   L. P. Cimarra, L’antropologia di Schopenhauer, Loffredo editore, Napoli, 1976, Il destino
dell’uomo, considerazioni conclusive


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liberazione dalla volontà prodotta dalla contemplazione estetica nel genio è
prodotta in quel momento, in quell’istante che abbiamo chiamato puro presente,
anche la scelta si rivela essere libera solo in nell’istante in cui viene presa. Non
è difficile comprendere che nel momento stesso in cui una scelta è in atto, il
soggetto inizia a subirne le conseguenze perdendo quella libertà stessa da cui la
scelta è scaturita; non è possibile, per nessuno, tornare sui propri passi. Non a
caso Cimarra conclude dicendo che si delinea “nella forbice tra l’etica come
fenomenologia dell’azione e l’etica come progetto di autonegazione – una
dimensione intermedia che presuppone l’uomo costituito come tale e non
approda all’autonegazione. All’interno di tale dimensione si conserva il tema
giovanile del genio e – per suo tramite – il problema originario dell’individuo
concreto”14.
           La libertà è qualcosa di metafisico; nel mondo fisico, invece, è qualcosa
di impossibile. Per questa ragione, le nostre singole azioni non sono affatto
libere; invece, il carattere individuale di ciascuno è da considerare come la sua
libera azione. In fondo, ciò è dovuto al fatto che il modo, con cui la suddetta
libera azione metafisica entra nella coscienza conoscitiva, è un’intuizione, la
quale ha per forma il tempo e lo spazio, e mediante la quale l’unità e
indivisibilità di quell’azione si presenta come distinta in una serie di condizioni
e di stati, che subentrano sulla base del principio di ragione nelle sue quattro
forme e, proprio perciò, in modo necessario. Il risultato però è morale, cioè
questo: noi da ciò che facciamo riconosciamo ciò che siamo, e così pure da ciò
che soffriamo riconosciamo ciò che meritiamo. Di qui discende, ancora, che
l’individualità non si fonda soltanto sul principio di individuazione, e perciò
non è integralmente mera apparenza, bensì essa è radicata nella cosa in sé, nella
volontà del singolo: infatti il suo carattere stesso è individuale. Secondo
Schopenhauer vale la pena di ricordare che già Platone, a modo suo, descrive
l’individualità di ciascuno come un suo atto libero, in quanto lo fa nascere
mediante la metempsicosi così come è, in conseguenza del suo carattere e del
suo cuore. Ognuno in fondo è in grado di fare soltanto ciò che è
14
     ivi


                                                                                  6
irrevocabilmente già stabilito nella sua natura; cioè nel suo carattere innato. E’
anche vero, però,        che le capacità intellettuali hanno bisogno di essere
esercitate. Non vi è preparazione che basti a sostituire il materiale originario,
così anche per le capacità intellettuali. Proprio per questo tutte le qualità
puramente acquisite, imparate, conquistate, dunque le qualità a posteriori,
morali come intellettuali, sono in realtà non autentiche, sono una vana parvenza
senza contenuto15.
         Il problema della libertà del volere è quello del rapporto fra ideale e
reale. L’intelligenza ha troppa attenzione all’oggetto nell’ambito della
conoscenza; la volontà verso il soggetto, l’intelletto ha scopi pratici non
speculativi. La vera libertà morale è data dal sentimento ben chiaro e certo della
responsabilità per ciò che facciamo e dell’imputabilità delle nostre azioni. La
responsabilità riguarda l’azione solo mediatamente e apparentemente, ma in
fondo ricade sul suo carattere. Là dove è la colpa, deve esserci anche la
responsabilità, la libertà deve risiedere nella stessa cosa, cioè nel carattere
dell’uomo.
        “Il carattere è la proprietà, empiricamente riconosciuta, costante e
immutabile di una volontà individuale”16. Si rivela direttamente dopo l’azione.
Si impara a conoscere l’essenza della propria volontà sperimentando le sue
manifestazioni. Partendo dai molteplici riferimenti nelle opere di Schopenhauer
tra il lavoro dell’attore e il fenomeno etico della compassione nonché i
molteplici slanci metafisici e gnoseologici della tematica artistica, Ceppa, parla
del carattere empirico come di un ruolo che ci viene assegnato, un vero e
proprio copione preferito che non si può cambiare. “In questa metafora teatrale
e barocca del mondo, l'uomo può solo spingersi fino al punto di recitare meglio
– con più stile e ponderatezza – la parte che il destino gli ha sortito”. È solo la
conoscenza, e non la morale, l’ambito del perfezionamento. Il carattere
immutabile non può essere mutato dal processo educativo, ma si può ampliare
la conoscenza aprendosi così all’influenza di sempre nuovi motivi agenti sulla
15
   A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, Trad. Ita. di E.A. Kuhn, G. Colli e M. Montanari,
Boringhieri, Torino, 1963. Sull’etica, §116
16
   I due problemi fondamentali dell’etica, p.167


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volontà. Quanto più l’uomo comprende le circostanze e padroneggia
cognitivamente la situazione, tanto più ordini nuovi di motivi, diventano capaci
di influenzare la sua volontà. Ceppa parla di un intellettualismo etico di
Schopenhauer che però non attenua il determinismo dell’azione. La
perfettibilità della conoscenza non contraddice l’immutabilità del carattere
poiché la conoscenza appartiene soltanto al fenomeno, all’ordine illusorio della
molteplicità spazio-temporale17. Attraverso la cultura del decadentismo
mitteleuropeo, la metafora barocca e romantica del mondo come teatro giungerà
fino al nostro Pirandello, costituendo un topos centrale della sua poetica18.
Chi è avvezzo alle metodologie di studio degli attori, non può non notare
l’analogia, se non altro terminologica implicata nella metafora del teatro in
Schopenhauer; infatti nella recitazione è fondamentale punto di partenza la
comprensione di quelle che sono dette le circostanze date. Sono quelle che
producono o impulsi fisici, o motivi psicologici; tali motivi e impulsi sono
quelli che producono l’azione organica dell’attore19.
        “Ogni uomo opera conformemente a ciò che egli è, e la sua azione, così
conforme, viene necessariamente determinata caso per caso soltanto da
particolari motivi. La libertà non può essere dunque ritrovata nell’operare, deve
risiedere nell’esse”.20 “Tutto dipende da ciò che una persona è: ciò che fa,
deriva da lei con la necessità di un corollario”21
        Rifacendosi esplicitamente alla filosofia Kantiana, Schopenhauer dice:
“Il rapporto esposto da Kant, fra carattere empirico e carattere intellegibile si
fonda completamente sul tratto fondamentale della sua filosofia, cioè sulla
differenza tra cosa in sé e fenomeno; e come, per lui, la realtà empirica del
mondo dell’esperienza sussiste parallelamente alla sua idealità trascendentale,
così la rigorosa necessità empirica dell’azione corrisponde alla sua libertà


17
   L. Ceppa, Schopenhauer come diseducatore, Marietti, Casale Monferrato, 1983, p. 50.
18
   ivi, p. 67.
19
   M. Knebel, L’analisi della pieces e del ruolo mediante l’azione, Ubulibri, 2009; ma anche K.
Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, Laterza.
20
   ivi, p. 169
21
   ivi, p. 170


                                                                                              8
trascendentale”22, l’aspetto fenomenico dell’azione, nel suo essere soggetto alla
casualità, al tempo e allo spazio non è libera, mentre il suo carattere
intellegibile, la volontà che lo determina, in quanto fuori dal tempo, al di là del
principio individuationis, è libera dal nesso di casualità ovvero è libertà
assoluta. Questa libertà non appartiene al mondo dell’esperienza. “Per
conseguenza la volontà è libera ma soltanto in se stessa e fuori dal mondo
fenomenico”23.
        L’uomo fa sempre e soltanto ciò che vuole, e tuttavia egli agisce
necessariamente. L’autore non sopprime la libertà, ma la sposta a livello
trascendentale, infatti in molti punti della sua opera indica dei modi di superare
la volontà stessa, possibili grazie alla cognizione della libertà a livello
trascendentale: l’arte, la morale permettono di cogliere, a livello metafisico,
l’individualità oltre il tempo e rendono l’uomo, nell’arte per un momento, nella
morale in maniera più durevole, nell’ascesi in maniera completa, libero.
Secondo Ceppa ad esempio, l’uomo perviene alla libertà nella misura in cui,
anticipando     idealmente      la morte,      riesce ad astrarsi dal principium
individuationis. La libertà si presenta pertanto come la facoltà, etica o estetica,
di sottrarsi al mondo dell’individuazione empirica, di spengere in se l’egoismo
e di proiettarsi nella sfera metafisica delle idee eterne 24. Leonardo Ceppa trova
che nella filosofia di Schopenhauer la figura dell’artista e del filosofo siano
prove contro il finalismo della natura nei suoi mezzi, nonostante siano prova
eccellente della saggezza dei suoi scopi. Entrambi toccano l’animo nel
profondo a poche persone, quando dovrebbero colpire tutti e comunque non con
la forza dello slancio originale del filosofo e dell’artista. “E’ triste dover
valutare in modo così diverso l’arte come causa e l’arte come effetto: quanto
immensa essa è come causa, quanto paralizzata e fievole, invece, come
effetto!”. È la volontà della natura che spinge l’artista all’opera per il bene degli
altri uomini, tuttavia egli si rende conto dell’impossibilità, da parte degli altri
uomini, di ritrovare ciò che egli vi ha posto originariamente; Ceppa parla di un
22
   I due problemi fondamentali dell’etica , p. 168
23
   ivi, p. 169
24
   L. Ceppa, Schopenhauer come diseducatore, Marietti, Casale Monferrato, 1983, p. 55.


                                                                                         9
vero e proprio amore e comprensione da parte dell’artista nei confronti della sua
stessa opera. “Quel grado superiore e unico di amore e di comprensione è
dunque necessario, secondo quanto la natura ha maldestramente disposto,
perché ne sorga un grado inferiore; il più grande e il più nobile è adoperato
come mezzo per la nascita di ciò che è meschino e non nobile”25.


La volontà davanti all’autocoscienza, l’azione del corpo


        L’ autocoscienza è la conoscenza del proprio io in opposizione alle altre
cose. Spazio, tempo e casualità non appartengono all’autocoscienza in quando
sono condizioni del nostro conoscere le altre cose, della conoscenza obiettiva.
La facoltà conoscitiva, diretta verso l’esterno, il teatro, ovvero la condizione
della conoscenza del mondo, è più estesa dell’autocoscienza 26. Quale è il
contenuto dell’autocoscienza? Come l’uomo diventa conscio del suo io? In
quanto io di un essere che vuole. Tutti gli affetti e le passioni devono essere
considerati come manifestazioni della volontà. Piacere e dolore sono i modi di
risposta della parte empirica alla soddisfazione o meno della volontà. Anche del
proprio corpo si può avere un’immediata consapevolezza solo come di un
tramite della volontà verso l’esterno27. “L’autocoscienza è al tempo stesso la
chiave dell’idealità e della realtà, e perciò il ritorno dell’io su di sé permette di
prendere coscienza chiaramente della differenza fra il reale e l’ideale. L’io,
ripiegandosi su di sé, si ritrova come principio conoscente, cui inerisce il
mondo della rappresentazione, che anzi è parte del mondo della
rappresentazione (il polo soggettivo di esso), e come principio volente, che è la
realtà ultima dell’io, in cui si radica lo stesso io conoscitivo”28. Riconda parte da
questa definizione e aggiunge che è dalla certezza del proprio corpo, che
dall’esterno è rappresentazione fra rappresentazioni, che si giunge a
determinare la cosa in sé, che nel proprio vissuto interno si manifesta come

25
   L. Ceppa, Schopenhauer come diseducatore, Marietti, Casale Monferrato, 1983, p. 78.
26
   I due problemi fondamentali dell’etica, p. 77
27
   ivi, p. 79
28
   G. Riconda, Schopenhauer interprete dell’Occidente, Mursia , p. 108.


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volontà. È proprio nell’immersione del sentimento di sé, nella propria
autocoscienza, prescindendo dal corpo come qualcosa di esteriore, che si può
giungere all’intuizione di sé come volontà.
        Il corpo si presenta come intuizione del soggetto conoscente e in
maniera totalmente diversa la quale viene indicata con la parola volontà. Questa
è quindi una doppia conoscenza che abbiamo del nostro corpo. L’egoismo
pratico considera e tratta la persona propria come la sola persona reale e tutte le
altre come puri fantasmi. L’egoismo teorico, filosoficamente, non è altro che un
sofisma scettico, ossia dedotto per pura apparenza. La doppia conoscenza che
noi abbiamo dell’essenza e dell’attività del nostro corpo ci servirà come una
chiave per aprirci l’essenza d’ogni fenomeno nella natura29.
        I movimenti volontari del corpo non sono altro che la visibilità dei
singoli atti volitivi. Codesti atti della volontà hanno sempre un principio fuori di
se stessi, nei motivi. Il mio volere non si può spiegare in tutta la sua essenza
con i motivi, ma questi determinano soltanto la sua manifestazione in un dato
momento, sono la semplice occasione, in cui la mia volontà si manifesta.
Esclusivamente con la premessa del mio carattere empirico il motivo è una
spiegazione sufficiente della mia condotta. Soltanto il fenomeno della volontà è
sottomesso al principio di ragione e non la volontà stessa, che sotto questo
rispetto può dirsi non abbia ragione. Il mio corpo deve essere la mia volontà
diventata visibile. “Le parti del corpo devono quindi corrispondere
perfettamente ai bisogni principali, in cui la volontà si manifesta, debbono
essere la visibile espressione di quelli: denti, esofago e canale intestinale sono
la fame oggettivata; i genitali, l’istinto sessuale oggettivato; le mani prensili, i
piedi veloci corrispondono al già più mediato bisogno della volontà, che mani e
piedi rappresentano”30.
        Gli atti di volontà sono sempre indirizzati ad un oggetto. L’atto di
volontà, che in se stesso è solo oggetto dell’autocoscienza, si produce in
occasione di qualcosa, che appartiene alla conoscenza delle altre cose, ed è

29
 Il mondo come volontà e rappresentazione, §19
30
  ivi, §20


                                                                                 11
perciò un oggetto della facoltà conoscitiva, il quale, per questa sua relazione, è
detto motivo, ed è insieme la materia della volizione, in quanto questa è diretta
su di esso e cioè mira a cambiarlo in qualche modo, perciò reagisce di fronte ad
esso: in questa reazione si risolve tutto l’atto volitivo.31
         La volizione è provocata necessariamente dal motivo? O piuttosto, la
volontà, quando il motivo si presenta alla coscienza, conserva in pieno la libertà
di volere o di non volere? Una volta che noi abbiamo accordato la casualità ad
una determinata forza e perciò abbiamo riconosciuto che essa agisce, quella
forza ha bisogno soltanto di una maggiore intensificazione, di fronte ad
un’eventuale insistenza ad essa proporzionata per ottenere ugualmente il suo
effetto32. L’autocoscienza non chiarisce nulla sulla applicabilità del concetto di
necessità alla volizione. I concetti di casualità in generale e motivazione in
particolare sono dominio dell’intelletto puro, rivolto all’esterno e del forum
della ragione riflettente. Nel proprio intimo si sviluppa un’illusione, ognuno
pensa: “Io posso volere, e quando vorrò un’azione, le membra del mio corpo
muovendosi la eseguiranno all’istante.” Ciò vuol dire in breve che “io posso
fare ciò che voglio.” 33 In questo non si discosta dalla definizione di libero come
“conforme alla volontà.”
         L’autocoscienza proclama la libertà dell’agire presupponendo la libertà
del volere. Sulla libertà del volere l’autocoscienza non può dire nulla. Soltanto
in riferimento all’azione stessa si parla di atto del volere anche per
l’autocoscienza. Finché la volizione è in divenire, si chiama desiderio, compiuta
risoluzione. Si può confondere desiderio e volontà, si possono desiderare cose
opposte, ma volerne una sola. È l’azione che rivela all’autocoscienza quale
fosse la cosa voluta ma a posteriori. Della necessità che trasforma il desiderio in
volizione e atto l’autocoscienza nulla sa a priori.34 Il volere si incontra con la
31
   I due problemi fondamentali dell’etica, p. 80
32
   “chi non sarà corrotto con 10 ducati ed esita ancora, sarà corrotto con 100, e così via”. A.
Schopenhauer, ivi, p. 81
33
   ivi, p. 82
34
   “Egli cioè confonde, desiderio e volontà. Egli può si desiderare cose opposte; ma può volerne
una sola; e quale sia questa , li rivela all’autocoscienza l’azione soltanto. Ma sulla necessità
razionale, per la quale, di due desideri opposti l’uno e non l’altro diventa volizione e atto, nulla
può dire l’autocoscienza, poiché essa viene a riconoscere il risultato del tutto a posteriori, ma


                                                                                                 12
possibilità oggettiva. L’autocoscienza ci rivela solo il volere, ma non i motivi
che la determinano, i quali sono dominio della percezione esterna, cioè della
facoltà conoscitiva. Questa illusione nasce dal fatto che la volontà dell’uomo è
il suo io genuino e costituisce il fondo della sua coscienza. Egli è come vuole e
vuole come è.35 Ogni atto della mia volontà mi si manifesta come azione del
mio corpo ed è un principio di conoscenza per il soggetto conoscente. 36 Nella
realtà etica il processo etico è la conoscenza del mondo come negazione di sé
nel mondo, ovvero, in una filosofia dell’azione, l’azione che partendo dalla
compassione arriva fino a negare il corpo stesso e il mondo stesso riconosciuti
come medesima volontà. Questa è una riflessione del Cimarra, che mette in
connessione questo processo etico di negazione con ciò che avviene nella
contemplazione estetica: l’atto conoscitivo si rivela al tempo stesso atto etico,
sospendendo la negatività del mondo nel momento stesso in cui riconosce la
sua fondamentale identità con esso. Questa identità tra uomo e mondo,
attraverso l’azione, porta l’uomo ad essere colpevole di quella stessa
negatività37.




La legge di motivazione


         Nel rapporto tra volontà e percezione esterna si ha a che fare con la
facoltà conoscitiva che non può avere percezione immediata della volontà, ma
ha conoscenza degli esseri dotati di volontà che le si presentano come fenomeni
oggettivi, come oggetti di esperienza e vengono giudicati ed esaminati secondo
regole generali certe a priori che rendono possibile l’esperienza e secondo i dati

non lo sa affatto a priori.” ivi, p. 84
35
   “Ciò dipende in ultima analisi del fatto, cha la volontà dell’uomo è il suo io genuino, il vero
nucleo del suo essere: perciò costituisce il fondo della sua coscienza, come qualcosa di
assolutamente dato e esistente, al di là del quale non può andare. Infatti egli è come vuole e
vuole come è.” ivi, p. 88
36
   ivi, p. 89
37
   L. P. Cimarra, L’antropologia di Schopenhauer, Loffredo editore, Napoli, 1996, cap 2, §8,
Etica della conoscenza, p.50.


                                                                                                 13
che l’esperienza ci fornisce. Per fare ciò entra in gioco l’intelletto coadiuvato
dalle percezioni dei sensi38. La legge di casualità è la forma più generale
dell’intelletto e ci è nota a priori.
         Il principio di ragione sufficiente è la forma più generale della nostra
facoltà conoscitiva, e il carattere di necessità del principio di casualità si rivela
come aspetto di questo39. Esistono tre aspetti della volontà corrispondenti alla
divisione in esseri inorganici, piante e animali: causa, stimolo, motivo, senza
che si perda il vincolo di necessità. Lo stimolo non presenta proporzionalità tra
azione e reazione, tra intensità della causa e dell’effetto (luce, calore, aria,
nutrimento, ovvero le funzioni vegetative) 40. La motivazione è causa che opera
per mezzo della coscienza. Lo stimolo agisce per contatto. L’oggetto che agisce
come motivo ha solo bisogno di essere percepito e conosciuto41. La ragione
permette all’uomo di astrarre dall’intuizione, cioè di costruirsi delle
rappresentazioni astratte: i concetti.
         Proprio dell’uomo sono il carattere dell’intenzionalità e della
premeditazione. Il pensiero diventa motivo appena può agire su di una volontà
presente. Ogni motivo è causa e porta con se la necessità. Attraverso il pensiero
l’uomo può render presenti a se stesso i motivi il cui influsso sulla propria
volontà egli avverte, e questo è il deliberare. La libertà dell’uomo è relativa solo
all’immediatezza dell’intuizione, alla presenza delle cose intuite42. La
risoluzione accade necessariamente dalla vittoria del motivo più forte tra quelli
che si scontrano nella propria volontà43. Negli animali superiori l’effetto dei
motivi diventa sempre più mediato, distaccato dalle azioni che esso provoca 44.
Nell’uomo la distanza è incommensurabile, la rappresentazione diventa motivo
dell’azione, negli animali è sempre e solo intuitiva nell’uomo no. I motivi intesi



38
   I due problemi fondamentali dell’etica, p. 93
39
   ivi, p. 95
40
   ivi, p. 97
41
   ivi, p. 99
42
   ivi, p. 103
43
   ivi, p. 104
44
   ivi, p. 107


                                                                                  14
come concetti e pensieri, non intuitivi, non sono più propri delle cose presenti e
sfuggono all’osservatore. L’origine però di ogni pensiero è reale e oggettiva45.
          L’uomo agisce in un certo modo quando i motivi coincidono con le
circostanze adatte, ma non può altrimenti egli deve agire, con necessari età.
L’errore dipende dalla sua fantasia, che presentando un’immagine alla volta
soltanto, esclude tutte le altre, con ciò eleva una velleitas ad una voluntas46.
L’affermazione “io posso volere questa cosa” è in realtà veramente ipotetica
perché porta con sé quella “se non preferissi quest’altra” ma anche quella “se ne
ho i mezzi fisici e le condizioni favorevoli”. Anche il suicidio dipende da un
motivo fortissimo. Intanto, per seguire l’esempio citato, se un individuo
deliberasse di suicidarsi con un colpo di pistola, deve innanzitutto procurarsi lo
strumento o deliberare un altro mezzo, poi, come nota l’autore, il solo avere in
mano la pistola carica non gli conferisce il potere di uccidersi. “Per un’azione
simile, il mezzo meccanico è la cosa meno importante: ciò che più vale è un
motivo fortissimo”47.
          L’uomo come tutti gli oggetti dell’esperienza, è un fenomeno del tempo
e dello spazio e, poiché la legge di casualità vale a priori per tutti i fenomeni,
anche egli deve esserlo sottomesso. Le cause agenti si sono elevate fino ad
essere semplici pensieri che lottano con altri pensieri, finché il più forte lo mette
in movimento; tutto ciò accade con rigore di connessione causale. Le cause non
determinano se non il quando e il dove delle manifestazioni delle forze
originarie e inspiegabili, e sono cause, cioè producono necessariamente certi
effetti, solo in quanto le presuppongono. Ciò che vale per le cause vale anche
per gli stimoli e per i motivi, la motivazione non è altro che la casualità che
opera attraverso il medium della conoscenza. Il fatto che ogni uomo reagisca
diversamente agli stessi motivi, forma il carattere di ciascuno, conoscibile a
posteriori, il proprio carattere empirico. Negli animali varia da specie a specie
nell’uomo da individuo a individuo.
Ecco alcuni punti fermi che pone l’autore circa il carattere:
45
   ivi, p. 108
46
   ivi, p. 111
47
   ivi, p. 112


                                                                                  15
1- Il carattere dell’uomo è individuale, pertanto dalla conoscenza dei
                  motivi non si può predire l’azione48.


          2- Il carattere dell’uomo è empirico, attraverso l’esperienza accresce la
                  conoscenza di noi stessi. La conoscenza del carattere empirico porta
                  a quella del carattere acquisito49.


          3- Il carattere dell’uomo è costante durante tutta la vita. Soltanto la sua
                  conoscenza può essere corretta. Cambiano i mezzi non i fini. Ad
                  esempio con l’educazione50.


          4- Il carattere dell’uomo è innato51.


Per ipotizzare la libertà del volere, il carattere dell’uomo dovrebbe essere una
tabula rasa, come è l’intelletto per Locke. Una tendenza innata elimina la
possibilità del perfetto equilibrio da cui dipende il liberum arbitrium
indifferentiae. “Con questa ipotesi la causa della deferenza, da noi presa in
considerazione, fra i modi di agire dei diversi uomini non può dunque risiedere
nel soggettivo; ma nemmeno nell’oggettivo, perché allora sarebbero gli oggetti
a determinare l’azione, e la presunta libertà svanirebbe e sarebbe perduta” in
alternativa si potrebbe cercare un punto mediano tra oggetto e soggetto da cui
derivarla, cioè dalla diversità della conoscenza del singolo oggetto, ma così
ogni azione si risolverebbe nella conoscenza vera o falsa delle circostanze
presenti52.
          Ogni azione umana è il prodotto necessario del carattere e del motivo
che interviene. Il carattere, i fini sono determinati dalla natura; i mezzi

48
    ivi, p. 117
49
    ivi, p. 118
50
    ivi, p. 119
51
    ivi, p. 123
52
   ivi, p. 125


                                                                                   16
dipendono dalle circostanze esterne, dalla comprensione di esse. La libertà del
volere, se considerata esattamente, implica un existentia senza essentia: questa
è una contraddizione. Tutto ciò che accade, accade necessariamente, ma solo
attraverso ciò che facciamo veniamo a conoscere ciò che siamo. E’ per questo
che esiste la ad esempio la preveggenza, alla quale schopenahuer fa più volte
riferimento dimostrando di crederci in maniera indiscutibile.
           I motivi che determinano la manifestazione del carattere, ossia l’azione,
sul carattere medesimo agiscono per tramite della conoscenza, ma la
conoscenza è mutevole. E’ possibile che la condotta di un uomo venga
osservabilmente cambiata, senza che si possa inferirne un cambiamento del suo
carattere. Perché i motivi agiscano, si richiede non soltanto la loro esistenza, ma
anche l’esser conosciuti. Noi tutti siamo, in prima istanza, innocenti: la qual
cosa significa che noi non conosciamo, né altri conoscono, il lato cattivo della
nostra propria natura: solo incontrandosi con i motivi questo si palesa, e solo
col tempo entrano i motivi nella nostra conoscenza e “sovente abbiamo di noi
medesimi orrore”53. Ad esempio il rimorso non proviene mai dall’essersi mutata
la volontà, bensì la conoscenza: il rimorso proviene sempre da conoscenza
fattasi più retta. “L’influsso che la conoscenza, in quanto mezzo dei motivi,
esercita non proprio sulla volontà medesima, ma sul suo manifestarsi nelle
azioni, è anche base del principale divario tra l’azione dell’uomo e quella
dell’animale, essendo in entrambi diverso il modo di conoscere” 54. La
dipendenza dell’umana capacità deliberativa della facoltà del pensare in
abstracto, e quindi del giudicare e dedurre, “sembra esser quella che ha traviato
tanto Cartesio quanto Spinoza, facendo loro identificar le decisioni della
volontà con la facoltà di affermare e negare (che è il giudizio), dal che Cartesio
dedusse esser la volontà, secondo lui indifferentemente libera, responsabile
anche di ogni errore teorico. Spinoza ne dedusse invece esser la volontà
determinata necessariamente da motivi, come il giudizio dalle ragioni; il che ha
del resto il suo valore, ma tuttavia si presenta come una conclusione esatta da

53
     Il mondo come volontà e rappresentazione, §55
54
     ivi


                                                                                 17
false premesse”55. Nell’uomo soltanto è la decisione, e non il semplice
desiderio, un valido segno del suo carattere, per lui stesso e per gli altri, ma la
risoluzione diventa certa, per lui stesso come per gli altri, solamente con
l’azione.     Sebbene tutto     si possa considerare       come    irrevocabilmente
predeterminato dal destino, ciò non accade se non mediante la concatenazione
delle cause. “Come gli eventi saranno sempre conformi al destino, ossia
all’infinita concatenazione delle cause, così saranno le nostre azioni conformi
sempre al nostro carattere intellegibile; ma, come non abbiamo cognizione
anticipata di quello, così non ci è dato di guardare a priori dentro di questo;
bensì unicamente a posteriori, con l’esperienza, veniamo a conoscere tanto gli
altri quanto noi stessi” 56. Qui è dichiarata la visione della liberazione della
volontà come un percorso di conoscenza, che porta più verso il socratico
conosci te stesso che non all’idea platonica, percorso di conoscenza che a mio
parere è un modo di indagine più che calzante per la filosofia di Schopenhauer;
migliore a mio avviso che quella di una filosofia dell’egoismo, dell’azione, o
dell’arte, o di una mera metafisica del volere, la cui importanza è indubbia, ma
risultano solo come conseguenza di tutto l’impianto conoscitivo a cui la stessa
metafisica del volere è legata.
          Accanto al carattere intellegibile e all’empirico ne va ricordato un terzo,
da entrambi diverso, il carattere acquisito, che si acquista vivendo, con l’uso del
mondo, ma tale carattere è più importante per la vita sociale che non per l’etica
vera e propria. “Non basta il semplice volere, né, in sé, il potere: un uomo deve
anche sapere ciò che vuole e sapere ciò che può: solo così mostrerò carattere e
riuscirà a qualcosa di buono”57.


L’uomo tra egoismo e compassione


          Ogni individuo, per quanto infinitamente piccolo nello sterminato
mondo, si fa centro dell’universo. Tale disposizione è l’egoismo, proprio d’ogni
55
   ivi, §55
56
   ivi
57
   ivi, §55


                                                                                  18
altra cosa nella natura58. “L’egoismo si fonda sull’apparenza sensibile, sulla
convinzione della differenza tra la propria e altrui persona, sull’illusione della
molteplicità spazio-temporale, che presiede al principium individuationis.
L’atteggiamento etico della compassione si fonda invece sull’identità della
sostanza. In tutti i fenomeni, dunque sull’ unico essere che si manifesta nel
mondo l’Uno - tutto”59.
        I concetti non hanno altro uso all’infuori dei giudizi. I giudizi non hanno
valore se non in quanto siano veri. Che un giudizio sia vero significa che esso
ha una ragione sufficiente. Questa deve essere qualcosa di diverso dal giudizio
cui si riferisce. La verità è dunque la relazione di un giudizio con qualcosa che
si trova al di fuori di esso60. Le verità fisiche possono avere un gran significato
esteriore, manca ad esse però un significato interiore. Quest’ultimo è il
privilegio delle verità intellettuali e morali, come quelle che hanno per temi i
supremi gradini di oggettivazione della volontà; le altre, invece, gli infimi61.
        Molte delle azioni comunemente considerate morali non sono mossi da
motivi autenticamente morali. Anche le azioni di carità, che sono
indubbiamente nobili, spesso dipendono dalla volontà di ostentazione, o dalla
fede di una ricompensa futura sia terrena (come ad esempio il ritorno di fronte
alla pubblica opinione), sia ultra terrena (come nelle religioni), ma i motivi di
fondo rimangono egoistici. Un’azione può essere considerata morale quando
avviene in assenza di coercizione e in assenza di ogni retribuzione materiale o
spirituale62. Il pentimento per azioni immorali è spesso, più che altro, il timore
delle conseguenze63. “Molti si stupirebbero se potessero vedere di cosa è
composta quella coscienza, di cui fanno tanto conto: un quinto di rispetto
umano, un quinto di terrori religiosi, un quinto di pregiudizi, un quinto di vanità
e un quinto di abitudine”64. Anche le forme di governo rispecchiano la
58
   ivi, §61
59
   L. Ceppa, Schopenhauer come diseducatore, Marietti, Casale Monferrato,1983, pg 52.
60
   A. Schopenhauer, La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, a cura di
A.Vigorelli, Guerini e Associati, 1999, cap.5, Libro IV, §30.
61
   Parerga e Paralipomena, Sull’etica, §108
62
   ivi, p. 270
63
   ivi, p. 271
64
   ivi, p. 272


                                                                                           19
disposizione umana all’egoismo; infatti lo Stato, capolavoro dell’egoismo,
protegge i diritti di ciascuno avendo forza superiore al singolo individuo e lo
costringe al rispetto degli altri: “La coercizione ci ha incatenato tutti”65.
         L’onestà generale nelle relazioni umane è considerata come una
massima solidissima nel fondamento di una morale, ma dipende da due
condizioni esterne: l’ordinamento giuridico della forza pubblica e la stima dei
cittadini, o pubblica opinione. Queste due forze sociali agisco come sentinelle
sull’onestà pubblica senza la quale saremmo in difficoltà soprattutto per quel
che riguarda “la proprietà, che nella vita umana è il centro intorno al quale si
aggira ogni azione e ogni desiderio” 66. Non si può ritrovare nel diritto naturale
quello della proprietà ma nel diritto positivo, per il diritto naturale la proprietà è
quella fondata sul proprio lavoro perciò è difficile se non impossibile risalire a
motivi autenticamente morali per ciò che riguarda la tutela del diritto di
proprietà. Per molti il diritto positivo è adeguato alla difesa della proprietà
senza interrogarsi oltre circa la sua moralità67. Pertanto se la legge è eludibile, o
trasgredibile senza ripercussioni si assiste alla violazione della proprietà; il
mondo è pieno di coloro che, nel possesso di qualsiasi cosa, non badano ai
mezzi utilizzati; “dal loro punto di vista la società civile avrebbe sostituito al
diritto del più forte il diritto del più astuto”68.
         Un utile esempio di falsa moralità è il concetto della dignità dell’uomo:
se in generale si domandasse su che cosa mai si fonda questa presunta dignità
dell’uomo, la risposta finirebbe ben presto per essere che si fonda sulla sua
moralità. Dunque la moralità sulla dignità, e la dignità sulla moralità. Ma, anche
a parte tutto ciò, il concetto di dignità mi sembra si possa applicare solo in quel
modo ironico a un essere così colpevole nella volontà, così limitato nello
spirito, così fragile e caduco nel corpo, quel è l’uomo. Perciò, in contrasto con
la suddetta forma del principio morale kantiano, vorrei stabilire la norma

65
   ivi, p. 274
66
   I due problemi fondamentali dell’etica, p. 267
67
   “molti considerano tacitamente la proprietà altrui come garantita soltanto dal diritto positivo”,
ivi, p. 268
68
   ivi


                                                                                                 20
seguente: con ogni uomo che venga in contatto con noi, non si deve stabilire
una valutazione oggettiva in base al valore e alla dignità, non si deve dunque
considerare la malvagità della sua volontà, né la limitatezza del suo intelletto e
la stoltezza dei suoi concetti, perché la prima cosa potrebbe risvegliare
facilmente contro di lui odio, la seconda disprezzo: bensì si miri soltanto alle
sue sofferenza, alla sua miseria, alla sua angoscia, ai suoi dolori: allora ci
sentirà sempre affini a lui, si simpatizzerà con lui e, invece di odio e disprezzo,
si proverà per lui quella compassione la quale è la άáηπ alla quale ci invita il
Vangelo. Perché non sorga verso di lui odio, disprezzo, non è certamente la
ricerca della sua pretesa “dignità”, bensì all’inverso il punto di vista della
compassione, il solo punto di vista appropriato.69
         Si può obbiettare che l’etica non deve occuparsi di ciò che gli uomini
fanno ma di quello che devono fare, l’autore invece obbietta che il compito che
si ripropone è quello di esporre le molte e differenti maniere di agire in campo
morale dalla cui interpretazione si può risalire il principio ultimo, comunque
empirico70.
         A tal proposito egli dice che “Il motivo primario e fondamentale,
nell’uomo come nell’animale, è l’egoismo, cioè l’impulso ad esistere e a star
bene”71, l’interesse è l’egoismo guidato da ragione, cioè reso capace di mirare
ai suoi scopi, secondo le riflessione, seguendo un piano prestabiliti: l’animale si
può dire egoista ma non interessato; l’egoismo è per sua natura infinito.
Ognuno fa di se il centro dell’universo, “e ciò accade perché ciascuno ha
coscienza di se immediatamente e degli altri soltanto mediatamente, attraverso
la rappresentazione che ha di essi nella propria testa”, come pura
rappresentazione del soggetto: perciò relativamente a una autocoscienza 72. La
cortesia è la negazione convenzionale e sistematica dell’egoismo, un’ipocrisia
riconosciuta. In realtà, contro l’egoismo si oppone la giustizia prima e autentica
virtù cardinale, la carità si oppone alla malvolenza e all’odio.

69
   Parerga e Paralipomena, Sull’etica, §109
70
   I due problemi fondamentali dell’etica, p. 275
71
   ivi, p. 276
72
   ivi, p. 277


                                                                                21
L’assenza di qualsiasi motivo egoistico e il criterio di un’azione che
abbia valore morale. “Soltanto questo fine imprime a un’azione il carattere di
valore morale; perciò essa avrà tale valore esclusivamente se essa sarà compiuta
o omessa per il vantaggio e l’utilità di un altro”73. Perché la mia azione sia
compiuta a causa di un altro, è necessario che il suo bene e il suo male
diventino il mio motivo immediato; perché ciò avvenga egli deve diventare il
fine ultimo della mia volontà. È la partecipazione al suo dolore come di solito si
sente il proprio che permette questo; bisogna annullare le differenze tra la
propria e l’altrui individualità. Questo processo di può fare solo a livello della
conoscenza che ho di lui, “cioè mediante la rappresentazione che ho di lui nella
mia testa, così che la mia azione riveli quella differenza come inesistente” 74.
Questo processo è reso possibile dalla pietà che è definita come la
partecipazione, immediata e incondizionata, ai dolori altrui. Solo scaturendo da
essa l’azione ha valore morale. Un’altra volta nell’opera di Schopenhauer, il
superamento del principio individuationis, ovvero dell’individualità, è la chiave
di volta per il superamento dei limiti della volontà. Estremizzando si può dire
ch e l’uomo si appropria della libertà dell’esse nell’azione morale.
          Il problema del fondamento della morale sarà risolto soltanto quando lo
si dimostrerà nella natura umana stessa, questo però non è un problema
dell’etica ma della metafisica75.
Esistono tre motivi fondamentali dell’azione umana:
                 1. L’egoismo che vuole il proprio bene ed e infinito;
                 2. La cattiveria che vuole il male degli altri e giunge sino ad
                    un’estrema crudeltà;
                 3. La pietà che vuole il bene altrui, porta alla nobiltà e alla
                    grandezza d’animo;
          La partecipazione alla vita degli altri si limita ai dolori, e non viene
sollecitata direttamente dall’altrui benessere perché la privazione è l’oggetto
positivo della sensibilità. La natura della soddisfazione è soltanto nella
73
   ivi, p. 288
74
   ivi, p. 289
75
   ivi, p. 290


                                                                               22
cessazione di una mancanza, perciò è un principio negativo 76. “Anche quando si
tratta di noi stessi, soltanto il nostro dolore, e con ciò intendo anche il bisogno,
la mancanza, il desiderio. la stessa noia, muove la nostra attività, mentre uno
stato di soddisfazione e di contentezza ci lascia inattivi e indolenti” 77; ciò vale
anche per gli altri dal momento che la partecipazione ai loro stati d’animo è
possibile solo indentificandosi con loro. La vista del benessere altrui basta a
scatenare l’invidia, alla quale ogni uomo è naturalmente predisposto e che è
contraria alla moralità; “quanto più felice è il nostro stato e quanto più la
coscienza che ne abbiamo contrasta con la condizione dell’altro, tanto più
accessibili siamo alla pietà”78. Per capire bene ciò che vuole Schopenhauer,
secondo Vecchiotti, bisogna intendere la dottrina del dolore in rapporto al
genio. Lo stato di compassione è una lotta che nasce all’interno del nostro
essere. Nel momento in cui un dolore s’impadronisce di noi, noi ci sentiamo in
realtà consacrati ed elevati da questo stato, effettivamente degno di
compassione, nel quale ci sentiamo incapaci di grandi dolori. La filosofia di
Schopenhauer si guarda bene dal considerare questi sentimenti relativi al dolore
come qualcosa di puramente soggettivo, attribuendo loro un fondamento
oggettivo radicale: quello di un conflitto fra ordini superiori e inferiori.
“Sarebbe grandemente alleviata la pena se l’uomo gravemente ammalato fosse
capace di considerarsi senza timore come animale sofferente”79.
        “Benché i principi e le idee astratte non siano affatto la sorgente
originaria, o il primo fondamento della morale, sono tuttavia indispensabili per
una condotta morale, come un serbatoio, un reservoir, in cui si conservano i
buoni sentimenti”80; “senza principi saldamente stabiliti noi diventeremmo
inesorabilmente preda degli impulsi contrari alla moralità, quando questi dalle
impressioni esterne sono trasformate in passioni 81”, ciò che permette di

76
   ivi, p. 291
77
   ivi, p. 292
78
   ivi, p. 292
79
   I. Vecchiotti, Arthur Schopenhauer Storia di una filosofia e della sua “fortuna”, La nuova
Italia editrice, Firenze, 1976, cap 3, Schopenhauer in Germania dopo la morte, pg 33.
80
   I due problemi fondamentali dell’etica, p. 295
81
   ivi, p. 296


                                                                                            23
rimanere fedeli ai principi, malgrado l’operare di motivi contrari è il dominio di
se.
          La distinzione tra i doveri di diritto e i doveri di virtù, o più esattamente
tra giustizia e carità, è il limite naturale fra il negativo e il positivo, fra il non
far male e l’aiutare; ambedue hanno la loro radice nella pietà naturale. Nel
primo grado il partecipare al dolore altrui frena i motivi egoistici e spinge a non
commettere atti che possano arrecare dolore, nel secondo si arriva all’azione di
aiuto verso gli altri.82 Originariamente ogni uomo è portato verso l’ingiustizia e
la violenza perché i nostri bisogni si presentano per primi alla nostra coscienza,
invece le sofferenze altrui, anche quelle da noi provocate, arrivano a noi
soltanto per la via secondaria della rappresentazione e per mezzo
dell’esperienza83.
          La giustizia come virtù libera e autentica ha origine dalla pietà;
l’ingiustizia consiste sempre nel danneggiare gli altri. “Perciò il concetto di
ingiustizia è positivo e quello di giustizia, che è posteriore, è negativo e designa
soltanto le azioni che si possono compiere senza recare danno agli altri” 84. La
dottrina del diritto è quella parte della morale che indica quali azioni si possono
compiere se non si vuole danneggiare gli altri, cioè senza commettere
ingiustizia. È lo Stato che, con la legge, tenta di impedire queste azioni; lo
scopo del diritto positivo è dunque che nessuno soffra ingiustizia, quello della
dottrina morale del diritto è che nessuno la commetta85.(approfondimento nel
Mondo)
          Se per quello che riguarda la qualità ogni azione ingiusta è identica ad
ogni altra azione ingiusta, quantitativamente no; lo stesso vale per le azioni
giuste. Ad esempio un’ingiustizia doppia si ha quando qualcuno ha accettato
l’obbligo di proteggere un altro e viene meno, poiché oltre al danno occorso per
la mancata protezione vi è anche la violazione dell’obbligo stesso86. Tutte

82
   ivi, p. 293
83
   ivi, p. 294
84
   ivi, p. 298
85
   ivi, p. 300
86
   ivi, p. 301


                                                                                    24
quelle azioni la cui omissione costituisce un’ingiustizia sono i doveri, pertanto
ciò che è dovere è anche debito; sbaglia l’etica che annovera nel dovere ogni
azione lodevole87.
         I buddhisti non partono da virtù carnali, bensì da vizi cardinali. Le virtù
debbono essere qualità della volontà. Il punto nel quale le virtù morali e i vizi
morali dell’uomo si distaccano le une dagli altri, e è in primo luogo
quell’antagonismo che risiede alla base dei sentimenti verso gli altri, e che
assume o il carattere dell’invidia o il carattere della compassione. L’invidia erge
più saldamente il muro tra “tu” e “io”: per la compassione questo muro diventa
sottile e trasparente, anzi talvolta essa lo abbatte completamente, e allora
scompare la differenza tra io e non io88.
         In corrispondenza agli impulsi originari delle nostre azioni, ovvero
egoismo, malvagità e pietà, i motivi che possono muovere l’uomo si possono
raggruppare in tre classi generali: il proprio bene; il dolore altrui; il bene altrui.
“Il dolore altrui, e nessun’altra considerazione, dev’essere il mio motivo, se
voglio che la mia azione abbia un valore morale” 89. L’etica esiste laddove si
supera la barriera fra io e non io, il superamento dell’individualità è, come già
detto riguardo la tematica dell’arte, il primo passaggio per un’elevazione di sé.
Così come nell’arte esiste un continuo esercizio della tecnica, nell’etica è
necessario un lavoro di vera e propria costruzione da fare dentro di sé; occorre
perciò trarre dal principio supremo radicato nel proprio cuore, la regola valida
per ogni circostanza della vita. Poiché pochi ne hanno il tempo e la pazienza, è
più facile per molti imparare un’etica costruita 90. Ad esempio “se si paragona
l’eccellente morale che viene predicata dalla religione cristiana e, più o meno
da ogni altra religione, con la prassi dei fedeli” si comprende che “l’azione di
                                                        91
tutte le religioni sulla moralità è assai scarsa”         . Solo nel campo della
devozione speculativa a ciascuno la propria fede appare salda, ma nell’azione

87
   ivi, p. 302
88
   Parerga e Paralipomena, Sull’etica, §110
89
   I due problemi fondamentali dell’etica, p. 310
90
   ivi, p. 313
91
   ivi, p. 317


                                                                                   25
ciò non viene confermato. Per Schopenhauer il solo meditare un delitto porta
già oltre il limite della moralità, superato il quale sono solo la forza degli
ostacoli materiali ad impedirne il compimento92; non certo un comando
imperativo di ordine morale quale quello kantiano o quello religioso penetrato,
a detta dell’autore, per colpa del “foetor judaicus”93.
         I tre motivi etici fondamentali dell’uomo si ritrovano in ogni individuo
in proporzioni incredibilmente diverse, pertanto avranno efficacia per ogni
individuo soltanto con i motivi per i quali egli abbia una spiccata sensibilità.
Perciò se si vuole indurre un egoista a compiere un atto di carità, basterà
presentargli il suo vantaggio; le dottrine morali sono per lo più espedienti di tal
fatta. “Per mezzo dei determinati motivi si può imporre la legalità ma non la
moralità: si può cambiare l’azione, non il volere in se stesso, al quale soltanto
appartiene il valore morale”94.
         Il concetto di buono è essenzialmente relativo, e indica la conformità di
un oggetto con una qualsivoglia determinata aspirazione della volontà. “Il
concetto di buono si suddivide in due sottospecie: quella cioè della
soddisfazione immediata e quella della soddisfazione mediata, vale a dire la
soddisfazione della volontà nel futuro: e sono il piacevole e l’utile” 95. In virtù di
quanto detto ogni cosa buona è essenzialmente relativa, avendo la sua essenza
solo nel suo rapporto con la volontà in atto. Bene assoluto è quindi una
contraddizione: sommo bene significa ancora lo stesso, cioè propriamente il
finale appagarsi della volontà, dopo il quale nessun nuovo volere subentri.
Come ricorda Nietzsche questa visione non libera affatto dalla volontà poiché
“finché si aspira alla vita come a una felicità non si è ancora sollevato lo
sguardo oltre all’orizzonte dell’animale, si vuole soltanto con maggiore
consapevolezza ciò che l’animale cerca per impulso cieco.96” La conoscenza
dell’uomo “tutta presa dal principio di ragione e prigioniera nel principio

92
   ivi, p. 317
93
   ivi, p. 332
94
   ivi, p. 39
95
   Il mondo come volontà e rappresentazione, §65
96
   F. W. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1972, p. 48.


                                                                                   26
individuationis, rimane attaccata alla distinzione completa messa da quello tra
la sua persona e tutte le altre” 97. La malvagità è dunque dovuta alla cattiva
conoscenza, la quale è provocata dell’illusorio Velo di Maya che impedisce di
cogliere l’unità dell’essere, con la conseguenza che il tormentato e il
tormentatore fanno parte della medesima volontà. “Per quanto fitto sia il velo di
Maya che avvolge l’animo del malvagio, ossia per quanto chiusa sia la
prigionia di lui nel principio individuationis , in virtù del quale egli tiene la
propria persona come distinta assolutamente, e da ogni altra separata mediante
un ampio abisso, la quale cognizione, perché è la sola conforme al suo egoismo
e ne forma il sostegno, egli tien ferma con tutta forza, essendo quasi sempre la
cognizione corrotta dalla volontà” 98. È utile porre in rilievo che Nietzsche, ne
La nascita della tragedia, parta proprio dalla filosofia di Schopenhauer
ponendo in analogia il sentimento apollineo con il Velo di Maya: “così
potrebbe valere per Apollo, in un senso eccentrico ciò che Schopenhauer dice
dell’uomo irretito nel velo di Maya […] e si potrebbe definire lo stesso Apollo
come la magnifica immagine divina del principio individuationis, dai suoi gesti
e sguardi ci parla tutta la gioia e la saggezza della “parvenza”, insieme alla sua
bellezza”99. Apollo viene esplicitamente definito come la divinazione del
principium individuationis, che, “come divinità etica, esige dai suoi la misura
e, per poterlo osservare, la conoscenza di sé”100. L’apollineo e il dionisiaco sono
entrambi impulsi estetici che hanno trovato realizzazione nella tragedia greca; il
fatto che Nietzsche, partendo dalla filosofia di Schopenhauer definisca Apollo
come “divinità etica” è indicativo, nella sua ricezione, della necessità di un
momento etico nell’impulso estetico. Questa ricezione è utile a comprendere
che, nella filosofia di Schopenhauer non è possibile isolare la tematica estetica e
quella etica: essi sono diversi momenti conoscitivi di un percorso tra il mondo e
la volontà. Questa filosofia è sempre finalizzata ad uno scopo pratico, che è poi
la negazione della volontà stessa e vive in perenne equilibro tra il momento

97
   Il mondo come volontà e rappresentazione, §65
98
   ivi, §65
99
   F. W. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1972, p. 24.
100
    ivi, p. 37.


                                                                                27
ricettivo – intuitivo e quello pratico – creativo o morale. Tra questi due
momenti esiste un margine per la riflessione, ricco di contraddizioni e limiti, in
cui si genera lo spazio della scelta. Tale scelta può essere più o meno mediata a
seconda della “genialità” di chi la compie. Nietzsche troverà proprio in questo
“spazio della scelta” il luogo per arrivare ad affermare la volontà come azione
estetica101, laddove Schopenhauer era arrivato alla scelta etica della sua totale
negazione.




101
   “Già nella prefazione a R. Wagner è l’arte – e non la morale- che viene presentata come la
vera attività metafisica dell’uomo; nel libro poi ritorna più volte l’allusiva frase che solo come
fenomeno estetico l’esistenza del mondo è giustificata”, ivi, tentativo di autocritica, § 5, pg. 9.


                                                                                                 28

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l’Etica in Schopenhauer

  • 1. L’ETICA IN SCHOPENHAUER Dopo aver esaminato ciò che concerne la visione dell’arte in generale e della musica in particolare, in quanto prima via verso la liberazione dalla volontà, bisogna ora affrontare la sua morale. Come dice Fernando Savater la morale nella filosofia di Schopenhauer, da Savater definita sezione pratica della sua filosofia, non può essere considerata un corollario, ma la ragion d’essere del sistema. La tematica del dolore e della noia, dell’infelicità umana costituiscono un’intuizione fondamentale per comprendere quello che, in Schopenhauer, è la nascita del bisogno metafisico dovuto alla nostra incompatibilità con il mondo. Pertanto, secondo Savater, la risposta a questo bisogno è pratica e non teorica; una pratica che porta ad una vera e propria ribellione contro l’obbligo di voler vivere1. Schopenhauer stesso nella sua memoria Sul fondamento della morale (1840) spiegò che la sua etica non è scindibile dalla sua metafisica. Anche per Riconda, l’unico interesse perseguito da Schopenhauer, è una penetrazione del reale che ne sveli il significato profondo; i problemi etici, estetici e psicologici hanno in comune la preoccupazione di sciogliere l’enigma del mondo, pertanto, la sua filosofia è dal principio alla fine esposizione della sua metafisica, della sua Weltanschauung. L’aspetto gnoseologico del suo pensiero fa parte di questa metafisica: il fatto stesso che la sua prima opera Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1813) abbia come obiettivo distinguere il significato che il principio di ragione assume nelle quattro classi di rappresentazioni umane indica come la gnoseologia sia comunque il suo punto di partenza così come la stessa frase con cui si apre la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, ovvero “il mondo è una mia rappresentazione” fa pensare2. 1 F. Savater, Filosofia contro accademia, il melangolo, Genova, 1994. 2 G. Riconda, Schopenhauer interprete dell’Occidente, Mursia, 1986. 1
  • 2. La libertà in Schopenhauer Tutto il contenuto della natura, il complesso dei suoi fenomeni, è assolutamente necessario mentre la volontà non è determinata come effetto da una causa e non conosce necessità, ossia è libera. Il concetto di libertà è dunque propriamente concetto negativo, essendo il suo contenuto nient’altro che negazione della necessità, ovvero del rapporto di causa ed effetto, conforme al principio di ragione. Ciascuna cosa in quanto fenomeno, in quanto oggetto, è assolutamente necessaria, ma la stessa cosa è in sé volontà, e questa è del tutto libera in eterno: in questo consiste l’unione della libertà e della necessità, che risultano compresenti nel fenomeno in gradi diversi secondo il grado di oggettivazione della volontà in idee platoniche, ma che nella loro compresenza, sono su piani diversi: la libertà è trascendentale non fenomenica3. La libertà è dunque un concetto negativo, assenza di ostacolo, se lo si intende come forza deve essere, a detta dell’autore, un termine positivo. Distingue tre tipi di libertà: -fisica: assenza di ostacoli materiali di ogni specie. Attribuibile anche agli animali. Nel significato popolare si riferisce al potere. La libertà politica si riconduce a quella fisica4. -intellettuale: questa e la successiva fanno parte del significato filosofico. -morale: quella del libero arbitrium. Oltre la libertà fisica occorre introdurre il motivo. Siamo ancora liberi se senza ostacoli materiali, abbiamo un forte motivo contrario? La libertà fisica si riferisce 3 A. Schopenhauer, I due problemi fondamentali dell’etica, trad. ita di Giuseppe Faggin, Boringhieri, Torino, 1961, Memoria sulla libertà del volere. 4 “Ancora, si dice libero un popolo quando e’ governato soltanto da leggi che egli stesso si e’ dato, poiche’ allora esso non obbedisce che alla sua volontà. La libertà politica perciò dev’essere ricondotta alla libertà’ fisica” ivi, p. 70 2
  • 3. all’assenza di ostacoli materiali; l’autore verifica che alcuni motivi quali minacce, promesse, pericoli possono costituire un ostacolo; la questione è se a questo punto si possa ancora dire che esso è libero, oppure se effettivamente un motivo contrario possa agire contro un’azione conforme alla propria volontà. Un motivo non può mai agire come un ostacolo fisico, che facilmente supera la forza fisica dell’uomo, né può mai essere non irresistibile in se stesso, può soltanto essere controbilanciato da un motivo contrario più forte. Rimane aperto il problema se la volontà stessa sia libera. Si passa dal potere al volere5. La volontà stessa è libera? Puoi tu volere ciò che vuoi? Puoi tu volere? Sono queste le domande fondamentali per dirimere la questione secondo l’autore. Il concetto di libertà ricavato dall’agire non si connette direttamente con quello della volontà; rendendo astratto il concetto di libertà, lo si può definire come assenza in generale di necessità. In tal modo però, il concetto conserva il carattere negativo; “bisogna dunque esaminare senz'altro il concetto della necessità”, come concetto positivo, che contribuisce a dare un significato a quello negativo della libertà6. Necessario è ciò che deriva da una ragione sufficiente data. A seconda che questa ragione sufficiente appartenga all’ordine logico, all’ordine matematico o all’ordine fisico, nel quale è detta causa, la necessità diventa logica, matematica, oppure fisica - reale, ma è sempre inerente alla conseguenza con lo stesso rigore, una volta data la ragione sufficiente. Riconoscendo qualcosa come la conseguenza di una ragione sufficiente (e viceversa), noi concepiamo che essa sia necessaria. Questa è la spiegazione positiva che da l’autore: necessità e conseguenza di una ragione sufficiente sono concetti convertibili, pertanto l’assenza di necessità è identica all’assenza di una ragion sufficiente determinante7. 5 ivi, p. 72 6 ivi, p. 73 7 ivi, p. 74 3
  • 4. Il contingente è opposto al necessario. Ogni avvenimento è necessario in rapporto alla causa, contingente rispetto a tutte le cose in cui si imbatte nello spazio e nel tempo. Per essere assenza di necessità la libertà deve essere definita come la contingenza assoluta, come liberum arbitrium indifferentiae: un individuo in una circostanza data può agire in due modi diametralmente opposti. Ognuno si ritiene libero a priori in tutte le azioni, nel senso che pensa che a lui, in ciascun dato caso, ogni azione sia possibile; solo a posteriori, per esperienza e per meditazione dell’esperienza, riconosce che la sua condotta risulta determinata con necessità dell’incontro del carattere con i motivi. Il carattere intellegibile di un uomo è da considerare come un atto di volontà, che sta fuori del tempo, ed è quindi indivisibile e immutabile, mentre il fenomeno di quello, sviluppato e frazionato nel tempo e nello spazio e in tutte le forme del principio di ragione, è il carattere empirico, quale si palesa sperimentalmente in tutta la condotta e in tutta la vita dell’uomo medesimo8. Ne abbiamo una prova empirica, quando ci sta davanti una scelta difficile e importante, e tuttavia soggetta a una condizione che non s’è ancora avverata; sì ché lì per lì non possiamo fare nulla e dobbiamo attendere passivamente, allora prendiamo a riflettere quale sarà la nostra decisione, quando si saranno presentate le circostanze, che ci permettano libera azione; entrambe le risoluzioni possono apparire come egualmente possibili: questa è appunto l’illusione dell’empirica libertà del volere. “Se un uomo potesse, in pari circostanze, agire una volta in un modo e una volta in modo diverso9, ciò significherebbe essersi la sua volontà frattanto mutata; e la volontà starebbe adunque nel tempo, ché sol nel tempo può aversi mutazione”10. Quindi la contesa intorno alla libertà dell’azione individuale, intorno al liberum arbitrium indifferentiae, rientra propriamente nella questione se la volontà stia o meno nel tempo. Questo per l’impostazione 8 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. ita di P.Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Bari, 1928, §55 9 Questa è la definizione di liberum arbitrium indiferrentie per la cui trattazione A. Schopenhauer, I due problemi fondamentali dell’etica, trad. ita di Giuseppe Faggin, Boringhieri, Torino, 1961. 10 Il mondo come volontà e rappresentazione, §55 4
  • 5. di Schopenhauer non è possibile per definizione. Questa tematica è strettamente connessa con la critica che l’autore porta agli altri filosofi, soprattutto a quelli che si riconoscono nell’idealismo di Fichte. L’errore degli altri filosofi è di considerare l’essere umano prima come un essere conoscente e poi come un essere volitivo, mentre in Schopenhauer la conoscenza è un mezzo, una faticosa scala di elevazione platonica volta a comprendere che non esiste distinzione tra volizione e conoscenza poiché in ogni momento siamo mossi dalla medesima volontà; quello che rimane da fare è comprendere, a posteriori, nelle azioni, quale fosse il motivo stesso del nostro agire. Inoltre porre la conoscenza come primaria rispetto alla volizione esclude gli animali e le piante, nonché tutto il mondo inanimato da una trattazione gerarchico - olistica, poiché solo all’uomo spetta la conoscenza, mentre la volontà è in ogni fenomeno del mondo empirico. “La volontà fu perfino considerata come un atto di pensiero e identificata col giudizio; particolarmente per opera di Cartesio e Spinoza”. 11, ma “la volontà è l’elemento primo e originario; la conoscenza non sopraggiunge che più tardi, appartenendo al fenomeno della volontà, come strumento di questa” 12. Un’interessante riflessione di Cimarra a tal proposito, ricorda che esiste tuttavia un momento in cui la conoscenza si è svincolata nel suo uso teorico dal servizio alla volontà. In questo momento essa risulta separata, in linea di principio, dalle azioni; ad esempio, è facoltà di un uomo riconoscere che in un dato momento “avrebbe fatto meglio” ad agire in maniera diversa da quanto effettivamente avvenuto. Questo momento costituisce come tale l’unica libertà dell’uomo nella sfera fenomenica. “Se è senza’altro vero che non vi è nessuna azione libera, non è difatti meno vero che l’uomo non si esprime solo in azioni. Egli è anche capace di conoscenza, e soprattutto egli soltanto è capace di una conoscenza “abusiva”, svincolata dal servizio alla volontà. … Tale minimo momento di libertà apre, in prospettiva morale, lo spiraglio dell’auto negazione come prevalere non volitivo, libero da volontà” 13. Così come la 11 ivi, §55 12 ivi, §55 13 L. P. Cimarra, L’antropologia di Schopenhauer, Loffredo editore, Napoli, 1976, Il destino dell’uomo, considerazioni conclusive 5
  • 6. liberazione dalla volontà prodotta dalla contemplazione estetica nel genio è prodotta in quel momento, in quell’istante che abbiamo chiamato puro presente, anche la scelta si rivela essere libera solo in nell’istante in cui viene presa. Non è difficile comprendere che nel momento stesso in cui una scelta è in atto, il soggetto inizia a subirne le conseguenze perdendo quella libertà stessa da cui la scelta è scaturita; non è possibile, per nessuno, tornare sui propri passi. Non a caso Cimarra conclude dicendo che si delinea “nella forbice tra l’etica come fenomenologia dell’azione e l’etica come progetto di autonegazione – una dimensione intermedia che presuppone l’uomo costituito come tale e non approda all’autonegazione. All’interno di tale dimensione si conserva il tema giovanile del genio e – per suo tramite – il problema originario dell’individuo concreto”14. La libertà è qualcosa di metafisico; nel mondo fisico, invece, è qualcosa di impossibile. Per questa ragione, le nostre singole azioni non sono affatto libere; invece, il carattere individuale di ciascuno è da considerare come la sua libera azione. In fondo, ciò è dovuto al fatto che il modo, con cui la suddetta libera azione metafisica entra nella coscienza conoscitiva, è un’intuizione, la quale ha per forma il tempo e lo spazio, e mediante la quale l’unità e indivisibilità di quell’azione si presenta come distinta in una serie di condizioni e di stati, che subentrano sulla base del principio di ragione nelle sue quattro forme e, proprio perciò, in modo necessario. Il risultato però è morale, cioè questo: noi da ciò che facciamo riconosciamo ciò che siamo, e così pure da ciò che soffriamo riconosciamo ciò che meritiamo. Di qui discende, ancora, che l’individualità non si fonda soltanto sul principio di individuazione, e perciò non è integralmente mera apparenza, bensì essa è radicata nella cosa in sé, nella volontà del singolo: infatti il suo carattere stesso è individuale. Secondo Schopenhauer vale la pena di ricordare che già Platone, a modo suo, descrive l’individualità di ciascuno come un suo atto libero, in quanto lo fa nascere mediante la metempsicosi così come è, in conseguenza del suo carattere e del suo cuore. Ognuno in fondo è in grado di fare soltanto ciò che è 14 ivi 6
  • 7. irrevocabilmente già stabilito nella sua natura; cioè nel suo carattere innato. E’ anche vero, però, che le capacità intellettuali hanno bisogno di essere esercitate. Non vi è preparazione che basti a sostituire il materiale originario, così anche per le capacità intellettuali. Proprio per questo tutte le qualità puramente acquisite, imparate, conquistate, dunque le qualità a posteriori, morali come intellettuali, sono in realtà non autentiche, sono una vana parvenza senza contenuto15. Il problema della libertà del volere è quello del rapporto fra ideale e reale. L’intelligenza ha troppa attenzione all’oggetto nell’ambito della conoscenza; la volontà verso il soggetto, l’intelletto ha scopi pratici non speculativi. La vera libertà morale è data dal sentimento ben chiaro e certo della responsabilità per ciò che facciamo e dell’imputabilità delle nostre azioni. La responsabilità riguarda l’azione solo mediatamente e apparentemente, ma in fondo ricade sul suo carattere. Là dove è la colpa, deve esserci anche la responsabilità, la libertà deve risiedere nella stessa cosa, cioè nel carattere dell’uomo. “Il carattere è la proprietà, empiricamente riconosciuta, costante e immutabile di una volontà individuale”16. Si rivela direttamente dopo l’azione. Si impara a conoscere l’essenza della propria volontà sperimentando le sue manifestazioni. Partendo dai molteplici riferimenti nelle opere di Schopenhauer tra il lavoro dell’attore e il fenomeno etico della compassione nonché i molteplici slanci metafisici e gnoseologici della tematica artistica, Ceppa, parla del carattere empirico come di un ruolo che ci viene assegnato, un vero e proprio copione preferito che non si può cambiare. “In questa metafora teatrale e barocca del mondo, l'uomo può solo spingersi fino al punto di recitare meglio – con più stile e ponderatezza – la parte che il destino gli ha sortito”. È solo la conoscenza, e non la morale, l’ambito del perfezionamento. Il carattere immutabile non può essere mutato dal processo educativo, ma si può ampliare la conoscenza aprendosi così all’influenza di sempre nuovi motivi agenti sulla 15 A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, Trad. Ita. di E.A. Kuhn, G. Colli e M. Montanari, Boringhieri, Torino, 1963. Sull’etica, §116 16 I due problemi fondamentali dell’etica, p.167 7
  • 8. volontà. Quanto più l’uomo comprende le circostanze e padroneggia cognitivamente la situazione, tanto più ordini nuovi di motivi, diventano capaci di influenzare la sua volontà. Ceppa parla di un intellettualismo etico di Schopenhauer che però non attenua il determinismo dell’azione. La perfettibilità della conoscenza non contraddice l’immutabilità del carattere poiché la conoscenza appartiene soltanto al fenomeno, all’ordine illusorio della molteplicità spazio-temporale17. Attraverso la cultura del decadentismo mitteleuropeo, la metafora barocca e romantica del mondo come teatro giungerà fino al nostro Pirandello, costituendo un topos centrale della sua poetica18. Chi è avvezzo alle metodologie di studio degli attori, non può non notare l’analogia, se non altro terminologica implicata nella metafora del teatro in Schopenhauer; infatti nella recitazione è fondamentale punto di partenza la comprensione di quelle che sono dette le circostanze date. Sono quelle che producono o impulsi fisici, o motivi psicologici; tali motivi e impulsi sono quelli che producono l’azione organica dell’attore19. “Ogni uomo opera conformemente a ciò che egli è, e la sua azione, così conforme, viene necessariamente determinata caso per caso soltanto da particolari motivi. La libertà non può essere dunque ritrovata nell’operare, deve risiedere nell’esse”.20 “Tutto dipende da ciò che una persona è: ciò che fa, deriva da lei con la necessità di un corollario”21 Rifacendosi esplicitamente alla filosofia Kantiana, Schopenhauer dice: “Il rapporto esposto da Kant, fra carattere empirico e carattere intellegibile si fonda completamente sul tratto fondamentale della sua filosofia, cioè sulla differenza tra cosa in sé e fenomeno; e come, per lui, la realtà empirica del mondo dell’esperienza sussiste parallelamente alla sua idealità trascendentale, così la rigorosa necessità empirica dell’azione corrisponde alla sua libertà 17 L. Ceppa, Schopenhauer come diseducatore, Marietti, Casale Monferrato, 1983, p. 50. 18 ivi, p. 67. 19 M. Knebel, L’analisi della pieces e del ruolo mediante l’azione, Ubulibri, 2009; ma anche K. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, Laterza. 20 ivi, p. 169 21 ivi, p. 170 8
  • 9. trascendentale”22, l’aspetto fenomenico dell’azione, nel suo essere soggetto alla casualità, al tempo e allo spazio non è libera, mentre il suo carattere intellegibile, la volontà che lo determina, in quanto fuori dal tempo, al di là del principio individuationis, è libera dal nesso di casualità ovvero è libertà assoluta. Questa libertà non appartiene al mondo dell’esperienza. “Per conseguenza la volontà è libera ma soltanto in se stessa e fuori dal mondo fenomenico”23. L’uomo fa sempre e soltanto ciò che vuole, e tuttavia egli agisce necessariamente. L’autore non sopprime la libertà, ma la sposta a livello trascendentale, infatti in molti punti della sua opera indica dei modi di superare la volontà stessa, possibili grazie alla cognizione della libertà a livello trascendentale: l’arte, la morale permettono di cogliere, a livello metafisico, l’individualità oltre il tempo e rendono l’uomo, nell’arte per un momento, nella morale in maniera più durevole, nell’ascesi in maniera completa, libero. Secondo Ceppa ad esempio, l’uomo perviene alla libertà nella misura in cui, anticipando idealmente la morte, riesce ad astrarsi dal principium individuationis. La libertà si presenta pertanto come la facoltà, etica o estetica, di sottrarsi al mondo dell’individuazione empirica, di spengere in se l’egoismo e di proiettarsi nella sfera metafisica delle idee eterne 24. Leonardo Ceppa trova che nella filosofia di Schopenhauer la figura dell’artista e del filosofo siano prove contro il finalismo della natura nei suoi mezzi, nonostante siano prova eccellente della saggezza dei suoi scopi. Entrambi toccano l’animo nel profondo a poche persone, quando dovrebbero colpire tutti e comunque non con la forza dello slancio originale del filosofo e dell’artista. “E’ triste dover valutare in modo così diverso l’arte come causa e l’arte come effetto: quanto immensa essa è come causa, quanto paralizzata e fievole, invece, come effetto!”. È la volontà della natura che spinge l’artista all’opera per il bene degli altri uomini, tuttavia egli si rende conto dell’impossibilità, da parte degli altri uomini, di ritrovare ciò che egli vi ha posto originariamente; Ceppa parla di un 22 I due problemi fondamentali dell’etica , p. 168 23 ivi, p. 169 24 L. Ceppa, Schopenhauer come diseducatore, Marietti, Casale Monferrato, 1983, p. 55. 9
  • 10. vero e proprio amore e comprensione da parte dell’artista nei confronti della sua stessa opera. “Quel grado superiore e unico di amore e di comprensione è dunque necessario, secondo quanto la natura ha maldestramente disposto, perché ne sorga un grado inferiore; il più grande e il più nobile è adoperato come mezzo per la nascita di ciò che è meschino e non nobile”25. La volontà davanti all’autocoscienza, l’azione del corpo L’ autocoscienza è la conoscenza del proprio io in opposizione alle altre cose. Spazio, tempo e casualità non appartengono all’autocoscienza in quando sono condizioni del nostro conoscere le altre cose, della conoscenza obiettiva. La facoltà conoscitiva, diretta verso l’esterno, il teatro, ovvero la condizione della conoscenza del mondo, è più estesa dell’autocoscienza 26. Quale è il contenuto dell’autocoscienza? Come l’uomo diventa conscio del suo io? In quanto io di un essere che vuole. Tutti gli affetti e le passioni devono essere considerati come manifestazioni della volontà. Piacere e dolore sono i modi di risposta della parte empirica alla soddisfazione o meno della volontà. Anche del proprio corpo si può avere un’immediata consapevolezza solo come di un tramite della volontà verso l’esterno27. “L’autocoscienza è al tempo stesso la chiave dell’idealità e della realtà, e perciò il ritorno dell’io su di sé permette di prendere coscienza chiaramente della differenza fra il reale e l’ideale. L’io, ripiegandosi su di sé, si ritrova come principio conoscente, cui inerisce il mondo della rappresentazione, che anzi è parte del mondo della rappresentazione (il polo soggettivo di esso), e come principio volente, che è la realtà ultima dell’io, in cui si radica lo stesso io conoscitivo”28. Riconda parte da questa definizione e aggiunge che è dalla certezza del proprio corpo, che dall’esterno è rappresentazione fra rappresentazioni, che si giunge a determinare la cosa in sé, che nel proprio vissuto interno si manifesta come 25 L. Ceppa, Schopenhauer come diseducatore, Marietti, Casale Monferrato, 1983, p. 78. 26 I due problemi fondamentali dell’etica, p. 77 27 ivi, p. 79 28 G. Riconda, Schopenhauer interprete dell’Occidente, Mursia , p. 108. 10
  • 11. volontà. È proprio nell’immersione del sentimento di sé, nella propria autocoscienza, prescindendo dal corpo come qualcosa di esteriore, che si può giungere all’intuizione di sé come volontà. Il corpo si presenta come intuizione del soggetto conoscente e in maniera totalmente diversa la quale viene indicata con la parola volontà. Questa è quindi una doppia conoscenza che abbiamo del nostro corpo. L’egoismo pratico considera e tratta la persona propria come la sola persona reale e tutte le altre come puri fantasmi. L’egoismo teorico, filosoficamente, non è altro che un sofisma scettico, ossia dedotto per pura apparenza. La doppia conoscenza che noi abbiamo dell’essenza e dell’attività del nostro corpo ci servirà come una chiave per aprirci l’essenza d’ogni fenomeno nella natura29. I movimenti volontari del corpo non sono altro che la visibilità dei singoli atti volitivi. Codesti atti della volontà hanno sempre un principio fuori di se stessi, nei motivi. Il mio volere non si può spiegare in tutta la sua essenza con i motivi, ma questi determinano soltanto la sua manifestazione in un dato momento, sono la semplice occasione, in cui la mia volontà si manifesta. Esclusivamente con la premessa del mio carattere empirico il motivo è una spiegazione sufficiente della mia condotta. Soltanto il fenomeno della volontà è sottomesso al principio di ragione e non la volontà stessa, che sotto questo rispetto può dirsi non abbia ragione. Il mio corpo deve essere la mia volontà diventata visibile. “Le parti del corpo devono quindi corrispondere perfettamente ai bisogni principali, in cui la volontà si manifesta, debbono essere la visibile espressione di quelli: denti, esofago e canale intestinale sono la fame oggettivata; i genitali, l’istinto sessuale oggettivato; le mani prensili, i piedi veloci corrispondono al già più mediato bisogno della volontà, che mani e piedi rappresentano”30. Gli atti di volontà sono sempre indirizzati ad un oggetto. L’atto di volontà, che in se stesso è solo oggetto dell’autocoscienza, si produce in occasione di qualcosa, che appartiene alla conoscenza delle altre cose, ed è 29 Il mondo come volontà e rappresentazione, §19 30 ivi, §20 11
  • 12. perciò un oggetto della facoltà conoscitiva, il quale, per questa sua relazione, è detto motivo, ed è insieme la materia della volizione, in quanto questa è diretta su di esso e cioè mira a cambiarlo in qualche modo, perciò reagisce di fronte ad esso: in questa reazione si risolve tutto l’atto volitivo.31 La volizione è provocata necessariamente dal motivo? O piuttosto, la volontà, quando il motivo si presenta alla coscienza, conserva in pieno la libertà di volere o di non volere? Una volta che noi abbiamo accordato la casualità ad una determinata forza e perciò abbiamo riconosciuto che essa agisce, quella forza ha bisogno soltanto di una maggiore intensificazione, di fronte ad un’eventuale insistenza ad essa proporzionata per ottenere ugualmente il suo effetto32. L’autocoscienza non chiarisce nulla sulla applicabilità del concetto di necessità alla volizione. I concetti di casualità in generale e motivazione in particolare sono dominio dell’intelletto puro, rivolto all’esterno e del forum della ragione riflettente. Nel proprio intimo si sviluppa un’illusione, ognuno pensa: “Io posso volere, e quando vorrò un’azione, le membra del mio corpo muovendosi la eseguiranno all’istante.” Ciò vuol dire in breve che “io posso fare ciò che voglio.” 33 In questo non si discosta dalla definizione di libero come “conforme alla volontà.” L’autocoscienza proclama la libertà dell’agire presupponendo la libertà del volere. Sulla libertà del volere l’autocoscienza non può dire nulla. Soltanto in riferimento all’azione stessa si parla di atto del volere anche per l’autocoscienza. Finché la volizione è in divenire, si chiama desiderio, compiuta risoluzione. Si può confondere desiderio e volontà, si possono desiderare cose opposte, ma volerne una sola. È l’azione che rivela all’autocoscienza quale fosse la cosa voluta ma a posteriori. Della necessità che trasforma il desiderio in volizione e atto l’autocoscienza nulla sa a priori.34 Il volere si incontra con la 31 I due problemi fondamentali dell’etica, p. 80 32 “chi non sarà corrotto con 10 ducati ed esita ancora, sarà corrotto con 100, e così via”. A. Schopenhauer, ivi, p. 81 33 ivi, p. 82 34 “Egli cioè confonde, desiderio e volontà. Egli può si desiderare cose opposte; ma può volerne una sola; e quale sia questa , li rivela all’autocoscienza l’azione soltanto. Ma sulla necessità razionale, per la quale, di due desideri opposti l’uno e non l’altro diventa volizione e atto, nulla può dire l’autocoscienza, poiché essa viene a riconoscere il risultato del tutto a posteriori, ma 12
  • 13. possibilità oggettiva. L’autocoscienza ci rivela solo il volere, ma non i motivi che la determinano, i quali sono dominio della percezione esterna, cioè della facoltà conoscitiva. Questa illusione nasce dal fatto che la volontà dell’uomo è il suo io genuino e costituisce il fondo della sua coscienza. Egli è come vuole e vuole come è.35 Ogni atto della mia volontà mi si manifesta come azione del mio corpo ed è un principio di conoscenza per il soggetto conoscente. 36 Nella realtà etica il processo etico è la conoscenza del mondo come negazione di sé nel mondo, ovvero, in una filosofia dell’azione, l’azione che partendo dalla compassione arriva fino a negare il corpo stesso e il mondo stesso riconosciuti come medesima volontà. Questa è una riflessione del Cimarra, che mette in connessione questo processo etico di negazione con ciò che avviene nella contemplazione estetica: l’atto conoscitivo si rivela al tempo stesso atto etico, sospendendo la negatività del mondo nel momento stesso in cui riconosce la sua fondamentale identità con esso. Questa identità tra uomo e mondo, attraverso l’azione, porta l’uomo ad essere colpevole di quella stessa negatività37. La legge di motivazione Nel rapporto tra volontà e percezione esterna si ha a che fare con la facoltà conoscitiva che non può avere percezione immediata della volontà, ma ha conoscenza degli esseri dotati di volontà che le si presentano come fenomeni oggettivi, come oggetti di esperienza e vengono giudicati ed esaminati secondo regole generali certe a priori che rendono possibile l’esperienza e secondo i dati non lo sa affatto a priori.” ivi, p. 84 35 “Ciò dipende in ultima analisi del fatto, cha la volontà dell’uomo è il suo io genuino, il vero nucleo del suo essere: perciò costituisce il fondo della sua coscienza, come qualcosa di assolutamente dato e esistente, al di là del quale non può andare. Infatti egli è come vuole e vuole come è.” ivi, p. 88 36 ivi, p. 89 37 L. P. Cimarra, L’antropologia di Schopenhauer, Loffredo editore, Napoli, 1996, cap 2, §8, Etica della conoscenza, p.50. 13
  • 14. che l’esperienza ci fornisce. Per fare ciò entra in gioco l’intelletto coadiuvato dalle percezioni dei sensi38. La legge di casualità è la forma più generale dell’intelletto e ci è nota a priori. Il principio di ragione sufficiente è la forma più generale della nostra facoltà conoscitiva, e il carattere di necessità del principio di casualità si rivela come aspetto di questo39. Esistono tre aspetti della volontà corrispondenti alla divisione in esseri inorganici, piante e animali: causa, stimolo, motivo, senza che si perda il vincolo di necessità. Lo stimolo non presenta proporzionalità tra azione e reazione, tra intensità della causa e dell’effetto (luce, calore, aria, nutrimento, ovvero le funzioni vegetative) 40. La motivazione è causa che opera per mezzo della coscienza. Lo stimolo agisce per contatto. L’oggetto che agisce come motivo ha solo bisogno di essere percepito e conosciuto41. La ragione permette all’uomo di astrarre dall’intuizione, cioè di costruirsi delle rappresentazioni astratte: i concetti. Proprio dell’uomo sono il carattere dell’intenzionalità e della premeditazione. Il pensiero diventa motivo appena può agire su di una volontà presente. Ogni motivo è causa e porta con se la necessità. Attraverso il pensiero l’uomo può render presenti a se stesso i motivi il cui influsso sulla propria volontà egli avverte, e questo è il deliberare. La libertà dell’uomo è relativa solo all’immediatezza dell’intuizione, alla presenza delle cose intuite42. La risoluzione accade necessariamente dalla vittoria del motivo più forte tra quelli che si scontrano nella propria volontà43. Negli animali superiori l’effetto dei motivi diventa sempre più mediato, distaccato dalle azioni che esso provoca 44. Nell’uomo la distanza è incommensurabile, la rappresentazione diventa motivo dell’azione, negli animali è sempre e solo intuitiva nell’uomo no. I motivi intesi 38 I due problemi fondamentali dell’etica, p. 93 39 ivi, p. 95 40 ivi, p. 97 41 ivi, p. 99 42 ivi, p. 103 43 ivi, p. 104 44 ivi, p. 107 14
  • 15. come concetti e pensieri, non intuitivi, non sono più propri delle cose presenti e sfuggono all’osservatore. L’origine però di ogni pensiero è reale e oggettiva45. L’uomo agisce in un certo modo quando i motivi coincidono con le circostanze adatte, ma non può altrimenti egli deve agire, con necessari età. L’errore dipende dalla sua fantasia, che presentando un’immagine alla volta soltanto, esclude tutte le altre, con ciò eleva una velleitas ad una voluntas46. L’affermazione “io posso volere questa cosa” è in realtà veramente ipotetica perché porta con sé quella “se non preferissi quest’altra” ma anche quella “se ne ho i mezzi fisici e le condizioni favorevoli”. Anche il suicidio dipende da un motivo fortissimo. Intanto, per seguire l’esempio citato, se un individuo deliberasse di suicidarsi con un colpo di pistola, deve innanzitutto procurarsi lo strumento o deliberare un altro mezzo, poi, come nota l’autore, il solo avere in mano la pistola carica non gli conferisce il potere di uccidersi. “Per un’azione simile, il mezzo meccanico è la cosa meno importante: ciò che più vale è un motivo fortissimo”47. L’uomo come tutti gli oggetti dell’esperienza, è un fenomeno del tempo e dello spazio e, poiché la legge di casualità vale a priori per tutti i fenomeni, anche egli deve esserlo sottomesso. Le cause agenti si sono elevate fino ad essere semplici pensieri che lottano con altri pensieri, finché il più forte lo mette in movimento; tutto ciò accade con rigore di connessione causale. Le cause non determinano se non il quando e il dove delle manifestazioni delle forze originarie e inspiegabili, e sono cause, cioè producono necessariamente certi effetti, solo in quanto le presuppongono. Ciò che vale per le cause vale anche per gli stimoli e per i motivi, la motivazione non è altro che la casualità che opera attraverso il medium della conoscenza. Il fatto che ogni uomo reagisca diversamente agli stessi motivi, forma il carattere di ciascuno, conoscibile a posteriori, il proprio carattere empirico. Negli animali varia da specie a specie nell’uomo da individuo a individuo. Ecco alcuni punti fermi che pone l’autore circa il carattere: 45 ivi, p. 108 46 ivi, p. 111 47 ivi, p. 112 15
  • 16. 1- Il carattere dell’uomo è individuale, pertanto dalla conoscenza dei motivi non si può predire l’azione48. 2- Il carattere dell’uomo è empirico, attraverso l’esperienza accresce la conoscenza di noi stessi. La conoscenza del carattere empirico porta a quella del carattere acquisito49. 3- Il carattere dell’uomo è costante durante tutta la vita. Soltanto la sua conoscenza può essere corretta. Cambiano i mezzi non i fini. Ad esempio con l’educazione50. 4- Il carattere dell’uomo è innato51. Per ipotizzare la libertà del volere, il carattere dell’uomo dovrebbe essere una tabula rasa, come è l’intelletto per Locke. Una tendenza innata elimina la possibilità del perfetto equilibrio da cui dipende il liberum arbitrium indifferentiae. “Con questa ipotesi la causa della deferenza, da noi presa in considerazione, fra i modi di agire dei diversi uomini non può dunque risiedere nel soggettivo; ma nemmeno nell’oggettivo, perché allora sarebbero gli oggetti a determinare l’azione, e la presunta libertà svanirebbe e sarebbe perduta” in alternativa si potrebbe cercare un punto mediano tra oggetto e soggetto da cui derivarla, cioè dalla diversità della conoscenza del singolo oggetto, ma così ogni azione si risolverebbe nella conoscenza vera o falsa delle circostanze presenti52. Ogni azione umana è il prodotto necessario del carattere e del motivo che interviene. Il carattere, i fini sono determinati dalla natura; i mezzi 48 ivi, p. 117 49 ivi, p. 118 50 ivi, p. 119 51 ivi, p. 123 52 ivi, p. 125 16
  • 17. dipendono dalle circostanze esterne, dalla comprensione di esse. La libertà del volere, se considerata esattamente, implica un existentia senza essentia: questa è una contraddizione. Tutto ciò che accade, accade necessariamente, ma solo attraverso ciò che facciamo veniamo a conoscere ciò che siamo. E’ per questo che esiste la ad esempio la preveggenza, alla quale schopenahuer fa più volte riferimento dimostrando di crederci in maniera indiscutibile. I motivi che determinano la manifestazione del carattere, ossia l’azione, sul carattere medesimo agiscono per tramite della conoscenza, ma la conoscenza è mutevole. E’ possibile che la condotta di un uomo venga osservabilmente cambiata, senza che si possa inferirne un cambiamento del suo carattere. Perché i motivi agiscano, si richiede non soltanto la loro esistenza, ma anche l’esser conosciuti. Noi tutti siamo, in prima istanza, innocenti: la qual cosa significa che noi non conosciamo, né altri conoscono, il lato cattivo della nostra propria natura: solo incontrandosi con i motivi questo si palesa, e solo col tempo entrano i motivi nella nostra conoscenza e “sovente abbiamo di noi medesimi orrore”53. Ad esempio il rimorso non proviene mai dall’essersi mutata la volontà, bensì la conoscenza: il rimorso proviene sempre da conoscenza fattasi più retta. “L’influsso che la conoscenza, in quanto mezzo dei motivi, esercita non proprio sulla volontà medesima, ma sul suo manifestarsi nelle azioni, è anche base del principale divario tra l’azione dell’uomo e quella dell’animale, essendo in entrambi diverso il modo di conoscere” 54. La dipendenza dell’umana capacità deliberativa della facoltà del pensare in abstracto, e quindi del giudicare e dedurre, “sembra esser quella che ha traviato tanto Cartesio quanto Spinoza, facendo loro identificar le decisioni della volontà con la facoltà di affermare e negare (che è il giudizio), dal che Cartesio dedusse esser la volontà, secondo lui indifferentemente libera, responsabile anche di ogni errore teorico. Spinoza ne dedusse invece esser la volontà determinata necessariamente da motivi, come il giudizio dalle ragioni; il che ha del resto il suo valore, ma tuttavia si presenta come una conclusione esatta da 53 Il mondo come volontà e rappresentazione, §55 54 ivi 17
  • 18. false premesse”55. Nell’uomo soltanto è la decisione, e non il semplice desiderio, un valido segno del suo carattere, per lui stesso e per gli altri, ma la risoluzione diventa certa, per lui stesso come per gli altri, solamente con l’azione. Sebbene tutto si possa considerare come irrevocabilmente predeterminato dal destino, ciò non accade se non mediante la concatenazione delle cause. “Come gli eventi saranno sempre conformi al destino, ossia all’infinita concatenazione delle cause, così saranno le nostre azioni conformi sempre al nostro carattere intellegibile; ma, come non abbiamo cognizione anticipata di quello, così non ci è dato di guardare a priori dentro di questo; bensì unicamente a posteriori, con l’esperienza, veniamo a conoscere tanto gli altri quanto noi stessi” 56. Qui è dichiarata la visione della liberazione della volontà come un percorso di conoscenza, che porta più verso il socratico conosci te stesso che non all’idea platonica, percorso di conoscenza che a mio parere è un modo di indagine più che calzante per la filosofia di Schopenhauer; migliore a mio avviso che quella di una filosofia dell’egoismo, dell’azione, o dell’arte, o di una mera metafisica del volere, la cui importanza è indubbia, ma risultano solo come conseguenza di tutto l’impianto conoscitivo a cui la stessa metafisica del volere è legata. Accanto al carattere intellegibile e all’empirico ne va ricordato un terzo, da entrambi diverso, il carattere acquisito, che si acquista vivendo, con l’uso del mondo, ma tale carattere è più importante per la vita sociale che non per l’etica vera e propria. “Non basta il semplice volere, né, in sé, il potere: un uomo deve anche sapere ciò che vuole e sapere ciò che può: solo così mostrerò carattere e riuscirà a qualcosa di buono”57. L’uomo tra egoismo e compassione Ogni individuo, per quanto infinitamente piccolo nello sterminato mondo, si fa centro dell’universo. Tale disposizione è l’egoismo, proprio d’ogni 55 ivi, §55 56 ivi 57 ivi, §55 18
  • 19. altra cosa nella natura58. “L’egoismo si fonda sull’apparenza sensibile, sulla convinzione della differenza tra la propria e altrui persona, sull’illusione della molteplicità spazio-temporale, che presiede al principium individuationis. L’atteggiamento etico della compassione si fonda invece sull’identità della sostanza. In tutti i fenomeni, dunque sull’ unico essere che si manifesta nel mondo l’Uno - tutto”59. I concetti non hanno altro uso all’infuori dei giudizi. I giudizi non hanno valore se non in quanto siano veri. Che un giudizio sia vero significa che esso ha una ragione sufficiente. Questa deve essere qualcosa di diverso dal giudizio cui si riferisce. La verità è dunque la relazione di un giudizio con qualcosa che si trova al di fuori di esso60. Le verità fisiche possono avere un gran significato esteriore, manca ad esse però un significato interiore. Quest’ultimo è il privilegio delle verità intellettuali e morali, come quelle che hanno per temi i supremi gradini di oggettivazione della volontà; le altre, invece, gli infimi61. Molte delle azioni comunemente considerate morali non sono mossi da motivi autenticamente morali. Anche le azioni di carità, che sono indubbiamente nobili, spesso dipendono dalla volontà di ostentazione, o dalla fede di una ricompensa futura sia terrena (come ad esempio il ritorno di fronte alla pubblica opinione), sia ultra terrena (come nelle religioni), ma i motivi di fondo rimangono egoistici. Un’azione può essere considerata morale quando avviene in assenza di coercizione e in assenza di ogni retribuzione materiale o spirituale62. Il pentimento per azioni immorali è spesso, più che altro, il timore delle conseguenze63. “Molti si stupirebbero se potessero vedere di cosa è composta quella coscienza, di cui fanno tanto conto: un quinto di rispetto umano, un quinto di terrori religiosi, un quinto di pregiudizi, un quinto di vanità e un quinto di abitudine”64. Anche le forme di governo rispecchiano la 58 ivi, §61 59 L. Ceppa, Schopenhauer come diseducatore, Marietti, Casale Monferrato,1983, pg 52. 60 A. Schopenhauer, La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, a cura di A.Vigorelli, Guerini e Associati, 1999, cap.5, Libro IV, §30. 61 Parerga e Paralipomena, Sull’etica, §108 62 ivi, p. 270 63 ivi, p. 271 64 ivi, p. 272 19
  • 20. disposizione umana all’egoismo; infatti lo Stato, capolavoro dell’egoismo, protegge i diritti di ciascuno avendo forza superiore al singolo individuo e lo costringe al rispetto degli altri: “La coercizione ci ha incatenato tutti”65. L’onestà generale nelle relazioni umane è considerata come una massima solidissima nel fondamento di una morale, ma dipende da due condizioni esterne: l’ordinamento giuridico della forza pubblica e la stima dei cittadini, o pubblica opinione. Queste due forze sociali agisco come sentinelle sull’onestà pubblica senza la quale saremmo in difficoltà soprattutto per quel che riguarda “la proprietà, che nella vita umana è il centro intorno al quale si aggira ogni azione e ogni desiderio” 66. Non si può ritrovare nel diritto naturale quello della proprietà ma nel diritto positivo, per il diritto naturale la proprietà è quella fondata sul proprio lavoro perciò è difficile se non impossibile risalire a motivi autenticamente morali per ciò che riguarda la tutela del diritto di proprietà. Per molti il diritto positivo è adeguato alla difesa della proprietà senza interrogarsi oltre circa la sua moralità67. Pertanto se la legge è eludibile, o trasgredibile senza ripercussioni si assiste alla violazione della proprietà; il mondo è pieno di coloro che, nel possesso di qualsiasi cosa, non badano ai mezzi utilizzati; “dal loro punto di vista la società civile avrebbe sostituito al diritto del più forte il diritto del più astuto”68. Un utile esempio di falsa moralità è il concetto della dignità dell’uomo: se in generale si domandasse su che cosa mai si fonda questa presunta dignità dell’uomo, la risposta finirebbe ben presto per essere che si fonda sulla sua moralità. Dunque la moralità sulla dignità, e la dignità sulla moralità. Ma, anche a parte tutto ciò, il concetto di dignità mi sembra si possa applicare solo in quel modo ironico a un essere così colpevole nella volontà, così limitato nello spirito, così fragile e caduco nel corpo, quel è l’uomo. Perciò, in contrasto con la suddetta forma del principio morale kantiano, vorrei stabilire la norma 65 ivi, p. 274 66 I due problemi fondamentali dell’etica, p. 267 67 “molti considerano tacitamente la proprietà altrui come garantita soltanto dal diritto positivo”, ivi, p. 268 68 ivi 20
  • 21. seguente: con ogni uomo che venga in contatto con noi, non si deve stabilire una valutazione oggettiva in base al valore e alla dignità, non si deve dunque considerare la malvagità della sua volontà, né la limitatezza del suo intelletto e la stoltezza dei suoi concetti, perché la prima cosa potrebbe risvegliare facilmente contro di lui odio, la seconda disprezzo: bensì si miri soltanto alle sue sofferenza, alla sua miseria, alla sua angoscia, ai suoi dolori: allora ci sentirà sempre affini a lui, si simpatizzerà con lui e, invece di odio e disprezzo, si proverà per lui quella compassione la quale è la άáηπ alla quale ci invita il Vangelo. Perché non sorga verso di lui odio, disprezzo, non è certamente la ricerca della sua pretesa “dignità”, bensì all’inverso il punto di vista della compassione, il solo punto di vista appropriato.69 Si può obbiettare che l’etica non deve occuparsi di ciò che gli uomini fanno ma di quello che devono fare, l’autore invece obbietta che il compito che si ripropone è quello di esporre le molte e differenti maniere di agire in campo morale dalla cui interpretazione si può risalire il principio ultimo, comunque empirico70. A tal proposito egli dice che “Il motivo primario e fondamentale, nell’uomo come nell’animale, è l’egoismo, cioè l’impulso ad esistere e a star bene”71, l’interesse è l’egoismo guidato da ragione, cioè reso capace di mirare ai suoi scopi, secondo le riflessione, seguendo un piano prestabiliti: l’animale si può dire egoista ma non interessato; l’egoismo è per sua natura infinito. Ognuno fa di se il centro dell’universo, “e ciò accade perché ciascuno ha coscienza di se immediatamente e degli altri soltanto mediatamente, attraverso la rappresentazione che ha di essi nella propria testa”, come pura rappresentazione del soggetto: perciò relativamente a una autocoscienza 72. La cortesia è la negazione convenzionale e sistematica dell’egoismo, un’ipocrisia riconosciuta. In realtà, contro l’egoismo si oppone la giustizia prima e autentica virtù cardinale, la carità si oppone alla malvolenza e all’odio. 69 Parerga e Paralipomena, Sull’etica, §109 70 I due problemi fondamentali dell’etica, p. 275 71 ivi, p. 276 72 ivi, p. 277 21
  • 22. L’assenza di qualsiasi motivo egoistico e il criterio di un’azione che abbia valore morale. “Soltanto questo fine imprime a un’azione il carattere di valore morale; perciò essa avrà tale valore esclusivamente se essa sarà compiuta o omessa per il vantaggio e l’utilità di un altro”73. Perché la mia azione sia compiuta a causa di un altro, è necessario che il suo bene e il suo male diventino il mio motivo immediato; perché ciò avvenga egli deve diventare il fine ultimo della mia volontà. È la partecipazione al suo dolore come di solito si sente il proprio che permette questo; bisogna annullare le differenze tra la propria e l’altrui individualità. Questo processo di può fare solo a livello della conoscenza che ho di lui, “cioè mediante la rappresentazione che ho di lui nella mia testa, così che la mia azione riveli quella differenza come inesistente” 74. Questo processo è reso possibile dalla pietà che è definita come la partecipazione, immediata e incondizionata, ai dolori altrui. Solo scaturendo da essa l’azione ha valore morale. Un’altra volta nell’opera di Schopenhauer, il superamento del principio individuationis, ovvero dell’individualità, è la chiave di volta per il superamento dei limiti della volontà. Estremizzando si può dire ch e l’uomo si appropria della libertà dell’esse nell’azione morale. Il problema del fondamento della morale sarà risolto soltanto quando lo si dimostrerà nella natura umana stessa, questo però non è un problema dell’etica ma della metafisica75. Esistono tre motivi fondamentali dell’azione umana: 1. L’egoismo che vuole il proprio bene ed e infinito; 2. La cattiveria che vuole il male degli altri e giunge sino ad un’estrema crudeltà; 3. La pietà che vuole il bene altrui, porta alla nobiltà e alla grandezza d’animo; La partecipazione alla vita degli altri si limita ai dolori, e non viene sollecitata direttamente dall’altrui benessere perché la privazione è l’oggetto positivo della sensibilità. La natura della soddisfazione è soltanto nella 73 ivi, p. 288 74 ivi, p. 289 75 ivi, p. 290 22
  • 23. cessazione di una mancanza, perciò è un principio negativo 76. “Anche quando si tratta di noi stessi, soltanto il nostro dolore, e con ciò intendo anche il bisogno, la mancanza, il desiderio. la stessa noia, muove la nostra attività, mentre uno stato di soddisfazione e di contentezza ci lascia inattivi e indolenti” 77; ciò vale anche per gli altri dal momento che la partecipazione ai loro stati d’animo è possibile solo indentificandosi con loro. La vista del benessere altrui basta a scatenare l’invidia, alla quale ogni uomo è naturalmente predisposto e che è contraria alla moralità; “quanto più felice è il nostro stato e quanto più la coscienza che ne abbiamo contrasta con la condizione dell’altro, tanto più accessibili siamo alla pietà”78. Per capire bene ciò che vuole Schopenhauer, secondo Vecchiotti, bisogna intendere la dottrina del dolore in rapporto al genio. Lo stato di compassione è una lotta che nasce all’interno del nostro essere. Nel momento in cui un dolore s’impadronisce di noi, noi ci sentiamo in realtà consacrati ed elevati da questo stato, effettivamente degno di compassione, nel quale ci sentiamo incapaci di grandi dolori. La filosofia di Schopenhauer si guarda bene dal considerare questi sentimenti relativi al dolore come qualcosa di puramente soggettivo, attribuendo loro un fondamento oggettivo radicale: quello di un conflitto fra ordini superiori e inferiori. “Sarebbe grandemente alleviata la pena se l’uomo gravemente ammalato fosse capace di considerarsi senza timore come animale sofferente”79. “Benché i principi e le idee astratte non siano affatto la sorgente originaria, o il primo fondamento della morale, sono tuttavia indispensabili per una condotta morale, come un serbatoio, un reservoir, in cui si conservano i buoni sentimenti”80; “senza principi saldamente stabiliti noi diventeremmo inesorabilmente preda degli impulsi contrari alla moralità, quando questi dalle impressioni esterne sono trasformate in passioni 81”, ciò che permette di 76 ivi, p. 291 77 ivi, p. 292 78 ivi, p. 292 79 I. Vecchiotti, Arthur Schopenhauer Storia di una filosofia e della sua “fortuna”, La nuova Italia editrice, Firenze, 1976, cap 3, Schopenhauer in Germania dopo la morte, pg 33. 80 I due problemi fondamentali dell’etica, p. 295 81 ivi, p. 296 23
  • 24. rimanere fedeli ai principi, malgrado l’operare di motivi contrari è il dominio di se. La distinzione tra i doveri di diritto e i doveri di virtù, o più esattamente tra giustizia e carità, è il limite naturale fra il negativo e il positivo, fra il non far male e l’aiutare; ambedue hanno la loro radice nella pietà naturale. Nel primo grado il partecipare al dolore altrui frena i motivi egoistici e spinge a non commettere atti che possano arrecare dolore, nel secondo si arriva all’azione di aiuto verso gli altri.82 Originariamente ogni uomo è portato verso l’ingiustizia e la violenza perché i nostri bisogni si presentano per primi alla nostra coscienza, invece le sofferenze altrui, anche quelle da noi provocate, arrivano a noi soltanto per la via secondaria della rappresentazione e per mezzo dell’esperienza83. La giustizia come virtù libera e autentica ha origine dalla pietà; l’ingiustizia consiste sempre nel danneggiare gli altri. “Perciò il concetto di ingiustizia è positivo e quello di giustizia, che è posteriore, è negativo e designa soltanto le azioni che si possono compiere senza recare danno agli altri” 84. La dottrina del diritto è quella parte della morale che indica quali azioni si possono compiere se non si vuole danneggiare gli altri, cioè senza commettere ingiustizia. È lo Stato che, con la legge, tenta di impedire queste azioni; lo scopo del diritto positivo è dunque che nessuno soffra ingiustizia, quello della dottrina morale del diritto è che nessuno la commetta85.(approfondimento nel Mondo) Se per quello che riguarda la qualità ogni azione ingiusta è identica ad ogni altra azione ingiusta, quantitativamente no; lo stesso vale per le azioni giuste. Ad esempio un’ingiustizia doppia si ha quando qualcuno ha accettato l’obbligo di proteggere un altro e viene meno, poiché oltre al danno occorso per la mancata protezione vi è anche la violazione dell’obbligo stesso86. Tutte 82 ivi, p. 293 83 ivi, p. 294 84 ivi, p. 298 85 ivi, p. 300 86 ivi, p. 301 24
  • 25. quelle azioni la cui omissione costituisce un’ingiustizia sono i doveri, pertanto ciò che è dovere è anche debito; sbaglia l’etica che annovera nel dovere ogni azione lodevole87. I buddhisti non partono da virtù carnali, bensì da vizi cardinali. Le virtù debbono essere qualità della volontà. Il punto nel quale le virtù morali e i vizi morali dell’uomo si distaccano le une dagli altri, e è in primo luogo quell’antagonismo che risiede alla base dei sentimenti verso gli altri, e che assume o il carattere dell’invidia o il carattere della compassione. L’invidia erge più saldamente il muro tra “tu” e “io”: per la compassione questo muro diventa sottile e trasparente, anzi talvolta essa lo abbatte completamente, e allora scompare la differenza tra io e non io88. In corrispondenza agli impulsi originari delle nostre azioni, ovvero egoismo, malvagità e pietà, i motivi che possono muovere l’uomo si possono raggruppare in tre classi generali: il proprio bene; il dolore altrui; il bene altrui. “Il dolore altrui, e nessun’altra considerazione, dev’essere il mio motivo, se voglio che la mia azione abbia un valore morale” 89. L’etica esiste laddove si supera la barriera fra io e non io, il superamento dell’individualità è, come già detto riguardo la tematica dell’arte, il primo passaggio per un’elevazione di sé. Così come nell’arte esiste un continuo esercizio della tecnica, nell’etica è necessario un lavoro di vera e propria costruzione da fare dentro di sé; occorre perciò trarre dal principio supremo radicato nel proprio cuore, la regola valida per ogni circostanza della vita. Poiché pochi ne hanno il tempo e la pazienza, è più facile per molti imparare un’etica costruita 90. Ad esempio “se si paragona l’eccellente morale che viene predicata dalla religione cristiana e, più o meno da ogni altra religione, con la prassi dei fedeli” si comprende che “l’azione di 91 tutte le religioni sulla moralità è assai scarsa” . Solo nel campo della devozione speculativa a ciascuno la propria fede appare salda, ma nell’azione 87 ivi, p. 302 88 Parerga e Paralipomena, Sull’etica, §110 89 I due problemi fondamentali dell’etica, p. 310 90 ivi, p. 313 91 ivi, p. 317 25
  • 26. ciò non viene confermato. Per Schopenhauer il solo meditare un delitto porta già oltre il limite della moralità, superato il quale sono solo la forza degli ostacoli materiali ad impedirne il compimento92; non certo un comando imperativo di ordine morale quale quello kantiano o quello religioso penetrato, a detta dell’autore, per colpa del “foetor judaicus”93. I tre motivi etici fondamentali dell’uomo si ritrovano in ogni individuo in proporzioni incredibilmente diverse, pertanto avranno efficacia per ogni individuo soltanto con i motivi per i quali egli abbia una spiccata sensibilità. Perciò se si vuole indurre un egoista a compiere un atto di carità, basterà presentargli il suo vantaggio; le dottrine morali sono per lo più espedienti di tal fatta. “Per mezzo dei determinati motivi si può imporre la legalità ma non la moralità: si può cambiare l’azione, non il volere in se stesso, al quale soltanto appartiene il valore morale”94. Il concetto di buono è essenzialmente relativo, e indica la conformità di un oggetto con una qualsivoglia determinata aspirazione della volontà. “Il concetto di buono si suddivide in due sottospecie: quella cioè della soddisfazione immediata e quella della soddisfazione mediata, vale a dire la soddisfazione della volontà nel futuro: e sono il piacevole e l’utile” 95. In virtù di quanto detto ogni cosa buona è essenzialmente relativa, avendo la sua essenza solo nel suo rapporto con la volontà in atto. Bene assoluto è quindi una contraddizione: sommo bene significa ancora lo stesso, cioè propriamente il finale appagarsi della volontà, dopo il quale nessun nuovo volere subentri. Come ricorda Nietzsche questa visione non libera affatto dalla volontà poiché “finché si aspira alla vita come a una felicità non si è ancora sollevato lo sguardo oltre all’orizzonte dell’animale, si vuole soltanto con maggiore consapevolezza ciò che l’animale cerca per impulso cieco.96” La conoscenza dell’uomo “tutta presa dal principio di ragione e prigioniera nel principio 92 ivi, p. 317 93 ivi, p. 332 94 ivi, p. 39 95 Il mondo come volontà e rappresentazione, §65 96 F. W. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1972, p. 48. 26
  • 27. individuationis, rimane attaccata alla distinzione completa messa da quello tra la sua persona e tutte le altre” 97. La malvagità è dunque dovuta alla cattiva conoscenza, la quale è provocata dell’illusorio Velo di Maya che impedisce di cogliere l’unità dell’essere, con la conseguenza che il tormentato e il tormentatore fanno parte della medesima volontà. “Per quanto fitto sia il velo di Maya che avvolge l’animo del malvagio, ossia per quanto chiusa sia la prigionia di lui nel principio individuationis , in virtù del quale egli tiene la propria persona come distinta assolutamente, e da ogni altra separata mediante un ampio abisso, la quale cognizione, perché è la sola conforme al suo egoismo e ne forma il sostegno, egli tien ferma con tutta forza, essendo quasi sempre la cognizione corrotta dalla volontà” 98. È utile porre in rilievo che Nietzsche, ne La nascita della tragedia, parta proprio dalla filosofia di Schopenhauer ponendo in analogia il sentimento apollineo con il Velo di Maya: “così potrebbe valere per Apollo, in un senso eccentrico ciò che Schopenhauer dice dell’uomo irretito nel velo di Maya […] e si potrebbe definire lo stesso Apollo come la magnifica immagine divina del principio individuationis, dai suoi gesti e sguardi ci parla tutta la gioia e la saggezza della “parvenza”, insieme alla sua bellezza”99. Apollo viene esplicitamente definito come la divinazione del principium individuationis, che, “come divinità etica, esige dai suoi la misura e, per poterlo osservare, la conoscenza di sé”100. L’apollineo e il dionisiaco sono entrambi impulsi estetici che hanno trovato realizzazione nella tragedia greca; il fatto che Nietzsche, partendo dalla filosofia di Schopenhauer definisca Apollo come “divinità etica” è indicativo, nella sua ricezione, della necessità di un momento etico nell’impulso estetico. Questa ricezione è utile a comprendere che, nella filosofia di Schopenhauer non è possibile isolare la tematica estetica e quella etica: essi sono diversi momenti conoscitivi di un percorso tra il mondo e la volontà. Questa filosofia è sempre finalizzata ad uno scopo pratico, che è poi la negazione della volontà stessa e vive in perenne equilibro tra il momento 97 Il mondo come volontà e rappresentazione, §65 98 ivi, §65 99 F. W. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1972, p. 24. 100 ivi, p. 37. 27
  • 28. ricettivo – intuitivo e quello pratico – creativo o morale. Tra questi due momenti esiste un margine per la riflessione, ricco di contraddizioni e limiti, in cui si genera lo spazio della scelta. Tale scelta può essere più o meno mediata a seconda della “genialità” di chi la compie. Nietzsche troverà proprio in questo “spazio della scelta” il luogo per arrivare ad affermare la volontà come azione estetica101, laddove Schopenhauer era arrivato alla scelta etica della sua totale negazione. 101 “Già nella prefazione a R. Wagner è l’arte – e non la morale- che viene presentata come la vera attività metafisica dell’uomo; nel libro poi ritorna più volte l’allusiva frase che solo come fenomeno estetico l’esistenza del mondo è giustificata”, ivi, tentativo di autocritica, § 5, pg. 9. 28