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male di vivere 
i volti del disagio – rosella de leonibus 
Un pesante cocktail di sentimenti rabbiosi e depressivi, dove la demotivazione e la mancanza di fiducia nel futuro si connettono ad una sorta di assuefazione rassegnata davanti a comportamenti come il mobbing e il bullismo, e dove la violenza in tutte le sue manifestazioni (da quella legata alle competizioni sportive alla violenza di genere, da quella sulle strade a quella del linguaggio quotidiano) sembra endemica ed inevitabile. 
E’ l’ultimo rapporto del Censis che, all’inizio dell’estate, intitolato significativamente “La crescente sregolazione delle pulsioni”, ha tracciato un’immagine dell’Italia contemporanea intessuta del male di vivere. L’aumento delle denunce per ingiurie e minacce (più 30%) e per lesioni e percosse (più 26,5%) negli ultimi cinque anni, il crescente ricorso a farmaci antidepressivi (più 114,2% in dieci anni), ne rappresentano lo specchio impietoso. A fronte dei modelli di vita mediatici, inverosimili quanto luccicanti, impossibili da raggiungere, cresce il dislivello rispetto alla percezione del proprio sé quotidiano, e soffre più che mai la componente narcisistica che abita in tutti noi umani. 
Lontani dagli amici di Maria e dai famosi di qualunque isola, si continua a misurarsi con essi, e costatato che il cammino da prostituta a escort e da escort a qualche carica pubblica non è affatto precluso, ci si può attrezzare in conseguenza e puntare sull’unico strumento che sembra garantire successo: un corpo sempre più desoggettivizzato, stravolto dai 450.000 interventi di chirurgia estetica praticati in Italia nel corso del 2010. Intanto i reati sessuali sono aumentati del 26%. Da un lato gli interessi dell’industria sembrano convalidare una medicalizzazione spinta della normalità, dove ogni emozione meno che euforica che emergesse dall’animo umano può essere subito spenta chimicamente, e dove ogni scostamento da una immagine estetica standard può essere corretto con pochi giorni di degenza e poche migliaia di euro. Dall’altro la pressione costante ad essere qualcun altro, il perenne scontento per l’identità che si possiede, quella “tirannia dell’istante” (come la chiama Bauman), che produce uno scostamento permanente da se stessi, una tensione mai allentata, un movimento costante proiettato verso mete irraggiungibili. 
Su queste manifestazioni contemporanee del male di vivere sono state tracciate alcune riflessioni nel corso del 69° Corso di Studi Cristiani, “Sporgersi ingenui sull’abisso”, svoltosi poche settimane fa presso la Cittadella di Assisi. 
tra impotenza e onnipotenza 
Nel suo Le origini del totalitarismo, nel lontano 1955 Hanna Arendt scriveva: “Mai il nostro futuro è stato più imprevedibile (…...). E’ come se l’umanità si fosse divisa tra quelli che credono nell’onnipotenza umana (ritenendo che tutto sia possibile purché si sappia come organizzare a tale scopo le masse) e quelli per cui l’impotenza è diventata la maggiore esperienza della loro vita”. 
Queste stesse parole, riferite ad un’epoca di grande paura e rischio collettivo, a quasi sessanta anni di distanza possono diventare una buona chiave attraverso cui entrare nel senso profondo delle “passioni tristi” di noi umani occidentali contemporanei.
L’equivoco sociale, dentro il quale tanti nostri contemporanei si trovano incastrati, è quello secondo cui essere autonomi equivale ad essere forti, essere dominanti, aver potere sugli altri e sul mondo, per perseguire i propri scopi e soddisfare i propri bisogni. E’ una psicologia basata su un io forte, che dovrebbe affrancarsi dal proprio destino, mentre la contraddizione con la realtà diventa ancora più insanabile là dove la mia sorte appare completamente in mano a forze, poteri e movimenti davanti ai quali mi sento completamente impotente. Quando l’idea di autonomia è enfatizzata come possibilità di vincere il destino, di diventare qualcuno o qualcosa su cui mi sono identificato o su cui ho appiattito l’immagine desiderata di me stessa, ci si trova costretti dentro l’icona del “lupo performante”. Questa interessante metafora - è di due psichiatri-filosofi francesi, Miguel Benasayag e Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi , Feltrinelli - corrisponde ad una costruzione psichica che pretende di sovrastare ogni cosa, che canalizza e domina anche le proprie pulsioni, ma non in un ‘ottica di evoluzione personale, di maturità, bensì per fini produttivi ed utilitaristici. La vita psichica è ridotta in modo drammatico, non c’è più alcuno spazio per un processo di interiorizzazione, per costruire significati personali intorno alle esperienze, per elaborare una consapevolezza di se stessi e una integrazione equilibrata tra sé e il mondo. 
Incalzati dallo stress, impazienti di apparire, di guadagnare e consumare, gli uomini contemporanei sono diventati, secondo un’altra fortissima definizione – stavolta è della psicanalista Julia Kristeva, Le nuove malattie dell’anima, Borla – dei “narcisisti dolenti senza rimorsi”. L’uomo contemporaneo è attore di se stesso, recita lo spettacolo della propria vita, e vorrebbe esserne il regista, e viverla intensamente, da vincente. Ma la sua distanza da se stesso lo priva di quella reale risonanza emozionale che sola ci fa sentire vivi, mentre l’immaginario è cancellato dall’impoverimento della vita psichica. Resta un guscio vuoto, che facilmente può essere riempito con immagini stereotipate ed emozioni rappresentate, piuttosto che vissute autenticamente. Come nel famoso paradosso dell’attore del filosofo illuminista Diderot, scrive la Kristeva, dove l’attore imita le sensazioni del personaggio tanto da trarre in inganno gli altri. Restando personalmente al di fuori di quella che sarebbe un’attivazione emozionale congruente, molte persone sono incapaci di sentire, distanti da se stesse e quindi incapaci di un contatto autentico e trasformativo con gli altri esseri umani e con il mondo. Quel che per l’attore di Diderot era il vantaggio del rappresentare, un risparmio nell’ energia psichica necessaria al coinvolgimento, col risultato di essere comunque convincente per il pubblico, per il narcisista dolente senza rimorsi è un dramma inconsapevole, che lo rende perennemente affamato di emozioni rappresentate, di feed-back esterni che gli raccontino qualcosa di se stesso, quel se stesso che non è più percepibile se non attraverso il vetro opaco della rappresentazione. 
immagini artificiali 
Il mito dell’autonomia costruisce un altro paradosso: il tempo e lo spazio che l’uomo contemporaneo vive sono accelerati, spezzettati, il suo contatto col mondo è filtrato dalla rappresentazione, e quindi è profondamente inautentico. La sua identità soggettiva è quindi indefinita, cangiante, dipendente dalle pressioni e dagli stimoli ambientali, la sua identità personale è fragile e confusa. Non resta che aggrapparsi ad una immagine artificiale di se stessi, questa sì ben progettata dall’esterno, forte e assolutamente coerente, un falso sé autonomo, decisionista, cinico, performante. Ecco allora che questa soluzione diventa una nuova trappola. Le pressioni esterne sono tali che non possono essere allontanate, l’ipotesi della sconfitta esistenziale e della marginalizzazione sociale sono ben reali, e allora, in mancanza di una vita psichica in cui essere contenuto ed elaborato e di una identità solida che possa riconoscerlo ed assorbirlo dentro
una narrazione, il malessere cerca un varco e un contenitore nell’unico spazio ancora praticabile: si rivela nel corpo e produce somatizzazioni di ogni genere. 
Sono nuove anche le forme del male di vivere, oggi sono descritte come sensazioni di vuoto, una negatività che si diffonde dentro, uno sfondo emozionale muto e desensibilizzato che è sollecitato dal miraggio di “additivi” di ogni tipo per ricominciare a “sentirsi”. Buchi psichici, ferite narcisistiche dolenti e incancrenite, esasperazioni psicosomatiche. La radice è nella difficoltà a stare in contatto con se stessi, nella sensazione di artificiale e vuoto che sottotraccia accompagna la giornata, come in un Truman show sempre in onda. Ma proprio in virtù di questo senso di sé meccanico e disumanizzato, le persone che soffrono del mal di vivere sono oggi per la maggior parte consapevoli solo dei propri sintomi, non c’è lo spazio mentale ed operativo per comprendere il senso di quel che viene vissuto, e la richiesta di cura viene collocata in modo pressoché esclusivo sulla eliminazione del sintomo, sul tagliare l’area di imperfezione, di bassa performance, sul voler “ritornare come prima, il prima possibile, col minor coinvolgimento possibile”. Come un’auto portata dal meccanico, che la solleva sul ponte, traffica un po’, cambia qualche pezzo, e restituisce poi le chiavi al proprietario, che nel frattempo era andato a fasi un giro. Come se nel sintomo non ci fosse condensato tutto il percorso che ha portato al male di vivere, come se quel male non portasse tutte le tracce di un essere–nel–mondo inautentico e disumanizzato, che invece va preso in mano, letto, riletto e riassaporato anche nel suo gusto amaro e doloroso, osservato nella sua drammaticità, e aiutato ad evolvere verso un adattamento più creativo alla vita. 
curare la relazione malata 
Il deterioramento abita già nella relazione che la persona ha con se stessa: un rapporto inscritto nella reificazione, nel riduzionismo e nella oggettivazione, un guardare a sé medesimi come ad un congegno che si blocca, o produce rumori indesiderati. Allora, davanti a queste forme del male di vivere (ma quali forme del malessere non ne beneficerebbero, in fondo?), il primo lavoro di cura è nella relazione, è attraverso la specifica qualità di una relazione di cura che si ponga al riparo dall’approccio “io-esso”. Creare con quella persona una base comune, che permetta di tenersi entrambi alla larga dalla tentazione di guardare alle persone come oggetti da riformare, dove tutte le situazioni di debolezza devono al più presto venire eliminate. C’è un rischio molto elevato, con i tagli alla spesa pubblica per il welfare e per i servizi relativi alla salute, che nei contesti di cura, con meno risorse e sotto lo schiaffo di miopie efficientiste, si arrivi a perseguire obiettivi di normalizzazione. 
Leggere il disagio in termini di sintomo, appiattire ed etichettare le persone sui loro malesseri più evidenti, formattare le prestazioni di cura, porta dritti dritti verso il determinismo sociale, verso la costruzione di vere e proprie “carriere del disagio”: una profezia pronunciata, che tenderà sempre, prima o poi, a realizzarsi. Lavorare con le persone che sperimentano il male di vivere apre altre prospettive se si sceglie di strutturare e riparare i legami, invece dei sintomi. Legami di contatto empatico e comprensione con se stessi, prima di tutto, con le figure di riferimento del percorso di cura. E legami col mondo, che vanno ritessuti ad uno ad uno, con la comunità sociale, sostenendo e accompagnando anche, se necessario, verso esperienze alternative rispetto a se stessi e al vivere, sostenendo e proponendo pratiche più desiderabili, più potenti e più ricche in termini di riumanizzazione. Potrebbe essere un pezzetto di una nuova storia, dove lo sviluppo della persona e delle sue competenze a stare nella situazione, a viverla, a creare, a ritrovare slancio e senso, può diventare un potente baluardo, questo sì efficace, contro l’oscillare tra i sentimenti di impotenza e di onnipotenza a cui il lupo performante sarebbe per sempre esposto.

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CAMERA DEI DEPUTATI N. 2191 - PROPOSTA DI LEGGE D’INIZIATIVA DELLA DEPUTATA G...
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Mobbing e molestie sessuali sul posto di lavoro
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Mobbing: elementi costitutivi e onere della prova
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MALE DI VIVERE - I VOLTI DEL DISAGIO DI ROSELLA DE LEONIBUS (Ottobre 2011)

  • 1. male di vivere i volti del disagio – rosella de leonibus Un pesante cocktail di sentimenti rabbiosi e depressivi, dove la demotivazione e la mancanza di fiducia nel futuro si connettono ad una sorta di assuefazione rassegnata davanti a comportamenti come il mobbing e il bullismo, e dove la violenza in tutte le sue manifestazioni (da quella legata alle competizioni sportive alla violenza di genere, da quella sulle strade a quella del linguaggio quotidiano) sembra endemica ed inevitabile. E’ l’ultimo rapporto del Censis che, all’inizio dell’estate, intitolato significativamente “La crescente sregolazione delle pulsioni”, ha tracciato un’immagine dell’Italia contemporanea intessuta del male di vivere. L’aumento delle denunce per ingiurie e minacce (più 30%) e per lesioni e percosse (più 26,5%) negli ultimi cinque anni, il crescente ricorso a farmaci antidepressivi (più 114,2% in dieci anni), ne rappresentano lo specchio impietoso. A fronte dei modelli di vita mediatici, inverosimili quanto luccicanti, impossibili da raggiungere, cresce il dislivello rispetto alla percezione del proprio sé quotidiano, e soffre più che mai la componente narcisistica che abita in tutti noi umani. Lontani dagli amici di Maria e dai famosi di qualunque isola, si continua a misurarsi con essi, e costatato che il cammino da prostituta a escort e da escort a qualche carica pubblica non è affatto precluso, ci si può attrezzare in conseguenza e puntare sull’unico strumento che sembra garantire successo: un corpo sempre più desoggettivizzato, stravolto dai 450.000 interventi di chirurgia estetica praticati in Italia nel corso del 2010. Intanto i reati sessuali sono aumentati del 26%. Da un lato gli interessi dell’industria sembrano convalidare una medicalizzazione spinta della normalità, dove ogni emozione meno che euforica che emergesse dall’animo umano può essere subito spenta chimicamente, e dove ogni scostamento da una immagine estetica standard può essere corretto con pochi giorni di degenza e poche migliaia di euro. Dall’altro la pressione costante ad essere qualcun altro, il perenne scontento per l’identità che si possiede, quella “tirannia dell’istante” (come la chiama Bauman), che produce uno scostamento permanente da se stessi, una tensione mai allentata, un movimento costante proiettato verso mete irraggiungibili. Su queste manifestazioni contemporanee del male di vivere sono state tracciate alcune riflessioni nel corso del 69° Corso di Studi Cristiani, “Sporgersi ingenui sull’abisso”, svoltosi poche settimane fa presso la Cittadella di Assisi. tra impotenza e onnipotenza Nel suo Le origini del totalitarismo, nel lontano 1955 Hanna Arendt scriveva: “Mai il nostro futuro è stato più imprevedibile (…...). E’ come se l’umanità si fosse divisa tra quelli che credono nell’onnipotenza umana (ritenendo che tutto sia possibile purché si sappia come organizzare a tale scopo le masse) e quelli per cui l’impotenza è diventata la maggiore esperienza della loro vita”. Queste stesse parole, riferite ad un’epoca di grande paura e rischio collettivo, a quasi sessanta anni di distanza possono diventare una buona chiave attraverso cui entrare nel senso profondo delle “passioni tristi” di noi umani occidentali contemporanei.
  • 2. L’equivoco sociale, dentro il quale tanti nostri contemporanei si trovano incastrati, è quello secondo cui essere autonomi equivale ad essere forti, essere dominanti, aver potere sugli altri e sul mondo, per perseguire i propri scopi e soddisfare i propri bisogni. E’ una psicologia basata su un io forte, che dovrebbe affrancarsi dal proprio destino, mentre la contraddizione con la realtà diventa ancora più insanabile là dove la mia sorte appare completamente in mano a forze, poteri e movimenti davanti ai quali mi sento completamente impotente. Quando l’idea di autonomia è enfatizzata come possibilità di vincere il destino, di diventare qualcuno o qualcosa su cui mi sono identificato o su cui ho appiattito l’immagine desiderata di me stessa, ci si trova costretti dentro l’icona del “lupo performante”. Questa interessante metafora - è di due psichiatri-filosofi francesi, Miguel Benasayag e Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi , Feltrinelli - corrisponde ad una costruzione psichica che pretende di sovrastare ogni cosa, che canalizza e domina anche le proprie pulsioni, ma non in un ‘ottica di evoluzione personale, di maturità, bensì per fini produttivi ed utilitaristici. La vita psichica è ridotta in modo drammatico, non c’è più alcuno spazio per un processo di interiorizzazione, per costruire significati personali intorno alle esperienze, per elaborare una consapevolezza di se stessi e una integrazione equilibrata tra sé e il mondo. Incalzati dallo stress, impazienti di apparire, di guadagnare e consumare, gli uomini contemporanei sono diventati, secondo un’altra fortissima definizione – stavolta è della psicanalista Julia Kristeva, Le nuove malattie dell’anima, Borla – dei “narcisisti dolenti senza rimorsi”. L’uomo contemporaneo è attore di se stesso, recita lo spettacolo della propria vita, e vorrebbe esserne il regista, e viverla intensamente, da vincente. Ma la sua distanza da se stesso lo priva di quella reale risonanza emozionale che sola ci fa sentire vivi, mentre l’immaginario è cancellato dall’impoverimento della vita psichica. Resta un guscio vuoto, che facilmente può essere riempito con immagini stereotipate ed emozioni rappresentate, piuttosto che vissute autenticamente. Come nel famoso paradosso dell’attore del filosofo illuminista Diderot, scrive la Kristeva, dove l’attore imita le sensazioni del personaggio tanto da trarre in inganno gli altri. Restando personalmente al di fuori di quella che sarebbe un’attivazione emozionale congruente, molte persone sono incapaci di sentire, distanti da se stesse e quindi incapaci di un contatto autentico e trasformativo con gli altri esseri umani e con il mondo. Quel che per l’attore di Diderot era il vantaggio del rappresentare, un risparmio nell’ energia psichica necessaria al coinvolgimento, col risultato di essere comunque convincente per il pubblico, per il narcisista dolente senza rimorsi è un dramma inconsapevole, che lo rende perennemente affamato di emozioni rappresentate, di feed-back esterni che gli raccontino qualcosa di se stesso, quel se stesso che non è più percepibile se non attraverso il vetro opaco della rappresentazione. immagini artificiali Il mito dell’autonomia costruisce un altro paradosso: il tempo e lo spazio che l’uomo contemporaneo vive sono accelerati, spezzettati, il suo contatto col mondo è filtrato dalla rappresentazione, e quindi è profondamente inautentico. La sua identità soggettiva è quindi indefinita, cangiante, dipendente dalle pressioni e dagli stimoli ambientali, la sua identità personale è fragile e confusa. Non resta che aggrapparsi ad una immagine artificiale di se stessi, questa sì ben progettata dall’esterno, forte e assolutamente coerente, un falso sé autonomo, decisionista, cinico, performante. Ecco allora che questa soluzione diventa una nuova trappola. Le pressioni esterne sono tali che non possono essere allontanate, l’ipotesi della sconfitta esistenziale e della marginalizzazione sociale sono ben reali, e allora, in mancanza di una vita psichica in cui essere contenuto ed elaborato e di una identità solida che possa riconoscerlo ed assorbirlo dentro
  • 3. una narrazione, il malessere cerca un varco e un contenitore nell’unico spazio ancora praticabile: si rivela nel corpo e produce somatizzazioni di ogni genere. Sono nuove anche le forme del male di vivere, oggi sono descritte come sensazioni di vuoto, una negatività che si diffonde dentro, uno sfondo emozionale muto e desensibilizzato che è sollecitato dal miraggio di “additivi” di ogni tipo per ricominciare a “sentirsi”. Buchi psichici, ferite narcisistiche dolenti e incancrenite, esasperazioni psicosomatiche. La radice è nella difficoltà a stare in contatto con se stessi, nella sensazione di artificiale e vuoto che sottotraccia accompagna la giornata, come in un Truman show sempre in onda. Ma proprio in virtù di questo senso di sé meccanico e disumanizzato, le persone che soffrono del mal di vivere sono oggi per la maggior parte consapevoli solo dei propri sintomi, non c’è lo spazio mentale ed operativo per comprendere il senso di quel che viene vissuto, e la richiesta di cura viene collocata in modo pressoché esclusivo sulla eliminazione del sintomo, sul tagliare l’area di imperfezione, di bassa performance, sul voler “ritornare come prima, il prima possibile, col minor coinvolgimento possibile”. Come un’auto portata dal meccanico, che la solleva sul ponte, traffica un po’, cambia qualche pezzo, e restituisce poi le chiavi al proprietario, che nel frattempo era andato a fasi un giro. Come se nel sintomo non ci fosse condensato tutto il percorso che ha portato al male di vivere, come se quel male non portasse tutte le tracce di un essere–nel–mondo inautentico e disumanizzato, che invece va preso in mano, letto, riletto e riassaporato anche nel suo gusto amaro e doloroso, osservato nella sua drammaticità, e aiutato ad evolvere verso un adattamento più creativo alla vita. curare la relazione malata Il deterioramento abita già nella relazione che la persona ha con se stessa: un rapporto inscritto nella reificazione, nel riduzionismo e nella oggettivazione, un guardare a sé medesimi come ad un congegno che si blocca, o produce rumori indesiderati. Allora, davanti a queste forme del male di vivere (ma quali forme del malessere non ne beneficerebbero, in fondo?), il primo lavoro di cura è nella relazione, è attraverso la specifica qualità di una relazione di cura che si ponga al riparo dall’approccio “io-esso”. Creare con quella persona una base comune, che permetta di tenersi entrambi alla larga dalla tentazione di guardare alle persone come oggetti da riformare, dove tutte le situazioni di debolezza devono al più presto venire eliminate. C’è un rischio molto elevato, con i tagli alla spesa pubblica per il welfare e per i servizi relativi alla salute, che nei contesti di cura, con meno risorse e sotto lo schiaffo di miopie efficientiste, si arrivi a perseguire obiettivi di normalizzazione. Leggere il disagio in termini di sintomo, appiattire ed etichettare le persone sui loro malesseri più evidenti, formattare le prestazioni di cura, porta dritti dritti verso il determinismo sociale, verso la costruzione di vere e proprie “carriere del disagio”: una profezia pronunciata, che tenderà sempre, prima o poi, a realizzarsi. Lavorare con le persone che sperimentano il male di vivere apre altre prospettive se si sceglie di strutturare e riparare i legami, invece dei sintomi. Legami di contatto empatico e comprensione con se stessi, prima di tutto, con le figure di riferimento del percorso di cura. E legami col mondo, che vanno ritessuti ad uno ad uno, con la comunità sociale, sostenendo e accompagnando anche, se necessario, verso esperienze alternative rispetto a se stessi e al vivere, sostenendo e proponendo pratiche più desiderabili, più potenti e più ricche in termini di riumanizzazione. Potrebbe essere un pezzetto di una nuova storia, dove lo sviluppo della persona e delle sue competenze a stare nella situazione, a viverla, a creare, a ritrovare slancio e senso, può diventare un potente baluardo, questo sì efficace, contro l’oscillare tra i sentimenti di impotenza e di onnipotenza a cui il lupo performante sarebbe per sempre esposto.