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INDICE
Introduzione p.1
Cap. I La risorsa petrolio
1.1 I riferimenti storici ed economici p.3
1.2 Produzione e consumo di petrolio p.5
1.3 Il petrolio italiano p.8
Cap. II Il sistema economico della Regione Basilicata
2.1 Uno sguardo d’insieme p.11
2.2 Demografia, lavoro e infrastrutture p.12
2.3 I tre settori nell’economia regionale p.16
Cap. III L’incontro tra globale e locale: il petrolio in Basilicata
3.1 La storia del petrolio lucano p.19
3.2 Il prezzo del petrolio e le royalties p.22
3.3 Cosa è successo, tra dati e modello SAM p.25
Conclusioni p.31
Fonti Bibliografiche p.33
Sitografia p.35
1
Introduzione
La tesi verte su un argomento diventato assolutamente attuale negli ultimi
tempi, quando in Basilicata si sono moltiplicate le manifestazioni riguardo
le estrazioni petrolifere, soprattutto in seguito al Decreto “Sblocca Italia”.
Lo scopo del lavoro è quello di analizzare dettagliatamente gli effetti
economici che un mercato globale come quello energetico può avere su un
territorio circoscritto, attraverso l’incrocio dei dati derivanti da studi e
rapporti. Più precisamente, andremo ad analizzare gli effetti del mercato
petrolifero sulla Regione Basilicata, interessata dal complesso di attività
estrattive di diverse multinazionali, tra le quali Eni, Shell e, a brevissimo,
Total. Il lavoro è suddiviso in tre macroaree: le prime due analizzano in
maniera distinta i due punti centrali della riflessione, ovvero il petrolio e il
tessuto economico lucano, mentre la terza riguarda l’incrocio delle due
macroaree precedentemente discusse. L’analisi del primo capitolo parte da
una panoramica storica sul petrolio, dal sorpasso sulle fonti energetiche
“antiche”, ovvero il legno prima e il carbone poi, fino al primo cartello
petrolifero, quello delle “Sette Sorelle”, che è stato l’oligopolio per
eccellenza del mercato energetico fino alla formazione del nuovo cartello,
quello dell’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries). Si
giunge, poi, allo studio di produzione e consumi e delle differenti aree di
impiego del petrolio, dalla produzione di energia elettrica ai trasporti,
passando per gli usi termici. Saranno presentate le due diverse teorie,
ovvero quelle degli abbondantisti e dei catastrofisti, oltre che le differenti
situazioni dei paesi produttori e di quelli consumatori (tra i quali l’Italia).
Nell’ultimo paragrafo, invece, sarà presentata la storia del petrolio italiano,
partendo dalle grandi intuizioni del cavalier Scotti, che costituì la Società
Petrolifera Italiana e di Enrico Mattei, che nel 1953 fondò l’Eni, per
arrivare alla situazione attuale: 400 giacimenti di olio e gas, 2.500 pozzi
esplorativi, oltre 3.000 pozzi produttivi e diverse compagnie impegnate in
attività estrattive nella nostra penisola.
2
Nella prima parte del secondo capitolo sarà presentato il contesto
economico e sociale della Basilicata, tra le regioni più povere d’Italia, con
un PIL procapite pari a 17.006 euro, seguita solo da Puglia, Campania,
Sicilia e Calabria (SVIMEZ, 2014). Come vedremo nel secondo paragrafo,
però, è sotto il profilo dell’occupazione che i dati manifestano una
drammaticità ancora maggiore, con un calo degli occupati “giovani” (fasce
d’età 15-44). Emerge poi un’altra criticità, ovvero l’invecchiamento della
popolazione di oltre 6 anni nell’ultimo ventennio. Nell’ultimo paragrafo del
secondo capitolo, sarà presentata la situazione riferita ai tre settori, che
riporterà l’evoluzione negativa del settore agroalimentare, oltre che alcuni
dati relativi al settore industriale, “nato” in Basilicata nel periodo che seguì
al terremoto del 1980. E’ così, infatti, che si insediarono in Regione, tra gli
altri, i centri produttivi della Val d’Agri, di Viggiano e la FIAT Sata di
Melfi, ai quali oggi è dovuto il 75% dell’export lucano. Ma importante è
anche l’apporto dei servizi, che sono arrivati a contribuire per il 70% al
totale del PIL regionale. Il terzo capitolo, invece, prevede un incrocio delle
due macroaree precedentemente disquisite, partendo da un’analisi storica
riguardante il petrolio lucano, con particolare cenno al decisivo cambio di
passo del 1939, quando l’Agip iniziò le attività in Val d’Agri. Nel secondo
paragrafo sarà presentato un grafico nel quale vengono incrociati i dati
relativi all’evoluzione del prezzo del petrolio con la quantità di barili
estratti in Basilicata e le royalties versate dalle compagnie petrolifere alla
Regione. Infine, vedremo quali sono stati gli effetti delle attività estrattive
sulle principali variabili macroeconomiche regionali, sia grazie a dati
empirici, sia attraverso un particolare modello a matrice.
3
Capitolo I La risorsa petrolio
1.1 I riferimenti storici ed economici
Il 1962 è l’anno che ha segnato l’ascesa del petrolio quale fonte energetica
più utilizzata, quando superò appunto il carbone che, a sua volta, aveva
sorpassato il legno, fonte energetica dominante dall’inizio della civiltà
umana. Cinquant’anni dopo, nel 2012, il petrolio è diventata la fonte da cui
deriva un terzo del consumo energetico mondiale, con 12,38 miliardi di
tonnellate utilizzate (Varvelli e Varvelli, 2015). Tuttavia, la storia del
petrolio ha radici profonde, che vanno ben più lontano rispetto a quel
1962: il termine nafta compare addirittura nella Bibbia, mentre fu
Zarathustra a far diventare il petrolio della Persia oggetto di adorazione (in
seguito alle manifestazioni incendiarie dovute al petrolio). E’ Diodoro
Siculo a testimoniare in “Bibliotheca historica” l’esistenza di pozzi di
petrolio. Ovviamente, il petrolio e gli idrocarburi in generale hanno trovato
facile diffusione in epoca antica a causa dei molteplici utilizzi ai quali essi
erano sottoposti: dall’illuminazione agli usi terapeutici, nelle prime
costruzioni e persino per fini bellici, quando le frecce degli arcieri
venivano cosparse di una miscela comprendente, tra le altre cose, il
petrolio, per poi essere scoccate verso le navi nemiche. Il XIX secolo fu
l’epoca della svolta, quando la pubblica illuminazione iniziò ad essere
alimentata dal petrolio, che venne poi commercializzato a Vienna sotto
forma di cherosene. Proprio nel XIX Secolo, vicino a Baku (Azerbaigian)
e in Polonia furono perforate decine di pozzi. Appare, quindi, poco più che
una storia romanzata quella del “colonnello” Drake, un ex-macchinista che
secondo alcune fonti “scoprì” il petrolio nel 1859 in Pennsylvania. Un
episodio comunque degno di menzione, dato che da esso scaturì la “febbre
dell’oro nero”, che portò una elevata quantità di avventurieri ad avviare
perforazioni
4
e ricerche. Proprio l’eccesso di quantità di petrolio estratta causò, in pochi
anni, un crollo del prezzo della materia stessa, che passò da circa 20 dollari
dell’epoca a 10 centesimi al barile. La storia più prettamente economica
del petrolio è una storia di cartelli e rivalità: il primo cartello storicamente
delineatosi fu quello delle “Sette Sorelle”, ovvero la Sonj (Standard Oil of
New Jersey, poi divenuta Exxon), la Socony (Standard Oil Company of
New York, poi Mobil), Socal (Standard Oil of California, poi Chevron),
tutte e tre nate sotto un trust di Rockefeller, più Gulf, Texaco (entrambe
americane), Dutch-Shell e British-Petroleum (entrambe europee), che nel
1970, tutte insieme, possedevano una quota di mercato pari al 57% del
petrolio totale prodotto nel mondo, mentre oggi esse detengono “soltanto”
il 15%. Ovviamente, anche i profitti delle Sette Sorelle sono andati
progressivamente riducendosi, come è accaduto nel 2014 a causa dello
“shale oil”, ovvero un tipo di petrolio non convenzionale, per il quale cioè
occorrono metodi di estrazione più complessi, che ha condotto ad un calo
del prezzo della benzina negli USA a una cifra al di sotto degli 80
centesimi di euro al litro. Al di là di quanto viene spesso detto, le Sette
Sorelle hanno cercato di mantenere basso il prezzo del petrolio fino a
quando è stato loro possibile, anche grazie a una ripartizione certosina
delle quote di mercato, stabilita all’interno del documento “As-Is” nel
quale erano anche riportati i criteri di determinazione del prezzo del
petrolio. Il trattato fu rivisto due volte, nel 1930 e nel 1944, ma il sogno di
mantenere l’egemonia nel mercato petrolifero svanì qualche anno dopo,
quando i paesi arabi iniziarono a non dare più in concessione il loro
petrolio: di lì a poco sarebbe nata l’Opec. Nel 1901, tre quarti di territorio
persiano furono dati in concessione dallo scià Muzzafar al-Din ad un
affarista londinese, per una somma iniziale pari all’incirca a 20.000
sterline, alla quale però sarebbero state aggiunte royalties per una
percentuale pari al 16% dell’utile netto che sarebbe derivato dalla
commercializzazione dell’oro nero. E’ proprio da questo episodio che
nascono le royalties, l’aliquota che le società concessionarie di giacimenti
minerari versano, ad esempio, allo Stato o agli enti locali, di cui parleremo
5
più avanti. Nel 1904, comunque, il petrolio sgorgò per la prima volta in
Persia e da lì in poi ebbe inizio una grande attività estrattiva, inizialmente
sotto il controllo egemonico delle Sette Sorelle. Tuttavia, in pochi anni, i
soggetti che concedevano porzioni di territorio alle compagnie petrolifere
ebbero modo di accorgersi della enorme differenza di utile derivante dallo
sfruttamento diretto delle risorse operato dalle stesse compagnie, che non
era minimamente paragonabile ai profitti derivanti dalle royalties. Fu
proprio la decisione delle Sette Sorelle di ridurre l’ammontare di royalties
ad innescare la creazione della Organization of the Petroleum Exporting
Countries (OPEC), istituita ufficialmente nel 1960 a Baghdad da Arabia
Saudita, Iraq, Iran, Kuwait e Venezuela. Nel corso degli anni, altri Stati si
sono aggiunti al cartello, che oggi è il più potente a livello mondiale,
avendo la capacità di determinare il prezzo del petrolio attraverso l’offerta
dello stesso. L’Opec, le cui entrate sono più che decuplicate nel corso degli
anni, dagli 88 miliardi di dollari del 1988 ai 996 del 2008, attestatesi poi
intorno ai 700-800 miliardi, esporta ben tre quarti del petrolio che produce,
ha una quota petrolifera pari al 43%, e possiede riserve per il 73% del
totale, come riportano i dati del 2012 (Varvelli e Varvelli, 2015). Una
grossa quota appartiene all’Arabia Saudita, che esporta petrolio per il 90%
del totale delle esportazioni, produce il 30% del totale Opec (13%
mondiale) ed è appunto il maggior detentore di riserve all’interno del
cartello.
1.2 Produzione e consumo di petrolio
La domanda energetica mondiale deriva da tre differenti settori: energia
elettrica (30,1%), trasporti (34,7%) ed energia impiegata per usi termici
6
(residenziale, terziario e industria, 35,2%). Non bisogna quindi
confondere la domanda energetica mondiale con la sola domanda di
energia elettrica, come spesso avviene. Per quanto riguarda le fonti
specifiche, il petrolio rappresenta quella più largamente utilizzata,
rappresentando il 34% del totale, seguito dal 26% del gas naturale, dal
21% del carbone e poi rinnovabili, nucleare e legno, tutte ampiamente al
di sotto del 20% (Lattarulo, 2013). Andando più nello specifico, la
produzione di energia elettrica deriva per il 6% dal petrolio (essa deriva in
larga parte dal carbone, utilizzato per il 39% del totale delle fonti) mentre
è nel settore dei trasporti che il petrolio è la fonte più largamente
utilizzata, dato che contribuisce per il 96% del totale. L’energia prodotta
per usi termici, invece, deriva innanzitutto dal gas naturale, ma anche in
questo settore è importante il contributo del petrolio, che si attesta al 27%
del totale (Lattarulo, 2013). Il petrolio (che è una miscela di diversi
idrocarburi), è dunque una risorsa molto importante, tanto che l’attenzione
degli studiosi ha persino prodotto due differenti teorie in materia, quella
dei catastrofisti e quella degli abbondantisti: per i primi, il picco di
produzione determinerà il passaggio ad un paradigma energetico
differente, mentre per i secondi l’esauribilità del greggio non sarebbe una
questione fondata. Dei catastrofisti fanno parte Hubbert, Laherrere e
Campbell, i quali individuano ciascuno un determinato periodo nel quale
si verificherà il collasso della produzione petrolifera mondiale, che porterà
all’aumento del costo del petrolio e ad un periodo di instabilità politica.
Tra gli abbondantisti, invece, Maugieri sostiene che la capacità di
produzione petrolifera aumenterà, soprattutto grazie alle nuove tecniche di
estrazione. Inoltre, Riccardo Varvelli, docente di Sistemi Energetici presso
il Politecnico di Torino, così commenta le previsioni non corrette riportate
nel rapporto Waes (Workshop on Alternative Energy Strategies) del 1975:
7
 Nel periodo 1985-1995, malgrado il prezzo del petrolio sia fortemente
aumentato rispetto al dato di partenza del 1972 a oltre il 50% indicato
dal Waes, la domanda non ha superato mai l’offerta; anzi l’offerta è stata
per anni abbondantemente superiore alla domanda;
 l’Arabia Saudita nel periodo 1972-1985 (tranne il triennio 1979-1981)
non ha superato i 9 milioni di barili/giorno e, malgrado ciò, la carenza di
offerta prevista non si è verificata, meno che mai nel 1981; anzi, dopo
quella data, per un eccesso di offerta, l’Arabia Saudita ha ridotto
fortemente la sua produzione; (Varvelli e Varvelli, 2015, pp. 25-26)
Sempre Varvelli, poi, ricorda l’errore di previsione del 1910 ad opera del
Servizio geologico degli Stati Uniti, che annunciava la fine del petrolio
entro 20 anni, o quella del Dipartimento degli Interni USA, che nel 1939
stabilì che il petrolio sarebbe durato al massimo per 13 anni a partire da
quella data, per poi rivedere la data, portandola al 1964 (sbagliando
nuovamente). Ma previsioni errate furono anche quelle riguardanti il “picco
del petrolio” previsto da alcuni, in quanto la produzione mondiale è andata
costantemente aumentando, partendo dai 63 milioni di barili al giorno nel
1990 per arrivare agli oltre 86 milioni di barili al giorno nel 2012, senza
appunto accennare cali dopo aver raggiunto un valore di produzione da
poter definire, appunto, “picco”. Attualmente, è possibile suddividere tra
paesi produttori (tra i quali, come già detto, l’Arabia Saudita) e i paesi
consumatori di petrolio: tra questi ultimi, i dieci paesi più industrializzati
rappresentano il 45,8% del consumo mondiale, seppure in contrazione
rispetto al decennio precedente. E’ da rilevare, però, che le economie
mature comprese nel gruppo dei dieci consumatori stanno puntando su altre
fonti energetiche, come il gas o le rinnovabili. I paesi in via di sviluppo,
invece, costituiscono il 25,8% del consumo mondiale di petrolio, in
aumento rispetto al decennio precedente. La conclusione è che, mentre i
paesi industrializzati potranno progressivamente diminuire il loro consumo
di petrolio, rimpiazzandolo parzialmente con lo sfruttamento di energie
8
rinnovabili (si pensi alle strategie di Europa2020 e al grande impegno degli
Stati sul cambiamento climatico, oltre che sulle politiche ambientali in
generale), i paesi in via di sviluppo utilizzano il petrolio quale “propulsore”
per una crescita economica costante. A tal proposito, è interessante
osservare il dato sul consumo pro capite, che nel 2012 è stato di 4,7 barili di
petrolio in un anno, molto prossimo al valore verificato 10 anni prima: ne
deriva che il singolo abitante non ha consumato più petrolio rispetto a
quanto ne consumava nel 2012, quindi l’aumento del consumo totale deriva
dalla crescita della popolazione mondiale e non da un “peggioramento”
delle nostre abitudini (Varvelli e Varvelli, 2015). Nel prossimo futuro,
comunque, sarà da tenere sotto controllo il consumo di paesi come la Cina,
che possiede due tra le più grandi aziende mondiali operanti in campo
petrolifero, ovvero Sinopec e Petrochina (con una produzione totale, in due,
di oltre 4 milioni di barili al giorno e più di 1 milione di dipendenti),
entrambe statali, come le russe Lukoil, Rosneft e Gazprom.
1.3 Il petrolio italiano
Come abbiamo detto, ci sono paesi che producono petrolio e lo esportano
quasi totalmente (Arabia Saudita), paesi che rispecchiano una condizione di
sostanziale pareggio tra produzione e consumo di petrolio, come ad
esempio, tra i paesi industrializzati e maturi, Canada e Gran Bretagna, e
paesi come l’Italia che risultano consumatori di petrolio. Il nostro paese,
infatti, nel 2012 ha consumato 1,3 milioni di barili/giorno e ne ha prodotti
soltanto 0,11 milioni (Varvelli e Varvelli, 2015).
9
Ne risulta una situazione di quasi totale dipendenza, dato che il petrolio
estratto in Italia soddisfa meno del 10% del fabbisogno nazionale. L’import
di petrolio, che si attesta quindi intorno al 90% circa, è ovviamente una voce
importante nella bilancia dei pagamenti italiana, ed è destinata a rimanere
tale anche quando la produzione petrolifera nazionale raggiungerà livelli di
poco inferiori al 15% del fabbisogno (con il raddoppio delle estrazioni in
Basilicata). Si può dire che l’Italia continuerà a dipendere da altri paesi per
quanto riguarda il petrolio, ed è dunque solo grazie all’abbassamento del
prezzo del greggio (che pure c’è stato negli ultimi mesi del 2014, quando si
è arrivati ad un costo pari a 62,34 dollari al barile, contro i 108,12 dollari al
barile del Gennaio dello stesso anno) che la bilancia commerciale potrà
migliorare, e con un prezzo della benzina costantemente più basso
potrebbero esserci segni positivi sul Pil. Tuttavia, un prezzo del petrolio in
caduta spinge la deflazione, mentre una situazione di inflazione pari al 2%
(come da obiettivo UE), potrebbe significare una riduzione del valore reale
del debito pubblico italiano. La storia “antica” del petrolio italiano si può
datare intorno al XVI Secolo, quando la città di Sassuolo – “Sax oleum” –
guadagna il suo nome per la presenza di petrolio, mentre più tardi fu il
Ducato di Modena a diventare produttore di greggio. Nei pressi di Parma,
intorno al 1859 erano attivi due pozzi di petrolio, e ne furono attivati altri
nel corso degli anni presso Salsomaggiore e nella provincia di Pescara. E’
però grazie al cavalier Luigi Scotti, che costituì la Società Petrolifera
Italiana e mise in produzione una ventina di pozzi petroliferi in Emilia, che
l’Italia entrò di diritto tra i paesi produttori di petrolio. Qualche anno più
tardi, nel 1926, fu fondata l’Azienda Generale Italiana Petroli, meglio
conosciuta come Agip, che ottenne un anno dopo alcune concessioni in
Romania: era l’affermazione della ricerca italiana di petrolio all’estero, già a
buon punto in Albania, dove venivano estratte 200.000 tonnellate di
petrolio/anno. Nel 1953, invece, Enrico Mattei fondò l’ENI, per garantire al
Paese una impresa energetica nazionale, che cioè fosse indipendente dagli
oligopoli internazionali e potesse garantire energia a buon prezzo alle
famiglie e alle imprese italiane. Allo stato attuale, in Italia ci sono oltre 400
10
giacimenti di olio e gas, sono stati scavati oltre 2.500 pozzi esplorativi (di
cui oltre 600 in mare) e sono stati realizzati più di 3.000 pozzi produttivi
(774 in mare) (Varvelli e Varvelli, 2015). Come abbiamo già detto, l’Italia è
un paese consumatore di petrolio, ed in questo senso sono interessanti i dati
del 2012: l’importazione di petrolio è stata di 1,2 milioni di barili/giorno,
corrispondente ad oltre il 92% del petrolio consumato (Varvelli e Varvelli,
2015). Tuttavia, ben presto il primato del petrolio come fonte energetica più
utilizzata lascerà il passo al gas naturale, il cui utilizzo è in forte crescita.
Per quanto riguarda le aziende petrolifere, operano in Italia Edison SPA, la
società europea (francese) più antica nel settore energetico, la Enel
Longanesi Developments, che è l’estensione operativa di Enel, ENI,
multinazionale italiana quotata in borsa e controllata in parte da soggetti
pubblici quali il Ministero dell’Economia e la Cassa depositi e prestiti spa,
la Northern Petroleum Limited, operante soprattutto in joint-venture, Shell
Italia spa e Total, titolare di 6 permessi di ricerca sul territorio nazionale
(Dommarco,2012).
11
Capitolo II Il sistema economico della Regione Basilicata
2.1 Uno sguardo d’insieme
La Basilicata è la terra al centro di quel Sud che ha subito un crollo di PIL
nel biennio di recessione 2008-2009 maggiore rispetto a quello riportato nel
centro-nord, seguito da una ripresa debole nel biennio 2010-2011. Qualora
il processo di ripresa dovesse essere troppo lento, l’aggiustamento
strutturale potrebbe diventare troppo pesante, con perdite di tessuto
produttivo che renderebbero ancora più complicata la ripresa stessa. Tra
2007 e 2011, il PIL reale del mezzogiorno è sceso del 6,1%, cioè del 2% in
più rispetto alla riduzione del dato relativo al centro-nord (SVIMEZ, 2013).
Una delle ragioni è sicuramente la domanda interna, che risulta debole sia
dal punto di vista delle imprese, sia da quello delle famiglie, mentre le
esportazioni hanno tenuto un andamento piuttosto positivo, aumentando del
10,3% nel 2011 (dato riferito al mezzogiorno). In questa prospettiva, è
interessante analizzare i dati relativi alla singola Basilicata, che nel 2011 è
stata la regione più dinamica del paese, con una variazione del Pil del 2%.
Tuttavia, la Basilicata veniva da un biennio, quello 2009-2010, in cui la crisi
aveva avuto effetti più devastanti rispetto al resto del paese. Un Pil
regionale che quindi sembra essere fortemente collegato al ciclo economico
internazionale, con ampie perdite durante la recessione e, a seguire, una
timida ripresa, derivante da un incremento dell’attività produttiva in tutti i
settori, fuorché in quello delle costruzioni e, in particolare, un +2%
registrato in agricoltura, che aveva visto una crescita del 4,7% nel 2010,
dopo un -7,7% registrato nel 2009. Saldo positivo anche per quanto riguarda
l’industria in senso stretto (+5,3%) e servizi (+2,6%), nonostante la
valutazione complessiva del triennio 2008-2011 riporti un calo in tutti i
settori (SVIMEZ, 2013).
12
Per quanto riguarda il mercato del lavoro lucano, nel 2011 si è registrata
una crescita dell’1,3%, superiore al +0,2% del dato meridionale e del
+0,4% di quello nazionale, derivante da una crescita degli occupati nel
settore industriale (+1,9%) e in quello del commercio (+1,1%), che però
non sono bastati per ristabilire l’occupazione ai livelli pre crisi. Come
abbiamo già osservato, la crescita regionale è dovuta in particolare
all’export: l’incidenza della Basilicata sul totale delle esportazioni
complessive meridionali è infatti del 3,2%, un dato interessante se si
considera che la popolazione lucana pesa sul totale meridionale per un
valore inferiore al 3%. Inoltre, il rapporto export/PIL in Basilicata è
maggiore che nel resto del mezzogiorno: 12,8% contro l’11,6% di media al
sud, che denota una buona capacità per la regione di vendere nei mercati
esteri (SVIMEZ, 2013). Nel 2011, l’export lucano ha visto una
contrazione, come era già successo nel 2010. Va notato, comunque, che un
impatto determinante deriva dalle esportazioni di autoveicoli prodotte
nello stabilimento di Melfi, che incidono per il 68,7% sul totale delle
esportazioni regionali, mentre un ruolo comunque rilevante è attribuito ai
prodotti estrattivi, che contribuiscono invece per il 4,8% (SVIMEZ, 2013).
Per inquadrare meglio la situazione, si pensi che nel 2012 l’export
regionale ha registrato una riduzione pari al 24,5%, dovuta alla flessione
della vendita di automobili (-37,3%) e di prodotti petroliferi (-20%).
Pertanto, la perdita di ¼ del valore dell’export regionale è dovuta a queste
due industrie, ovvero quella automobilistica e quella estrattiva, che dunque
hanno una importanza fondamentale sull’economia locale.
2. 2 Demografia, lavoro e infrastrutture
In Basilicata risiede circa l’1% della popolazione italiana (586.313 abitanti)
e nel periodo 2010-2011 c’è stato un calo dei residenti pari al 2 per mille,
13
che rispecchia esattamente il dato verificato su base ventennale (1991-2011)
che parla di una perdita, su base regionale, di 24 mila unità, dovuta sia a una
dinamica naturale (sproporzione tra tasso di mortalità e tasso di natalità a
tutto vantaggio del primo), sia alla dinamica migratoria, quest’ultima
accentuata rispetto al dato meridionale. I dati, infatti, riportano un tasso
migratorio regionale pari al -2,7 per mille, con una perdita di 1.600 residenti
(trasferiti in altra regione italiana), mentre la dinamica migratoria con
l’estero è risultata positiva (+2,2 per mille). Dal 1991 ad oggi, comunque, la
struttura demografica lucana ha conosciuto un forte invecchiamento,
passando da una media di 36,6 anni a una pari a 43 anni, con una riduzione
di under 15 dal 19,7% al 13,4%. E’ solo grazie all’arrivo di stranieri,
dunque, che l’impatto negativo delle dinamiche migratorie non è stato
devastante, dato che la popolazione italiana residente in regione è diminuita
di 27 mila unità e nello stesso periodo il numero di cittadini stranieri è
cresciuto di 9 mila unità (SVIMEZ, 2013). Interessanti sono i dati relativi al
numero di occupati, che sono passati da uno stock di 197,06 mila del 2000,
valore più alto registrato negli ultimi 20 anni, a uno stock di 178,62 mila nel
2013, valore più basso registrato negli ultimi 20 anni (ISTAT, 2015).
Ovviamente, però, deve essere considerato il calo della popolazione
residente nella regione. L’analisi di occupati per età riporta un calo nella
fascia 15-24 anni di oltre 5 punti percentuali nel decennio 2004-2014, come
anche nella fascia 25-34 (oltre 15 punti percentuali) e in quella 35-44 (calo
di quasi 10 punti percentuali). Cresce, invece, nello stesso decennio, il
numero di occupati nelle fasce d’età 45-54 (+5%) e 55-64 (+14%)
(SVIMEZ,2013). Il quadro che ne deriva è abbastanza chiaro, con un
mercato del lavoro poco accessibile per i giovani, che segue
l’invecchiamento demografico, dato che le ultime due fasce d’età, ovvero
quelle più “anziane” riportano una crescita del valore percentuale, mentre le
tre più “giovani” conoscono nello stesso periodo una flessione drammatica.
14
Indice, per altro, di una occupazione “pubblica” che è garanzia, dato che i
posti che tengono e addirittura, in alcuni casi, aumentano, sono ascrivibili
alla pubblica amministrazione. Per quanto riguarda il tasso di
disoccupazione, invece, una panoramica che va dal 1993 al 2014 offre
alcuni spunti interessanti: Dal 12,9% di disoccupati del 1993, appunto, si è
passati al 14,73 del 2014, in calo rispetto al 2013 (ISTAT, 2015). Tuttavia,
c’è da considerare che il tasso di disoccupazione “corretta”, che comprende
cioè anche coloro che non hanno effettuato alcuna ricerca di lavoro, è di 10
punti percentuali superiore al dato riferito alla disoccupazione ufficiale, pari
cioè al 25,2% nel 2013 (SVIMEZ, 2014).
I valori relativi al tasso di disoccupazione, comunque, risultavano
complessivamente in calo fino al periodo pre crisi, quando poi hanno
iniziato a salire, fino ad arrivare al valore attuale: l’unica eccezione è il
2011, che ha visto un calo temporaneo dopo 4 anni di continua crescita, per
poi conoscere una risalita. Nonostante ciò, però, la Basilicata ha tenuto dal
2000 al 2013 un tasso di disoccupazione inferiore alla media del
Mezzogiorno, come si può vedere dalla Fig. 1 (ISTAT, 2015).
15
Anche in Basilicata, come in tutto il Mezzogiorno, molto forte è la
cosiddetta “questione giovanile”, che vede indebolito quel legame tra
capitale umano e scolarizzazione e capitale umano e mondo del lavoro.
Come dicevamo in precedenza, proprio la struttura del mercato del lavoro
italiano ha peggiorato, nel corso degli anni, la situazione dei giovani, che si
trovano molto spesso in condizioni di disoccupazione, inattività o, quando
abbiano un lavoro, con differenziali salariali importanti. Nessun titolo di
laurea sembra preservare, in questo senso, i giovani lucani, dato che il tasso
di disoccupazione dei laureati tra i 25 e i 34 anni si attesta al 20,8% in
Basilicata, mentre è all’8,1% per quanto riguarda il Centro-Nord. Questa
debolezza del mercato del lavoro, quindi, peggiora sotto molteplici aspetti la
condizione dei giovani, che vivono più a lungo con i genitori, si sposano più
tardi, fanno meno figli e non accumulano contributi per la loro pensione.
Preoccupante è anche la situazione dei Neet (Not in Education,
Employment, or Training) dato che il fenomeno si attesta in Basilicata al
29,9%, ma quanto fa specie è il dato relativo ai diplomati e laureati che non
sono occupati, non cercano una occupazione e non sono in periodi di
formazione: in Basilicata, infatti, la percentuale di questo fenomeno si
attesta al 63% del totale Neet, contro il 50,9% della media del Mezzogiorno
(SVIMEZ, 2013). Un fenomeno che non alimenta il brain drain (la fuga dei
cervelli) e neanche la brain circulation (la circolazione dei cervelli) bensì un
fenomeno ben più grave dal punto di vista socioeconomico: il brain waste,
lo spreco di cervelli.
16
Ma l’economia della Basilicata è fortemente condizionata anche
dall’assenza di una rete infrastrutturale consolidata, come dimostra la totale
assenza di aeroporti e di reti di trasporto intermodale, mentre modesta è la
dotazione di porti. Carente appare anche la dotazione di infrastrutture
ferroviarie, considerata anche la totale assenza delle Ferrovie dello Stato da
Matera, Capoluogo di Provincia. Anche la rete stradale risulta meno
sviluppata rispetto alla media del sud e i tratti autostradali sono
trascurabili. Tutto ciò, ovviamente, unito ad un importante sofferenza nel
digital divide, rende poco accessibile la regione, con evidenti ripercussioni
sul tessuto economico e sociale (Unioncamere, 2012).
2.3 I tre settori nell’economia regionale
I dati relativi al settore agroalimentare riportano, per il periodo tra 2000 e
2011, una situazione negativa: infatti, in Basilicata il numero di aziende
agricole si è ridotto di circa un terzo e la superficie agricola utilizzata è
diminuita del 4,7%, mentre l’allevamento si è ridotto del 71,5% in 10 anni
(SVIMEZ, 2013). Ad ogni modo, tenendo presente tutto il sistema
economico-sociale regionale, il settore primario sembra aver
complessivamente tenuto. Alcuni caratteri da non sottovalutare, però,
emergono da un’analisi più approfondita: l’elevato indebitamento delle
imprese di media e grande dimensione che hanno usufruito di interventi
creditizi nazionali e regionali per sostenere il settore colpito da calamità
naturale. Inoltre, va considerato che l’indebolimento dell’agroalimentare ha
portato alla chiusura di stabilimenti importanti come Barilla, Parmalat e
Conservificio Gaudiano.
17
Il periodo di crisi ha colpito anche il comparto industriale lucano, che ne è
risultato progressivamente indebolito. Gran parte del tessuto industriale
regionale è nato con la legge n. 219/1981, strumento con cui lo Stato
incentivava la ricostruzione post-terremoto e avviava l’industrializzazione
delle stesse aree. E’ così che nascono gli insediamenti della Val d’Agri, di
Baragiano, Tito, ai quali si aggiungono Sata Melfi e il Centro Oli di
Viggiano. E’ quindi in seguito al terremoto del 1980 che ha inizio la storia
industriale lucana, che verrà poi influenzata dall’arrivo di ENI, la quale
favorirà l’insediamento di una rete d’imprese in Val Basento e in Val
d’Agri. Tuttavia, tale strumento legislativo non ha favorito la creazione di
un vero e proprio tessuto industriale, quanto più quella di un complesso
sfilacciato di poli industriali, talvolta completamente avulsi dalle economie
di specializzazione regionale. Come abbiamo già detto, deve essere
considerata la centralità, in questo settore, di Fiat-SATA, nel cui indotto
lavorano circa 9 mila addetti (5% degli occupati totali), che prevede un
piano d’investimenti che certamente potenzierà proprio lo stabilimento
FIAT. Per quanto riguarda i servizi, invece, le unità coinvolte in tale settore
sono andate via via aumentando, con un +86 mila addetti tra 1951 e 2011, di
cui +66 mila unità nel periodo 1971-2001, con un PIL derivato che è
cresciuto fino a rappresentare il 70% del totale regionale (SVIMEZ, 2013).
Tuttavia, circa metà dell’intera occupazione è assorbita dall’attività di
servizi della Pubblica Amministrazione, in special modo per quanto
concerne istruzione e sanità. Importante è invece il dato relativo al turismo,
anche in relazione a quello che è il patrimonio culturale e ambientale lucano,
con i Parchi Nazionali del Pollino e dell’Appennino Lucano, i Parchi
Regionali della Murgia Materana e di Gallipoli Cognato, le Oasi di Lago
Pantano di Pignola e Bosco Pantano di Policoro e Matera, Capitale Europea
della Cultura del 2019 con i suoi Sassi, Patrimonio UNESCO dal 1993, oltre
che una fascia costiera di circa 60km.
18
Ad ogni modo, come si evince dalla Fig. 3, il totale di imprese attive in
Basilicata è in costante calo dal 2001: proprio in quell’anno si è
registrato il valore più alto degli ultimi 20 anni, pari a 56.540 imprese
operanti in regione, ma la riduzione è stata costante, con un’unica
eccezione nel 2008. Si è giunti così al valore del 2014, anno in cui le
imprese lucane attive sono state 52.418 (Infocamere, 2015).
Trattandosi di uno stock, tuttavia, c’è da considerare anche il calo
verificatosi nello stock di popolazione residente, che sicuramente
influenza il dato relativo al numero di imprese attive.
19
Capitolo III L’incontro tra globale e locale: il petrolio in Basilicata
3.1 La storia del petrolio lucano
Il petrolio in Basilicata ha una storia risalente al 1902, quando nella Regione
si verificano le prime fuoriuscite di greggio. Tuttavia, la data che segna il
vero e proprio inizio della storia petrolifera lucana è il 1939, quando l’Agip
iniziò le prime pratiche estrattive in Val d’Agri. Tra il ’60 e gli ’80, a
seguito degli shock petroliferi, gli Stati ripresero le ricerche nei territori
nazionali, ma fu negli anni ’80 che venne segnato un grande cambio di
passo, grazie alle ricerche della Petrex e alla concessione “Costa Molina”,
mentre nel 1984 venne concesso il permesso di ricerca e coltivazione
“Monte Alpi”, seguito dal ritrovamento, quattro anni più tardi, del pozzo
“Monte Alpi 1”, seguito da quello di Tempa Rossa e poi ancora da Cerro
Falcone. Nel corso degli anni, le stime sulle riserve petrolifere lucane sono
andate via via riportando dati crescenti, tanto da far diventare la Basilicata il
più grande giacimento petrolifero in terraferma. Oggi le aree di produzione
petrolifera sono due: la Val d’Agri e la Camastra Alto-Sauro. Il programma
di ricerca e sfruttamento denominato “Trend 1” è riferito alla Val d’Agri e
si estende per 61.515 ettari, ed i barili qui estratti vengono lavorati nel
Centro Oli di Viggiano. “Trend 2”, invece, si riferisce alla seconda area
sopracitata ed interessa una superficie di 29.059 ettari. Per adesso, il valore
stimato delle riserve certe di petrolio lucano è attestato sui 60 miliardi di
euro (SVIMEZ, 2013). I permessi di ricerca accordati sono 11, pari al
10,38% del totale dei permessi concessi a livello nazionale. Le concessioni
di coltivazione, invece, sono venti ed interessano un territorio di oltre 8.600
Kmq, ma quella più importante si trova in Val d’Agri (di Eni per il 61% e di
Shell per il restante 39%), con oltre 660 Kmq interessati e 25 pozzi in
produzione.
20
In tutto, i pozzi perforati sono 471 ma quelli di estrazione attivi sono 106, di
cui 39 in produzione, 57 non eroganti, 4 utilizzati per “altro scopo” e 6
utilizzabili (Corte dei Conti, 2014). E’ proprio in Basilicata che si estrae
l’80% del petrolio estratto sulla terraferma italiana (Bolognetti, 2013), ma
con l’entrata a regime del giacimento di Tempa Rossa tale percentuale è
destinata a salire, dato che si estrarranno oltre 150 mila barili di petrolio al
giorno (Legambiente, 2013). Riguardo la Val d’Agri, ci sono tre accordi
importanti firmati dalla Regione Basilicata. Il primo è il Protocollo d’Intesa
Stato-Regione del 1998, che prevedeva che il 30% delle royalties,
inizialmente destinato allo Stato e poi corrisposto alle regioni del
mezzogiorno a decorrere dal 1 Gennaio 1999, fosse utilizzato per interventi
infrastrutturali. Più precisamente, si prevedeva la realizzazione di un “tronco
funzionale”, il Fondo Valle Sauro, per il quale sono stati impegnati 181
milioni di euro, che però non sono ancora stati utilizzati. Il secondo è il
Protocollo d’Intenti Regione-Eni, sempre del 1998, che prevedeva, tra le
altre cose, contributi di compensazione ambientale, azioni per lo sviluppo
sostenibile, un sistema di monitoraggio ambientale, l’istituzione di un
osservatorio ambientale, l’istituzione di borse di studio, la costituzione di
una Società Energetica Regionale e la partecipazione di Eni ad una Società
Regionale di Sviluppo. Molte somme, in questo caso, risultano impegnate
con rateizzazioni, ma quelle sino ad ora impegnate risultano essere state
completamente spese per gli interventi previsti (metanizzazione,
compensazione ambientale, monitoraggio ambientale, sviluppo sostenibile),
tranne quelle relative all’osservatorio ambientale (Corte dei Conti, 2014). Il
terzo accordo, invece, è il Memorandum d’Intesa Stato-Regione del 2011,
che ha la propria ragion d’essere nella non attuazione o nella attuazione
lenta e/o parziale dei piani, poiché le royalties venivano utilizzate quasi
completamente per spese correnti e non invece per creare sviluppo e
occupazione. Nel Memorandum, comunque, veniva ribadita l’importanza
strategica del territorio lucano, per il quale erano nuovamente individuati
piani di tutela e ripristino ambientale e piani di mobilità, accessibilità e
occupazione, da finanziare anche grazie al 30% di IRES (l’imposta sul
21
reddito delle società) destinato allo Stato, che riguardava sia i proventi
derivanti dall’aumento dei barili estratti da Eni, sia quelli derivanti
dall’inizio delle estrazioni presso Tempa Rossa. Nel 2012, poi, è stato
siglato il Contratto di sito, che ha come obiettivo quello di salvaguardare
l’occupazione e lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Attualmente c’è
un forte dibattito sul Decreto “Sblocca Italia”, che anche la Regione
Basilicata ha deciso di impugnare davanti al TAR, per la poca chiarezza
dello stesso riguardo il ruolo effettivo della Regione in materia energetica,
che è appunto materia concorrente tra Stato e Regione e riguardo la
concessione unica: una concessione di ricerca che potrebbe bastare per
estrarre idrocarburi, mentre oggi sono previste concessioni differenti (i cui
canoni di pagamento risalgono al 1997 risultano espressi ancora in lire). Tra
l’altro, la concessione potrebbe essere autorizzata esclusivamente dal
Ministero, ed è dunque per questo che il timore delle regioni è quello di
essere totalmente esautorate delle proprie competenze in materia di
estrazioni. E’ chiaro che in una regione con un territorio sensibile dal punto
di vista turistico, agricolo e idrico qual è quello lucano e con aspetti
occupazionali, demografici e infrastrutturali critici, le estrazioni petrolifere
creino dibattiti importanti. La non attuazione o l’attuazione parziale di
accordi che prevedono “vantaggi” in questi termini per la regione sono
ovviamente un indice di valutazione importante, come anche lo è la
questione relativa alle competenze concorrenti in materia energetica delle
regioni.
E’ su tutti questi aspetti che il dibattito pubblico relativo al petrolio si
infiamma continuamente, in particolar modo nelle regioni direttamente
interessate dalle attività estrattiva come la Basilicata. Essendo poi la
Basilicata un territorio in cui è importante la filiera dell’agroalimentare, è
chiaro che le preoccupazioni dei cittadini vengano legittimate, soprattutto
quando manca la certezza che la Regione si impegni a far rispettare gli
accordi siglati con le compagnie.
22
3. 2 Il prezzo del petrolio e le royalties
Il prezzo del petrolio è una variabile determinante ai fini di un’analisi
macroeconomica come quella del presente lavoro. Esso è fortemente
volatile, tanto che nel 1998 il prezzo di un barile era pari a 7,5 dollari
mentre nell’estate 2008 superò i 128 dollari, profilando il terzo shock
petrolifero (Blanchard, Amighini, Giavazzi, 2011). I primi due si sono
verificati, invece, tra 1973 e 1975 e tra 1979 e 1981, in seguito alla
creazione dell’Opec e a situazioni di instabilità politica in Medio Oriente
dalle quali derivarono guerre e rivoluzioni. In entrambe le occasioni,
l’effetto sorpresa aveva causato una sorta di immobilità delle Banche
Centrali, andando a corroborare una situazione di stagflazione derivante da
una persistente recessione (stagnazione) e una elevata inflazione.
Nella Fig. 4 è riportato in rosso l’ammontare delle royalties versate alla
Regione Basilicata a partire dal 2007, mentre la linea blu rappresenta
l’andamento del prezzo del petrolio.
23
Questi due valori appaiono strettamente correlati anche con il numero di
barili estratti (riferito alla produzione lorda) ed a tal proposito appare
interessante quanto si è verificato nel 2008, in occasione del terzo shock
petrolifero. Il prezzo del petrolio era aumentato in maniera spropositata e,
nonostante il calo del numero di barili estratti, in tale occasione si è
verificato comunque un consistente aumento della quantità di royalties
versate dalle compagnie alla Regione Basilicata. Per capire meglio la
situazione, osserviamo i dati: il numero di barili estratti è sceso nel 2008 del
10,9% rispetto al 2007 (-3 milioni, arrivando a 28,9 milioni), mentre il
prezzo del petrolio è aumentato nello stesso intervallo di tempo del 33,8%
(+24,5 dollari/barile, arrivando ad un prezzo pari a 96,94 dollari/barile). Ne
è derivato un aumento delle royalties versate pari all’11% (+12 milioni di
euro). Potrebbe essere interessante bilanciare i dati con il valore del tasso di
cambio euro/dollaro degli stessi anni: la variazione di prezzo ne risulterebbe
ancora maggiore, pari cioè al 48,47% e maggiore sarebbe anche
l’ammontare in dollari di royalties versate nel 2008 rispetto al 2007 (+19%).
Infatti, il tasso di cambio euro/dollaro è stato pari a 1,37 nel 2007 e a 1,47
nel 2008, con una variazione pari al 7,3% (Banca d’Italia, 2015). Un altro
esempio interessante può essere dato dal raffronto tra 2011 e 2012. Proprio
nel 2012, infatti, è stato versato alla Regione Basilicata un ammontare di
royalties pari a 168,874 milioni di euro (la somma più consistente fino ad
adesso), con un aumento del 20,32% rispetto all’anno precedente. Nello
stesso intervallo di tempo, il prezzo del petrolio era stato quasi stabile, con
un aumento dello 0,33% rispetto al 2011 (+0,37 dollari/barile), mentre il
numero di barili estratti era aumentato dell’8,34% (+2,3 milioni) (Ministero
dello Sviluppo Economico, 2015). Anche in questo caso, può essere
interessante confrontare l’ammontare di royalties versate nei due anni con il
tasso di cambio corrispondente a ciascuno di essi.
24
Deve essere considerato che rispetto alla situazione precedentemente
analizzata, quando cioè c’era stato un deprezzamento dell’euro nei
confronti del dollaro, tra 2011 e 2012 si è verificato un apprezzamento
dell’euro nei confronti del dollaro (da un tasso di cambio pari a 1,39 si è
passati a un tasso di cambio pari 1,28 euro/dollaro). Ne risulta che il valore
in dollari delle royalties versate nel 2012 è aumentato del 10,8% rispetto al
valore del 2011, di molto inferiore al +19% riscontrato tra 2007 e 2008. In
tutto ciò, comunque, deve essere considerato lo sfasamento temporale che
intercorre tra il versamento delle royalties alla Regione, che avviene
nell’anno successivo a quello della produzione di petrolio e la
determinazione del prezzo del petrolio sul mercato globale. I due valori,
quindi, non si riferiscono esattamente allo stesso periodo di tempo (come
invece si intuisce dal grafico) ed è per questo che il calcolo delle royalties
avviene in controvalore, calcolato sui prezzi medi del mercato del petrolio.
Deve essere considerato, poi, che il dato relativo al numero di barili estratti
è riferito alla produzione lorda, mentre le royalties sono riferite alla
produzione netta. Inoltre, dal 2011 al 2013 sono state versate alla Regione
Basilicata parte delle royalties riferite ad anni di produzione precedenti.
Nel 2011, infatti, sono stati versati 235 mila euro per la produzione del
2009 (mentre la restante aliquota è ovviamente riferita alla produzione del
2010), nel 2012 sono stati versati 942 mila euro per la produzione del 2010
e nel 2013 sono stati versati 101 mila euro per la produzione relativa al
2011 (Ministero dello Sviluppo Economico). Ciò a causa di alcuni
cambiamenti nella legislazione in materia. Si stima, comunque, che per
l’importazione di petrolio vengono trasferite all’estero risorse finanziarie
che sarebbero potute essere investite in Italia, e tali investimenti sono
stimati in circa 5 miliardi di euro e 34 mila addetti potenzialmente
impiegati. Per quanto riguarda i prossimi 10 anni, si stimano mancate
entrate a livello nazionale pari a 11 miliardi di euro (Corte dei Conti,
2014). Ad ogni modo, proprio grazie a questi dati è possibile riflettere su
quelli che sono stati gli effetti macroeconomici delle estrazioni petrolifere
ed in particolare delle royalties a cui la Regione Basilicata ha potuto
25
attingere nel corso degli anni. Lo faremo, nel prossimo paragrafo,
analizzando le serie storiche riferite ad alcuni dati degli ultimi anni
(occupazione, disoccupazione, numero di imprese attive) e attraverso un
modello a matrice.
3.3 Cosa è successo, tra dati e modello SAM
Deve essere considerato che anche in funzione delle attività estrattive (oltre
che per gli effetti sull’economia locale dello stabilimento FIAT e dei salotti,
questi ultimi poi crollati in seguito alla crisi), la Regione Basilicata è
fuoriuscita dalle aree considerate depresse dall’Unione Europea (obiettivo
1), ritornandovi poi nuovamente (obiettivo convergenza). Partendo da
questo presupposto, analizziamo gli effetti delle royalties sull’economia
regionale. Per quanto riguarda il valore dell’aliquota riconosciuta dalle
compagnie petrolifere ai territori interessati dalle loro attività, essa
corrisponde al 7%, corrisposto per il 55% alla Regione, per il 15% ai
Comuni interessati e per il 30% allo Stato, anche se alle regioni del
Mezzogiorno, come appunto la Basilicata, resta anche la quota destinata allo
Stato. La Regione Basilicata, dunque, riceve l’85% dell’ammontare delle
royalties, mentre il restante 15% viene destinato ai Comuni interessati dalle
attività estrattive. Ad ogni modo, il totale delle royalties accreditate alla sola
Regione Basilicata nel periodo 2008-2014 è pari a 788 milioni di euro,
mentre complessivamente, in 14 anni, la Basilicata ha ricevuto royalties per
oltre 1 miliardo di euro (Ministero dello Sviluppo Economico, 2015). Più di
recente, oltre alla tradizionale quota proveniente dalle royalties, ai cittadini
lucani in possesso di patente di guida che ne abbiano fatto richiesta è stato
accreditato il cosiddetto “Bonus Idrocarburi”, una carta prepagata sulla
quale viene di volta in volta versata una somma in base al reddito
individuale, destinata alla diminuzione del prezzo alla pompa dei carburanti.
26
Il bonus è finanziato dalle compagnie petrolifere con un’aliquota extra
sul prodotto pari al 3% (da aggiungere al 7% versato in termini di
royalties). Un dibattito acceso si è sviluppato anche dopo la
concessione di questo particolare contributo, in quanto si ritiene che lo
stesso finanzi comunque le multinazionali del petrolio e che, inoltre, il
bonus non sia coerente con gli obiettivi di equità sociale. Esso può
interessare, infatti, famiglie all’interno delle quali ci siano più
patentati, mentre non tiene conto delle famiglie nelle quali vi sono
meno patentati, ma che magari sono più povere (dato che ci si basa sul
reddito individuale) ed ancor peggio non può essere utilizzato in alcun
modo dagli indigenti che non posseggono automobile. E’ per questo
motivo che la Regione Basilicata si è impegnata, di concerto col
Governo, per trasformare il suddetto bonus in una social card con la
quale si possano effettuare acquisti in beni e servizi. Tuttavia, l’attuale
Consiglio Regionale si sta impegnando per utilizzare parte dei fondi
che erano destinati al finanziamento della card idrocarburi per il
sostegno ai Comuni lucani in difficoltà. Tornando alle ricadute delle
royalties sull’economia lucana secondo gli interventi programmati,
esse si verificheranno (e si sarebbero già dovute verificare) nel
miglioramento del tessuto produttivo lucano, nella formazione
professionale, in incentivi al mercato del lavoro, nelle infrastrutture e
nei servizi in materia ambientale e turistica. Va comunque
riconosciuto l’effetto positivo che tali finanziamenti hanno avuto sugli
operatori del settore agroalimentare, che hanno avuto facilitazioni
negli iter di riconoscimento di marchi europei per molteplici prodotti.
Se si esaminano però i capitoli di spesa relativi alle royalties, si nota
che esse hanno finanziato prevalentemente le spese correnti della
regione, piuttosto che i progetti di sviluppo programmati.
27
Come si vede dalla Fig. 5, infatti, al 2012 risultano impegnati 764, 3 milioni
di euro di cui 6,6 milioni per servizi generali dell’amministrazione, mentre
quasi 40 milioni sono stati utilizzati per “disavanzi sanità”. Ma anche i
capitoli di spesa congruenti con quanto programmato e previsto dagli
accordi comprendono al loro interno voci relative a spese correnti di settore,
come nel caso dei trasporti e di istruzione e formazione.
28
Solo 1,4 milioni di euro su 56,4 milioni, ad esempio, sono stati impegnati
per progetti legati all’approvvigionamento di energia da fonti rinnovabili e
alla incentivazione dello sviluppo di attività imprenditoriali nel campo del
riciclo di materiali recuperati dai rifiuti, mentre circa 34 milioni sono stati
impegnati per la riduzione del costo dell’energia e la riduzione delle
emissioni clima alteranti. Solo 202 mila euro, poi, sono stati impegnati per
il miglioramento della qualità del lavoro, mentre lo 0,1% delle risorse
totali è stato impegnato per l’occupabilità, lo 0,3% per l’inclusione sociale,
lo 0,4 % per il capitale umano, lo 0,4% per l’accessibilità, il 4,8% per i
trasporti, lo 0,8% per la “società della conoscenza”, che prevede interventi
relativi alla diffusione della banda larga e l’incremento delle tecnologie per
la ricerca, oltre che investimenti nell’ICT per la pubblica amministrazione,
il 2,6% per il sostegno alle PMI, il 5,9% per istruzione e formazione
professionale. Lo 0,5% è stato impegnato per interventi per il
miglioramento della competitività produttiva, lo 0,3% per la valorizzazione
dei beni culturali, lo 0,3% ai sistemi urbani, lo 0,8% alla viabilità, mentre 7
milioni di euro (lo 0,9%) sono stati impegnati per il sostegno all’Università
di Basilicata e al sistema regionale di ricerca scientifica. Invece, l’8,7%
(oltre 67 milioni di euro) è stato impegnato per il piano di forestazione.
Insomma, per quanto riguarda gli impegni relativi a questioni sociali
rilevanti per il singolo cittadino (PMI, occupabilità, inclusione sociale,
trasporti e capitale umano), vi è stata impegnata una cifra che ammonta a
circa il 10% del totale (Corte dei Conti, 2014). Interessante, però, è anche
l’analisi relativa all’impatto socioeconomico del petrolio attraverso SAM
(social accounting matrix), una matrice in grado di considerare gli effetti
diretti, indiretti e indotti di un determinato “intervento economico”. Da
essa è emersa la fondamentale importanza dei servizi, che rappresentano
oltre il 50% dell’intera produzione regionale (70% del PIL), mentre
industria e costruzioni seguono con il 45% della produzione (26% del
PIL). L’agricoltura, invece, contribuisce per un 3% in termini di
produzione e PIL.
29
L’analisi relativa alle royalties, che si rifà agli incassi complessivi del
periodo 2007-2010, pari a 636 milioni di euro e al Programma Operativo
Val d’Agri (POV), avente un budget di 349 milioni di euro, testimonia come
il settore delle costruzioni sia stato quello più incentivato da tali sussidi, con
stanziamenti pari a 75 milioni di euro. Invece, nel caso della erogazione a
sostegno di investimenti produttivi, il maggior beneficiario è stato il settore
agricolo, con il 47,4% (Landi, Rocchi, Stefani, 2012). Secondo il Modello
SAM, grazie a POV e royalties ha avuto luogo un incremento della
produzione di circa mezzo miliardo di euro, con un’occupazione generata
parti a 5.300 unità di lavoro annuale a tempo pieno (circa il 2,9% del totale
degli occupati lucani). Il dato, che di certo non rispecchia le aspettative di
sviluppo inizialmente derivanti dalle attività estrattive, riporta chiaramente
alcuni punti cardine delle stesse attività, che cioè sono capital intensive e
coinvolgono personale altamente specializzato. Ad ogni modo, come
riportato nelle conclusioni dello studio: “Pur trattandosi di valori rilevanti
in senso assoluto, soprattutto in tempi di crisi economica, si tratta tuttavia
di risultati deludenti e sicuramente inferiori alle potenzialità, anche
considerando che si tratta solo di effetti di breve periodo”, e quindi, sempre
stando a quanto riportato “[…] si può ragionevolmente ipotizzare che
l’utilizzazione delle royalty sia servita solo a limitare i potenziali effetti
negativi del rallentamento che l’economia italiana ha mostrato nell’ultimo
decennio” e “In assenza di una significativa crescita della domanda
proveniente dall’esterno del sistema economico regionale, la semplice
utilizzazione delle royalty per qualsiasi programma di interventi possa
essere predisposto, non solo produrrebbe un effetto non duraturo nel tempo,
ma non sarebbe nemmeno in grado di portare ad una crescita significativa
nel breve periodo” (Landi, Rocchi, Stefani, 2012). E’ proprio una logica di
finanziamento slegata da un’idea di sviluppo duraturo e coerente che si
vuole evitare attraverso il POV, che ha come obiettivo il potenziamento
30
delle infrastrutture del comprensorio, il miglioramento della vivibilità e della
qualità ambientale e un’inclusione lavorativa coerente con l’avvio del parco
Nazionale della Val d’Agri.
31
Conclusioni
La prima considerazione da fare al termine della tesi riguarda la
salvaguardia ambientale, lo sviluppo e la coesione territoriale delle località
interessate dalle attività estrattive, come appunto la Basilicata, regione
fortemente votata all’agricoltura, all’allevamento e al turismo, tutte attività
che potrebbero essere negativamente influenzate dalle estrazioni. Inoltre,
non va trascurata la dimensione economica. Infatti, il prezzo del petrolio sta
conoscendo nel 2015 un drastico calo e va valutato, quindi, cosa potrebbe
accadere se esso continuasse a scendere o se si stabilizzasse su livelli di
prezzo ritenuti bassi. Le politiche governative, a quel punto, potrebbero
risultare anacronistiche e non ottimali, in quanto se il prezzo del petrolio
continuasse a ridursi, la bilancia commerciale conoscerebbe una riduzione
della voce di spesa relativa alle importazioni. A quel punto, però, i territori
interessati dalle attività estrattive potrebbero risultare gravemente
compromessi, mentre la loro funzionalità verrebbe meno. Se il prezzo del
petrolio riprendesse a salire, invece, nonostante l’aumento delle estrazioni
sul territorio nazionale, rimarrebbe una dipendenza dalle importazioni pari
all’80-90%, che continuerebbe a significare un consistente capitolo di spesa
relativo alle importazioni. Comunque, dalla tesi è emerso che in Basilicata si
estrae la quasi totalità del petrolio estratto sulla terraferma italiana, da cui la
Regione ha ottenuto oltre 1 miliardo di euro negli ultimi 15 anni. Tuttavia, lo
sviluppo ha stentato a decollare, come dimostra il 15% di disoccupazione
totale, il crollo del numero di imprese, la pessima dotazione di infrastrutture
materiali e immateriali (al di sotto persino della media del Mezzogiorno), il
calo demografico degli ultimi anni, oltre che l’invecchiamento della
popolazione, entrambi indici delle continue migrazioni dei giovani lucani.
Questo perché le royalties sono state utilizzate soprattutto per finanziare
spese correnti, mentre probabilmente sarebbe stato più opportuno dedicare
maggiori risorse alle spese in conto capitale.
32
Inoltre, viva e importante risulta la questione ambientale, dato che in
Basilicata ci sono 890 siti inquinati, come stabilito nel 2000 dalla
Commissione Bicamerale sul ciclo dei rifiuti. L’osservatorio ambientale,
invece, sembra essere diventato operativo solo adesso e il monitoraggio
ambientale è stato spesso debole o carente. Infine, è emerso come la questione
giovanile e femminile sia fortemente attuale, mentre gli indicatori economici
riportano una certa conformità (negativa) alla media del Mezzogiorno.
Probabilmente, le royalties hanno attenuato in parte gli effetti negativi della
crisi economica, ma non hanno prodotto quanto ci si aspettava. E’ evidente,
dunque, che solo una gestione più accurata delle risorse impegnate dalle
compagnie, una reale attuazione dei piani, dei patti e dei progetti condivisi
con un dibattito ampio, trasparente ed aperto potrebbero garantire delle reali
ricadute sull’economia locale. A tal proposito è necessario ricordare il ruolo
fondamentale che hanno sia la politica che le compagnie petrolifere. La
prima, infatti, deve essere in grado di pianificare ed elaborare insieme a
cittadini, esperti e associazioni, le politiche di sviluppo più confacenti alle
vocazioni territoriali, senza dimenticarsi della impellenti questioni ambientali,
sociali ed economiche. Le compagnie, invece, devono garantire il loro
apporto in termini di investimenti e, inoltre, assolvere i loro doveri di rispetto
dei vincoli economici ed ambientali. Più trasparenza, da questo punto di vista,
significherebbe un importante passo verso le esigenze di tutti i cittadini
lucani. I cittadini, infine, avranno l’arduo compito di controllare
l’applicazione dei patti e degli accordi, stando bene attenti alle voci di spesa
in cui le royalties vengono impiegate di anno in anno, in modo tale che esse
vadano davvero ad influenzare la spesa per investimenti, piuttosto che, come
avvenuto sino ad ora, a colmare lacune e mancanze relative alle spese
correnti.
33
FONTI BIBLIOGRAFICHE
- Blanchard O., Amighini A., Giavazzi F., 2011, Macroeconomia,
Una prospettiva europea, il Mulino, Bologna.
- Bolognetti M., 2013, Le mani nel petrolio, Basilicata coast to coast,
ovvero da Zanardelli a Papaleo passando per Sanremo e Tempa
Rossa, Reality Book, Roma.
- Circolo Legambiente Val d’Agri, Legambiente Basilicata Onlus,
Ufficio scientifico di Legambiente nazionale, 2013, Petrolio in Val
d’Agri, …il dato non è tratto… Dossier, Legambiente, Potenza.
- Corte dei Conti, Sezione Regionale di controllo per la Basilicata,
2014, Deliberazione n. 71/2014/PRS, Potenza.
- Dommarco P., 2012, Trivelle d’Italia, perché il nostro paese è un
paradiso per petrolieri, Altreconomia Edizioni, Milano.
- Landi C., Rocchi B., Stefani G., 2012, L’impatto socio-economico
delle royalties petrolifere in Basilicata, [s.l.], Agriregionieuropa
anno 8 n. 29, p. 98.
- Lattarulo F., 2013, Basta volerlo, soluzioni glocali per un nuovo
paradigma energetico, Tienilammente, [s.l.].
- Liccione R., 2000, Petrolio in Basilicata: opportunità e rischi,
Consiglio Regionale della Basilicata, [s.l.].
34
- Sammartino M., 2014, Sblocca Italia emendato. L’opera dei
deputati lucani, reperito su http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/,
consultato il 04/07/2015.
- SVIMEZ, 2013, Rapporto sullo stato dell’economia della Basilicata
e sulle prospettive di una ripresa sostenibile, Quaderni SVIMEZ –
Numero Speciale (37), Roma.
- SVIMEZ, 2014, Rapporto SVIMEZ 2014. SVIMEZ, Roma.
- Varvelli R., Varvelli F., 2015, Che cos’è il petrolio, Mind
Edizioni , Milano.
35
SITOGRAFIA
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http://www.bancaditalia.it/;
- EIA, U.S. Energy Information Administration.
http://www.eia.gov/dnav/pet/hist/LeafHandler.ashx?n=pet&s=rbrte&
f=m;
- ISTAT, Occupati di 15 anni e oltre per sesso, classe di età, anno e
trimestre. http://www.istat.it/it/basilicata;
- ISTAT, Occupati per branca di attività e anno.
http://www.istat.it/it/basilicata;
- ISTAT, Valore aggiunto ai prezzi base e Prodotto interno lordo per
anno. http://www.istat.it/it/basilicata;
- Ministero dello sviluppo economico, Direzione generale per le
risorse minerarie ed energetiche.
http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/unmig/royalties/royalties.asp
- Movimprese, Infocamere, La società di informatica delle Camere di
Commercio italiane. http://www.infocamere.it/movimprese;
- P.O.V., Programma Operativo Val d’Agri.
http://www.povaldagri.basilicata.it/povaldagri/Webby.do;
- Unioncamere, Atlante della competitività delle Province e delle Regioni.
http://www.unioncamere.gov.it/Atlante/.
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TESI FINALE

  • 1. INDICE Introduzione p.1 Cap. I La risorsa petrolio 1.1 I riferimenti storici ed economici p.3 1.2 Produzione e consumo di petrolio p.5 1.3 Il petrolio italiano p.8 Cap. II Il sistema economico della Regione Basilicata 2.1 Uno sguardo d’insieme p.11 2.2 Demografia, lavoro e infrastrutture p.12 2.3 I tre settori nell’economia regionale p.16 Cap. III L’incontro tra globale e locale: il petrolio in Basilicata 3.1 La storia del petrolio lucano p.19 3.2 Il prezzo del petrolio e le royalties p.22 3.3 Cosa è successo, tra dati e modello SAM p.25 Conclusioni p.31 Fonti Bibliografiche p.33 Sitografia p.35
  • 2. 1 Introduzione La tesi verte su un argomento diventato assolutamente attuale negli ultimi tempi, quando in Basilicata si sono moltiplicate le manifestazioni riguardo le estrazioni petrolifere, soprattutto in seguito al Decreto “Sblocca Italia”. Lo scopo del lavoro è quello di analizzare dettagliatamente gli effetti economici che un mercato globale come quello energetico può avere su un territorio circoscritto, attraverso l’incrocio dei dati derivanti da studi e rapporti. Più precisamente, andremo ad analizzare gli effetti del mercato petrolifero sulla Regione Basilicata, interessata dal complesso di attività estrattive di diverse multinazionali, tra le quali Eni, Shell e, a brevissimo, Total. Il lavoro è suddiviso in tre macroaree: le prime due analizzano in maniera distinta i due punti centrali della riflessione, ovvero il petrolio e il tessuto economico lucano, mentre la terza riguarda l’incrocio delle due macroaree precedentemente discusse. L’analisi del primo capitolo parte da una panoramica storica sul petrolio, dal sorpasso sulle fonti energetiche “antiche”, ovvero il legno prima e il carbone poi, fino al primo cartello petrolifero, quello delle “Sette Sorelle”, che è stato l’oligopolio per eccellenza del mercato energetico fino alla formazione del nuovo cartello, quello dell’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries). Si giunge, poi, allo studio di produzione e consumi e delle differenti aree di impiego del petrolio, dalla produzione di energia elettrica ai trasporti, passando per gli usi termici. Saranno presentate le due diverse teorie, ovvero quelle degli abbondantisti e dei catastrofisti, oltre che le differenti situazioni dei paesi produttori e di quelli consumatori (tra i quali l’Italia). Nell’ultimo paragrafo, invece, sarà presentata la storia del petrolio italiano, partendo dalle grandi intuizioni del cavalier Scotti, che costituì la Società Petrolifera Italiana e di Enrico Mattei, che nel 1953 fondò l’Eni, per arrivare alla situazione attuale: 400 giacimenti di olio e gas, 2.500 pozzi esplorativi, oltre 3.000 pozzi produttivi e diverse compagnie impegnate in attività estrattive nella nostra penisola.
  • 3. 2 Nella prima parte del secondo capitolo sarà presentato il contesto economico e sociale della Basilicata, tra le regioni più povere d’Italia, con un PIL procapite pari a 17.006 euro, seguita solo da Puglia, Campania, Sicilia e Calabria (SVIMEZ, 2014). Come vedremo nel secondo paragrafo, però, è sotto il profilo dell’occupazione che i dati manifestano una drammaticità ancora maggiore, con un calo degli occupati “giovani” (fasce d’età 15-44). Emerge poi un’altra criticità, ovvero l’invecchiamento della popolazione di oltre 6 anni nell’ultimo ventennio. Nell’ultimo paragrafo del secondo capitolo, sarà presentata la situazione riferita ai tre settori, che riporterà l’evoluzione negativa del settore agroalimentare, oltre che alcuni dati relativi al settore industriale, “nato” in Basilicata nel periodo che seguì al terremoto del 1980. E’ così, infatti, che si insediarono in Regione, tra gli altri, i centri produttivi della Val d’Agri, di Viggiano e la FIAT Sata di Melfi, ai quali oggi è dovuto il 75% dell’export lucano. Ma importante è anche l’apporto dei servizi, che sono arrivati a contribuire per il 70% al totale del PIL regionale. Il terzo capitolo, invece, prevede un incrocio delle due macroaree precedentemente disquisite, partendo da un’analisi storica riguardante il petrolio lucano, con particolare cenno al decisivo cambio di passo del 1939, quando l’Agip iniziò le attività in Val d’Agri. Nel secondo paragrafo sarà presentato un grafico nel quale vengono incrociati i dati relativi all’evoluzione del prezzo del petrolio con la quantità di barili estratti in Basilicata e le royalties versate dalle compagnie petrolifere alla Regione. Infine, vedremo quali sono stati gli effetti delle attività estrattive sulle principali variabili macroeconomiche regionali, sia grazie a dati empirici, sia attraverso un particolare modello a matrice.
  • 4. 3 Capitolo I La risorsa petrolio 1.1 I riferimenti storici ed economici Il 1962 è l’anno che ha segnato l’ascesa del petrolio quale fonte energetica più utilizzata, quando superò appunto il carbone che, a sua volta, aveva sorpassato il legno, fonte energetica dominante dall’inizio della civiltà umana. Cinquant’anni dopo, nel 2012, il petrolio è diventata la fonte da cui deriva un terzo del consumo energetico mondiale, con 12,38 miliardi di tonnellate utilizzate (Varvelli e Varvelli, 2015). Tuttavia, la storia del petrolio ha radici profonde, che vanno ben più lontano rispetto a quel 1962: il termine nafta compare addirittura nella Bibbia, mentre fu Zarathustra a far diventare il petrolio della Persia oggetto di adorazione (in seguito alle manifestazioni incendiarie dovute al petrolio). E’ Diodoro Siculo a testimoniare in “Bibliotheca historica” l’esistenza di pozzi di petrolio. Ovviamente, il petrolio e gli idrocarburi in generale hanno trovato facile diffusione in epoca antica a causa dei molteplici utilizzi ai quali essi erano sottoposti: dall’illuminazione agli usi terapeutici, nelle prime costruzioni e persino per fini bellici, quando le frecce degli arcieri venivano cosparse di una miscela comprendente, tra le altre cose, il petrolio, per poi essere scoccate verso le navi nemiche. Il XIX secolo fu l’epoca della svolta, quando la pubblica illuminazione iniziò ad essere alimentata dal petrolio, che venne poi commercializzato a Vienna sotto forma di cherosene. Proprio nel XIX Secolo, vicino a Baku (Azerbaigian) e in Polonia furono perforate decine di pozzi. Appare, quindi, poco più che una storia romanzata quella del “colonnello” Drake, un ex-macchinista che secondo alcune fonti “scoprì” il petrolio nel 1859 in Pennsylvania. Un episodio comunque degno di menzione, dato che da esso scaturì la “febbre dell’oro nero”, che portò una elevata quantità di avventurieri ad avviare perforazioni
  • 5. 4 e ricerche. Proprio l’eccesso di quantità di petrolio estratta causò, in pochi anni, un crollo del prezzo della materia stessa, che passò da circa 20 dollari dell’epoca a 10 centesimi al barile. La storia più prettamente economica del petrolio è una storia di cartelli e rivalità: il primo cartello storicamente delineatosi fu quello delle “Sette Sorelle”, ovvero la Sonj (Standard Oil of New Jersey, poi divenuta Exxon), la Socony (Standard Oil Company of New York, poi Mobil), Socal (Standard Oil of California, poi Chevron), tutte e tre nate sotto un trust di Rockefeller, più Gulf, Texaco (entrambe americane), Dutch-Shell e British-Petroleum (entrambe europee), che nel 1970, tutte insieme, possedevano una quota di mercato pari al 57% del petrolio totale prodotto nel mondo, mentre oggi esse detengono “soltanto” il 15%. Ovviamente, anche i profitti delle Sette Sorelle sono andati progressivamente riducendosi, come è accaduto nel 2014 a causa dello “shale oil”, ovvero un tipo di petrolio non convenzionale, per il quale cioè occorrono metodi di estrazione più complessi, che ha condotto ad un calo del prezzo della benzina negli USA a una cifra al di sotto degli 80 centesimi di euro al litro. Al di là di quanto viene spesso detto, le Sette Sorelle hanno cercato di mantenere basso il prezzo del petrolio fino a quando è stato loro possibile, anche grazie a una ripartizione certosina delle quote di mercato, stabilita all’interno del documento “As-Is” nel quale erano anche riportati i criteri di determinazione del prezzo del petrolio. Il trattato fu rivisto due volte, nel 1930 e nel 1944, ma il sogno di mantenere l’egemonia nel mercato petrolifero svanì qualche anno dopo, quando i paesi arabi iniziarono a non dare più in concessione il loro petrolio: di lì a poco sarebbe nata l’Opec. Nel 1901, tre quarti di territorio persiano furono dati in concessione dallo scià Muzzafar al-Din ad un affarista londinese, per una somma iniziale pari all’incirca a 20.000 sterline, alla quale però sarebbero state aggiunte royalties per una percentuale pari al 16% dell’utile netto che sarebbe derivato dalla commercializzazione dell’oro nero. E’ proprio da questo episodio che nascono le royalties, l’aliquota che le società concessionarie di giacimenti minerari versano, ad esempio, allo Stato o agli enti locali, di cui parleremo
  • 6. 5 più avanti. Nel 1904, comunque, il petrolio sgorgò per la prima volta in Persia e da lì in poi ebbe inizio una grande attività estrattiva, inizialmente sotto il controllo egemonico delle Sette Sorelle. Tuttavia, in pochi anni, i soggetti che concedevano porzioni di territorio alle compagnie petrolifere ebbero modo di accorgersi della enorme differenza di utile derivante dallo sfruttamento diretto delle risorse operato dalle stesse compagnie, che non era minimamente paragonabile ai profitti derivanti dalle royalties. Fu proprio la decisione delle Sette Sorelle di ridurre l’ammontare di royalties ad innescare la creazione della Organization of the Petroleum Exporting Countries (OPEC), istituita ufficialmente nel 1960 a Baghdad da Arabia Saudita, Iraq, Iran, Kuwait e Venezuela. Nel corso degli anni, altri Stati si sono aggiunti al cartello, che oggi è il più potente a livello mondiale, avendo la capacità di determinare il prezzo del petrolio attraverso l’offerta dello stesso. L’Opec, le cui entrate sono più che decuplicate nel corso degli anni, dagli 88 miliardi di dollari del 1988 ai 996 del 2008, attestatesi poi intorno ai 700-800 miliardi, esporta ben tre quarti del petrolio che produce, ha una quota petrolifera pari al 43%, e possiede riserve per il 73% del totale, come riportano i dati del 2012 (Varvelli e Varvelli, 2015). Una grossa quota appartiene all’Arabia Saudita, che esporta petrolio per il 90% del totale delle esportazioni, produce il 30% del totale Opec (13% mondiale) ed è appunto il maggior detentore di riserve all’interno del cartello. 1.2 Produzione e consumo di petrolio La domanda energetica mondiale deriva da tre differenti settori: energia elettrica (30,1%), trasporti (34,7%) ed energia impiegata per usi termici
  • 7. 6 (residenziale, terziario e industria, 35,2%). Non bisogna quindi confondere la domanda energetica mondiale con la sola domanda di energia elettrica, come spesso avviene. Per quanto riguarda le fonti specifiche, il petrolio rappresenta quella più largamente utilizzata, rappresentando il 34% del totale, seguito dal 26% del gas naturale, dal 21% del carbone e poi rinnovabili, nucleare e legno, tutte ampiamente al di sotto del 20% (Lattarulo, 2013). Andando più nello specifico, la produzione di energia elettrica deriva per il 6% dal petrolio (essa deriva in larga parte dal carbone, utilizzato per il 39% del totale delle fonti) mentre è nel settore dei trasporti che il petrolio è la fonte più largamente utilizzata, dato che contribuisce per il 96% del totale. L’energia prodotta per usi termici, invece, deriva innanzitutto dal gas naturale, ma anche in questo settore è importante il contributo del petrolio, che si attesta al 27% del totale (Lattarulo, 2013). Il petrolio (che è una miscela di diversi idrocarburi), è dunque una risorsa molto importante, tanto che l’attenzione degli studiosi ha persino prodotto due differenti teorie in materia, quella dei catastrofisti e quella degli abbondantisti: per i primi, il picco di produzione determinerà il passaggio ad un paradigma energetico differente, mentre per i secondi l’esauribilità del greggio non sarebbe una questione fondata. Dei catastrofisti fanno parte Hubbert, Laherrere e Campbell, i quali individuano ciascuno un determinato periodo nel quale si verificherà il collasso della produzione petrolifera mondiale, che porterà all’aumento del costo del petrolio e ad un periodo di instabilità politica. Tra gli abbondantisti, invece, Maugieri sostiene che la capacità di produzione petrolifera aumenterà, soprattutto grazie alle nuove tecniche di estrazione. Inoltre, Riccardo Varvelli, docente di Sistemi Energetici presso il Politecnico di Torino, così commenta le previsioni non corrette riportate nel rapporto Waes (Workshop on Alternative Energy Strategies) del 1975:
  • 8. 7  Nel periodo 1985-1995, malgrado il prezzo del petrolio sia fortemente aumentato rispetto al dato di partenza del 1972 a oltre il 50% indicato dal Waes, la domanda non ha superato mai l’offerta; anzi l’offerta è stata per anni abbondantemente superiore alla domanda;  l’Arabia Saudita nel periodo 1972-1985 (tranne il triennio 1979-1981) non ha superato i 9 milioni di barili/giorno e, malgrado ciò, la carenza di offerta prevista non si è verificata, meno che mai nel 1981; anzi, dopo quella data, per un eccesso di offerta, l’Arabia Saudita ha ridotto fortemente la sua produzione; (Varvelli e Varvelli, 2015, pp. 25-26) Sempre Varvelli, poi, ricorda l’errore di previsione del 1910 ad opera del Servizio geologico degli Stati Uniti, che annunciava la fine del petrolio entro 20 anni, o quella del Dipartimento degli Interni USA, che nel 1939 stabilì che il petrolio sarebbe durato al massimo per 13 anni a partire da quella data, per poi rivedere la data, portandola al 1964 (sbagliando nuovamente). Ma previsioni errate furono anche quelle riguardanti il “picco del petrolio” previsto da alcuni, in quanto la produzione mondiale è andata costantemente aumentando, partendo dai 63 milioni di barili al giorno nel 1990 per arrivare agli oltre 86 milioni di barili al giorno nel 2012, senza appunto accennare cali dopo aver raggiunto un valore di produzione da poter definire, appunto, “picco”. Attualmente, è possibile suddividere tra paesi produttori (tra i quali, come già detto, l’Arabia Saudita) e i paesi consumatori di petrolio: tra questi ultimi, i dieci paesi più industrializzati rappresentano il 45,8% del consumo mondiale, seppure in contrazione rispetto al decennio precedente. E’ da rilevare, però, che le economie mature comprese nel gruppo dei dieci consumatori stanno puntando su altre fonti energetiche, come il gas o le rinnovabili. I paesi in via di sviluppo, invece, costituiscono il 25,8% del consumo mondiale di petrolio, in aumento rispetto al decennio precedente. La conclusione è che, mentre i paesi industrializzati potranno progressivamente diminuire il loro consumo di petrolio, rimpiazzandolo parzialmente con lo sfruttamento di energie
  • 9. 8 rinnovabili (si pensi alle strategie di Europa2020 e al grande impegno degli Stati sul cambiamento climatico, oltre che sulle politiche ambientali in generale), i paesi in via di sviluppo utilizzano il petrolio quale “propulsore” per una crescita economica costante. A tal proposito, è interessante osservare il dato sul consumo pro capite, che nel 2012 è stato di 4,7 barili di petrolio in un anno, molto prossimo al valore verificato 10 anni prima: ne deriva che il singolo abitante non ha consumato più petrolio rispetto a quanto ne consumava nel 2012, quindi l’aumento del consumo totale deriva dalla crescita della popolazione mondiale e non da un “peggioramento” delle nostre abitudini (Varvelli e Varvelli, 2015). Nel prossimo futuro, comunque, sarà da tenere sotto controllo il consumo di paesi come la Cina, che possiede due tra le più grandi aziende mondiali operanti in campo petrolifero, ovvero Sinopec e Petrochina (con una produzione totale, in due, di oltre 4 milioni di barili al giorno e più di 1 milione di dipendenti), entrambe statali, come le russe Lukoil, Rosneft e Gazprom. 1.3 Il petrolio italiano Come abbiamo detto, ci sono paesi che producono petrolio e lo esportano quasi totalmente (Arabia Saudita), paesi che rispecchiano una condizione di sostanziale pareggio tra produzione e consumo di petrolio, come ad esempio, tra i paesi industrializzati e maturi, Canada e Gran Bretagna, e paesi come l’Italia che risultano consumatori di petrolio. Il nostro paese, infatti, nel 2012 ha consumato 1,3 milioni di barili/giorno e ne ha prodotti soltanto 0,11 milioni (Varvelli e Varvelli, 2015).
  • 10. 9 Ne risulta una situazione di quasi totale dipendenza, dato che il petrolio estratto in Italia soddisfa meno del 10% del fabbisogno nazionale. L’import di petrolio, che si attesta quindi intorno al 90% circa, è ovviamente una voce importante nella bilancia dei pagamenti italiana, ed è destinata a rimanere tale anche quando la produzione petrolifera nazionale raggiungerà livelli di poco inferiori al 15% del fabbisogno (con il raddoppio delle estrazioni in Basilicata). Si può dire che l’Italia continuerà a dipendere da altri paesi per quanto riguarda il petrolio, ed è dunque solo grazie all’abbassamento del prezzo del greggio (che pure c’è stato negli ultimi mesi del 2014, quando si è arrivati ad un costo pari a 62,34 dollari al barile, contro i 108,12 dollari al barile del Gennaio dello stesso anno) che la bilancia commerciale potrà migliorare, e con un prezzo della benzina costantemente più basso potrebbero esserci segni positivi sul Pil. Tuttavia, un prezzo del petrolio in caduta spinge la deflazione, mentre una situazione di inflazione pari al 2% (come da obiettivo UE), potrebbe significare una riduzione del valore reale del debito pubblico italiano. La storia “antica” del petrolio italiano si può datare intorno al XVI Secolo, quando la città di Sassuolo – “Sax oleum” – guadagna il suo nome per la presenza di petrolio, mentre più tardi fu il Ducato di Modena a diventare produttore di greggio. Nei pressi di Parma, intorno al 1859 erano attivi due pozzi di petrolio, e ne furono attivati altri nel corso degli anni presso Salsomaggiore e nella provincia di Pescara. E’ però grazie al cavalier Luigi Scotti, che costituì la Società Petrolifera Italiana e mise in produzione una ventina di pozzi petroliferi in Emilia, che l’Italia entrò di diritto tra i paesi produttori di petrolio. Qualche anno più tardi, nel 1926, fu fondata l’Azienda Generale Italiana Petroli, meglio conosciuta come Agip, che ottenne un anno dopo alcune concessioni in Romania: era l’affermazione della ricerca italiana di petrolio all’estero, già a buon punto in Albania, dove venivano estratte 200.000 tonnellate di petrolio/anno. Nel 1953, invece, Enrico Mattei fondò l’ENI, per garantire al Paese una impresa energetica nazionale, che cioè fosse indipendente dagli oligopoli internazionali e potesse garantire energia a buon prezzo alle famiglie e alle imprese italiane. Allo stato attuale, in Italia ci sono oltre 400
  • 11. 10 giacimenti di olio e gas, sono stati scavati oltre 2.500 pozzi esplorativi (di cui oltre 600 in mare) e sono stati realizzati più di 3.000 pozzi produttivi (774 in mare) (Varvelli e Varvelli, 2015). Come abbiamo già detto, l’Italia è un paese consumatore di petrolio, ed in questo senso sono interessanti i dati del 2012: l’importazione di petrolio è stata di 1,2 milioni di barili/giorno, corrispondente ad oltre il 92% del petrolio consumato (Varvelli e Varvelli, 2015). Tuttavia, ben presto il primato del petrolio come fonte energetica più utilizzata lascerà il passo al gas naturale, il cui utilizzo è in forte crescita. Per quanto riguarda le aziende petrolifere, operano in Italia Edison SPA, la società europea (francese) più antica nel settore energetico, la Enel Longanesi Developments, che è l’estensione operativa di Enel, ENI, multinazionale italiana quotata in borsa e controllata in parte da soggetti pubblici quali il Ministero dell’Economia e la Cassa depositi e prestiti spa, la Northern Petroleum Limited, operante soprattutto in joint-venture, Shell Italia spa e Total, titolare di 6 permessi di ricerca sul territorio nazionale (Dommarco,2012).
  • 12. 11 Capitolo II Il sistema economico della Regione Basilicata 2.1 Uno sguardo d’insieme La Basilicata è la terra al centro di quel Sud che ha subito un crollo di PIL nel biennio di recessione 2008-2009 maggiore rispetto a quello riportato nel centro-nord, seguito da una ripresa debole nel biennio 2010-2011. Qualora il processo di ripresa dovesse essere troppo lento, l’aggiustamento strutturale potrebbe diventare troppo pesante, con perdite di tessuto produttivo che renderebbero ancora più complicata la ripresa stessa. Tra 2007 e 2011, il PIL reale del mezzogiorno è sceso del 6,1%, cioè del 2% in più rispetto alla riduzione del dato relativo al centro-nord (SVIMEZ, 2013). Una delle ragioni è sicuramente la domanda interna, che risulta debole sia dal punto di vista delle imprese, sia da quello delle famiglie, mentre le esportazioni hanno tenuto un andamento piuttosto positivo, aumentando del 10,3% nel 2011 (dato riferito al mezzogiorno). In questa prospettiva, è interessante analizzare i dati relativi alla singola Basilicata, che nel 2011 è stata la regione più dinamica del paese, con una variazione del Pil del 2%. Tuttavia, la Basilicata veniva da un biennio, quello 2009-2010, in cui la crisi aveva avuto effetti più devastanti rispetto al resto del paese. Un Pil regionale che quindi sembra essere fortemente collegato al ciclo economico internazionale, con ampie perdite durante la recessione e, a seguire, una timida ripresa, derivante da un incremento dell’attività produttiva in tutti i settori, fuorché in quello delle costruzioni e, in particolare, un +2% registrato in agricoltura, che aveva visto una crescita del 4,7% nel 2010, dopo un -7,7% registrato nel 2009. Saldo positivo anche per quanto riguarda l’industria in senso stretto (+5,3%) e servizi (+2,6%), nonostante la valutazione complessiva del triennio 2008-2011 riporti un calo in tutti i settori (SVIMEZ, 2013).
  • 13. 12 Per quanto riguarda il mercato del lavoro lucano, nel 2011 si è registrata una crescita dell’1,3%, superiore al +0,2% del dato meridionale e del +0,4% di quello nazionale, derivante da una crescita degli occupati nel settore industriale (+1,9%) e in quello del commercio (+1,1%), che però non sono bastati per ristabilire l’occupazione ai livelli pre crisi. Come abbiamo già osservato, la crescita regionale è dovuta in particolare all’export: l’incidenza della Basilicata sul totale delle esportazioni complessive meridionali è infatti del 3,2%, un dato interessante se si considera che la popolazione lucana pesa sul totale meridionale per un valore inferiore al 3%. Inoltre, il rapporto export/PIL in Basilicata è maggiore che nel resto del mezzogiorno: 12,8% contro l’11,6% di media al sud, che denota una buona capacità per la regione di vendere nei mercati esteri (SVIMEZ, 2013). Nel 2011, l’export lucano ha visto una contrazione, come era già successo nel 2010. Va notato, comunque, che un impatto determinante deriva dalle esportazioni di autoveicoli prodotte nello stabilimento di Melfi, che incidono per il 68,7% sul totale delle esportazioni regionali, mentre un ruolo comunque rilevante è attribuito ai prodotti estrattivi, che contribuiscono invece per il 4,8% (SVIMEZ, 2013). Per inquadrare meglio la situazione, si pensi che nel 2012 l’export regionale ha registrato una riduzione pari al 24,5%, dovuta alla flessione della vendita di automobili (-37,3%) e di prodotti petroliferi (-20%). Pertanto, la perdita di ¼ del valore dell’export regionale è dovuta a queste due industrie, ovvero quella automobilistica e quella estrattiva, che dunque hanno una importanza fondamentale sull’economia locale. 2. 2 Demografia, lavoro e infrastrutture In Basilicata risiede circa l’1% della popolazione italiana (586.313 abitanti) e nel periodo 2010-2011 c’è stato un calo dei residenti pari al 2 per mille,
  • 14. 13 che rispecchia esattamente il dato verificato su base ventennale (1991-2011) che parla di una perdita, su base regionale, di 24 mila unità, dovuta sia a una dinamica naturale (sproporzione tra tasso di mortalità e tasso di natalità a tutto vantaggio del primo), sia alla dinamica migratoria, quest’ultima accentuata rispetto al dato meridionale. I dati, infatti, riportano un tasso migratorio regionale pari al -2,7 per mille, con una perdita di 1.600 residenti (trasferiti in altra regione italiana), mentre la dinamica migratoria con l’estero è risultata positiva (+2,2 per mille). Dal 1991 ad oggi, comunque, la struttura demografica lucana ha conosciuto un forte invecchiamento, passando da una media di 36,6 anni a una pari a 43 anni, con una riduzione di under 15 dal 19,7% al 13,4%. E’ solo grazie all’arrivo di stranieri, dunque, che l’impatto negativo delle dinamiche migratorie non è stato devastante, dato che la popolazione italiana residente in regione è diminuita di 27 mila unità e nello stesso periodo il numero di cittadini stranieri è cresciuto di 9 mila unità (SVIMEZ, 2013). Interessanti sono i dati relativi al numero di occupati, che sono passati da uno stock di 197,06 mila del 2000, valore più alto registrato negli ultimi 20 anni, a uno stock di 178,62 mila nel 2013, valore più basso registrato negli ultimi 20 anni (ISTAT, 2015). Ovviamente, però, deve essere considerato il calo della popolazione residente nella regione. L’analisi di occupati per età riporta un calo nella fascia 15-24 anni di oltre 5 punti percentuali nel decennio 2004-2014, come anche nella fascia 25-34 (oltre 15 punti percentuali) e in quella 35-44 (calo di quasi 10 punti percentuali). Cresce, invece, nello stesso decennio, il numero di occupati nelle fasce d’età 45-54 (+5%) e 55-64 (+14%) (SVIMEZ,2013). Il quadro che ne deriva è abbastanza chiaro, con un mercato del lavoro poco accessibile per i giovani, che segue l’invecchiamento demografico, dato che le ultime due fasce d’età, ovvero quelle più “anziane” riportano una crescita del valore percentuale, mentre le tre più “giovani” conoscono nello stesso periodo una flessione drammatica.
  • 15. 14 Indice, per altro, di una occupazione “pubblica” che è garanzia, dato che i posti che tengono e addirittura, in alcuni casi, aumentano, sono ascrivibili alla pubblica amministrazione. Per quanto riguarda il tasso di disoccupazione, invece, una panoramica che va dal 1993 al 2014 offre alcuni spunti interessanti: Dal 12,9% di disoccupati del 1993, appunto, si è passati al 14,73 del 2014, in calo rispetto al 2013 (ISTAT, 2015). Tuttavia, c’è da considerare che il tasso di disoccupazione “corretta”, che comprende cioè anche coloro che non hanno effettuato alcuna ricerca di lavoro, è di 10 punti percentuali superiore al dato riferito alla disoccupazione ufficiale, pari cioè al 25,2% nel 2013 (SVIMEZ, 2014). I valori relativi al tasso di disoccupazione, comunque, risultavano complessivamente in calo fino al periodo pre crisi, quando poi hanno iniziato a salire, fino ad arrivare al valore attuale: l’unica eccezione è il 2011, che ha visto un calo temporaneo dopo 4 anni di continua crescita, per poi conoscere una risalita. Nonostante ciò, però, la Basilicata ha tenuto dal 2000 al 2013 un tasso di disoccupazione inferiore alla media del Mezzogiorno, come si può vedere dalla Fig. 1 (ISTAT, 2015).
  • 16. 15 Anche in Basilicata, come in tutto il Mezzogiorno, molto forte è la cosiddetta “questione giovanile”, che vede indebolito quel legame tra capitale umano e scolarizzazione e capitale umano e mondo del lavoro. Come dicevamo in precedenza, proprio la struttura del mercato del lavoro italiano ha peggiorato, nel corso degli anni, la situazione dei giovani, che si trovano molto spesso in condizioni di disoccupazione, inattività o, quando abbiano un lavoro, con differenziali salariali importanti. Nessun titolo di laurea sembra preservare, in questo senso, i giovani lucani, dato che il tasso di disoccupazione dei laureati tra i 25 e i 34 anni si attesta al 20,8% in Basilicata, mentre è all’8,1% per quanto riguarda il Centro-Nord. Questa debolezza del mercato del lavoro, quindi, peggiora sotto molteplici aspetti la condizione dei giovani, che vivono più a lungo con i genitori, si sposano più tardi, fanno meno figli e non accumulano contributi per la loro pensione. Preoccupante è anche la situazione dei Neet (Not in Education, Employment, or Training) dato che il fenomeno si attesta in Basilicata al 29,9%, ma quanto fa specie è il dato relativo ai diplomati e laureati che non sono occupati, non cercano una occupazione e non sono in periodi di formazione: in Basilicata, infatti, la percentuale di questo fenomeno si attesta al 63% del totale Neet, contro il 50,9% della media del Mezzogiorno (SVIMEZ, 2013). Un fenomeno che non alimenta il brain drain (la fuga dei cervelli) e neanche la brain circulation (la circolazione dei cervelli) bensì un fenomeno ben più grave dal punto di vista socioeconomico: il brain waste, lo spreco di cervelli.
  • 17. 16 Ma l’economia della Basilicata è fortemente condizionata anche dall’assenza di una rete infrastrutturale consolidata, come dimostra la totale assenza di aeroporti e di reti di trasporto intermodale, mentre modesta è la dotazione di porti. Carente appare anche la dotazione di infrastrutture ferroviarie, considerata anche la totale assenza delle Ferrovie dello Stato da Matera, Capoluogo di Provincia. Anche la rete stradale risulta meno sviluppata rispetto alla media del sud e i tratti autostradali sono trascurabili. Tutto ciò, ovviamente, unito ad un importante sofferenza nel digital divide, rende poco accessibile la regione, con evidenti ripercussioni sul tessuto economico e sociale (Unioncamere, 2012). 2.3 I tre settori nell’economia regionale I dati relativi al settore agroalimentare riportano, per il periodo tra 2000 e 2011, una situazione negativa: infatti, in Basilicata il numero di aziende agricole si è ridotto di circa un terzo e la superficie agricola utilizzata è diminuita del 4,7%, mentre l’allevamento si è ridotto del 71,5% in 10 anni (SVIMEZ, 2013). Ad ogni modo, tenendo presente tutto il sistema economico-sociale regionale, il settore primario sembra aver complessivamente tenuto. Alcuni caratteri da non sottovalutare, però, emergono da un’analisi più approfondita: l’elevato indebitamento delle imprese di media e grande dimensione che hanno usufruito di interventi creditizi nazionali e regionali per sostenere il settore colpito da calamità naturale. Inoltre, va considerato che l’indebolimento dell’agroalimentare ha portato alla chiusura di stabilimenti importanti come Barilla, Parmalat e Conservificio Gaudiano.
  • 18. 17 Il periodo di crisi ha colpito anche il comparto industriale lucano, che ne è risultato progressivamente indebolito. Gran parte del tessuto industriale regionale è nato con la legge n. 219/1981, strumento con cui lo Stato incentivava la ricostruzione post-terremoto e avviava l’industrializzazione delle stesse aree. E’ così che nascono gli insediamenti della Val d’Agri, di Baragiano, Tito, ai quali si aggiungono Sata Melfi e il Centro Oli di Viggiano. E’ quindi in seguito al terremoto del 1980 che ha inizio la storia industriale lucana, che verrà poi influenzata dall’arrivo di ENI, la quale favorirà l’insediamento di una rete d’imprese in Val Basento e in Val d’Agri. Tuttavia, tale strumento legislativo non ha favorito la creazione di un vero e proprio tessuto industriale, quanto più quella di un complesso sfilacciato di poli industriali, talvolta completamente avulsi dalle economie di specializzazione regionale. Come abbiamo già detto, deve essere considerata la centralità, in questo settore, di Fiat-SATA, nel cui indotto lavorano circa 9 mila addetti (5% degli occupati totali), che prevede un piano d’investimenti che certamente potenzierà proprio lo stabilimento FIAT. Per quanto riguarda i servizi, invece, le unità coinvolte in tale settore sono andate via via aumentando, con un +86 mila addetti tra 1951 e 2011, di cui +66 mila unità nel periodo 1971-2001, con un PIL derivato che è cresciuto fino a rappresentare il 70% del totale regionale (SVIMEZ, 2013). Tuttavia, circa metà dell’intera occupazione è assorbita dall’attività di servizi della Pubblica Amministrazione, in special modo per quanto concerne istruzione e sanità. Importante è invece il dato relativo al turismo, anche in relazione a quello che è il patrimonio culturale e ambientale lucano, con i Parchi Nazionali del Pollino e dell’Appennino Lucano, i Parchi Regionali della Murgia Materana e di Gallipoli Cognato, le Oasi di Lago Pantano di Pignola e Bosco Pantano di Policoro e Matera, Capitale Europea della Cultura del 2019 con i suoi Sassi, Patrimonio UNESCO dal 1993, oltre che una fascia costiera di circa 60km.
  • 19. 18 Ad ogni modo, come si evince dalla Fig. 3, il totale di imprese attive in Basilicata è in costante calo dal 2001: proprio in quell’anno si è registrato il valore più alto degli ultimi 20 anni, pari a 56.540 imprese operanti in regione, ma la riduzione è stata costante, con un’unica eccezione nel 2008. Si è giunti così al valore del 2014, anno in cui le imprese lucane attive sono state 52.418 (Infocamere, 2015). Trattandosi di uno stock, tuttavia, c’è da considerare anche il calo verificatosi nello stock di popolazione residente, che sicuramente influenza il dato relativo al numero di imprese attive.
  • 20. 19 Capitolo III L’incontro tra globale e locale: il petrolio in Basilicata 3.1 La storia del petrolio lucano Il petrolio in Basilicata ha una storia risalente al 1902, quando nella Regione si verificano le prime fuoriuscite di greggio. Tuttavia, la data che segna il vero e proprio inizio della storia petrolifera lucana è il 1939, quando l’Agip iniziò le prime pratiche estrattive in Val d’Agri. Tra il ’60 e gli ’80, a seguito degli shock petroliferi, gli Stati ripresero le ricerche nei territori nazionali, ma fu negli anni ’80 che venne segnato un grande cambio di passo, grazie alle ricerche della Petrex e alla concessione “Costa Molina”, mentre nel 1984 venne concesso il permesso di ricerca e coltivazione “Monte Alpi”, seguito dal ritrovamento, quattro anni più tardi, del pozzo “Monte Alpi 1”, seguito da quello di Tempa Rossa e poi ancora da Cerro Falcone. Nel corso degli anni, le stime sulle riserve petrolifere lucane sono andate via via riportando dati crescenti, tanto da far diventare la Basilicata il più grande giacimento petrolifero in terraferma. Oggi le aree di produzione petrolifera sono due: la Val d’Agri e la Camastra Alto-Sauro. Il programma di ricerca e sfruttamento denominato “Trend 1” è riferito alla Val d’Agri e si estende per 61.515 ettari, ed i barili qui estratti vengono lavorati nel Centro Oli di Viggiano. “Trend 2”, invece, si riferisce alla seconda area sopracitata ed interessa una superficie di 29.059 ettari. Per adesso, il valore stimato delle riserve certe di petrolio lucano è attestato sui 60 miliardi di euro (SVIMEZ, 2013). I permessi di ricerca accordati sono 11, pari al 10,38% del totale dei permessi concessi a livello nazionale. Le concessioni di coltivazione, invece, sono venti ed interessano un territorio di oltre 8.600 Kmq, ma quella più importante si trova in Val d’Agri (di Eni per il 61% e di Shell per il restante 39%), con oltre 660 Kmq interessati e 25 pozzi in produzione.
  • 21. 20 In tutto, i pozzi perforati sono 471 ma quelli di estrazione attivi sono 106, di cui 39 in produzione, 57 non eroganti, 4 utilizzati per “altro scopo” e 6 utilizzabili (Corte dei Conti, 2014). E’ proprio in Basilicata che si estrae l’80% del petrolio estratto sulla terraferma italiana (Bolognetti, 2013), ma con l’entrata a regime del giacimento di Tempa Rossa tale percentuale è destinata a salire, dato che si estrarranno oltre 150 mila barili di petrolio al giorno (Legambiente, 2013). Riguardo la Val d’Agri, ci sono tre accordi importanti firmati dalla Regione Basilicata. Il primo è il Protocollo d’Intesa Stato-Regione del 1998, che prevedeva che il 30% delle royalties, inizialmente destinato allo Stato e poi corrisposto alle regioni del mezzogiorno a decorrere dal 1 Gennaio 1999, fosse utilizzato per interventi infrastrutturali. Più precisamente, si prevedeva la realizzazione di un “tronco funzionale”, il Fondo Valle Sauro, per il quale sono stati impegnati 181 milioni di euro, che però non sono ancora stati utilizzati. Il secondo è il Protocollo d’Intenti Regione-Eni, sempre del 1998, che prevedeva, tra le altre cose, contributi di compensazione ambientale, azioni per lo sviluppo sostenibile, un sistema di monitoraggio ambientale, l’istituzione di un osservatorio ambientale, l’istituzione di borse di studio, la costituzione di una Società Energetica Regionale e la partecipazione di Eni ad una Società Regionale di Sviluppo. Molte somme, in questo caso, risultano impegnate con rateizzazioni, ma quelle sino ad ora impegnate risultano essere state completamente spese per gli interventi previsti (metanizzazione, compensazione ambientale, monitoraggio ambientale, sviluppo sostenibile), tranne quelle relative all’osservatorio ambientale (Corte dei Conti, 2014). Il terzo accordo, invece, è il Memorandum d’Intesa Stato-Regione del 2011, che ha la propria ragion d’essere nella non attuazione o nella attuazione lenta e/o parziale dei piani, poiché le royalties venivano utilizzate quasi completamente per spese correnti e non invece per creare sviluppo e occupazione. Nel Memorandum, comunque, veniva ribadita l’importanza strategica del territorio lucano, per il quale erano nuovamente individuati piani di tutela e ripristino ambientale e piani di mobilità, accessibilità e occupazione, da finanziare anche grazie al 30% di IRES (l’imposta sul
  • 22. 21 reddito delle società) destinato allo Stato, che riguardava sia i proventi derivanti dall’aumento dei barili estratti da Eni, sia quelli derivanti dall’inizio delle estrazioni presso Tempa Rossa. Nel 2012, poi, è stato siglato il Contratto di sito, che ha come obiettivo quello di salvaguardare l’occupazione e lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Attualmente c’è un forte dibattito sul Decreto “Sblocca Italia”, che anche la Regione Basilicata ha deciso di impugnare davanti al TAR, per la poca chiarezza dello stesso riguardo il ruolo effettivo della Regione in materia energetica, che è appunto materia concorrente tra Stato e Regione e riguardo la concessione unica: una concessione di ricerca che potrebbe bastare per estrarre idrocarburi, mentre oggi sono previste concessioni differenti (i cui canoni di pagamento risalgono al 1997 risultano espressi ancora in lire). Tra l’altro, la concessione potrebbe essere autorizzata esclusivamente dal Ministero, ed è dunque per questo che il timore delle regioni è quello di essere totalmente esautorate delle proprie competenze in materia di estrazioni. E’ chiaro che in una regione con un territorio sensibile dal punto di vista turistico, agricolo e idrico qual è quello lucano e con aspetti occupazionali, demografici e infrastrutturali critici, le estrazioni petrolifere creino dibattiti importanti. La non attuazione o l’attuazione parziale di accordi che prevedono “vantaggi” in questi termini per la regione sono ovviamente un indice di valutazione importante, come anche lo è la questione relativa alle competenze concorrenti in materia energetica delle regioni. E’ su tutti questi aspetti che il dibattito pubblico relativo al petrolio si infiamma continuamente, in particolar modo nelle regioni direttamente interessate dalle attività estrattiva come la Basilicata. Essendo poi la Basilicata un territorio in cui è importante la filiera dell’agroalimentare, è chiaro che le preoccupazioni dei cittadini vengano legittimate, soprattutto quando manca la certezza che la Regione si impegni a far rispettare gli accordi siglati con le compagnie.
  • 23. 22 3. 2 Il prezzo del petrolio e le royalties Il prezzo del petrolio è una variabile determinante ai fini di un’analisi macroeconomica come quella del presente lavoro. Esso è fortemente volatile, tanto che nel 1998 il prezzo di un barile era pari a 7,5 dollari mentre nell’estate 2008 superò i 128 dollari, profilando il terzo shock petrolifero (Blanchard, Amighini, Giavazzi, 2011). I primi due si sono verificati, invece, tra 1973 e 1975 e tra 1979 e 1981, in seguito alla creazione dell’Opec e a situazioni di instabilità politica in Medio Oriente dalle quali derivarono guerre e rivoluzioni. In entrambe le occasioni, l’effetto sorpresa aveva causato una sorta di immobilità delle Banche Centrali, andando a corroborare una situazione di stagflazione derivante da una persistente recessione (stagnazione) e una elevata inflazione. Nella Fig. 4 è riportato in rosso l’ammontare delle royalties versate alla Regione Basilicata a partire dal 2007, mentre la linea blu rappresenta l’andamento del prezzo del petrolio.
  • 24. 23 Questi due valori appaiono strettamente correlati anche con il numero di barili estratti (riferito alla produzione lorda) ed a tal proposito appare interessante quanto si è verificato nel 2008, in occasione del terzo shock petrolifero. Il prezzo del petrolio era aumentato in maniera spropositata e, nonostante il calo del numero di barili estratti, in tale occasione si è verificato comunque un consistente aumento della quantità di royalties versate dalle compagnie alla Regione Basilicata. Per capire meglio la situazione, osserviamo i dati: il numero di barili estratti è sceso nel 2008 del 10,9% rispetto al 2007 (-3 milioni, arrivando a 28,9 milioni), mentre il prezzo del petrolio è aumentato nello stesso intervallo di tempo del 33,8% (+24,5 dollari/barile, arrivando ad un prezzo pari a 96,94 dollari/barile). Ne è derivato un aumento delle royalties versate pari all’11% (+12 milioni di euro). Potrebbe essere interessante bilanciare i dati con il valore del tasso di cambio euro/dollaro degli stessi anni: la variazione di prezzo ne risulterebbe ancora maggiore, pari cioè al 48,47% e maggiore sarebbe anche l’ammontare in dollari di royalties versate nel 2008 rispetto al 2007 (+19%). Infatti, il tasso di cambio euro/dollaro è stato pari a 1,37 nel 2007 e a 1,47 nel 2008, con una variazione pari al 7,3% (Banca d’Italia, 2015). Un altro esempio interessante può essere dato dal raffronto tra 2011 e 2012. Proprio nel 2012, infatti, è stato versato alla Regione Basilicata un ammontare di royalties pari a 168,874 milioni di euro (la somma più consistente fino ad adesso), con un aumento del 20,32% rispetto all’anno precedente. Nello stesso intervallo di tempo, il prezzo del petrolio era stato quasi stabile, con un aumento dello 0,33% rispetto al 2011 (+0,37 dollari/barile), mentre il numero di barili estratti era aumentato dell’8,34% (+2,3 milioni) (Ministero dello Sviluppo Economico, 2015). Anche in questo caso, può essere interessante confrontare l’ammontare di royalties versate nei due anni con il tasso di cambio corrispondente a ciascuno di essi.
  • 25. 24 Deve essere considerato che rispetto alla situazione precedentemente analizzata, quando cioè c’era stato un deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro, tra 2011 e 2012 si è verificato un apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro (da un tasso di cambio pari a 1,39 si è passati a un tasso di cambio pari 1,28 euro/dollaro). Ne risulta che il valore in dollari delle royalties versate nel 2012 è aumentato del 10,8% rispetto al valore del 2011, di molto inferiore al +19% riscontrato tra 2007 e 2008. In tutto ciò, comunque, deve essere considerato lo sfasamento temporale che intercorre tra il versamento delle royalties alla Regione, che avviene nell’anno successivo a quello della produzione di petrolio e la determinazione del prezzo del petrolio sul mercato globale. I due valori, quindi, non si riferiscono esattamente allo stesso periodo di tempo (come invece si intuisce dal grafico) ed è per questo che il calcolo delle royalties avviene in controvalore, calcolato sui prezzi medi del mercato del petrolio. Deve essere considerato, poi, che il dato relativo al numero di barili estratti è riferito alla produzione lorda, mentre le royalties sono riferite alla produzione netta. Inoltre, dal 2011 al 2013 sono state versate alla Regione Basilicata parte delle royalties riferite ad anni di produzione precedenti. Nel 2011, infatti, sono stati versati 235 mila euro per la produzione del 2009 (mentre la restante aliquota è ovviamente riferita alla produzione del 2010), nel 2012 sono stati versati 942 mila euro per la produzione del 2010 e nel 2013 sono stati versati 101 mila euro per la produzione relativa al 2011 (Ministero dello Sviluppo Economico). Ciò a causa di alcuni cambiamenti nella legislazione in materia. Si stima, comunque, che per l’importazione di petrolio vengono trasferite all’estero risorse finanziarie che sarebbero potute essere investite in Italia, e tali investimenti sono stimati in circa 5 miliardi di euro e 34 mila addetti potenzialmente impiegati. Per quanto riguarda i prossimi 10 anni, si stimano mancate entrate a livello nazionale pari a 11 miliardi di euro (Corte dei Conti, 2014). Ad ogni modo, proprio grazie a questi dati è possibile riflettere su quelli che sono stati gli effetti macroeconomici delle estrazioni petrolifere ed in particolare delle royalties a cui la Regione Basilicata ha potuto
  • 26. 25 attingere nel corso degli anni. Lo faremo, nel prossimo paragrafo, analizzando le serie storiche riferite ad alcuni dati degli ultimi anni (occupazione, disoccupazione, numero di imprese attive) e attraverso un modello a matrice. 3.3 Cosa è successo, tra dati e modello SAM Deve essere considerato che anche in funzione delle attività estrattive (oltre che per gli effetti sull’economia locale dello stabilimento FIAT e dei salotti, questi ultimi poi crollati in seguito alla crisi), la Regione Basilicata è fuoriuscita dalle aree considerate depresse dall’Unione Europea (obiettivo 1), ritornandovi poi nuovamente (obiettivo convergenza). Partendo da questo presupposto, analizziamo gli effetti delle royalties sull’economia regionale. Per quanto riguarda il valore dell’aliquota riconosciuta dalle compagnie petrolifere ai territori interessati dalle loro attività, essa corrisponde al 7%, corrisposto per il 55% alla Regione, per il 15% ai Comuni interessati e per il 30% allo Stato, anche se alle regioni del Mezzogiorno, come appunto la Basilicata, resta anche la quota destinata allo Stato. La Regione Basilicata, dunque, riceve l’85% dell’ammontare delle royalties, mentre il restante 15% viene destinato ai Comuni interessati dalle attività estrattive. Ad ogni modo, il totale delle royalties accreditate alla sola Regione Basilicata nel periodo 2008-2014 è pari a 788 milioni di euro, mentre complessivamente, in 14 anni, la Basilicata ha ricevuto royalties per oltre 1 miliardo di euro (Ministero dello Sviluppo Economico, 2015). Più di recente, oltre alla tradizionale quota proveniente dalle royalties, ai cittadini lucani in possesso di patente di guida che ne abbiano fatto richiesta è stato accreditato il cosiddetto “Bonus Idrocarburi”, una carta prepagata sulla quale viene di volta in volta versata una somma in base al reddito individuale, destinata alla diminuzione del prezzo alla pompa dei carburanti.
  • 27. 26 Il bonus è finanziato dalle compagnie petrolifere con un’aliquota extra sul prodotto pari al 3% (da aggiungere al 7% versato in termini di royalties). Un dibattito acceso si è sviluppato anche dopo la concessione di questo particolare contributo, in quanto si ritiene che lo stesso finanzi comunque le multinazionali del petrolio e che, inoltre, il bonus non sia coerente con gli obiettivi di equità sociale. Esso può interessare, infatti, famiglie all’interno delle quali ci siano più patentati, mentre non tiene conto delle famiglie nelle quali vi sono meno patentati, ma che magari sono più povere (dato che ci si basa sul reddito individuale) ed ancor peggio non può essere utilizzato in alcun modo dagli indigenti che non posseggono automobile. E’ per questo motivo che la Regione Basilicata si è impegnata, di concerto col Governo, per trasformare il suddetto bonus in una social card con la quale si possano effettuare acquisti in beni e servizi. Tuttavia, l’attuale Consiglio Regionale si sta impegnando per utilizzare parte dei fondi che erano destinati al finanziamento della card idrocarburi per il sostegno ai Comuni lucani in difficoltà. Tornando alle ricadute delle royalties sull’economia lucana secondo gli interventi programmati, esse si verificheranno (e si sarebbero già dovute verificare) nel miglioramento del tessuto produttivo lucano, nella formazione professionale, in incentivi al mercato del lavoro, nelle infrastrutture e nei servizi in materia ambientale e turistica. Va comunque riconosciuto l’effetto positivo che tali finanziamenti hanno avuto sugli operatori del settore agroalimentare, che hanno avuto facilitazioni negli iter di riconoscimento di marchi europei per molteplici prodotti. Se si esaminano però i capitoli di spesa relativi alle royalties, si nota che esse hanno finanziato prevalentemente le spese correnti della regione, piuttosto che i progetti di sviluppo programmati.
  • 28. 27 Come si vede dalla Fig. 5, infatti, al 2012 risultano impegnati 764, 3 milioni di euro di cui 6,6 milioni per servizi generali dell’amministrazione, mentre quasi 40 milioni sono stati utilizzati per “disavanzi sanità”. Ma anche i capitoli di spesa congruenti con quanto programmato e previsto dagli accordi comprendono al loro interno voci relative a spese correnti di settore, come nel caso dei trasporti e di istruzione e formazione.
  • 29. 28 Solo 1,4 milioni di euro su 56,4 milioni, ad esempio, sono stati impegnati per progetti legati all’approvvigionamento di energia da fonti rinnovabili e alla incentivazione dello sviluppo di attività imprenditoriali nel campo del riciclo di materiali recuperati dai rifiuti, mentre circa 34 milioni sono stati impegnati per la riduzione del costo dell’energia e la riduzione delle emissioni clima alteranti. Solo 202 mila euro, poi, sono stati impegnati per il miglioramento della qualità del lavoro, mentre lo 0,1% delle risorse totali è stato impegnato per l’occupabilità, lo 0,3% per l’inclusione sociale, lo 0,4 % per il capitale umano, lo 0,4% per l’accessibilità, il 4,8% per i trasporti, lo 0,8% per la “società della conoscenza”, che prevede interventi relativi alla diffusione della banda larga e l’incremento delle tecnologie per la ricerca, oltre che investimenti nell’ICT per la pubblica amministrazione, il 2,6% per il sostegno alle PMI, il 5,9% per istruzione e formazione professionale. Lo 0,5% è stato impegnato per interventi per il miglioramento della competitività produttiva, lo 0,3% per la valorizzazione dei beni culturali, lo 0,3% ai sistemi urbani, lo 0,8% alla viabilità, mentre 7 milioni di euro (lo 0,9%) sono stati impegnati per il sostegno all’Università di Basilicata e al sistema regionale di ricerca scientifica. Invece, l’8,7% (oltre 67 milioni di euro) è stato impegnato per il piano di forestazione. Insomma, per quanto riguarda gli impegni relativi a questioni sociali rilevanti per il singolo cittadino (PMI, occupabilità, inclusione sociale, trasporti e capitale umano), vi è stata impegnata una cifra che ammonta a circa il 10% del totale (Corte dei Conti, 2014). Interessante, però, è anche l’analisi relativa all’impatto socioeconomico del petrolio attraverso SAM (social accounting matrix), una matrice in grado di considerare gli effetti diretti, indiretti e indotti di un determinato “intervento economico”. Da essa è emersa la fondamentale importanza dei servizi, che rappresentano oltre il 50% dell’intera produzione regionale (70% del PIL), mentre industria e costruzioni seguono con il 45% della produzione (26% del PIL). L’agricoltura, invece, contribuisce per un 3% in termini di produzione e PIL.
  • 30. 29 L’analisi relativa alle royalties, che si rifà agli incassi complessivi del periodo 2007-2010, pari a 636 milioni di euro e al Programma Operativo Val d’Agri (POV), avente un budget di 349 milioni di euro, testimonia come il settore delle costruzioni sia stato quello più incentivato da tali sussidi, con stanziamenti pari a 75 milioni di euro. Invece, nel caso della erogazione a sostegno di investimenti produttivi, il maggior beneficiario è stato il settore agricolo, con il 47,4% (Landi, Rocchi, Stefani, 2012). Secondo il Modello SAM, grazie a POV e royalties ha avuto luogo un incremento della produzione di circa mezzo miliardo di euro, con un’occupazione generata parti a 5.300 unità di lavoro annuale a tempo pieno (circa il 2,9% del totale degli occupati lucani). Il dato, che di certo non rispecchia le aspettative di sviluppo inizialmente derivanti dalle attività estrattive, riporta chiaramente alcuni punti cardine delle stesse attività, che cioè sono capital intensive e coinvolgono personale altamente specializzato. Ad ogni modo, come riportato nelle conclusioni dello studio: “Pur trattandosi di valori rilevanti in senso assoluto, soprattutto in tempi di crisi economica, si tratta tuttavia di risultati deludenti e sicuramente inferiori alle potenzialità, anche considerando che si tratta solo di effetti di breve periodo”, e quindi, sempre stando a quanto riportato “[…] si può ragionevolmente ipotizzare che l’utilizzazione delle royalty sia servita solo a limitare i potenziali effetti negativi del rallentamento che l’economia italiana ha mostrato nell’ultimo decennio” e “In assenza di una significativa crescita della domanda proveniente dall’esterno del sistema economico regionale, la semplice utilizzazione delle royalty per qualsiasi programma di interventi possa essere predisposto, non solo produrrebbe un effetto non duraturo nel tempo, ma non sarebbe nemmeno in grado di portare ad una crescita significativa nel breve periodo” (Landi, Rocchi, Stefani, 2012). E’ proprio una logica di finanziamento slegata da un’idea di sviluppo duraturo e coerente che si vuole evitare attraverso il POV, che ha come obiettivo il potenziamento
  • 31. 30 delle infrastrutture del comprensorio, il miglioramento della vivibilità e della qualità ambientale e un’inclusione lavorativa coerente con l’avvio del parco Nazionale della Val d’Agri.
  • 32. 31 Conclusioni La prima considerazione da fare al termine della tesi riguarda la salvaguardia ambientale, lo sviluppo e la coesione territoriale delle località interessate dalle attività estrattive, come appunto la Basilicata, regione fortemente votata all’agricoltura, all’allevamento e al turismo, tutte attività che potrebbero essere negativamente influenzate dalle estrazioni. Inoltre, non va trascurata la dimensione economica. Infatti, il prezzo del petrolio sta conoscendo nel 2015 un drastico calo e va valutato, quindi, cosa potrebbe accadere se esso continuasse a scendere o se si stabilizzasse su livelli di prezzo ritenuti bassi. Le politiche governative, a quel punto, potrebbero risultare anacronistiche e non ottimali, in quanto se il prezzo del petrolio continuasse a ridursi, la bilancia commerciale conoscerebbe una riduzione della voce di spesa relativa alle importazioni. A quel punto, però, i territori interessati dalle attività estrattive potrebbero risultare gravemente compromessi, mentre la loro funzionalità verrebbe meno. Se il prezzo del petrolio riprendesse a salire, invece, nonostante l’aumento delle estrazioni sul territorio nazionale, rimarrebbe una dipendenza dalle importazioni pari all’80-90%, che continuerebbe a significare un consistente capitolo di spesa relativo alle importazioni. Comunque, dalla tesi è emerso che in Basilicata si estrae la quasi totalità del petrolio estratto sulla terraferma italiana, da cui la Regione ha ottenuto oltre 1 miliardo di euro negli ultimi 15 anni. Tuttavia, lo sviluppo ha stentato a decollare, come dimostra il 15% di disoccupazione totale, il crollo del numero di imprese, la pessima dotazione di infrastrutture materiali e immateriali (al di sotto persino della media del Mezzogiorno), il calo demografico degli ultimi anni, oltre che l’invecchiamento della popolazione, entrambi indici delle continue migrazioni dei giovani lucani. Questo perché le royalties sono state utilizzate soprattutto per finanziare spese correnti, mentre probabilmente sarebbe stato più opportuno dedicare maggiori risorse alle spese in conto capitale.
  • 33. 32 Inoltre, viva e importante risulta la questione ambientale, dato che in Basilicata ci sono 890 siti inquinati, come stabilito nel 2000 dalla Commissione Bicamerale sul ciclo dei rifiuti. L’osservatorio ambientale, invece, sembra essere diventato operativo solo adesso e il monitoraggio ambientale è stato spesso debole o carente. Infine, è emerso come la questione giovanile e femminile sia fortemente attuale, mentre gli indicatori economici riportano una certa conformità (negativa) alla media del Mezzogiorno. Probabilmente, le royalties hanno attenuato in parte gli effetti negativi della crisi economica, ma non hanno prodotto quanto ci si aspettava. E’ evidente, dunque, che solo una gestione più accurata delle risorse impegnate dalle compagnie, una reale attuazione dei piani, dei patti e dei progetti condivisi con un dibattito ampio, trasparente ed aperto potrebbero garantire delle reali ricadute sull’economia locale. A tal proposito è necessario ricordare il ruolo fondamentale che hanno sia la politica che le compagnie petrolifere. La prima, infatti, deve essere in grado di pianificare ed elaborare insieme a cittadini, esperti e associazioni, le politiche di sviluppo più confacenti alle vocazioni territoriali, senza dimenticarsi della impellenti questioni ambientali, sociali ed economiche. Le compagnie, invece, devono garantire il loro apporto in termini di investimenti e, inoltre, assolvere i loro doveri di rispetto dei vincoli economici ed ambientali. Più trasparenza, da questo punto di vista, significherebbe un importante passo verso le esigenze di tutti i cittadini lucani. I cittadini, infine, avranno l’arduo compito di controllare l’applicazione dei patti e degli accordi, stando bene attenti alle voci di spesa in cui le royalties vengono impiegate di anno in anno, in modo tale che esse vadano davvero ad influenzare la spesa per investimenti, piuttosto che, come avvenuto sino ad ora, a colmare lacune e mancanze relative alle spese correnti.
  • 34. 33 FONTI BIBLIOGRAFICHE - Blanchard O., Amighini A., Giavazzi F., 2011, Macroeconomia, Una prospettiva europea, il Mulino, Bologna. - Bolognetti M., 2013, Le mani nel petrolio, Basilicata coast to coast, ovvero da Zanardelli a Papaleo passando per Sanremo e Tempa Rossa, Reality Book, Roma. - Circolo Legambiente Val d’Agri, Legambiente Basilicata Onlus, Ufficio scientifico di Legambiente nazionale, 2013, Petrolio in Val d’Agri, …il dato non è tratto… Dossier, Legambiente, Potenza. - Corte dei Conti, Sezione Regionale di controllo per la Basilicata, 2014, Deliberazione n. 71/2014/PRS, Potenza. - Dommarco P., 2012, Trivelle d’Italia, perché il nostro paese è un paradiso per petrolieri, Altreconomia Edizioni, Milano. - Landi C., Rocchi B., Stefani G., 2012, L’impatto socio-economico delle royalties petrolifere in Basilicata, [s.l.], Agriregionieuropa anno 8 n. 29, p. 98. - Lattarulo F., 2013, Basta volerlo, soluzioni glocali per un nuovo paradigma energetico, Tienilammente, [s.l.]. - Liccione R., 2000, Petrolio in Basilicata: opportunità e rischi, Consiglio Regionale della Basilicata, [s.l.].
  • 35. 34 - Sammartino M., 2014, Sblocca Italia emendato. L’opera dei deputati lucani, reperito su http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/, consultato il 04/07/2015. - SVIMEZ, 2013, Rapporto sullo stato dell’economia della Basilicata e sulle prospettive di una ripresa sostenibile, Quaderni SVIMEZ – Numero Speciale (37), Roma. - SVIMEZ, 2014, Rapporto SVIMEZ 2014. SVIMEZ, Roma. - Varvelli R., Varvelli F., 2015, Che cos’è il petrolio, Mind Edizioni , Milano.
  • 36. 35 SITOGRAFIA - Banca d’Italia, Eurosistema, Archivio dei tassi di cambio. http://www.bancaditalia.it/; - EIA, U.S. Energy Information Administration. http://www.eia.gov/dnav/pet/hist/LeafHandler.ashx?n=pet&s=rbrte& f=m; - ISTAT, Occupati di 15 anni e oltre per sesso, classe di età, anno e trimestre. http://www.istat.it/it/basilicata; - ISTAT, Occupati per branca di attività e anno. http://www.istat.it/it/basilicata; - ISTAT, Valore aggiunto ai prezzi base e Prodotto interno lordo per anno. http://www.istat.it/it/basilicata; - Ministero dello sviluppo economico, Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche. http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/unmig/royalties/royalties.asp - Movimprese, Infocamere, La società di informatica delle Camere di Commercio italiane. http://www.infocamere.it/movimprese; - P.O.V., Programma Operativo Val d’Agri. http://www.povaldagri.basilicata.it/povaldagri/Webby.do; - Unioncamere, Atlante della competitività delle Province e delle Regioni. http://www.unioncamere.gov.it/Atlante/.
  • 37. 36
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