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arte

Pavia
Ruggeri & Gabriel,
tra bianco e nero
c’è il colore del sacro
ALESSANDRO BELTRAMI
PAVIA
osa significa la frase per cui “tutta
l’arte è sacra”? Si tratta di
un’affermazione frequente, ma
che rischia di restare uno slogan.
Una risposta è nella mostra One to One.
L’infinito nel finito, in corso allo Spazio
per le Arti Contemporanee del Broletto
di Pavia. È la prima di una serie di
esposizioni in cui la Fondazione Frate
Sole mette il lavoro di padre Costantino
Ruggeri a colloquio con artisti
contemporanei. A inaugurare il dialogo è
Raul Gabriel, artista argentino che da
tempo riflette sui temi del sacro nella
contemporaneità, anche a livello teorico.
Quattro bianchi Spazi mistici del
francescano risalenti agli anni ’60 e ’70,
tra cui due belle e poco note ceramiche
in cui la materia che si fa gesto rivelano
la meditazione su Fontana, sono messi a
confronto dai curatori Marilisa di
Giovanni e Andrea Vaccari con le opere
di Gabriel, alla cui base c’è invece una
riflessione tra parola e corpo. Si tratta di
lavori solo remotamente figurativi in cui
la superficie bianca o nera della tela è
coperta da segni e colate di materiale,
prevalentemente industriale, dello stesso
colore. In lavori come Big White o Big
Black a distinguere l’immagine dal fondo
è soprattutto la luce che, a seconda
dell’incidenza, rivela e modifica la forma.
Writing X è invece la "trascrizione" di un
corpo prima che la sua
descrizione/rappresentazione. L’aspetto
espositivo è centrale. L’architetto Vaccari
ha ricavato all’interno dell’ambiente
medievale una sorta di labirinto di
“cappelle laiche”, o meglio ancora di
celle, ognuna delle quali ospita un solo
lavoro. La visione diventa quindi l’abitare
uno spazio in cui si crea una relazione tra
due unicità: l’opera e l’osservatore. One
to one, appunto. Il quadro diventa un
dispositivo per meditare non sul
soggetto sacro ma sulla sacralità dell’atto
creativo in sé. L’opera di Gabriel ricentra
il problema dell’arte sacra. Non è
l’elemento iconografico il problema, né
quello dell’intelligibilità. Semmai la vera
distinzione tra arte sacra e non sta nella
genuinità, che non è naïveté,
dell’adesione alla verità che solo un arte
non decorativa può raggiungere.
Giustamente Gabriel chiosa che l’arte «è
sempre sacra se arte autentica». Il
fallimento di gran parte dell’“arte sacra”
dell’ultimo mezzo secolo sta da una
parte nel pensare di recuperare una
purezza originaria riattualizzando l’icona
bizantina, dall’altra nell’ancoraggio al
mito della Biblia pauperum, aggiornata
in superficie con i linguaggi della
contemporaneità, senza però fare
proprie le problematiche del tempo di
cui sono espressione. Dimenticando che
la formazione delle assemblee ecclesiali
negli ultimi 50 anni è molto migliorata,
ma anche non accorgendosi che il
compito di raccontare – di nuovo: in
superficie – le storie dei Vangeli e dei
santi se lo è assunto la fiction televisiva. A
l’arte si deve e si può chiedere di più.
Solo così può diventare davvero quel
«ponte» (quindi struttura di relazione)
«gettato verso l’esperienza religiosa»,
come la definiva Giovanni Paolo II.

C

Parigi

DANIELE ZAPPALÀ
PARIGI
osteneva che «l’architettura è l’arte di far cantare il punto d’appoggio». E in effetti, pochi altri architetti novecenteschi hanno tanto
insistito come il francese Auguste
Perret (1874-1954) sulla piena visibilità delle strutture portanti e
sull’economia di rivestimenti.
Da questa concezione talora contestata, sono
nate alcune opere emblematiche del modernismo, anche nel campo dell’arte sacra. Per
rendersene conto, è possibile visitare a Parigi
la mostra Auguste Perret, otto capolavori. Architetture del cemento armato (gratuita, aperta tutti i giorni, ore 11-18), ospitata proprio in
uno degli edifici più celebri disegnati e costruiti
da Perret, il Palazzo di Iena, oggi sede del Consiglio economico, sociale e ambientale.
Ma fino a che punto è lecito parlare di modernità per un architetto che mai nascose d’inseguire l’ideale estetico della Grecia classica, definendo sempre il Partenone come l’edificio
più vicino alla “perfezione”? La mostra evidenzia bene quanto questo paradosso sia solo
apparente, attraverso plastici, foto, disegni progettuali e filmati che ruotano attorno a otto opere emblematiche di Perret. Per l’architetto,
che diresse pure una florida società familiare
di costruzione, modernità rima innanzitutto
con funzionalità e padronanza tecnica. Fu un
innovatore, per esempio, nell’impiego del cemento armato al servizio di un’architettura di
qualità e non per scopi brutalmente economici. Anche se non ha mai suscitato il clamore e
il fascino di Le Corbusier, che si formò proprio
nel suo studio d’architettura rimanendovi un
anno tra il 1908 e il 1909, Perret ha inciso il suo
nome nella storia dell’architettura moderna
proprio per la bravura con cui seppe unire innovazione tecnica e classicità architettonica.
In un documentario inconsueto presentato
nella mostra, l’attestano pure gli inquilini di un
importante edificio residenziale di Perret, quello parigino della rue Franklin (1903), scelto dai
curatori della mostra per aprire la serie delle otto opere rappresentative. Le altre sono, nell’ordine espositivo che è anche cronologico, il
Teatro degli Champs-Elysées (Parigi, 1913), la
Chiesa Notre-Dame a Raincy (1923), l’audito-

S

Pavia, Broletto

ONE TO ONE
Raul Gabriel. Costantino Ruggeri

Roma.

Interno chiesa Saint-Joseph a Le Havre

«PRESTO LA GRANDE POMPEI»
Il ministro dei Beni artistici e culturali, Massimo Bray, ha reso
noto ieri alla Camera dei Deputati, a proposito dell’attuazione del
Progetto «Grande Pompei», che «verranno bandite a breve le
procedure di gara per l’assegnazione dei lavori di restauro dell’area
archelogica di Pompei». Bray ha anche assicurato «attenzione sempre
piena e vigile» dal parte del ministero sulla situazione di Pompei e ha ribadito
che l’attuazione del piano entrerà nel vivo «già dalla prossima settimana». Il
ministro ha anche giudicato «meritevole» la proposta di candidare la Cappella
degli Scrovegni di Padova e il circuito dei siti trecenteschi per l’inserimento nella
lista Unesco del Patrimonio dell’Umanità: «Come ministero – ha detto – ci
adopereremo per fare sì che la proposta venga considerata» e ha ricordato
che il ministero ha contributi con 33,5 miliardi di lire al restauro degli
affreschi. Il Mibac, ricorda però il ministro, «non sostiene economicamente
le candidature ma fornisce un apporto tecnico scientifico». Bray ha
ricordato anche che la proposta di inserire il complesso di Giotto
nella lista dell’Unesco è depositata fin dal 1996. I promotori, ha
ribadito infine il ministro, devono farsi carico della proposta
di candidatura con il relativo piano di gestione.
La scala interna del Palazzo di Iena

Auguste Perret, interno del Teatro degli Champs-Elysées

PERRET
La poesia
del cemento
armato
rium Cortot (Parigi, 1928), l’edificio del Mobilio nazionale (Parigi, 1934), lo stesso Palazzo di
Iena (1937), il Municipio e la Chiesa Saint-Joseph a Le Havre (1950 e 1951).
Proprio nella città portuale sulla Manica, l’architetto ricostruì il tessuto urbano dopo i bombardamenti bellici, a un’epoca in cui Perret aveva già ottenuto importanti riconoscimenti
internazionali. Per il suo rigore funzionale e la
sua cifra estetica, il centro storico è entrato nel
2005 nella lista del Patrimonio mondiale dell’umanità stilata dall’Unesco, aggiungendosi a
poche altre creazioni architettoniche novecentesche.
Lungo il percorso espositivo lineare, lo spettatore può confrontarsi con un’architettura asciutta che ricorda a tratti le strutture scheletriche del mondo animale. Dominano l’arte
della simmetria, la coerenza e l’equilibrio. E
non a caso, in un gioco di analogie storiche a
cura della Scuola normale superiore d’archi-

tettura di Versailles, le citazioni includono il
Pantheon di Roma, la Casa del Mantegna (Mantova, 1476), il Pozzo di San Patrizio di Antonio
da Sangallo il Giovane (Orvieto, 1537), la Villa
Rotonda di Palladio (Vicenza, 1571), oltre al
progetto per la Biblioteca Reale di Etienne Louis
Boullée (Parigi, 1786). Ma di quest’ultimo e del
versante più estremo del neoclassicismo francese, Perret rinnegò sempre la smoderatezza
utopistica, accostandosi più all’equilibrio fra
armonia formale e padronanza costruttiva dei
maestri storici di quell’Italia che l’architetto parigino visitò nel 1922 assieme all’amico scultore
Antoine Bourdelle, chiudendo simbolicamente il tour a Pompei e Paestum.
Concepiti per durare, nella scia ideale dei templi greci, gli edifici di Perret sono al contempo
molto spesso abitabili, armoniosi e luminosi.
La libertà della luce e i riflessi sono garantiti
pure da certi materiali associati al cemento armato, come il gres, con i suoi effetti sottilmente policromi.
L’austerità, l’organicità costruttiva e la libertà
funzionale di questo stile si sono rivelati congeniali pure per l’edilizia sacra. La mostra presenta in particolare il caso della Chiesa NotreDame di Raincy (banlieue parigina), spesso soprannominata la "Sainte Chapelle in cemento
armato", per le sorprendenti analogie sensoriali
rispetto alla visita del capolavoro gotico duecentesco voluto da Luigi IX nel cuore di Parigi.
A Raincy, la facciata grigia e slanciata della chiesa suscita ancor oggi giudizi contrastanti. Ma
una volta varcata la soglia, i fedeli si ritrovano
al centro di uno spazio architettonico unico,
pervaso soprattutto al mattino da estesi e
profondi fraseggi di luce policroma garantiti
dalle grandi vetrate. L’esperienza sovrasta di
colpo la forma, dando vita sorprendentemente al "canto" ricercato fino all’ultimo dietro al
cemento dal visionario e talora sottovalutato
Perret.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Parigi, Palazzo di Iena

AUGUSTE PERRET,
OTTO CAPOLAVORI
Fino al 19 febbraio

L’esterno del Palazzo di Iena realizzato da Perret

Il «divus» Adriano, storia e apoteosi di un imperatore

MARCO BUSSAGLI
ROMA
nimula vagula blandula, / Hospes comesque corporis / Quae
nunc abibis in loca / Pallidula,
rigida, nudula, / Nec, ut soles,
dabis iocos...». Sono questi i celebri versi che
la critica riferisce al momento del trapasso dell’imperatore Adriano che li avrebbe pronunciati in punto di morte. Il suo significato è universale e può essere considerato un atto d’amore nei confronti della sua (ma pure nostra)
«Animuccia smarrita e soave / ospite e compagna del corpo» che ora, liberata dalla carne,
si avviava verso i luoghi pallidi, freddi, nudi dell’aldilà, dove non avrebbe potuto più divertirsi con i suoi «giuochi consueti». Contro questo
scenario deludente e triste, la ritualistica della
Roma antica, aveva immaginato, per tutti gli
imperatori e per loro soltanto, un percorso di
apoteosi, ossia di trasformazione in divinità

«A

BRAY

Una retrospettiva sull’architetto
francese che insegnò
a Le Corbusier l’uso del nuovo
materiale nella costruzione. Una
singolare ricerca tra innovazione
e classicità riletta attraverso
otto suoi capolavori

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Fino al 20 gennaio

Venerdì
10 Gennaio 2014

che avrebbe concesso al sovrano
scomparso l’appellativo di divus e
gli avrebbe riservato memoria imperitura e gli onori delle are sacrificali.
A questo particolare aspetto della
religiosità romana è ora dedicata una splendida mostra, Apoteosi. Da
uomini a dei(l’ultima fra quelle rea- Rilievo di Amiternum con scena di trasporto funebre
lizzate grazie alla direzione di Maria Grazia Bernardini), giustamente ospitata
ginale forma architettonica del mausoleo, con
nella sede del Museo di Castel Sant’Angelo a
disegni e plastici appositamente realizzati.
Roma che – com’è noto – prima di essere rocLa successione dei tre corpi di fabbrica del
caforte papale, era il mausoleo dell’imperatomausoleo, allora, potrebbe alludere a quella
re Adriano e, poi, di tutti i successori della sua
della pira sulla quale veniva adagiato il corpo
schiatta. Ideata e diretta da due maestri della
esanime degli imperatori per essere cremato.
cultura e dell’archeologia non solo italiane, coÈ possibile vederne un esempio nello straorme Filippo Coarelli e Piero Lo Sardo, la mostra
dinario rilievo in avorio del IV secolo, prestato
è stata curata da studiosi e ricercatori di fama
dal British Museum (che di per sé vale una vicome Letizia Abbondanza, Aldo Mastroianni e
sita) che raffigura, appunto, l’apoteosi di un
Paolo Vitti. In particolare, quest’ultimo, ha proimperatore non ancora identificato, ma sul
posto una nuova ipotesi ricostruttiva dell’oriquale gli studiosi hanno fatto diverse ipotesi,

Una grande rassegna allestita
a Castel Sant’Angelo, antico
mausoleo degli imperatori
romani, documenta il confine
dove avviene la trafigurazione
da uomini a dèi dei cesari
come Antonino Pio (supponendo la presenza
della consorte Faustina sull’altra valva), oppure Giuliano l’Apostata o, come più probabile,
sulla base del monogramma riconosciuto da
Alföldi quale quello dei Simmachi, l’imperatore Valente.
Non è, però, questo il solo pezzo importante
che si può ammirare in mostra. Di grande fascino, è il letto funebre in osso proveniente
dalla tomba 6, dall’antica Aquinum, l’attuale
Aquino nel basso Lazio. A questo si devono aggiungere la testa di Augusto proveniente da Pa-

lestrina, l’eros alato in bronzo del Museo Nazionale Romano e il prezioso vaso a figure nere del 510 a.C. con l’Apoteosi di Ercole. Si trova proprio in questo episodio, infatti, la radice culturale del processo di divinizzazione che
da Romolo, in poi (divus per eccellenza), sia
pure in modo intermittente, interesserà la cultura religiosa romana, anche se, com’è noto,
già i faraoni egiziani venivano considerati di
natura divina. La contaminazione, con la Grecia e i suoi eroi, divenuti semi-dei, si estese agli imperatori, ad iniziare dal Divo Augusto
del quale, come si sa, ricorre il bimillenario
della sua apoteosi. Unico neo della mostra, il
catalogo che è ancora in stampa per i tipi della Palombi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Roma, Museo di Castel Sant’Angelo

APOTEOSI. DA UOMINI A DÈI
Fino al 27 aprile

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Articolo sulla mostra One to One di Alessandro Beltrami Avvenire nazionale 10:01:2014

  • 1. 14 arte Pavia Ruggeri & Gabriel, tra bianco e nero c’è il colore del sacro ALESSANDRO BELTRAMI PAVIA osa significa la frase per cui “tutta l’arte è sacra”? Si tratta di un’affermazione frequente, ma che rischia di restare uno slogan. Una risposta è nella mostra One to One. L’infinito nel finito, in corso allo Spazio per le Arti Contemporanee del Broletto di Pavia. È la prima di una serie di esposizioni in cui la Fondazione Frate Sole mette il lavoro di padre Costantino Ruggeri a colloquio con artisti contemporanei. A inaugurare il dialogo è Raul Gabriel, artista argentino che da tempo riflette sui temi del sacro nella contemporaneità, anche a livello teorico. Quattro bianchi Spazi mistici del francescano risalenti agli anni ’60 e ’70, tra cui due belle e poco note ceramiche in cui la materia che si fa gesto rivelano la meditazione su Fontana, sono messi a confronto dai curatori Marilisa di Giovanni e Andrea Vaccari con le opere di Gabriel, alla cui base c’è invece una riflessione tra parola e corpo. Si tratta di lavori solo remotamente figurativi in cui la superficie bianca o nera della tela è coperta da segni e colate di materiale, prevalentemente industriale, dello stesso colore. In lavori come Big White o Big Black a distinguere l’immagine dal fondo è soprattutto la luce che, a seconda dell’incidenza, rivela e modifica la forma. Writing X è invece la "trascrizione" di un corpo prima che la sua descrizione/rappresentazione. L’aspetto espositivo è centrale. L’architetto Vaccari ha ricavato all’interno dell’ambiente medievale una sorta di labirinto di “cappelle laiche”, o meglio ancora di celle, ognuna delle quali ospita un solo lavoro. La visione diventa quindi l’abitare uno spazio in cui si crea una relazione tra due unicità: l’opera e l’osservatore. One to one, appunto. Il quadro diventa un dispositivo per meditare non sul soggetto sacro ma sulla sacralità dell’atto creativo in sé. L’opera di Gabriel ricentra il problema dell’arte sacra. Non è l’elemento iconografico il problema, né quello dell’intelligibilità. Semmai la vera distinzione tra arte sacra e non sta nella genuinità, che non è naïveté, dell’adesione alla verità che solo un arte non decorativa può raggiungere. Giustamente Gabriel chiosa che l’arte «è sempre sacra se arte autentica». Il fallimento di gran parte dell’“arte sacra” dell’ultimo mezzo secolo sta da una parte nel pensare di recuperare una purezza originaria riattualizzando l’icona bizantina, dall’altra nell’ancoraggio al mito della Biblia pauperum, aggiornata in superficie con i linguaggi della contemporaneità, senza però fare proprie le problematiche del tempo di cui sono espressione. Dimenticando che la formazione delle assemblee ecclesiali negli ultimi 50 anni è molto migliorata, ma anche non accorgendosi che il compito di raccontare – di nuovo: in superficie – le storie dei Vangeli e dei santi se lo è assunto la fiction televisiva. A l’arte si deve e si può chiedere di più. Solo così può diventare davvero quel «ponte» (quindi struttura di relazione) «gettato verso l’esperienza religiosa», come la definiva Giovanni Paolo II. C Parigi DANIELE ZAPPALÀ PARIGI osteneva che «l’architettura è l’arte di far cantare il punto d’appoggio». E in effetti, pochi altri architetti novecenteschi hanno tanto insistito come il francese Auguste Perret (1874-1954) sulla piena visibilità delle strutture portanti e sull’economia di rivestimenti. Da questa concezione talora contestata, sono nate alcune opere emblematiche del modernismo, anche nel campo dell’arte sacra. Per rendersene conto, è possibile visitare a Parigi la mostra Auguste Perret, otto capolavori. Architetture del cemento armato (gratuita, aperta tutti i giorni, ore 11-18), ospitata proprio in uno degli edifici più celebri disegnati e costruiti da Perret, il Palazzo di Iena, oggi sede del Consiglio economico, sociale e ambientale. Ma fino a che punto è lecito parlare di modernità per un architetto che mai nascose d’inseguire l’ideale estetico della Grecia classica, definendo sempre il Partenone come l’edificio più vicino alla “perfezione”? La mostra evidenzia bene quanto questo paradosso sia solo apparente, attraverso plastici, foto, disegni progettuali e filmati che ruotano attorno a otto opere emblematiche di Perret. Per l’architetto, che diresse pure una florida società familiare di costruzione, modernità rima innanzitutto con funzionalità e padronanza tecnica. Fu un innovatore, per esempio, nell’impiego del cemento armato al servizio di un’architettura di qualità e non per scopi brutalmente economici. Anche se non ha mai suscitato il clamore e il fascino di Le Corbusier, che si formò proprio nel suo studio d’architettura rimanendovi un anno tra il 1908 e il 1909, Perret ha inciso il suo nome nella storia dell’architettura moderna proprio per la bravura con cui seppe unire innovazione tecnica e classicità architettonica. In un documentario inconsueto presentato nella mostra, l’attestano pure gli inquilini di un importante edificio residenziale di Perret, quello parigino della rue Franklin (1903), scelto dai curatori della mostra per aprire la serie delle otto opere rappresentative. Le altre sono, nell’ordine espositivo che è anche cronologico, il Teatro degli Champs-Elysées (Parigi, 1913), la Chiesa Notre-Dame a Raincy (1923), l’audito- S Pavia, Broletto ONE TO ONE Raul Gabriel. Costantino Ruggeri Roma. Interno chiesa Saint-Joseph a Le Havre «PRESTO LA GRANDE POMPEI» Il ministro dei Beni artistici e culturali, Massimo Bray, ha reso noto ieri alla Camera dei Deputati, a proposito dell’attuazione del Progetto «Grande Pompei», che «verranno bandite a breve le procedure di gara per l’assegnazione dei lavori di restauro dell’area archelogica di Pompei». Bray ha anche assicurato «attenzione sempre piena e vigile» dal parte del ministero sulla situazione di Pompei e ha ribadito che l’attuazione del piano entrerà nel vivo «già dalla prossima settimana». Il ministro ha anche giudicato «meritevole» la proposta di candidare la Cappella degli Scrovegni di Padova e il circuito dei siti trecenteschi per l’inserimento nella lista Unesco del Patrimonio dell’Umanità: «Come ministero – ha detto – ci adopereremo per fare sì che la proposta venga considerata» e ha ricordato che il ministero ha contributi con 33,5 miliardi di lire al restauro degli affreschi. Il Mibac, ricorda però il ministro, «non sostiene economicamente le candidature ma fornisce un apporto tecnico scientifico». Bray ha ricordato anche che la proposta di inserire il complesso di Giotto nella lista dell’Unesco è depositata fin dal 1996. I promotori, ha ribadito infine il ministro, devono farsi carico della proposta di candidatura con il relativo piano di gestione. La scala interna del Palazzo di Iena Auguste Perret, interno del Teatro degli Champs-Elysées PERRET La poesia del cemento armato rium Cortot (Parigi, 1928), l’edificio del Mobilio nazionale (Parigi, 1934), lo stesso Palazzo di Iena (1937), il Municipio e la Chiesa Saint-Joseph a Le Havre (1950 e 1951). Proprio nella città portuale sulla Manica, l’architetto ricostruì il tessuto urbano dopo i bombardamenti bellici, a un’epoca in cui Perret aveva già ottenuto importanti riconoscimenti internazionali. Per il suo rigore funzionale e la sua cifra estetica, il centro storico è entrato nel 2005 nella lista del Patrimonio mondiale dell’umanità stilata dall’Unesco, aggiungendosi a poche altre creazioni architettoniche novecentesche. Lungo il percorso espositivo lineare, lo spettatore può confrontarsi con un’architettura asciutta che ricorda a tratti le strutture scheletriche del mondo animale. Dominano l’arte della simmetria, la coerenza e l’equilibrio. E non a caso, in un gioco di analogie storiche a cura della Scuola normale superiore d’archi- tettura di Versailles, le citazioni includono il Pantheon di Roma, la Casa del Mantegna (Mantova, 1476), il Pozzo di San Patrizio di Antonio da Sangallo il Giovane (Orvieto, 1537), la Villa Rotonda di Palladio (Vicenza, 1571), oltre al progetto per la Biblioteca Reale di Etienne Louis Boullée (Parigi, 1786). Ma di quest’ultimo e del versante più estremo del neoclassicismo francese, Perret rinnegò sempre la smoderatezza utopistica, accostandosi più all’equilibrio fra armonia formale e padronanza costruttiva dei maestri storici di quell’Italia che l’architetto parigino visitò nel 1922 assieme all’amico scultore Antoine Bourdelle, chiudendo simbolicamente il tour a Pompei e Paestum. Concepiti per durare, nella scia ideale dei templi greci, gli edifici di Perret sono al contempo molto spesso abitabili, armoniosi e luminosi. La libertà della luce e i riflessi sono garantiti pure da certi materiali associati al cemento armato, come il gres, con i suoi effetti sottilmente policromi. L’austerità, l’organicità costruttiva e la libertà funzionale di questo stile si sono rivelati congeniali pure per l’edilizia sacra. La mostra presenta in particolare il caso della Chiesa NotreDame di Raincy (banlieue parigina), spesso soprannominata la "Sainte Chapelle in cemento armato", per le sorprendenti analogie sensoriali rispetto alla visita del capolavoro gotico duecentesco voluto da Luigi IX nel cuore di Parigi. A Raincy, la facciata grigia e slanciata della chiesa suscita ancor oggi giudizi contrastanti. Ma una volta varcata la soglia, i fedeli si ritrovano al centro di uno spazio architettonico unico, pervaso soprattutto al mattino da estesi e profondi fraseggi di luce policroma garantiti dalle grandi vetrate. L’esperienza sovrasta di colpo la forma, dando vita sorprendentemente al "canto" ricercato fino all’ultimo dietro al cemento dal visionario e talora sottovalutato Perret. © RIPRODUZIONE RISERVATA Parigi, Palazzo di Iena AUGUSTE PERRET, OTTO CAPOLAVORI Fino al 19 febbraio L’esterno del Palazzo di Iena realizzato da Perret Il «divus» Adriano, storia e apoteosi di un imperatore MARCO BUSSAGLI ROMA nimula vagula blandula, / Hospes comesque corporis / Quae nunc abibis in loca / Pallidula, rigida, nudula, / Nec, ut soles, dabis iocos...». Sono questi i celebri versi che la critica riferisce al momento del trapasso dell’imperatore Adriano che li avrebbe pronunciati in punto di morte. Il suo significato è universale e può essere considerato un atto d’amore nei confronti della sua (ma pure nostra) «Animuccia smarrita e soave / ospite e compagna del corpo» che ora, liberata dalla carne, si avviava verso i luoghi pallidi, freddi, nudi dell’aldilà, dove non avrebbe potuto più divertirsi con i suoi «giuochi consueti». Contro questo scenario deludente e triste, la ritualistica della Roma antica, aveva immaginato, per tutti gli imperatori e per loro soltanto, un percorso di apoteosi, ossia di trasformazione in divinità «A BRAY Una retrospettiva sull’architetto francese che insegnò a Le Corbusier l’uso del nuovo materiale nella costruzione. Una singolare ricerca tra innovazione e classicità riletta attraverso otto suoi capolavori © RIPRODUZIONE RISERVATA Fino al 20 gennaio Venerdì 10 Gennaio 2014 che avrebbe concesso al sovrano scomparso l’appellativo di divus e gli avrebbe riservato memoria imperitura e gli onori delle are sacrificali. A questo particolare aspetto della religiosità romana è ora dedicata una splendida mostra, Apoteosi. Da uomini a dei(l’ultima fra quelle rea- Rilievo di Amiternum con scena di trasporto funebre lizzate grazie alla direzione di Maria Grazia Bernardini), giustamente ospitata ginale forma architettonica del mausoleo, con nella sede del Museo di Castel Sant’Angelo a disegni e plastici appositamente realizzati. Roma che – com’è noto – prima di essere rocLa successione dei tre corpi di fabbrica del caforte papale, era il mausoleo dell’imperatomausoleo, allora, potrebbe alludere a quella re Adriano e, poi, di tutti i successori della sua della pira sulla quale veniva adagiato il corpo schiatta. Ideata e diretta da due maestri della esanime degli imperatori per essere cremato. cultura e dell’archeologia non solo italiane, coÈ possibile vederne un esempio nello straorme Filippo Coarelli e Piero Lo Sardo, la mostra dinario rilievo in avorio del IV secolo, prestato è stata curata da studiosi e ricercatori di fama dal British Museum (che di per sé vale una vicome Letizia Abbondanza, Aldo Mastroianni e sita) che raffigura, appunto, l’apoteosi di un Paolo Vitti. In particolare, quest’ultimo, ha proimperatore non ancora identificato, ma sul posto una nuova ipotesi ricostruttiva dell’oriquale gli studiosi hanno fatto diverse ipotesi, Una grande rassegna allestita a Castel Sant’Angelo, antico mausoleo degli imperatori romani, documenta il confine dove avviene la trafigurazione da uomini a dèi dei cesari come Antonino Pio (supponendo la presenza della consorte Faustina sull’altra valva), oppure Giuliano l’Apostata o, come più probabile, sulla base del monogramma riconosciuto da Alföldi quale quello dei Simmachi, l’imperatore Valente. Non è, però, questo il solo pezzo importante che si può ammirare in mostra. Di grande fascino, è il letto funebre in osso proveniente dalla tomba 6, dall’antica Aquinum, l’attuale Aquino nel basso Lazio. A questo si devono aggiungere la testa di Augusto proveniente da Pa- lestrina, l’eros alato in bronzo del Museo Nazionale Romano e il prezioso vaso a figure nere del 510 a.C. con l’Apoteosi di Ercole. Si trova proprio in questo episodio, infatti, la radice culturale del processo di divinizzazione che da Romolo, in poi (divus per eccellenza), sia pure in modo intermittente, interesserà la cultura religiosa romana, anche se, com’è noto, già i faraoni egiziani venivano considerati di natura divina. La contaminazione, con la Grecia e i suoi eroi, divenuti semi-dei, si estese agli imperatori, ad iniziare dal Divo Augusto del quale, come si sa, ricorre il bimillenario della sua apoteosi. Unico neo della mostra, il catalogo che è ancora in stampa per i tipi della Palombi. © RIPRODUZIONE RISERVATA Roma, Museo di Castel Sant’Angelo APOTEOSI. DA UOMINI A DÈI Fino al 27 aprile