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1
Milvio Delfini
(delfinimilvio@gmail.com)
ALTA SCUOLA ROMA TRE
(1° anno)
Corso di Filosofia (Prof. Giacomo Marramao)
Traccia 10: Beni comuni e Bene comune
Rapporto ambiguo, quello tra i beni e il Bene: non aiuta la loro somiglianza apparente.
Corrono parallele, a ritmi differenti, non sincronizzate le storie di questi due concetti. Come due fili
di lunghezza diversa, che si dipanano ciascuno a proprio modo lungo la pista della Storia. Il primo
si delinea lungo un tratto breve, destinato ad esplodere in un Novecento ricco di cambiamenti
drastici. Il secondo segue il ritmo lento e costante della storia aurea del pensiero: esiste dal
momento in cui ci si pose tanto il problema del governare quanto quello di una sua eventuale
legittimità.
L’obiettivo di questo lavoro è mettere in luce i luoghi in cui questi due concetti si sono incontrati, o
anche solo sfiorati. Cercare i tempi in cui i due fili hanno smesso di correre paralleli,
ingarbugliandosi.
Partiamo dal più antico.
La dialettica intorno al Bene comune nasce nel momento in cui si cominciò a porre un problema di
definizione: bisognava individuare il fine del potere, il deus ex machina attraverso cui attribuire
all’esercizio della sovranità la legittimità necessaria. In nome di cosa agisce il sovrano? Quale fine
persegue? Con quali strumenti?
La conoscenza del Bene Comune creava per Platone il presupposto di governabilità: i
“guardiani”erano tali per il semplice fatto di conoscere il Bene della Città. Un rapporto che risulta
invertito rispetto a quello degli Stati che sono passati per una serie di movimenti, rivoluzionari
prima, e di assestamento, dopo: in questi casi si richiede la conoscenza condivisa, tra popolo e
governo, del Bene da perseguire. Conoscenza condivisa implica però controllo condiviso; una falla
endemica difficilmente superabile. Platone, benché l’avesse chiaramente messa in evidenza con una
frase sibillina, pregna di determinismo “chi controllerà i controllori?” sembra non riuscire a trovare
una soluzione soddisfacente. Bisognerà aspettare Hobbes (“Auctoritas, non veritas facit legem”)
perché l’inclusione della volontà popolare determini il passaggio definitivo dal rapporto olistico
rispetto al Bene comune ad uno più inclusivo degli individui come collettività. Internet e la
(dis)informazione capillare trascineranno poi questa apertura alle masse nella sua degenerazione più
politica: l’oclocrazia delle opinioni.
2
Non a caso in questo breve passaggio sono stati esclusi tre autori: Aristotele, Tommaso D’Aquino e
Locke. Il primo, perché la troppo vasta e complessa produzione avrebbe portato questo discorso in
terreni in cui preferisco non avventurarmi: troppa è la facilità con cui si può cadere in
contraddizione.
San Tommaso e Locke ho ritenuto invece debbano essere affrontati congiuntamente, in quanto è a
partire dalle loro posizioni che ritengo si possa arrivare a far luce sui primi punti di contatto coi
Beni comuni.
Per entrambi, il Bene comune muove da una prospettiva individualistica, tanto che si potrebbe
azzardare a dire che sia dato, all’incirca, dalla somma del bene dei singoli individui più
“qualcos’altro”. In questo caso, dunque, perseguimento, più che conoscenza, è la parola chiave alla
stregua della quale interpretare la nozione. Ora, tralasciando le rispondenze ultraterrene che
necessariamente vincolavano San Tommaso, penso che tanto lui quanto Locke vedessero il Bene
comune in una dimensione meno aulica, meno maestosa, di quanto non fosse per i filosofi
dell’antichità.
Certo, per San Tommaso era inevitabile attribuire ad esso una qualche solenne maiestas, ma risulta
anche evidente come alla fine tutto possa ridursi a delle norme di comportamento (“la bontà del
cittadino si commisura al suo esser proporzionato al bene comune”). Il Bene comune arriva a
coincidere col Bene dello Stato e il Bene dello Stato non è che espressione del bene del cittadino; il
sillogismo è di facile completamento.
Un cittadino agens (ma non troppo) che, coltivando il proprio giardino nel rispetto delle regole
impostegli, contribuisce pur sempre a migliorare la bellezza e la produttività degli appezzamenti di
terreno dello Stato, è un cittadino che non comprende fino in fondo, forse, il disegno che si cela
dietro ad ogni campo ben coltivato, non riesce a vedere nell’insieme la bellezza di tanti
appezzamenti ordinati l’uno di fianco all’altro, tuttavia è in grado di capire, nelle proprie economie
private, l’importanza di curare il proprio orto.
Anche in San Tommaso, in fondo, non sembra manifestarsi quindi l’idea della possibilità di una
partecipazione pubblica, delle masse. È più “un’ubbidienza conveniente”, un conformarsi ad un
dictum che in fondo non costa più di tanto.
In questo ensemble di prospettive statiche, le tesi di Locke suonano assurdamente rivoluzionarie.
L’idea di un Bene comune retto da continui e sempre nuovi compromessi apre la strada ad
un’interpretazione del concetto assolutamente dinamica, quanto mai originale. È proprio nella presa
di coscienza di questo necessario dinamismo, dell’urgenza dell’abbandono di una posizione
monolitica, che sta la capacità di questo pensiero di adattarsi ad altri schemi e, perché no, di
riciclarsi.
Locke, da bravo alfiere dell’utilitarismo, parte dalla libertà negativa, poi compie un salto in avanti
non da poco virando dalle posizioni – grette e miopi – di Bentham ( “il bene comune è interesse dei
singoli, dunque se viene leso l’interesse del singolo, non si può parlare di bene comune”) e arriva
addirittura ad ipotizzare la possibilità di un Bene comune che abbia radici in una mentalità
privatistica: è la così detta “illusione liberale”, per nulla naif, in cui i contrasti e le utilità dei singoli
si appianano naturalmente, in uno stato liberale. Ecco il dinamismo, il Bene comune poggia su un
sicuro fondo di interessi privati reso stabile da un continuo equilibrio di pressioni. Un po’ come la
virtù umana, che per Pascal si mantiene “in equilibrio tra due vizi”. Un po’ come la mano invisibile
di Adam Smith, che altro non è che l’illusione liberale trapiantata in economia.
3
Nel contrapporsi a Bentham e alla logica degli interessi individuali dominanti, Locke crea
involontariamente uno spiraglio sovversivo a quella che è la logica su cui si fonda tutto il diritto
privato nei sistemi occidentali: l’interesse. A pensarci bene sembra un paradosso, una
contraddizione fin troppo evidente a cui siamo fin troppo abituati, questa divergenza netta tra il
Pubblico così attento al comune ed il Privato che fa dei suoi principi fondanti un egoistico contrario.
Ma è proprio in questa divergenza, in questo baratro ideologico tra Pubblico e Privato che emerge la
figura del Comune (Beni), per dirla con Ugo Mattei, “come la talpa erode spazio tanto alla proprietà
privata quanto allo Stato…”.
Concluso questo rapido sguardo storico, dove possiamo dire di aver visto intrecciarsi, o anche solo
avvicinarsi, i concetti di Bene comune e Beni comuni? Sembra ancora difficile a dirsi, dunque
ritengo sia necessario impostare uno o più “filtri” attraverso cui condurre l’analisi: il primo
potrebbe essere quello della partecipazione al Comune. D’altronde, l’etimologia di questo non
potrebbe suggerire diversamente. Dove, quindi, questa idea di partecipazione, questo cum munus,
ha permesso di sviluppare i prodromi di una dialettica Bene comune- Beni comuni? Procediamo
con ordine. Non in Platone, dove la logica della conoscenza esclusiva del Bene comune impediva
qualsiasi tipo di partecipazione alla nozione stessa di Comune e precludeva quindi eventuali
ragionamenti sui Beni. Inoltre, la questione si sarebbe potuta comunque risolvere con una certa
facilità: i Beni comuni appartengono alla polis, e il loro ordinamento appartiene esclusivamente ad
essa.
In San Tommaso, invece, credo si siano manifestate le avvisaglie di quello che in un futuro sarebbe
stato chiamato l’obbedire civico. Un pacifico conformarsi alla regola che garantisce rispetto, cura e
protezione dei beni comuni. Per farlo, è necessario una ripartizione dell’obbligo, una
collaborazione solidale, bisogna cum munere. Non si deve dimenticare, d’altronde, che la tutela dei
Beni comuni è sempre stato un punto fermo delle buone tradizioni ecclesiastiche, basti pensare al
Cantico delle Creature di San Francesco: non è forse questo uno dei primordiali esempi di volontà
di protezione del demanio? Esiste in San Tommaso uno spazio per i Beni comuni, quindi, ma è
limitato alle sfere della tutela e della protezione di questi.
Quello che non appare – ma che si manifesta forse in Locke- è l’imputazione dei Beni comuni alla
sfera pubblica. E non solo: nel Secondo Trattato sul Governo, nella parte introduttiva sulla
proprietà:
“Ciò posto, ad alcuni sembra difficilissimo spiegare come si sia venuti ad avere singolarmente proprietà di qualcosa.
Non mi contenterò di rispondere che, se è difficile spiegare la proprietà supponendo che Dio abbia dato il mondo ad
Adamo e ai suoi discendenti in comune, è addirittura impossibile affermare che qualcuno abbia proprietà di
qualcosa, tranne un solo monarca universale, se si suppone che Dio abbia dato il mondo ad Adamo e ai suoi eredi in
successione diretta, escludendo tutto il resto della sua discendenza. “
Si finisce addirittura per teorizzare quella che rimarrà fino al giorno d’oggi come il principio
regolatore dei Beni comuni: un godimento senza proprietà, un’appartenenza a tutti, e quindi a
nessuno, una giustizia distributiva che rende gli uomini uguali davanti al Comune.
A distanza di secoli, Locke ci suggerisce uno spunto di riflessione per il dibattito moderno: possono
i beni comuni garantire una forma di uguaglianza più ampia di quanto spesso non generino le
sperequazioni sociali spesso portate avanti in nome del bene comune? Può la sovranità territoriale
porre degli ostacoli al godimento di ciò che è di tutti? Può un patto tra Stati sovrani impedire agli
uomini di attraversare liberamente terra e acqua? Si può privatizzare l’acqua senza prima dimostrare
di essere i proprietari dei fiumi, delle nuvole e dei ghiacciai sopra le montagne?
4
È triste, ma si intuisce con facilità che tra Beni e Bene, non è mai quest’ultimo a subire una
compressione nel gioco degli interessi, a meno che uno Stato, non scelga di elevare i Beni a
categoria necessaria per il perseguimento del Bene comune.
Eventualità che non si realizza, ovviamente. Ciò che regolarmente si verifica è il tentativo
progressivo e costante di estendere la filosofia della privatizzazione anche a quei Beni che tuttavia
si presentano come tertium genus nella dialettica pubblico-privato. A partire dal primo Novecento,
le fazioni pubblicistiche o privatistiche si sono contese quel territorio neutrale, quello iato
concettuale più che materiale; i Beni comuni esistono, e dal Secolo breve in poi è diventato
impossibile ignorare questa realtà di fatto. Pertanto, le fazioni si sono limitate a spostare la linea di
quel confine di neutralità un po’ più avanti – o un po’ più indietro – secondo l’evolversi e
l’involversi di realtà politiche e relative correnti filosofiche retrostanti. Si è così verificato un
continuo squilibrio dovuto agli eccessi degli opposti: dopo la rivoluzione russa una ventata di
statalizzazione conferì ai governi di una certa Europa il potere – non certo la legittimità – di
riportare sotto l’ala sicura dello Stato i Beni che appartenevano alla categoria del Comune (rectius:
che sarebbero dovuti appartenere alla categoria del Comune! Non che gli Zar di Russia e altri
regnanti dell’Europa continentale si fossero mai posti il problema di siffatta divisione).
In questa fase si verificò un altro fenomeno, interessante per quest’analisi: lo Stato, oltre a inglobare
i Beni comuni nella sfera pubblica come un tutto unico, fece un passo ulteriore: mai come in
quest’epoca, anche il Bene comune divenne appannaggio esclusivo, “proprietà” del Pubblico. Per
quanto possa apparire banale citare Vico, non si possono ignorare corsi e ricorsi, più che storici
filosofici: non sono forse tornati i guardiani della Repubblica, gli unici aventi la conoscenza del
Bene comune? Quis facit legem adesso? Auctoritas? Veritas?
Ad ogni modo, sta di fatto che questo eccesso, destinato a non durare, portò allo squilibrio opposto,
la privatizzazione, i modelli di utilitarismo e le teorie economiche delle scelte sociali. Non c’è
spazio, in questa dialettica, per i Beni comuni. C’è troppa velocità, troppi interessi contrastanti. Il
famoso equilibrio di pressioni dell’illusione liberale è sempre più incerto, più difficile da
stabilizzare. Proprio tra queste pressioni, tra questi contemperamenti di interessi individuali, il
Comune suscita al massimo ilarità e compassione, viene relegato tra i problemi meno importanti,
torna ad essere materia dei filosofi.
Da questo momento in poi, Beni e Bene presero due strade che li avrebbero tra loro allontanati.
I primi, seppelliti dalle progressive ondate di privatizzazioni che ad oggi non accennano a
diminuire, annaspano per rimanere a galla, sostenuti dagli sforzi di pochi contro l’indifferenza,
peggiore dell’accanimento, di molti.
Il Bene comune, forte di maggiori sostenitori, ha continuato a lottare per il raggiungimento di
un’identità che ancora fatica a configurarsi, ma la materia è fisiologicamente passata in affidamento
all’economia, con esiti talvolta distorti.
Pareto, ad esempio, offrì un’interpretazione negativa del Bene comune che si configurava come la
mancanza di riduzione del benessere dei singoli individui. In un’accezione più positivista, Keynes
individuò nello Stato sociale la possibile risposta alle “deviazioni di percorso”.
E poi Rawls, col suo neo contrattualismo che riuscì a fornire una valida alternativa al cinismo
estremo di Bentham. “Non sono accettabili le distribuzioni casuali, sono pertanto ingiuste (unfair)
quelle istituzioni che perpetuano o che rafforzano tali distribuzioni.” Ecco, credo che Rawls avesse
ben chiaro cosa fosse il Bene comune, e anche come perseguirlo.
5
Oggi però la nuova economia del benessere ha posto fine a questa illusione, sono entrati in gioco i
criteri di compensazione potenziale a l’implicita accettazione del “fallimento” complessivo di ogni
modello. Si opera sapendo di aver già perso: Kaldor ci dice che poco importa alla collettività se un
individuo avvantaggia la propria posizione sociale a scapito di un altro individuo, l’importante è che
possa potenzialmente ripagarlo per tale perdita. Potenzialmente. È la retorica dell’impossibilità del
sociale che soffoca quella della responsabilità, il far west del liberalismo. Il Bene comune rischia il
collasso, asfissiato da un individualismo selvaggio, illogico, senza regole. L’economia è stata a
lungo la scienza imprecisa dei modelli astratti in cui si figurano situazioni di benessere,
puntualmente smentite dalla pratica. Il problema è che negli ultimi tempi, anche l’ipotesi astratta è
divenuta negativa, catastrofica, raffigurante una società che per assunto imbroglia, mente, inganna,
non dice, dichiara notizie false e compete scorrettamente. Neppure John Nash ha aiutato, con la sua
teoria dei giochi. Per questo apprezzo Watzlawick, uno psicologo che ha avuto il coraggio di
sovvertire il Sacro, di contestare un premio Nobel e di proporre un modello di vita alternativo in cui
secondo me risiede il segreto per il Bene comune e al di là delle sue possibili definizioni la sua
ontologia più profonda:
“Perché è così difficile rendersi conto che la vita è un gioco a somma diversa da zero? Che si può
vincere insieme non appena si smetta di essere ossessionati dall’idea di dover battere per non
essere battuti?”
Forse avevano ragione i detrattori di Locke, forse la sua illusione liberale era troppo ingenua: come
potevano i compromessi e gli equilibri di interessi dei privati garantire la sopravvivenza del
Comune? Poteva una visione resistere senza la solidità di una prospettiva statica, di una morale
solida e consolidata?
Altri hanno detto che le idee di Locke in questo ambito esprimevano una personalità incoerente, o
peggio, in mala fede. No, questo no. L’illusione liberale era fin troppo naif, questo si, ma solo col
senno del poi.
_________________________________________________________________________
BIBLIOGRAFIA
Hobbes T. (1651) Leviatano, Cambridge.
Locke J. (1690) Secondo Trattato sul Governo, Londra
Mattei U. (2013) I Beni comuni tra Economia, Diritto e Filosofia, www.spaziofilosofico.it
Pascal B. (1669), Pensieri.
Passerin d’Entrèves A. (2009), La Dottrina dello Stato, Giappichelli Torino.
Platone, La Repubblica.
S.Tommaso d’Aquino, (1927) Summa Theologiae, Roma.
Watzlawick P. (1983), Istruzioni per rendersi infelici, Feltrinelli, Milano.

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FIlosofia Beni e Bene CC

  • 1. 1 Milvio Delfini (delfinimilvio@gmail.com) ALTA SCUOLA ROMA TRE (1° anno) Corso di Filosofia (Prof. Giacomo Marramao) Traccia 10: Beni comuni e Bene comune Rapporto ambiguo, quello tra i beni e il Bene: non aiuta la loro somiglianza apparente. Corrono parallele, a ritmi differenti, non sincronizzate le storie di questi due concetti. Come due fili di lunghezza diversa, che si dipanano ciascuno a proprio modo lungo la pista della Storia. Il primo si delinea lungo un tratto breve, destinato ad esplodere in un Novecento ricco di cambiamenti drastici. Il secondo segue il ritmo lento e costante della storia aurea del pensiero: esiste dal momento in cui ci si pose tanto il problema del governare quanto quello di una sua eventuale legittimità. L’obiettivo di questo lavoro è mettere in luce i luoghi in cui questi due concetti si sono incontrati, o anche solo sfiorati. Cercare i tempi in cui i due fili hanno smesso di correre paralleli, ingarbugliandosi. Partiamo dal più antico. La dialettica intorno al Bene comune nasce nel momento in cui si cominciò a porre un problema di definizione: bisognava individuare il fine del potere, il deus ex machina attraverso cui attribuire all’esercizio della sovranità la legittimità necessaria. In nome di cosa agisce il sovrano? Quale fine persegue? Con quali strumenti? La conoscenza del Bene Comune creava per Platone il presupposto di governabilità: i “guardiani”erano tali per il semplice fatto di conoscere il Bene della Città. Un rapporto che risulta invertito rispetto a quello degli Stati che sono passati per una serie di movimenti, rivoluzionari prima, e di assestamento, dopo: in questi casi si richiede la conoscenza condivisa, tra popolo e governo, del Bene da perseguire. Conoscenza condivisa implica però controllo condiviso; una falla endemica difficilmente superabile. Platone, benché l’avesse chiaramente messa in evidenza con una frase sibillina, pregna di determinismo “chi controllerà i controllori?” sembra non riuscire a trovare una soluzione soddisfacente. Bisognerà aspettare Hobbes (“Auctoritas, non veritas facit legem”) perché l’inclusione della volontà popolare determini il passaggio definitivo dal rapporto olistico rispetto al Bene comune ad uno più inclusivo degli individui come collettività. Internet e la (dis)informazione capillare trascineranno poi questa apertura alle masse nella sua degenerazione più politica: l’oclocrazia delle opinioni.
  • 2. 2 Non a caso in questo breve passaggio sono stati esclusi tre autori: Aristotele, Tommaso D’Aquino e Locke. Il primo, perché la troppo vasta e complessa produzione avrebbe portato questo discorso in terreni in cui preferisco non avventurarmi: troppa è la facilità con cui si può cadere in contraddizione. San Tommaso e Locke ho ritenuto invece debbano essere affrontati congiuntamente, in quanto è a partire dalle loro posizioni che ritengo si possa arrivare a far luce sui primi punti di contatto coi Beni comuni. Per entrambi, il Bene comune muove da una prospettiva individualistica, tanto che si potrebbe azzardare a dire che sia dato, all’incirca, dalla somma del bene dei singoli individui più “qualcos’altro”. In questo caso, dunque, perseguimento, più che conoscenza, è la parola chiave alla stregua della quale interpretare la nozione. Ora, tralasciando le rispondenze ultraterrene che necessariamente vincolavano San Tommaso, penso che tanto lui quanto Locke vedessero il Bene comune in una dimensione meno aulica, meno maestosa, di quanto non fosse per i filosofi dell’antichità. Certo, per San Tommaso era inevitabile attribuire ad esso una qualche solenne maiestas, ma risulta anche evidente come alla fine tutto possa ridursi a delle norme di comportamento (“la bontà del cittadino si commisura al suo esser proporzionato al bene comune”). Il Bene comune arriva a coincidere col Bene dello Stato e il Bene dello Stato non è che espressione del bene del cittadino; il sillogismo è di facile completamento. Un cittadino agens (ma non troppo) che, coltivando il proprio giardino nel rispetto delle regole impostegli, contribuisce pur sempre a migliorare la bellezza e la produttività degli appezzamenti di terreno dello Stato, è un cittadino che non comprende fino in fondo, forse, il disegno che si cela dietro ad ogni campo ben coltivato, non riesce a vedere nell’insieme la bellezza di tanti appezzamenti ordinati l’uno di fianco all’altro, tuttavia è in grado di capire, nelle proprie economie private, l’importanza di curare il proprio orto. Anche in San Tommaso, in fondo, non sembra manifestarsi quindi l’idea della possibilità di una partecipazione pubblica, delle masse. È più “un’ubbidienza conveniente”, un conformarsi ad un dictum che in fondo non costa più di tanto. In questo ensemble di prospettive statiche, le tesi di Locke suonano assurdamente rivoluzionarie. L’idea di un Bene comune retto da continui e sempre nuovi compromessi apre la strada ad un’interpretazione del concetto assolutamente dinamica, quanto mai originale. È proprio nella presa di coscienza di questo necessario dinamismo, dell’urgenza dell’abbandono di una posizione monolitica, che sta la capacità di questo pensiero di adattarsi ad altri schemi e, perché no, di riciclarsi. Locke, da bravo alfiere dell’utilitarismo, parte dalla libertà negativa, poi compie un salto in avanti non da poco virando dalle posizioni – grette e miopi – di Bentham ( “il bene comune è interesse dei singoli, dunque se viene leso l’interesse del singolo, non si può parlare di bene comune”) e arriva addirittura ad ipotizzare la possibilità di un Bene comune che abbia radici in una mentalità privatistica: è la così detta “illusione liberale”, per nulla naif, in cui i contrasti e le utilità dei singoli si appianano naturalmente, in uno stato liberale. Ecco il dinamismo, il Bene comune poggia su un sicuro fondo di interessi privati reso stabile da un continuo equilibrio di pressioni. Un po’ come la virtù umana, che per Pascal si mantiene “in equilibrio tra due vizi”. Un po’ come la mano invisibile di Adam Smith, che altro non è che l’illusione liberale trapiantata in economia.
  • 3. 3 Nel contrapporsi a Bentham e alla logica degli interessi individuali dominanti, Locke crea involontariamente uno spiraglio sovversivo a quella che è la logica su cui si fonda tutto il diritto privato nei sistemi occidentali: l’interesse. A pensarci bene sembra un paradosso, una contraddizione fin troppo evidente a cui siamo fin troppo abituati, questa divergenza netta tra il Pubblico così attento al comune ed il Privato che fa dei suoi principi fondanti un egoistico contrario. Ma è proprio in questa divergenza, in questo baratro ideologico tra Pubblico e Privato che emerge la figura del Comune (Beni), per dirla con Ugo Mattei, “come la talpa erode spazio tanto alla proprietà privata quanto allo Stato…”. Concluso questo rapido sguardo storico, dove possiamo dire di aver visto intrecciarsi, o anche solo avvicinarsi, i concetti di Bene comune e Beni comuni? Sembra ancora difficile a dirsi, dunque ritengo sia necessario impostare uno o più “filtri” attraverso cui condurre l’analisi: il primo potrebbe essere quello della partecipazione al Comune. D’altronde, l’etimologia di questo non potrebbe suggerire diversamente. Dove, quindi, questa idea di partecipazione, questo cum munus, ha permesso di sviluppare i prodromi di una dialettica Bene comune- Beni comuni? Procediamo con ordine. Non in Platone, dove la logica della conoscenza esclusiva del Bene comune impediva qualsiasi tipo di partecipazione alla nozione stessa di Comune e precludeva quindi eventuali ragionamenti sui Beni. Inoltre, la questione si sarebbe potuta comunque risolvere con una certa facilità: i Beni comuni appartengono alla polis, e il loro ordinamento appartiene esclusivamente ad essa. In San Tommaso, invece, credo si siano manifestate le avvisaglie di quello che in un futuro sarebbe stato chiamato l’obbedire civico. Un pacifico conformarsi alla regola che garantisce rispetto, cura e protezione dei beni comuni. Per farlo, è necessario una ripartizione dell’obbligo, una collaborazione solidale, bisogna cum munere. Non si deve dimenticare, d’altronde, che la tutela dei Beni comuni è sempre stato un punto fermo delle buone tradizioni ecclesiastiche, basti pensare al Cantico delle Creature di San Francesco: non è forse questo uno dei primordiali esempi di volontà di protezione del demanio? Esiste in San Tommaso uno spazio per i Beni comuni, quindi, ma è limitato alle sfere della tutela e della protezione di questi. Quello che non appare – ma che si manifesta forse in Locke- è l’imputazione dei Beni comuni alla sfera pubblica. E non solo: nel Secondo Trattato sul Governo, nella parte introduttiva sulla proprietà: “Ciò posto, ad alcuni sembra difficilissimo spiegare come si sia venuti ad avere singolarmente proprietà di qualcosa. Non mi contenterò di rispondere che, se è difficile spiegare la proprietà supponendo che Dio abbia dato il mondo ad Adamo e ai suoi discendenti in comune, è addirittura impossibile affermare che qualcuno abbia proprietà di qualcosa, tranne un solo monarca universale, se si suppone che Dio abbia dato il mondo ad Adamo e ai suoi eredi in successione diretta, escludendo tutto il resto della sua discendenza. “ Si finisce addirittura per teorizzare quella che rimarrà fino al giorno d’oggi come il principio regolatore dei Beni comuni: un godimento senza proprietà, un’appartenenza a tutti, e quindi a nessuno, una giustizia distributiva che rende gli uomini uguali davanti al Comune. A distanza di secoli, Locke ci suggerisce uno spunto di riflessione per il dibattito moderno: possono i beni comuni garantire una forma di uguaglianza più ampia di quanto spesso non generino le sperequazioni sociali spesso portate avanti in nome del bene comune? Può la sovranità territoriale porre degli ostacoli al godimento di ciò che è di tutti? Può un patto tra Stati sovrani impedire agli uomini di attraversare liberamente terra e acqua? Si può privatizzare l’acqua senza prima dimostrare di essere i proprietari dei fiumi, delle nuvole e dei ghiacciai sopra le montagne?
  • 4. 4 È triste, ma si intuisce con facilità che tra Beni e Bene, non è mai quest’ultimo a subire una compressione nel gioco degli interessi, a meno che uno Stato, non scelga di elevare i Beni a categoria necessaria per il perseguimento del Bene comune. Eventualità che non si realizza, ovviamente. Ciò che regolarmente si verifica è il tentativo progressivo e costante di estendere la filosofia della privatizzazione anche a quei Beni che tuttavia si presentano come tertium genus nella dialettica pubblico-privato. A partire dal primo Novecento, le fazioni pubblicistiche o privatistiche si sono contese quel territorio neutrale, quello iato concettuale più che materiale; i Beni comuni esistono, e dal Secolo breve in poi è diventato impossibile ignorare questa realtà di fatto. Pertanto, le fazioni si sono limitate a spostare la linea di quel confine di neutralità un po’ più avanti – o un po’ più indietro – secondo l’evolversi e l’involversi di realtà politiche e relative correnti filosofiche retrostanti. Si è così verificato un continuo squilibrio dovuto agli eccessi degli opposti: dopo la rivoluzione russa una ventata di statalizzazione conferì ai governi di una certa Europa il potere – non certo la legittimità – di riportare sotto l’ala sicura dello Stato i Beni che appartenevano alla categoria del Comune (rectius: che sarebbero dovuti appartenere alla categoria del Comune! Non che gli Zar di Russia e altri regnanti dell’Europa continentale si fossero mai posti il problema di siffatta divisione). In questa fase si verificò un altro fenomeno, interessante per quest’analisi: lo Stato, oltre a inglobare i Beni comuni nella sfera pubblica come un tutto unico, fece un passo ulteriore: mai come in quest’epoca, anche il Bene comune divenne appannaggio esclusivo, “proprietà” del Pubblico. Per quanto possa apparire banale citare Vico, non si possono ignorare corsi e ricorsi, più che storici filosofici: non sono forse tornati i guardiani della Repubblica, gli unici aventi la conoscenza del Bene comune? Quis facit legem adesso? Auctoritas? Veritas? Ad ogni modo, sta di fatto che questo eccesso, destinato a non durare, portò allo squilibrio opposto, la privatizzazione, i modelli di utilitarismo e le teorie economiche delle scelte sociali. Non c’è spazio, in questa dialettica, per i Beni comuni. C’è troppa velocità, troppi interessi contrastanti. Il famoso equilibrio di pressioni dell’illusione liberale è sempre più incerto, più difficile da stabilizzare. Proprio tra queste pressioni, tra questi contemperamenti di interessi individuali, il Comune suscita al massimo ilarità e compassione, viene relegato tra i problemi meno importanti, torna ad essere materia dei filosofi. Da questo momento in poi, Beni e Bene presero due strade che li avrebbero tra loro allontanati. I primi, seppelliti dalle progressive ondate di privatizzazioni che ad oggi non accennano a diminuire, annaspano per rimanere a galla, sostenuti dagli sforzi di pochi contro l’indifferenza, peggiore dell’accanimento, di molti. Il Bene comune, forte di maggiori sostenitori, ha continuato a lottare per il raggiungimento di un’identità che ancora fatica a configurarsi, ma la materia è fisiologicamente passata in affidamento all’economia, con esiti talvolta distorti. Pareto, ad esempio, offrì un’interpretazione negativa del Bene comune che si configurava come la mancanza di riduzione del benessere dei singoli individui. In un’accezione più positivista, Keynes individuò nello Stato sociale la possibile risposta alle “deviazioni di percorso”. E poi Rawls, col suo neo contrattualismo che riuscì a fornire una valida alternativa al cinismo estremo di Bentham. “Non sono accettabili le distribuzioni casuali, sono pertanto ingiuste (unfair) quelle istituzioni che perpetuano o che rafforzano tali distribuzioni.” Ecco, credo che Rawls avesse ben chiaro cosa fosse il Bene comune, e anche come perseguirlo.
  • 5. 5 Oggi però la nuova economia del benessere ha posto fine a questa illusione, sono entrati in gioco i criteri di compensazione potenziale a l’implicita accettazione del “fallimento” complessivo di ogni modello. Si opera sapendo di aver già perso: Kaldor ci dice che poco importa alla collettività se un individuo avvantaggia la propria posizione sociale a scapito di un altro individuo, l’importante è che possa potenzialmente ripagarlo per tale perdita. Potenzialmente. È la retorica dell’impossibilità del sociale che soffoca quella della responsabilità, il far west del liberalismo. Il Bene comune rischia il collasso, asfissiato da un individualismo selvaggio, illogico, senza regole. L’economia è stata a lungo la scienza imprecisa dei modelli astratti in cui si figurano situazioni di benessere, puntualmente smentite dalla pratica. Il problema è che negli ultimi tempi, anche l’ipotesi astratta è divenuta negativa, catastrofica, raffigurante una società che per assunto imbroglia, mente, inganna, non dice, dichiara notizie false e compete scorrettamente. Neppure John Nash ha aiutato, con la sua teoria dei giochi. Per questo apprezzo Watzlawick, uno psicologo che ha avuto il coraggio di sovvertire il Sacro, di contestare un premio Nobel e di proporre un modello di vita alternativo in cui secondo me risiede il segreto per il Bene comune e al di là delle sue possibili definizioni la sua ontologia più profonda: “Perché è così difficile rendersi conto che la vita è un gioco a somma diversa da zero? Che si può vincere insieme non appena si smetta di essere ossessionati dall’idea di dover battere per non essere battuti?” Forse avevano ragione i detrattori di Locke, forse la sua illusione liberale era troppo ingenua: come potevano i compromessi e gli equilibri di interessi dei privati garantire la sopravvivenza del Comune? Poteva una visione resistere senza la solidità di una prospettiva statica, di una morale solida e consolidata? Altri hanno detto che le idee di Locke in questo ambito esprimevano una personalità incoerente, o peggio, in mala fede. No, questo no. L’illusione liberale era fin troppo naif, questo si, ma solo col senno del poi. _________________________________________________________________________ BIBLIOGRAFIA Hobbes T. (1651) Leviatano, Cambridge. Locke J. (1690) Secondo Trattato sul Governo, Londra Mattei U. (2013) I Beni comuni tra Economia, Diritto e Filosofia, www.spaziofilosofico.it Pascal B. (1669), Pensieri. Passerin d’Entrèves A. (2009), La Dottrina dello Stato, Giappichelli Torino. Platone, La Repubblica. S.Tommaso d’Aquino, (1927) Summa Theologiae, Roma. Watzlawick P. (1983), Istruzioni per rendersi infelici, Feltrinelli, Milano.