«Crisi bancarie, la grande incertezza: un bilancio della riforma europea».
Articolo per «Econopoly», blog de «Il Sole 24ORE», 3 maggio 2019 (con Giulia Scardozzi)
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DRAGHI E GNOMI
Gli autori di questo post sono Luca Bellardini e Giulia Scardozzi, dottorandi di ricerca in Management, indirizzo Banking &
Finance, presso l’Università degli studi di Roma “Tor Vergata” (XXXIII Ciclo) –
Cinque anni fa, il 15 aprile 2014, il Parlamento europeo approvava la Banking Recovery and Resolution Directive (Brrd, n.
2014/59/Ue), entrata in vigore il 1° gennaio 2016. Oggi, quando sono trascorsi pochi giorni dall’imprimatur di Strasburgo ad
alcune piccole ma non irrilevanti modifiche (al punto che il nuovo provvedimento è già noto come Brrd II), un bilancio potrebbe
essere tracciato guardando non solo ai rari casi in cui la nuova disciplina di «risanamento e risoluzione» è stata effettivamente
attuata, ma anche agli spill-over che essa ha prodotto sul sistema bancario nel suo complesso. In particolare, uno strumento
controverso come il bail-in ─ cioè la «ricapitalizzazione interna» di un istituto in difficoltà, compiuta convertendo o svalutando
gli strumenti di debito e di capitale ─ sembra aver alterato gli incentivi sia per gli enti creditizi sia per chi ne detenga azioni od
obbligazioni, o presso di essi abbia depositato cifre superiori a 100mila euro.
Grazie alla Brrd e alla normativa che ne discende, il Meccanismo di risoluzione unico (Single Resolution Mechanism, Srm) è
ormai operativo; ma il fondo unico europeo ─ costituito dai conferimenti obbligatori delle banche dell’Eurozona ─ sarà a regime
solo nel 2024. Al momento, l’incompletezza della dotazione patrimoniale rende piuttosto debole il secondo pilastro dell’Unione
bancaria: in questi anni, infatti, l’iniziativa è stata presa quasi esclusivamente dalle «autorità di risoluzione» nazionali,
coadiuvate dalla Bce per gli istituti (cosiddetti significant) su cui quest’ultima esercita una vigilanza diretta. Perciò, situazioni
mediaticamente rilevanti di “quasi bail-in” ─ gestite con interventi ad hoc ─ hanno influito sulle preferenze degli investitori in
maniera molto più marcata rispetto ai casi di un’applicazione pedissequa.
È certamente il caso dello spagnolo Banco Popular, risanato nel 2017 penalizzando azionisti e obbligazionisti junior (possessori
di titoli Tier 2) per un totale di 3 miliardi. Al di là della natura giuridica dell’intervento (non un formale bail-in), i risparmiatori
iberici hanno sperimentato il significato del burden sharing, quella «condivisione degli oneri» che è l’architrave della nuova
disciplina. Anche l’Italia ha vissuto esperienze simili: nel 2015, prima che la Brrd entrasse in vigore, il celebre affaire delle
«quattro banche» (Etruria, Marche, Carife, Carichieti); poi, nel 2017, qualcosa di analogo per la Popolare di Vicenza e Veneto
Banca. Tutti questi casi terminavano con la liquidazione dei vecchi enti creditizi e la creazione di altrettante good bank, le cui
attività venivano poi cedute a un compratore esterno (Santander per Banco Popular, Bper per Carife, Intesa Sanpaolo per le
venete, Ubi per le altre).
Tuttavia, la credibilità della nuova disciplina è stata probabilmente intaccata dalle vicende Mps (fine 2016) e Carige (inizio 2019).
In questi due casi, il salvataggio ha comportato un minimo burden sharing tra i privati e un cospicuo intervento pubblico ai sensi
dell’art. 32 Brrd: quello secondo cui lo Stato è autorizzato a offrire varie forme di sostegno con il denaro dei contribuenti ─
iniettando liquidità o concedendo garanzie sulle passività ─ prima che possano verificarsi i presupposti per la risoluzione.
Ad oggi, quindi, valutare se una banca sia «in dissesto o a rischio di dissesto» ─ come recita la Direttiva ─ è esercizio altamente
discrezionale; una “linea rossa” dagli effetti dirompenti ma dai contorni assai poco chiari. Come si è visto, talvolta una
Crisi bancarie, la grande incertezza: un bilancio della riforma europea
scritto da Econopoly il 03 Maggio 2019
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«ricapitalizzazione precauzionale» finisce per accompagnare un salvataggio esterno (bail-out): soprattutto se attuata con la
partecipazione di enti di natura pubblicistica, come dimostra l’aspro confronto tra l’Italia e la Commissione europea in merito
all’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi ─ che Bruxelles intendeva qualificare come «aiuto di Stato» ─ nel
risanamento di Tercas, acquisita dalla Popolare di Bari nel 2014. Siamo quindi davanti a un’incertezza generalizzata, che certo
non fa bene alla fiducia degli investitori.
Peraltro, l’evidenza empirica suggerisce che l’introduzione del principio del burden sharing abbia fatto aumentare il costo della
raccolta bancaria, a causa di un’accresciuta percezione del rischio da parte degli investitori; e che addirittura stia spostando fuori
dall’Eurozona una quota rilevante delle passività emesse dagli enti creditizi (Pigrum et al., 2016). Inoltre, dal 2017 le banche
hanno l’obbligo di rispettare il Minimum Requirement for own funds and Eligible Liabilities (MREL), che impone loro di
detenere un sufficiente ammontare di passività con elevata capacità di assorbimento delle perdite: e queste, essendo più
“appetibili” per gli istituti di credito, dovranno anche offrire un rendimento superiore.
Ad oggi, quindi, la svolta verso una cornice più marcatamente privatistica ─ ricercata in sede europea, a partire da alcuni
esponenti della Bce secondo cui le banche «devono poter fallire» ─ non sembra essersi realizzata appieno. I governi continuano
a esercitare un ruolo predominante, spesso imperniato sull’intervento statale; e, pur non essendosi verificato alcunché di
lontanamente accostabile alla tanto temuta “corsa agli sportelli”, sembra che i risparmiatori non siano rimasti del tutto
indifferenti dinanzi a una disciplina che ne accresce l’esposizione alle perdite. In teoria, le nuove norme dovrebbero anche
proteggerli in quanto contribuenti; eppure, superato dagli eventi, questo aspetto è rimasto nell’ombra.
D’altronde, se alcuni istituti non fossero stati ricapitalizzati evitando il ricorso al bail-in, avremmo forse dovuto affrontare
problemi sistemici di particolare gravità. Perciò, al di là del merito del singolo episodio, è importante che aggirare le norme
europee non diventi un’abitudine: altrimenti ne subiremmo i lati negativi ─ propagati dalle aspettative degli investitori ─ senza
poterne apprezzare quelli positivi. Finora, purtroppo, è andata così.
Twitter @Luca_Bellardini