2. Questo progetto nasce dal fango.
Il 3 maggio 2014 il fiume Misa è esondato rompendo gli argini,
parte della città di Senigallia è stata sommersa, provocando
ingenti danni.
Come poter aiutare?
Documentando, da un altro punto di vista.
Ascoltare le persone per poi restituire una memoria storica
collettiva, mantenendo vivida l’esperienza di ognuno di loro.
Le emozioni, le sensazioni, i loro racconti. L’acqua. Il fango.
La sua consistenza, il suo odore. Le loro paure. Immergersi.
Gli eventi li hanno cambiati.
Affiorano serenità, vicinanza, speranza.
Nell’ascoltarli, guardarli in un ambiente neutro, l’attenzione
va all’intensità dello sguardo.
L’invisibile e visibile. L’anonimato delle persone, i testi che
accompagnano senza invadere, l’assenza della numerazione,
le pagine bianche, quasi vuote, sono scelte progettuali
che evocano un senso di spaesamento e immergono il lettore
nel loro vissuto.
In un dialogo collettivo che suscita emozioni.
Un libro nato dalla comunità e donato alla comunità.
3. 11/8/2017 Senigallia riparte subito tra �fango e tanta solidarietà
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Venerdì 11 Agosto 2017 ultimo aggiornamento 14:48
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SENIGALLIA – Il day after per Senigallia � lungo e difficile: nelle zone
colpite dall’alluvione si sta ancora rimuovendo il fango. Preziosa è
l’opera dei tanti volontari, insieme ai vigili del fuoco e alle altre forze
pubbliche, che sono ancora in opera. Attraverso la Caritas, ma anche
comuni cittadini, sta proseguendo l’opera di raccolta di ogni tipo di bene
per quelle persone che nell’alluvione hanno perso tutto. Confermati
purtroppo gli episodi di sciacallaggio specialmente nella zona di Borgo
Bicchia.
900 volontari al lavoro reclutati su Facebook
Continua a Senigallia "la straordinaria mobilitazione" dei tanti volontari
della Protezione e del privato sociale impegnati per aiutare i cittadini
colpiti dall'alluvione di sabato 3 maggio. "Oggi in città hanno lavorato
900 giovani fra i 20 e i 25 anni, mobilitati anche grazie alla pagina
Senigallia riparte subito
tra fango e tanta solidarietà
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La citta' si rimbocca le
maniche/GUARDA LE FOTO
Senigallia riparte subito
tra fango e tanta
solidarietà
Ansa
Marche
13:54 03 maggio 2015 NEWS
Un anno fa l'alluvione di Senigallia
Città si e'rialzata ma mancano fondi e ogni piena Misa fa paura
Redazione ANSA SENIGALLIA (ANCONA)
Il 3 maggio 2014, un anno fa, Senigallia venne colpita da un'alluvione devastante. In 12 mesi la
città si è rialzata, ma i fondi scarseggiano, cittadini e imprese aspettano ancora i risarcimenti e ad
ogni piena del fiume Misa torna la paura. Erano stati giorni di forti precipitazioni. La mattina del 3
maggio un'ondata di piena provoca la rottura di un tratto di argine del fiume a Borgo Bicchia: in sei
ore si riversano 13 milioni di metri cubi di acqua, e il livello del corso d'acqua sale di 6 metri.
Acqua e fango invadono la frazione, e l'acqua sfiora i due metri. Aldo Cicetti, 87 anni, ipovedente,
muore intrappolato in cantina; la moglie si salva grazie al coraggio di un volontario che la carica su
una tavola da surf. La marea raggiunge Borgo Molino e gran parte dei quartieri a sud della città, le
zona del Portone ed ex Piano regolatore e arriva al lungomare, all'altezza dell'hotel Ritz. Il vento
soffia in senso contrario e il mare non riceve: gli alberghi del lungomare sud sono invasi dalla
piena. Nell'arco di tre giorni altri due anziani muoiono per cause indirette: uno stroncato da un
malore, l'altra dopo il ricovero in ospedale. La melma e l'acqua devastano case, auto, edifici del
Campus scolastico, il Palasport, il Commissariato di Polizia, la caserma dei Vigili del fuoco, la sede
della Caritas, diverse chiese.
Alla fine si contano danni per oltre 179 milioni di euro, più di 5 mila abitazioni allagate e 1.500
persone rimaste senza niente. Verranno rimosse a tempo di record oltre 5 mila tonnellate di rifiuti:
autovetture, elettrodomestici, mobili, materassi, effetti personali e ricordi di una vita. Il 4 maggio il
premier Matteo Renzi visita la città e la sorvola in elicottero per rendersi conto di persona del
disastro. A fine giugno arriva la dichiarazione dello stato di emergenza e il Governo stanzia 10
milioni di euro per le Marche, 4 dei quali destinati a Senigallia per gli interventi di prima urgenza
assicurati dal Comune. La risposta della città è straordinaria. Oltre agli operai comunali, alla
Protezione civile, ai vigili del fuoco e alle forze di polizia, a spalare fango e consolare ci sono
tantissimi volontari, molti hanno meno di 20 anni. Arrivano contributi da parte di enti ed
associazioni, donazioni e strumentazioni per le scuole. In 15 giorni gli alberghi riaprono, dopo 4
mesi si torna a lezione in tutte le scuole. Oggi si guarda avanti: per domani era stata indetta una
giornata di celebrazioni, ma siamo in campagna elettorale e, per evitare polemiche, la kermesse è
stata annullata.
11/8/2017 Senigallia riparte subito tra �fango e tanta solidarietà
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Venerdì 11 Agosto 2017 ultimo aggiornamento 14:48
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SENIGALLIA – Il day after per Senigallia � lungo e difficile: nelle zone
colpite dall’alluvione si sta ancora rimuovendo il fango. Preziosa è
l’opera dei tanti volontari, insieme ai vigili del fuoco e alle altre forze
pubbliche, che sono ancora in opera. Attraverso la Caritas, ma anche
comuni cittadini, sta proseguendo l’opera di raccolta di ogni tipo di bene
per quelle persone che nell’alluvione hanno perso tutto. Confermati
purtroppo gli episodi di sciacallaggio specialmente nella zona di Borgo
Bicchia.
900 volontari al lavoro reclutati su Facebook
Continua a Senigallia "la straordinaria mobilitazione" dei tanti volontari
della Protezione e del privato sociale impegnati per aiutare i cittadini
colpiti dall'alluvione di sabato 3 maggio. "Oggi in città hanno lavorato
900 giovani fra i 20 e i 25 anni, mobilitati anche grazie alla pagina
Facebook Sos Alluvione. Un segnale bellissimo, e un'energia in più per
ripartire", dice il sindaco Maurizio Mangialardi.
Senigallia riparte subito
tra fango e tanta solidarietà
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La citta' si rimbocca le
maniche/GUARDA LE FOTO
Ancona, imbarcazioni in difficoltà:
doppio salvataggio della Finanza
Senigallia riparte subito
tra fango e tanta
solidarietà
http://www.comune.senigallia.an.it/site/senigallia/live/taxonomy/senigallia/news/alluvione-conclusa-ricognizione-danni.html 1/2
Rotonda a mare Storia
Teatro Monumenti
Biblioteca Comunale Musei
Manifestazioni Archeologia
Frazioni Webcam
Angoli della città Scuola di pace
Città gemellate Numeri Utili
Bandi di gara Att. Economiche Polizia Locale
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Operazione trasparenza
Speciale Elezioni
Concorsi, mobilità e graduatorie
Contrattazione decentrata
Codice disciplinare
Alluvione: conclusa la ricognizione, danni per quasi 100
milioni di euro
Mangialardi: “Stanziamenti siano inseriti nella prossima Legge di stabilità”
Ammontano complessivamente a 99 milioni 355 mila euro i danni autocertificati da cittadini e
imprese colpiti dagli eventi alluvionali del 2, 3 e 4 maggio scorsi. Questa la fotografia che si
ricava dalle 7097 schede trasmesse al Comune di Senigallia a seguito dell’ordinanza n. 179 del
10 luglio 2014 del Capo dipartimento della Protezione civile, finalizzata alla ricognizione dei
danni subiti dal patrimonio privato e pubblico.
La raccolta, preceduta da una lettera del sindaco Maurizio Mangialardi a tutte le famiglie e alle
imprese interessate dall’alluvione, è iniziata il 29 luglio e si è conclusa il 4 settembre. Tre sono
state le tipologie di schede per la rilevazione, distribuite in maniera capillare dal Comune tramite
il suo sito (www.comune.senigallia.an.it), lo Sportello alluvione e l’Ufficio relazioni con il pubblico:
la B, relativa ai danni subiti dagli edifici privati, la C, per i danni patiti dalle attività economiche e
produttive, la D, concernete i danni ai beni mobili (automobili, motoveicoli, elettrodomestici,
arredi).
Per quanto riguarda i danneggiamenti al patrimonio edilizio privati, sono state 1929 le
schede raccolte, per un totale di 26 milioni 518 mila euro euro.
Per quanto concerne le aziende e attività commerciali, sono giunte 333 schede per una
stima dei danni pari a 20 milioni 678 mila euro così suddivisi: 7 milioni 572 mila euro
relativi ai beni immobili, 8 milioni 310 mila euro per i beni mobili (macchinari, attrezzature, arredi,
ecc.), 4 milioni 796 mila euro per le scorte, semilavorati, lavori finiti.
Infine i beni mobili privati: ben 4835 le segnalazioni ricevute, per un totale di oltre
44 milioni di euro. Di queste, 2683 (pari a 31 milioni 187 mila) riguardano prevalentemente
arredi ed elettrodomestici, mentre le restanti 2152 (pari 12 milioni 839 mila euro) si riferiscono ad
automezzi.
A questo calcolo vanno ad aggiungersi gli oltre 8 milioni di euro censiti con la scheda A,
riservata agli enti locali, per la pulizia e il ripristino dei fossi (1 milione 100 mila euro), dei ponti
e delle strade (6 milioni 500 mila euro), degli edifici e dei mezzi (550 mila euro).
Le schede con i relativi importi saranno trasmessi domani stesso al Dipartimento della Protezione
civile della Regione Marche per l’avvio delle procedure finalizzate al risarcimento. È da notare
che, la ricognizione dei danni non costituisce un riconoscimento automatico dei finanziamenti per
il ripristino degli stessi, ma rappresenta comunque un atto indispensabile per vedersi riconosciuto
l’eventuale indennizzo da parte del governo.
“Dopo la prima sommaria ricognizione di maggio – spiega Mangialardi – che ci permise di
ottenere lo stato di emergenza, questa seconda rilevazione ci consente di calcolare i danni
effettivamente subiti da cittadini, imprese ed enti pubblici. Si tratta di un passaggio decisivo per
voltare definitivamente pagina sui tragici eventi di maggio. In quest’ultimo mese, abbiamo
indirizzato molte energie sul buon esito della ricognizione dei danni e possiamo dire di esserci
riusciti. L’obiettivo, ora, è far sì che gli stanziamenti finalizzati al risarcimento siano inseriti dal
governo nella Legge di stabilità che verrà predisposta a ottobre. Da questo punto di vista ci
attiveremo nei confronti della Regione Marche e dei nostri parlamentari affinché ciò sia reso
possibile e vengano riconosciute a Senigallia, in tempi brevi e certi, le giuste risorse”.
Immagini
4. Ho perso tutto
in soli trenta minuti.
In quei momenti
non sai cosa fare.
Non t’immagini che tutta
quell’acqua ti travolga.
Non ho salvato niente,
perché l’acqua ha toccato
i due metri e mezzo.
Abbiamo visto i mobili
che cadevano e i divani
che galleggiavano per casa.
Quando l’acqua è scesa,
ho pensato che ormai
era tutto finito.
Solo allora mi sono sentita
tranquilla.
Nel brutto di ciò che ci è
capitato mi ha colpito molto
quanta gente si è rimboccata
le maniche.
Il problema era il mattino
e la sera, quando tutti
andavano via
e rimanevi da solo.
Non riuscivi a credere
che fosse successo davvero.
Chiusa la finestra,
hai comunque l’impressione
che gli altri non abbiano
più nessun problema,
mentre tu sei ancora devastato.
Stranamente
nei giorni successivi
mi sono sentita serena,
perché c’era qualcosa
che ci univa.
Era come se si fosse tornati
al passato, quando si tenevano
le porte aperte tra vicini
e si cenava insieme.
Ed è una cosa
che mi è piaciuta molto.
9. Questo progetto racconta
l’alluvione con uno squardo inedito,
attraverso il ritratto fotografico.
Coinvolge le persone colpite dall’alluvione,
fotografate come sospese in una altra dimensione,
lontano dalla quotidianità e dal fango.
Molti di loro hanno perso tutto, oggetti, vestiti, mobili,
ricordi, sicurezza...
L’azione è rivota ad un pubblico ampio,
è un racconto corale che mostra una comunità
unita e solidale, capace di risollevarsi
e di mostrare dignità anche in momenti così drammatici.
Le persone coinvolte sono testimoni
di quei momenti, vissuti singolarmente
ma anche come collettività.
L’identità del progetto si è delienata
con il tempo.
In un dialogo continuo degli autori,
il progetto ha preso la forma attuale.
10.
11. Promozione
Scuola Corinaldesi _ Senigallia 2015
Asta di Libera _ Caterraduno_ Senigllia 2015
Biblioteca di Macerata 2016
Biblioteca di Pesaro 2016
Bastione Sangallo Fano 2016
Fahrenheit39 Ravenna 2016
Ratatà Festival _ Macerata 2016
Gornate di Fotografia _ Fermo 2016
Bookcity _ Museo del 900
Milano 2016
Città Come Cultura _ MAXXI
Roma 2016
Mappe 9 _ Ancona 2017
AWDA Aiap Women in Design Awards
progetto selezionato _ Roma 2017
12.
13. La città
era
divisa
in due.
Una parte
di
Senigallia
quasi
non
aveva
la percezione
di
ciò che
era
accaduto.
La paura riamane ogni volta che piove
Senigallia, 3 maggio 2014
un progetto di
Paolo Monina e Maria Loreta Pagnani
patner
Associazione Gent’d’S’nigaja
fotografia
Paolo Monina
curatrice/grafica
Maria Loreta Pagnani
hanno collaborato
Lucia Gregorini, Adriano Rotatori
stampa
copertina carta Sirio Color Pietra di Fedrigoni SpA
interno carta X-PER da 140 gr. di Fedrigoni SpA
Tecnostampa Loreto
aprile 2015
con il Patrocinio di
con il contributo di
patner tecnico
Comune di Senigallia
Comunicare il nostro vissuto, anche quello complesso e faticoso, perché terribile,
guardarsi negli occhi senza parole o con poche frasi sufficienti al racconto
e così emozionarsi ed emozionare, un’esperienza unica.
Anche quando la mediazione dell’immagine riprodotta e veicolata, quella fotografica,
codifica il racconto con la perfezione delle sue regole, ci rimane addosso l’unicità
dell’esperienza.
Le immagini sono perfette, essenziali, perché così devono essere: la luce
sapientemente dosata disegna i protagonisti, gli unici soggetti.
Il racconto di un vissuto molto particolare si dipana con lo sviluppo
della sequenza fotografica.
Il tempo, lento, ci invita a riflettere, lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo,
e la riflessione si dilata consegnando a ognuno una nuova consapevolezza.
Quando Paolo Monina e Maria Loreta Pagnani mi hanno consegnato le bozza
del loro lavoro, ho capito: queste erano le immagini, le parole, i sentimenti, le emozioni
semplicemente giuste!
Grazie per questo stupendo regalo fatto a una bellissima Senigallia.
Stefano Schiavoni
Assessore alla Cultura Comune di Senigallia
La testimonianza del ritratto
La fotografia di ritratto riflette gli atteggiamenti relazionali e comportamentali
della vita sociale nel senso che intendiamo restituire un’immagine regolata sulla base
delle norme estetiche del sistema in cui siamo inseriti: in questo caso – lo si avverte
dagli sguardi e dalle pose delle persone raffigurate - l’esigenza di dare e ricevere
credibilità. La coesione sociale dei gruppi viene rappresentata dagli sguardi fissi verso
l’obiettivo; la ripetizione, un genere di frammentazione del ritratto, ha la valenza
di rinforzare il racconto e il ricordo, mentre la ripresa in bianco e nero, la verità originaria
della fotografia,accentua la drammaticità della posa.
Quest’opera evoca il dramma e la sua forza narrativa è sostenuta dalla dignità
dello sguardo.
Pur non proponendo immagini della tragedia accaduta, realizza, comunque, attraverso
le parole e le immagini delle persone che hanno subìto l’alluvione di maggio, i ricordi
dei traumi vissuti, richiamati con tale nitidezza e intensità viscerale che sembrano
quasi in simultanea con la testimonianza stessa, accentuandone la carica emotiva.
Si avverte la potenza traumatica del “rivivere”, accompagnata da un senso d’impotenza
e vulnerabilità a fronte della persistente minaccia del fiume, che solo la graduale
rimozione del ricordo del dramma potrà allontanare.
In quasi tutte le dichiarazioni compare la solidarietà, soprattutto verso i giovani volontari,
che, certamente, rappresentano l’aspetto più nobile e consistente della situazione
dolorosa vissuta, e che riduce in parte la tensione drammatica e la separazione propria
del distacco generazionale.
Infine il pensiero si posa su tutti coloro a cui è dedicato il libro e al livello profondo
delle tracce del loro coinvolgimento.
Enzo Carli
Dietro ai ritratti scattati da Paolo Monina si scorgono dei sorrisi. Ma il carattere
ontologico del gesto compiuto dal fotografo anconetano infonde il segno essenziale
sul biancore della carta in cui ha impresso il sorriso di molte persone dopo
l’esondazione del fiume Misa.
La particolarità di queste foto e la forza dei soggetti ritratti, a volte gruppi,
famiglie allargate, hanno il fascino e il carisma di una sorta di opera-documentaria
da cui sprigiona una certa qualità degli scatti.
La singola figura, o la posa, le fattezze, il sorriso esibito, non compongono
una qualsiasi effigie. L’interpretazione del mondo che la fotografia impone selettivamente
al proprio soggetto, specie quando si tratta di qualcuno che abbia subìto azioni violente
esterne alla sua volontà come è accaduto a Senigallia con l’alluvione, a attenuare l’aura
magica che il fotografo conferisce ai profili. Cioè: i ritratti di questo volume
hanno “nuances” e luci sullo sfondo che si concentrano per l’esattezza
nei personaggi, pienamente investiti dalla simpatia del fotografo, che raccontano
la loro storia, ma non poteva essere diversamente.
L’immediata visibilità delle immagini, senza che esse eccedano e mai prevarichino
sui personaggi protagonisti de drammatico evento, devono per intanto eguagliarne,
o comunque doppiarne, il rilievo sia sul piano estetico sia sociale e documentario.
Il lavoro svolto da Paolo Monica si accosta agli uomini e alle donne di questa vicenda:
perché gli aspetti quotidiani, in genere non inferibili alle sole immagini, rendono
da subito più interessanti le diverse storie personali.
Andrea Carnevali
L’acqua del 3 maggio non mi ha sfiorato, ma continua a scorrere dentro di me.
Abbiamo visto amici fraterni disperati per avere perso tutto, ma più che la perdita
economica, ha pesato la perdita del ricordo.
Fotografie, odori, libri.
Molti hanno smarrito il sonno per mesi ripensando all’intrusione di quell’acqua
nell’intimo delle proprie case.
Da quei giorni tristi di fango sono spuntati i fiori di iniziative solidali, culturali, sociali
e artistiche.
Amo di più la mia città dopo quei giorni di silenziosa distruzione.
La distruzione è stata appunto silenziosa e per questo agli occhi del mondo è sembrata
meno grave.
Ma quel fango per mesi non si è tolto di dosso.
E noi tutti rimasti illesi siamo stati travolti da un assurdo quanto incredibile senso di colpa
nei confronti degli amici sconfitti dal fango.
La raccolta fondi #amollomanomollo è nata da questo senso di colpa e dalla volontà
di fare qualcosa.
Tutta la città, tutta la nazione e un po’ di mondo si sono mobilitati.
I giorni del maggio 2014 resteranno i più faticosi e più indimenticabili della nostra vita.
Un ritorno alla solidarietà e alla vicinanza che sembrava non appartenere più
alla società attuale.
Senigallia ha rialzato la testa in poco tempo.
Il 3 maggio ci ha reso più forti.
Non dimenticheremo quel fango, ma nemmeno la nostra forza nel riuscire a rialzarci.
Simone Tranquilli
Associazione Gent’d’S’nigaja
Quella mattina mi trovavo
nel piazzale dell’azienda.
Dal niente è arrivata
un’ondata di acqua e fango:
sembrava uno tsunami.
E’ rimasta lì per più di due ore.
In molti hanno sentito
il bisogno di aiutarci: passanti,
dipendenti, amici, parenti.
Si lavorava con il sorriso.
I ristoranti ci portavano il cibo:
come tavolo per mangiare
abbiamo usato pezzi
di mattoni.
È stata un’esperienza
che mi rimarrà dentro
per sempre.
Mio figlio mi rassicurava.
Era saltata da poco la luce,
mi sono affacciata dalla finestra
e ho visto arrivare l’acqua.
Non ricordo di aver provato
paura, ma in momenti come
quelli prevale l’istinto
e l’adrenalina.
Sensazioni più forti
le ho provate ore dopo,
quando non si sentiva più nulla,
solo l’acqua che scorreva.
Stranamente
nei giorni successivi
mi sono sentita serena,
perché c’era qualcosa
che ci univa.
Era come se si fosse tornati
al passato, quando si tenevano
le porte aperte tra vicini
e si cenava insieme.
Ed è una cosa
che mi è piaciuta molto.
Rabbia, invece, non ne ho avuta:
l’acqua non la puoi fermare.
Quella mattina ero a casa
con le bambine:
impossibile non rendersi
conto di cosa stesse
accadendo.
Mai mi sarei immaginata
che si sarebbero sfasciati
tutti gli armadi
e che avrei perso
tutto ciò che costituiva
le memorie e gli affetti
di famiglia.
Però la solidarietà degli altri
è stata molto importante.
Erano le nove, nove e un quarto.
Stavo tornando a casa
dal centro città,
ho avuto giusto il tempo
di raggiungere la parte vecchia
di Borgo Bicchia
quando ho visto
l’acqua alta che saliva.
Proprio mentre ero fermo
davanti a casa, è arrivata
l’ondata, velocissima:
me la sono ritrovata in un attimo
all’altezza del finestrino dell’auto.
Ho forzato l’apertura
e sono sceso.
Ho suonato il campanello:
mio padre stava facendo
colazione con mio figlio
davanti alla tv, mia madre
di sotto allo scantinato
stendeva i panni.
Non si erano accorti di nulla.
Ma l’acqua continuava a
crescere.
Ci è preso il panico.
Finché una mia amica
che abita in collina
è venuta a piedi
ad avvertirmi
che mia moglie
aveva trovato riparo
con nostra figlia.
Perciò, mentre io sapevo
che erano al sicuro,
fino alla mattinata del giorno
dopo, loro sono state
più angosciate di noi
perché non avevano
più avuto nostre notizie.
È stato impossibile stare uniti
in un momento così delicato.
Vedevo mia moglie
dall’altra parte della strada,
ma non potevo raggiungerla.
Ho passato la mattina
ad aiutare papà
a salvare il salvabile.
Quando l’acqua è scesa,
ho pensato che ormai era tutto finito.
Solo allora mi sono sentita tranquilla.
Siamo stati fatalisti:
ci siamo affidati al destino.
Non sapevamo nulla,
eravamo completamente
isolati.
L’unica comunicazione era
con i vicini,
attraverso i balconi.
La strada era allagata
già dalla prima mattina:
pensavamo fosse per via dei
tombini intasati,
ma poi la situazione
è peggiorata visibilmente.
Sono rimasto sempre in
contatto con lei, dicendole:
non so che fare,
non so che fare.
“Non potevo far nulla:
ero fuori casa”.
Poi nel giro di mezz’ora
è entrata acqua in cantina
e poi “di colpo” dentro casa.
Potevamo ancora salvare le
cose a terra,
ma l’acqua continuava a salire
e allora ho pensato al nostro
cane, una femmina,
che tremava, tutta bagnata
e infangata.
Stava male.
Ai tempi era ancora cucciola:
dopo l’alluvione non si è
mossa più per giorni.
E’ un trauma
che non dimenticherà
tanto presto.
In quei momenti
non sai cosa fare.
Non t’immagini che tutta
quell’acqua ti travolga.
Se fossimo stati in guerra
e mi avessero sparato,
sarei già morto da un pezzo.
Non ho mai avuto
i riflessi pronti:
quel minuto in cui sarei
potuto scappare via
l’ho perso a pensare
se buttarmi o no nell’acqua.
Alle otto sono andata
al canile sanitario per capire
com’era la situazione.
Poi ho perlustrato le zone
vicino al fiume per vedere
come stavano gli animali
e i loro padroni.
Purtroppo diversi animali
erano morti. Per fortuna,
siamo riusciti a dare alloggio
ai cani superstiti,
che si sono salvati per grazia,
arrampicandosi
sulle fascine di legna
e sui tetti delle capanne.
Alcuni li abbiamo portati
dal veterinario, perché il cane,
annaspando, beve l’acqua
fangosa che causa danni
al fegato e ai reni.
Dopo due settimane,
ho riportato gli animali curati
ai loro padroni:
le case erano pulite,
ma completamente vuote.
Ho anche riaccompagnato
molte persone lungo il fiume
a recuperare le loro cose.
Stare in prima linea
ed essere gratificati
dal fatto di aver aiutato
chi aveva bisogno è bello.
Ma quando piove,
sentire di nuovo
l’odore forte del fango
nel naso e nella testa
gela il sangue.
Siamo rimasti a guardare
dalla finestra l’acqua
che arrivava.
La prof cercava
di tranquillizzarci.
Poi ci hanno fatto salire
su un camion
dei Vigili del Fuoco.
Abbiamo attraversato una via
che ci sembrava di essere
nel film Titanic.
Le macchine erano
completamente sommerse.
Mi trovavo a scuola, ero venuto con il treno
maledicendo la mia idea
perché mi ero bagnato tutto, e invece, dopo,
pensando al danno subìto da tanti miei collaboratori,
ho capito di essere stato veramente fortunato.
A mente fredda, anzi, adesso mi dico che prima
di dare dei giudizi su come stia andando la giornata,
bisognerebbe aspettare che la medesima si compia.
Quanta paura!
Eppure, finché siamo vivi, siamo tutti giovani e forti,
a differenza di quel che diceva Pisacane.
Pur nel dramma, infatti, tra ragazzi e docenti
non c’è stato alcun momento di isteria.
C’è stata invece grande partecipazione,
anche da parte di qualche genitore, che è venuto
da fuori portando serenità e attrezzature adatte.
Soprattutto i ragazzi, però, sono stati splendidi:
si sono persino divertiti. In quei giorni erano previsti
dei recuperi di alcune lezioni e abbiamo approfittato
del sabato pomeriggio di isolamento
per avvantaggiarci un po’!
Molta attenzione, del tutto naturale,
è stata data anche ai nostri tre studenti disabili.
Il momento più bello, comunque, è stato il lunedì
successivo, quando i ragazzi erano tutti lì,
pronti a spalare.
Parlando con i ragazzi, come faccio sempre,
realizzi proprio quante siano le loro speranze
che spesso noi adulti bruciamo.
In casi come questi ti accorgi di quanto
siano meravigliosi. Meravigliosi veramente.
Quella mattina ero al lavoro
in azienda.
Del rischio esondazione
mi aveva avvisato
un mio vicino di casa:
“L’acqua arriverà anche da voi”.
Per fortuna ho ascoltato il suo
avvertimento. Ho perciò tolto
tutte le macchine, quelle nuove
e quelle vecchie, ho cercato
di mettere al riparo computer,
documenti dell’ufficio, ho impilato
una scrivania sopra l’altra,
gli armadietti, tutto quanto…
poi ho spostato tutte le attrezzature
sopra ai ponti, confidando nel fatto
che anche se fosse arrivato
un metro d’acqua sarei riuscito
a salvare tutto.
Invece non ho salvato niente,
perché l’acqua ha toccato
i due metri e mezzo.
Ho perso tutto in soli trenta minuti.
Continuando l’acqua
ad aumentare velocemente,
sono salito di corsa al piano
di sopra: quando è arrivata
a due gradini da me,
ho rotto una vetrata
e sono fuggito sulla grondaia.
E mi sono messo in attesa,
con pazienza.
A un certo punto è sopraggiunto
l’elicottero, ma giù c’era un ragazzo
che non sapeva nuotare,
appeso a una pensilina.
Hanno soccorso lui.
Dopodiché, visto che il livello
non cresceva più,
ho preferito aspettare qualcuno
con un gommone piuttosto che
salire sull’elicottero, che poteva
servire a chi era in situazioni
più critiche delle mie. Tra l’altro
soffro anche di vertigini…
Sono stato messo in salvo
nel pomeriggio, verso le diciassette,
dai vicini che stavano andando
a vedere com’era la situazione.
Con il pedalò sono approdati
al primo piano dell’officina.
L’unica nota decisamente
positiva di questa
cosa orrenda dell’alluvione
è stata la grande solidarietà
spontanea mostrata proprio
da quella generazione
che noi troppo spesso
maltrattiamo.
Parlo dei quindici-ventenni
che giudichiamo di solito
fannulloni, sbevazzatori incalliti
e che invece ci hanno dato un
grandissimo schiaffo morale.
Senza di loro, infatti, non
saremmo riusciti in così poco
tempo a rimetterci in piedi.
Vi faccio l’esempio di casa mia:
il giorno dopo la piena, mi sono
trovato davanti dodici persone,
di cui ne conoscevo a stento due
o tre. Erano in maggioranza amici
delle mie figlie.
Bene: questi ragazzini sono
rimasti con noi finché casa
nostra non è stata liberata
completamente dal fango
e dagli arredi che abbiamo
naturalmente dovuto buttare
tutti. Hanno fatto un lavoro
impagabile e oltretutto, nei dieci
giorni successivi, si è creato un
legame prima inimmaginabile.
Quei ragazzini son diventati
quasi dei figliocci.
E quanta allegria, quanto
entusiasmo ci hanno regalato.
Perché a un certo punto non è
che puoi solo piangerti addosso:
dopo i primi momenti, anzi, è
stato un picnic e una merenda
continui!
Adesso questi ragazzi mi
vengono a trovare al mare:
il legame tra noi non si è estinto.
Noi adulti siamo spesso ciechi.
Di solito il sabato non lavoriamo,
ma in vista del ponte del primo
maggio, ho chiesto all’operaia
di venire.
E’ stata la mia salvezza:
insieme abbiamo buttato giù
mezzo capannone... quanto
abbiamo corso!
In questo modo abbiamo però
salvato moltissime cose.
E’ andata molto peggio nel
capannone vecchio,
quello di dietro, perché l’acqua
ha rotto le stanghe.
Abbiamo lavorato sodo.
La domenica dopo eravamo
in ventisette persone a pulire.
La solidarietà è stata tanta:
di solito io sono una donna
molto coraggiosa.
Mi basta solo che Dio
mi dia salute e lavoro,
per il resto non chiedo niente.
Però è stata dura ripartire.
Quella mattina doveva venire
l’operaio a lavorare,
ma mi ha chiamato dicendomi
di non riuscire a raggiungerci:
la strada era bloccata.
Io gli ho suggerito
di passare per le Bettolelle
e alla fine è arrivato.
C’è molta acqua per strada,
mi ha riferito.
Così sono andato a controllare
e ho visto che il fiume stava
straripando.
Abbiamo cominciato a spostare
sui tavoli tutta la roba che stava
per terra.
In mezz’ora era già tutto allagato.
Poi è arrivata Neda, le ho dato
gli stivali per farla entrare,
ma dopo non siamo potuti
più uscire.
Allora ho rotto la porta
posteriore del capannone.
Già verso le undici l’acqua
ha preso a calare.
Siamo riusciti ad andare a casa:
alle due e mezzo non c’era più
niente, solo fango.
Abbiamo pulito per
giorni e giorni.
Nel brutto di ciò
che ci è capitato mi ha colpito
molto quanta gente
si è rimboccata le maniche.
Anche chi non ne era stato
direttamente interessato
ha infatti spalato il fango,
è andato a predere i panni
degli alluvionati
e li ha lavati in lavatrice,
ha guardato i bambini
di chi era impegnato
ad aiutare.
Il risvolto positivo della nostra
pessima esperienza è questo:
la scoperta che la solidarietà
è nel dna dei senigalliesi.
Siamo rimasti bloccati
fino alle sei e mezzo
del pomeriggio davanti
alla scuola.
A un certo punto mi sono
buttata nella fiumana,
convinta che l’acqua
si fosse abbassata.
E invece non era così.
Ho rischiato anzi
che mi portasse via
perché c’era corrente.
L’ultimo pezzo l’ho percorso
aggrappandomi ai muretti
delle ville: una pessima idea,
dato che alcuni di questi poi
sono crollati.
Alla fine ce l’ho fatta
ad arrivare a casa,
ma lungo il tragitto
ho visto scene che penso
non dimenticherò mai.
Entrando, mi è saltato
addosso il cane,
spaventatissimo.
Sembrava proprio che mi
dicesse: “Non mi lasciare,
non mi abbandonare qui!”.
La vicina, rimasta bloccata
al piano superiore,
mi ha poi raccontato
di averlo sentito piangere
e abbaiare ininterrottamente.
Che impressione, inoltre,
infilarsi con le gambe
in quello schifo di fango.
Dopo, infatti, mi sono venute
delle bolle.
Lì per lì non ci pensi che
possa essere poco igienico,
ma poi, riflettendoci...
Sono rimasta per qualche
ora sul muretto vicino
al mio negozio, agganciata
a un palo, nell’attesa
che passasse qualcuno.
C’è stato un momento
in cui è arrivata la piena
da due vie, con una violenza
enorme e un rumore
assordante indimenticabile.
Le gambe non le sentivo più.
In un secondo rivedi il film
della tua vita. Poi subentra
il freddo, fino a che non ti si
allarga il cuore quando scorgi
uno lembo di stoffa rossa
e dici: “Ok, sono arrivati
a soccorrermi”.
Dopo non hai il coraggio
di entrare, non hai
il coraggio di guardare,
non hai il coraggio di fare
assolutamente niente.
In seguito però ti rimbocchi
le maniche, cominci, butti
fuori, lavori, incurante di
quello che succede intorno.
Vuoi solo la normalità.
Quel che mi ha fatto peggio,
però, è stato beccare
tre individui che tentavano
di entrare nel negozio.
Senza pensare alle
conseguenze, ho chiesto
che cosa stessero cercando.
So di aver rischiato, c’era
anche mia figlia con me,
ma in quel momento tutta
la rabbia che provavo
è esplosa così.
Un’esperienza del genere
ti segna. Capisci di essere
assolutamente solo, anche
se intorno a te c’è altra gente
che butta la spazzatura
e lava via il fango.
Chiusa la finestra,
hai comunque l’impressione
che gli altri non abbiano
più nessun problema,
mentre tu sei ancora
devastato.
Abito in una zona della città
considerata a rischio:
quando si teme un’alluvione,
in genere, ci allertiamo
a vicenda.
Stavolta però è andata peggio.
Chi si poteva aspettare,
infatti, che l’acqua salisse
a due metri e quaranta
in mezz’ora?
Già dal mattino, comunque,
avevamo spostato dal garage
gli attrezzi che usiamo
per il campo, oltre agli animali
e alle automobili.
Purtroppo però, in un attimo,
si è sfondato il portone
e una delle porte
dell’appartamento di mia nonna
si è chiusa, perché si apre
tirando dall’esterno.
Non ce la facevamo ad aprirla:
un vero guaio, visto che era la
nostra unica via di scampo.
Ne siamo usciti vivi saltando
giù dalle finestre, un rischio che
lì per lì non puoi che correre.
Quello è stato il momento più
drammatico.
A chi oggi mi chiede se rifarei
le stesse cose, direi di sì, ma
forse in più lascerei una finestra
aperta, perché ce la siamo vista
davvero brutta!
Quella mattina
ero in casa da sola.
Sono scesa per
attivare la pompa,
ma è arrivata un’altra ondata
e allora sono tornata dentro.
Guardavo fuori
e ne arrivava sempre di più.
Lì per lì non mi sono resa
conto del pericolo:
sì, c’è un po’ d’acqua,
mi dicevo, ma pensavo
si sarebbe fermata.
Invece in dieci minuti
è entrata dappertutto:
dalle fessure, non so neanche
quali, dal battiscopa,
dalle prese della luce,
nello scantinato.
Sembrava una cascata.
Sono salita al piano superiore
senza sapere cosa fare.
E in ogni caso,
quel poco che fai
si rivela inutile.
Pazienza per le cose
che abbiamo buttato:
man mano ci si riassesta.
L’importante
è svegliarsi al mattino
e vedere il sole.
In dieci minuti
devi decidere
cosa lasciare
e cosa prendere:
ho salvato l’ecografia
dei bambini.
Non avevamo
alcun tipo d’informazione,
eravamo disorientati.
Senza i nostri amici che ci
hanno aiutato fin da subito,
non so come saremmo riusciti
a tornare alla normalità.
Mia figlia Greta inventava
canzoni allegre.
La mattina mio marito mi ha consigliato di non uscire.
Poi è andato in perlustrazione e mi ha riferito
che era tutto pieno d’acqua. E io di rimando:”Ma dai,
non mi mettere paura. Tante volte lo dici e poi non
succede niente. E poi romperanno da qualche parte,
no?”. Quanta ignoranza, la mia.
Tornata a casa con la spesa, ho preso a preparare
l’arrosto per la cena e ho cominciato a sentire che
giravano i Carabinieri e la Protezione Civile. Allora
mi sono accorta che all’altezza della villa di fronte
al casello dell’autostrada già c’erano venti centimetri
d’acqua e pure dietro casa nostra ce n’era già
parecchia. Per proteggerci, abbiamo addossato
delle tavole al portone, ma il livello saliva ancora,
così ho chiamato mio marito dicendogli di lasciare
la macchina dov’era e di venire subito a casa.
L’acqua, intanto, ci aveva accerchiati. Era proprio
un’onda, come quelle del mare, solo che era tutta
di fango. Abbiamo messo il frigo sopra al tavolo,
per cercare di salvarlo, ma l’acqua cresceva
e cresceva, e quello alla fine s’è rovesciato.
Le porte scardinate, non sapevamo più come uscire.
L’acqua era troppo alta e girava a mulinello attorno
alla rotatoria.
Indescrivibile, mostruoso.
Non sentivo già più le gambe, quando abbiamo deciso
di prendere una scala. Con quella mio figlio è saltato
giù dalla finestra; io temevo di non farcela e invece,
poi, con l’aiuto di mio marito, ci siamo arrampicati
sul muretto e da lì, siamo scesi dall’altra parte
della rete. Sulla rotatoria c’era già una decina
di persone. Stiamo fermi, dicevano, altrimenti
la corrente ci porta via.
Era freddo, tanto. Ho iniziato a tremare e battere
i denti anche per la paura… poi un ragazzo
della Protezione Civile ci ha aiutato a spostarci
in un punto più sicuro.
Lì l’acqua non c’era, ma completamente zuppa
com’ero stavo quasi per svenire. Con noi c’erano
alcuni studenti usciti prima da scuola: pure loro
erano bagnati, ma non come noi.
Alla fine dei ragazzi di Pesaro ci hanno portati in salvo
con un gommone dall’altro lato del ponte.
Lì c’era una mia amica, che mi chiamava, ma io
proprio non la sentivo. E lei poi mi ha detto: “Se ti fossi
specchiata in quel momento…”.
Due giorni dopo esserci trasferiti a casa di mia suocera,
ha ricominciato a piovere: la vista del fango
e il rumore dell’acqua che scrosciava
mi hanno fatto stare malissimo.
Sento ancora l’acqua che mi gira intorno alla vita.
Ho perduto ricordi,
libri, tutto.
La furia dell’acqua ha frullato
i mobili come una centrifuga
e anche quello che si è
salvato alla fine
è risultato inutilizzabile,
impregnato com’era di fango.
Nella disgrazia, però,
ho trovato anche un lato
buono: ho risanato i muri
di casa mia, io che di solito
lo faccio per gli altri.
E poi sono riuscito a non
perdere la testa, al contrario
di tanta gente.
Ma i segni rimarranno
per sempre.
Il fango
avanzava piano
come un serpente.
Ho cominciato a piangere
disperatamente:
avevo capito
che non c’era più nulla
da fare.
L’acqua entrava da una grata
con la forza di un idrante.
Ho messo in salvo il cane
e il pappagallino.
Sono andata al piano
superiore da mia suocera:
mentre ero lì ho avuto paura
di perdere mio marito,
perché lui era rimasto
al piano di sotto
e io non sapevo più che cosa
stesse succedendo.
Sono uscito
quando l’acqua
mi arrivava al petto.
Sono rimasto dentro casa
fino all’ultimo,
come il comandante
di una nave.
Man mano che l’acqua saliva,
ho avuto la consapevolezza
di aver perduto tutto.
Avevo paura solo perché
non sapevo dove fosse
mia figlia.
Mi sono seduto in cucina
e quando sono rimasto solo
mi sono messo a piangere.
Ricominciare tutto daccapo
è difficile, pensavo,
ma ho due figli
e non si può far altro
che andare avanti.
La capanna dietro casa era
il luogo dove erano stipate
tutte le mie cose.
Ora è completamente vuota.
Mio fratello
abita a Ostra Vetere
e questo è stato
il suo avvertimento:
“Preparatevi, perché arriverà
qualcosa di grosso”, e io ho
pensato: “Mah, arriverà un po’
d’acqua, ma poca”…
Verso le dieci ho sentito
delle urla, mi sono affacciata
e ho visto l’acqua che arrivava
e aumentava.
I vicini di sotto piangevano.
Poi sono saliti e siamo rimasti
tutti qua, assiepati tra le scale,
il mio appartamento e quello
della vicina.
Poi è arrivata una famiglia
che dormiva in un camper
poco distante: al risveglio
l’aveva trovato allagato!
La donna era incinta e aveva
un’altra bambina di sei mesi.
Sono stati soccorsi da un
ragazzo che abita lì vicino.
La notte non sapevamo
come sistemarci: ho aperto
il divano letto e l’ho ceduto
ai ragazzi del camper che
vi hanno dormito tutti insieme.
Il mio compagno, invece,
non era tornato e non sapevo
neanche dove fosse.
Quel sabato siamo rimasti
sempre lì, fino alla sera.
Abbiamo acceso le candele
e il ragazzo del camper,
un artista di strada, ha tirato
fuori la chitarra e ha
cominciato a suonare.
E’ stato bello…
Beh, bello è una parola
grossa… però è stata una cosa
che ci ha uniti.
Quella mattina ero a casa
e leggevo tranquillamente
un libro: la sorte ha voluto
che fosse di Stephen King.
Seduto sul divano, non mi
ero accorto di niente. Sentivo
soltanto un gran gorgoglio,
ma segni evidenti
nella stanza non ce n’erano.
Pensavo anzi di aver lasciato
il rubinetto aperto, finché
non ho socchiuso la porta
della cucina e mi sono ritrovato
completamente inondato.
L’acqua vorticava
e io ero nel mezzo.
Uscito in giardino,
ho controllato i gatti. Solo uno
su quattro si era infangato:
da nero era diventato marrone.
Mentre cercavo di arrivare
al piano superiore passando
per il cornicione, mi sono
accorto che dentro casa di mio
fratello c’era rimasto
il cane. Per fortuna è arrivata
la Protezione Civile a salvarlo.
La mia casa era inagibile
e io sono stato ospitato
in un albergo, ma lì mi sentivo
smembrato, per cui a un certo
punto ho deciso di rientrare
e sistemare una stanza per me.
Ho riallestito la cucina per farmi
il caffè la mattina.
Quando ho aperto i cassetti,
mi sono reso conto che forse
era il caso di gettare tutto.
Quindi ho pensato: “Vabbè,
sarà il momento buono per
cambiare guardaroba!”.
I ragazzi che mi hanno aiutato
mi chiamavano zio
e mi dicevano: “Noi da qui non
ce ne andiamo finché non ti
vediamo tranquillo”. Ecco,
questa è stata davvero
una cosa meravigliosa.
Ho cercato di prenderla con
filosofia, insomma, e lo faccio
ancora adesso. Tutto qua.
Ero al lavoro ad Ancona
dalle sei del mattino.
Verso le undici è saltata
la linea telefonica
e lì ho cominciato a capire che
qualcosa non andava.
Tornando a Senigallia,
nel primo pomeriggio,
ho avuto la conferma
del dramma in corso.
Di sicuro, mi sono detto, la casa
di mio fratello sarà alluvionata.
Sceso dal treno, per prima cosa
ho messo al riparo le auto,
la mia e quella di mio padre.
Volendo a tutti i costi
raggiungere quest’ultimo,
ho utilizzato il sottopasso della
stazione, l’unico che non era
allagato. Arrivando alla rotatoria
della Rotonda, ho però trovato
uno scenario incredibile:
nel punto in cui l’acqua
del mare e l’acqua fangosa
si incrociavano, si vedevano
proprio il blu e il marrone
che si mischiavano.
Ho percorso tutto il lungomare
per raggiungere il Ponte Rosso,
punto di partenza dei reparti
speciali dei pompieri.
A un certo punto qualcosa
mi ha buttato giù, non so se
fosse un tombino: in ogni caso,
l’acqua a mulinello, torbida,
mi ha fatto sbattere le ginocchia
a terra più volte, così ho preso
un bastone e appoggiandomi
a quello, sono andato avanti.
Insieme al reparto speciale
dei pompieri, è arrivato un
gruppo di bagnini di salvataggio,
provvisti di gommone,
che hanno fatto da gondolieri
trasportando la gente
dal mare al Ponte Rosso.
In certi punti, però, l’acqua
era così bassa che bisognava
trascinare l’imbarcazione
a spinta: è stato allora che ho
incrociato i loro sguardi
e un sorriso
è affiorato sui nostri volti.
Senso di colpa per essere
rimasto incolume, rabbia
e infine voglia di aiutare gli altri:
sono questi i sentimenti
che mi hanno spinto
a organizzare
una raccolta fondi.
All’inizio avremmo voluto
appoggiarci a qualcuno, ma
alla fine ho rotto gli indugi
e abbiamo aperto
un conto in banca, sempre
in collaborazione con la Caritas,
Abbiamo realizzato
la maglietta con la scritta
#amollomanonmollo,
ed è stata una cosa indovinata.
Da lì è partita un’avventura
ancora più grande, che sta
tuttora proseguendo.
L’edicola è infatti diventata
un punto d’incontro
per le persone che avevano
bisogno non solo
di informazioni, ma anche
di una pacca sulla spalla.
Ho sentito tantissime
testimonianze: c’era chi veniva
a prendere la maglietta
da regalare a un amico,
chi la prendeva per sé come
ricordo. C’è pure chi è venuto
a fare consistenti donazioni.
La cosa che più mi è rimasta
impressa? L’intrusione
dell’acqua negli affetti.
Molta gente, infatti, non mi
parlava tanto della perdita
del forno o del televisore,
quanto di quella delle foto,
dei libri.
La sera andavo a casa
con il magone: vivevo
le storie che mi raccontavano
direttamente sulla mia pelle.
L’acqua ci ha proprio corrosi
nell’intimo.
Per fortuna l’acqua
si è fermata prima,
ma comunque la domenica
pomeriggio siamo andati
a controllare la nostra
lavanderia self service,
di solito quel giorno
non ci siamo.
Mentre eravamo lì,
è arrivata un sacco di gente
che voleva lavare i vestiti
che era riuscita a recuperare.
Il giorno dopo abbiamo
lavorato ininterrottamente
dalle 7 alle 23, senza neanche
mangiare: fuori dalla lavanderia
c’erano venti metri in fila
di panni da lavare.
La cosa è andata avanti per
due settimane di seguito,
durante le quali ne abbiamo
sentite di tutti i colori.
I primi giorni vedevi queste
persone completamente
sotto shock, lo sguardo perso
e gli abiti e il corpo infangati,
che non sapevano
dove potersi lavare.
C’era chi non aveva l’acqua,
chi più niente.
Man mano che ritornavano
con altra roba ritrovata,
ti accorgevi che avevano
un aspetto migliore
e con quello un po’ di speranza.
Dopo un’esperienza
del genere, diretta o indiretta,
hai meno certezze.
Anche chi non è stato colpito,
ha scoperto una fragilità
che non pensava di avere.
Ero in Spagna quel sabato:
mia mamma era appena
uscita dall’ospedale
e io ero partito su insistenza
di mia sorella. “Ma cosa vuoi
che succeda in questi giorni!”,
mi aveva detto
sentendomi titubante.
Senonché, collegandomi
a Facebook, ho visto
una foto dei pompieri
sul gommone davanti
ad una rotatoria.
Allora ho cercato
di contattare i miei,
ma non è stato possibile.
Rientrato la domenica
pomeriggio, pareva di stare
in una zona di guerra.
Irreale.
Abbiamo avuto
la concreta percezione
di ciò che era successo
solo quando abbiamo
portato fuori casa i mobili:
in tre giorni la via è stata
completamente invasa.
Impressionante l’eco
delle stanze,
vuote e fredde.
Mia figlia ed io siamo rimaste
bloccate a scuola fino
alle sette di sera.
In quelle ore ci siamo trasformati
in una piccola comunità
di autoaiuto.
La sera, poi, abbiamo dormito
da mia madre, non avendo
la più pallida idea di cosa fosse
successo alla nostra casa,
anche se lo intuivamo.
La mattina di domenica
eravamo tantissimi.
Per un certo tempo sono
rimasta pietrificata: non riuscivo
a organizzare un pensiero né a
mettere in fila le cose da fare.
Sapevo solo che la mia vita
era stata rivoluzionata.
Dopo la prima settimana,
c’è stato un lento ritorno alla
normalità, le ragazze a scuola.
Dove fare, però, i compiti, se non
sai dove sono finiti i libri,
i quaderni?
Era tutto mescolato: vestiti,
documenti, pentole e coperte.
Gli amici, all’inizio, si sono offerti
di aiutarci e durante l’estate
abbiamo cominciato a sostituire
gli oggetti andati persi
con cose nuove.
Però non puoi rifare tutto,
se non lo avevi programmato.
E tuttavia, fatta salva la vita,
tutto il resto sono solo cose.
Me lo hanno fatto capire bene
proprio le mie figlie. Quando
ho detto loro di pensare di aver
perso tutto e di vivere ogni cosa
ritrovata come un regalo, loro
mi hanno risposto: “Davvero
mamma si può far a meno
di tante cose”.
La piccola ha anzi proprio detto:
“Fortuna non è capitato a quei
vecchini: meglio noi che loro”.
Mi è stato tanto d’insegnamento.
Erano due notti che non dormivo
perché pioveva molto, e avendo
avuto già dieci centimetri d’acqua
in casa nel 2007, mi sentivo
piuttosto in ansia.
Quando mi sono addormentata,
tra l’altro, ho fatto pure un sogno
angosciante: vedevo quest’acqua
nera, una barca che ne era in
balia, io sulla terraferma, come
sulla banchina del porto.
A un certo punto mi arrivavano
addosso tante scarpe ed io
riconoscevo che erano mie,
cercavo di prenderle,
ma facendolo, quelle si
staccavano a pezzi. Poi mi
ritrovavo davanti a casa, facevo
per prendere la macchina che
però non partiva e una signora
mi diceva: “Ma tanto non può
partire, non vede che ci sono
dei tronchi? Finché non hanno
sistemato non può partire”.
Ed è stato davvero così. Anzi,
molto peggio.
Di scarpe ne ho buttate via tante
e su quelle che ho salvato l’acqua
ha lasciato segni.
La macchina non s’è più spostata,
perché tornando da scuola,
l’ho lasciata posteggiata dietro
a un albero: anche se non è stata
travolta, però non si è mossa più.
E’ andata direttamente
alla rottamazione.
Rientrando a casa, ho visto come
un’onda, solo che era marrone.
Dal terrazzo della vicina guardavo
il fiume di fango. Quel boato forte,
solo dopo ho saputo che era
il rumore dell’esplosione dei tubi
sul Ponte Rosso.
A parte questo, c’era un silenzio
incredibile, ancora più spaventoso.
Per cercare di calmarmi, tenevo
d’occhio la P di un cartello
stradale, perché sapevo che
quando l’acqua fosse arrivata
a quell’altezza, sarebbe entrata
anche dall’altra parte della casa,
che a quel punto si sarebbe
allagata del tutto.
Quando si è fermata, ho pensato
che allora le camere erano salve.
La sera è stata squarciata ogni
tanto dagli allarmi delle auto
che si erano scontrate,
gli sportelli aperti
e la puzza di nafta.
Poi è arrivata la notte,
che non passava mai.
Alle cinque della mattina
seguente, come ho visto il sole,
sono scesa nel fango e ho provato
ad aprire la porta di casa,
che faceva resistenza.
Entrando, ne ho capito il perché:
i mobili erano tutti rovesciati
e ammassati verso l’ingresso.
A quel punto ho esclamato
che volevo andare via,
che non volevo vedere altro.
In giro per la città non c’era
anima viva. Mi sembrava
di essere quasi l’unica
sopravvissuta di una catastrofe.
Per strada tanto fango molle.
Mi ha raggiunta una macchina
della Polizia e mi ha chiesto
se avessi bisogno di qualcosa,
io non so neanche
cosa ho risposto.
Poi sono andata da mio padre,
perché non ne avevo avuto più
notizie. Ho suonato al campanello,
ma non mi ha risposto nessuno,
il telefono era scarico e a quel
punto mi sono sentita persa,
così sola com’ero, al freddo,
sotto quella luce irreale.
Mi sono diretta verso il mare.
Appoggiata a un muro, solo allora
sono scoppiata. Ho urlato e pianto.
Poi ho aspettato che facesse
giorno. Alle sette ho cominciato a
chiamare dalla finestra, finché non
mi hanno sentito e aperto.
Da quel momento niente è stato
più come prima.
Abbiamo sentito un boato:
la porta laterale
della falegnameria
è stata letteralmente
sfondata dalla potenza
dell’acqua.
Gli oggetti disposti in alto
sono precipitati giù.
Ci siamo riparati al primo piano,
completamente bagnati,
però lì eravamo al sicuro.
Il problema era il mattino
e la sera, quando tutti
andavano via
e rimanevi da solo.
Non riuscivi a credere che
fosse successo davvero.
Devastante.
Sono stato allertato
del pericolo dai nonni.
Neanche il tempo
di realizzare, che avevamo
già l’acqua in casa.
Con mia sorella abbiamo
chiuso le porte e le finestre,
ma mentre cercavamo
di tappare le fessure
con degli stracci,
mi sono girato e ho constatato
che parte della casa
era già allagata: l’acqua era
entrata dalla cantina.
Ci siamo rifugiati sul letto
a castello di mia sorella,
dove avevamo cercato
di portare le cose più
importanti.
Da lassù abbiamo visto i mobili
che cadevano e i divani che
galleggiavano per casa.
Quando ci siamo resi conto
che l’acqua stava quasi
entrando dalle finestre,
abbiamo deciso di andare dalla
signora che abita sopra di noi,
arrampicandoci
con il cane aggrappato a me.
Siamo rimasti da lei
tutta la notte.
L’altra sorella, bloccata
sul ponte, si è rifugiata
dal ragazzo, che abita vicino
all’ospedale, e lì si è resa
conto che nessuno di loro
sapeva cosa stesse accadendo
dall’altra parte della città.
Sono stato avvertito,
ma credevo che fosse
la solita ondata di trenta,
quaranta centimetri,
per cui ho messo tutto
in sicurezza per quell’altezza lì.
Caricati i camion,
stavo per andarmene
quand’ecco
che è arrivata l’onda...
una cosa assurda!
Alta un metro,
un metro e mezzo,
si è infranta contro una fila
di fabbriche allineate, divise
l’una dall’altra da stradine.
In una di queste ci trovavamo
io, un amico e i cani.
L’acqua ci ha risucchiati
in uno scivolo che viaggiava
a una velocità pazzesca
e con una pressione
indescrivibile, stracolma
com’era di fango.
Abbiamo sentito addosso
un peso che non provi
assolutamente quando vai
a nuotare, scendendo
dagli scogli del mare.
E poi ho pure rischiato
di affogare, perché,
dopo aver messo in salvo
tre cani, ho visto il quarto
bloccato sulla recinzione
del capannone a fianco;
quindi ho cercato
di andarlo a prendere
a nuoto, con indosso stivali
e giaccone, senza pensare
alle conseguenze.
A quelle ci pensi dopo,
quando qualcuno te lo fa
presente: in quel momento
contava solo il mio cane.
Quando l’acqua è entrata
in casa, sono rimasta
con un piede incastrato
sotto un mobile e non riuscivo
a liberarlo.
Ero sola, quando finalmente
ce l’ho fatta e sono salita
al piano superiore,
non riuscivo a trovare
il mio gatto: sentivo
dei rumori, ma non capivo
dove fosse.
La sera mi hanno portato via
con il canotto.
Ringrazio tutti quelli
che hanno cucinato
per l’intero quartiere,
con grande abilità e qualità.
Non riusciremo mai
ricomprare quello
che abbiamo perso,
ma almeno tra noi abbiamo
vissuto in amicizia
e solidarietà.
Adesso spesso giochiamo
a carte.
Ero a casa dei miei e stavo per pranzare prima
di andare al lavoro. Mi ha chiamato mia madre
e mi ha detto “Guarda che c’è il fiume che sta uscendo.
Bisogna portarsi ai piani alti per sicurezza”.
Io però volevo controllare di persona,
così sono andato giù al fiume e mi è sembrato
che la situazione fosse tranquilla.
Verso l’una e un quarto mia madre ha gridato: “Eccola,
eccola, arriva arriva arriva!”. Era acqua marrone,
ho provato a spazzarla via con una scopa, mentre
mio padre è andato a prendere delle tavole da fissare
al cancello. Ma era troppo tardi: l’acqua è entrata
e noi abbiamo cercato di portare più cose possibili su,
finché quella, gelata, non ci è arrivata alle cosce.
A quel punto ci siamo ritirati sopra, le facce attaccate
alle finestre, per vedere se smetteva di piovere.
Poi sono andato a casa mia, aggrappandomi alle grate
dei cancelli per non farmi sbattere nell’acqua,
che mi era già arrivata alla vita. A metà tragitto,
mi sono imbattuto nel canotto dei pompieri: qui l’onda
toccava il metro e venti, così mi sono girato per tornare
dai miei. Solo che non vedevo più nulla: in mezzo
a tutto quel marrone avevo perso i punti di riferimento
e anche se conosco la strada a memoria,
ero totalmente disorientato.
Con i miei abbiamo mangiato delle scatolette di tonno,
al lume di candela.
Poi, sfiniti, verso le undici ci siamo addormentati,
ma già alle sei del giorno dopo io ero sulla strada
di casa mia. Ho dovuto sfondare il portone a calci
e spalle. “No, no, no!”, ho gridato vedendo tutta la roba
venuta giù. Un po’ alla volta, abbiamo cominciato
a pulire. Per fortuna ci hanno aiutato gli uomini
della Protezione Civile.
Per caso mi sono imbattuto nel postino: guardandoci,
ci siamo messi a piangere.
Il calvario è durato due settimane: eravamo fuori
dal mondo, senza macchine, senza internet,
senza telefoni, solo fango. Ho dovuto trasferire
mezza casa sulla via, idem hanno fatto i vicini,
tanto che a un certo punto hanno dovuto chiuderla
al traffico. C’erano materassi, poltrone, di tutto.
Dopo un po’ di tempo sono arrivate le ruspe
e i muletti a portar via le macerie.
Giorni di fango e umidità davvero allucinanti.
Poi avevo paura degli sciacalli, ma nonostante tutto
dovevo mangiare e occuparmi del cane.
Dall’incubo sono uscito solo venti giorni dopo, quando
sono rientrato al lavoro e ho rivisto i miei: parlando,
mi sono sfogato e ho ritrovato un po’ di normalità.
O almeno qualcosa di simile.
Vivo e lavoro a Pesaro,
ma i miei genitori abitano a Senigallia.
Ho saputo dell’alluvione da Facebook,
visto che i telefoni non funzionavano.
Mia sorella aveva postato varie foto
in cui si vedeva bene l’evolversi
della situazione.
Mi ha fatto molta impressione
lo scatto di mio padre
che si adoperava per salvare
i nostri sette cani:
aveva l’acqua alle ascelle,
ma ciononostante è riuscito
a spostarli tutti dal giardino
al primo piano della nostra villetta.
Per mia fortuna conosco di persona
il grosso degli amici che ho
sul social network, per cui
il giorno dopo la tragedia,
quando ho raggiunto i miei genitori,
erano lì ad aiutarci in venti.
Veri angeli del fango.
In pensione da un paio d’anni,
i miei avevano archiviato tutta
la loro vita privata e professionale
in garage. In un attimo è andato
tutto distrutto, tutto spazzato via.
Ho creduto di impazzire,
quando mi sono trovata a lavare fogli
di carta e cose apparentemente
non importanti.
A distanza di tempo, però,
abbiamo finito per rivivere
quella drammatica esperienza
proprio perché non siamo stati
capaci di buttare molte altre cose,
come suppellettili, divani, armadi.
Questi ultimi, infatti, come il legno
si è asciugato, hanno cominciato
a scoppiare internamente
e a cedere.
E tuttavia mi ritengo comunque
fortunata: grazie ai risparmi
accumulati negli anni precedenti,
siamo riusciti a ricomprarci
anche le auto.
E ciò ci ha restituito
l’indipendenza.
Eravamo all’hotel,
sul nostro posto di lavoro.
Quando ho saputo che il Misa
esondato era già
alla Chiesa del Portone,
ho preso subito l’auto
dirigendomi in quella direzione.
L’acqua, però, veniva verso
di me, per cui sono
immediatamente tornato
indietro per avvertire gli altri.
Per prima cosa, abbiamo
tentato di mettere in salvo
le auto, le nostre
e quelle dei clienti.
Purtroppo non è bastato.
Benché l’hotel e il parcheggio
siano più in alto rispetto
alla strada, l’onda
ci ha raggiunti ugualmente,
a una velocità che mai
avremmo immaginato.
Nonostante i gravi danni subiti,
siamo però riusciti a tenere
sotto controllo la situazione.
A darci una notevole mano,
i volontari, che abbiamo
ringraziato moltissimo durante
e dopo l’accaduto, ma anche
le aziende di servizi e gli operai
che lavorano normalmente
per noi.
Ho appreso dell’alluvione
dai telegiornali
e da Facebook:
in quel momento ero a Roma.
Tornato in città, mi sono
diretto verso casa,
nel quartiere Portone.
Per prima cosa ho visto
la mia auto con i finestrini
aperti e il fango
fino al volante.
In casa l’acqua è entrata per
circa cinquanta centimetri:
poco rispetto ad altre famiglie
della zona, quindi ritengo
di essere stato fortunato.
Per risistemare tutto, ci sono
volute tre settimane, ma più
che la fatica fisica,
mi sono rimasti impressi
i visi dei vicini.
A distanza di tre mesi, alcuni
di loro non sono ancora
riusciti a rialzare la testa.
Partito la mattina per Macerata, ho appreso
quel che stava succedendo dai notiziari. Tornato
indietro, ho cercato di raggiungere la mia parrocchia
al Portone, ma me l’hanno impedito: l’acqua era già
arrivata. Mi sono ritrovato a guardarla dal ponte,
in mezzo a tanta altra gente, in prevalenza
commercianti e persone del quartiere che vivono
al piano terra. Tra loro tanta rabbia e spavento.
Non potendo rientrare, ho passato la notte
da un amico: il parroco e il seminarista, invece,
erano rimasti bloccati dentro la parrocchia.
Mi sembrava tutto ovattato, sospeso: era come se fossi
approdato in un’altra dimensione, come se mi trovassi
all’improvviso in una città galleggiante, come Venezia.
E tuttavia non era poi così brutto: ho anzi avuto la
voglia di entrarci ancora di più in questo nuovo mondo.
Già sveglio alle sei e tre quarti del giorno dopo,
sono tornato in parrocchia.
Dopo il giorno dell’acqua, era arrivato il giorno
del fango. Ho avvertito l’urgenza di pulizia, un po’ come
quando hai una macchia addosso e ti vuoi cambiare.
Nel giro di poche ore, si è riempito di gente: molti
hanno chiesto che cosa si poteva fare e, armati
dei propri stracci, hanno portato fuori dalla chiesa
tutte le panche e le hanno pulite. Due giorni dopo
la chiesa era tirata a lucido, così gli uffici.
E così, già dal terzo giorno, sono potuto andare
nelle case a svolgere il mio compito di sacerdote.
Vestito solo con pantaloncini e maglietta,
ho dato il mio aiuto in anonimato: lì per lì diverse
persone non mi hanno riconosciuto.
Alcuni, una volta scoperto che ero il viceparroco,
ne sono rimasti sbalorditi.
L’aggettivo che associo più spesso a quei giorni
è evangelico. Per strada ho trovato proprio il Vangelo,
fatto di rispetto, premura, gioia, consolazione,
tutto vissuto in modo non costruito, non dovuto.
Per me è stato proprio come se il manto di Dio si fosse
esteso su questo popolo colpito.
E’ stata un’ondata d’amore.
Poi, certo, ho raccolto anche tante imprecazioni,
ma poche dirette a Dio: il grosso se l’è presa con gli
uomini che non hanno avvertito dell’arrivo della piena.
Qualcuno, magari, si è chiesto perché Dio li stesse
mettendo alla prova, ma sempre con fiducia.
Già lo sapevo, ma con questa esperienza ne ho avuto
la conferma: siamo un popolo che non perde mai
la speranza e la fede nella possibilità di ricominciare.
Come sacerdote che lavora a contatto con la gente
sono proprio fortunato, perché mi sento riconosciuto
nel mio ruolo di accompagnamento e di vicinanza.
Eravamo tutti bagnati fino allo stomaco.
Adesso che faccio?, ti dici, e poi cerchi il punto
dal quale guardare se l’acqua cresce ancora.
Il tempo di contare gli scalini e senti le urla dei vicini.
La tua roba galleggia: i giorni successivi ti capita
di ritrovare cose che non sai come siano finite lì.
Il panico non ti lascia, anche quando è tutto più
tranquillo.
La paura, invece, è arrivata nei giorni successivi.
Lì per lì sentivi solo impotenza.
Adesso, quando la notte piove, danno l’allerta meteo:
alle tre e mezzo di notte senti l’altoparlante dei Vigili
che intima di andare ai piani alti. In quei momenti
ti si ferma il respiro e vedi solo le cose brutte.
Però, in effetti, ci sono state anche tante cose belle.
Quanti sconosciuti ci hanno chiesto se potevano
aiutarci. Noi eravamo già una bella squadra, quindi
dicevamo loro di andare da altri.
Tanti anziani si saranno abbattuti, pensavo, e invece,
molte volte sono stati loro a dare conforto a noi giovani.
“Sono anziano, la roba non m’interessa”, dicevano,
“invece chi è giovane deve andare avanti”.
Visto che avevamo ancora la macchinetta del caffè,
alla fine abbiamo fatto da baristi per tutto il quartiere.
Per giorni abbiamo pulito, prendendoci una pausa
solo quell’oretta a pranzo.
Una grossa mano ci è stata data dall’associazione
“Amici solidali dell’Unità”, che prima aveva pulito
il circolo Arci a Borgo Bicchia, dove c’è una cucina
industriale: nonostante il forno fosse stato sommerso,
sono riusciti a farlo ripartire e hanno cucinato per tutti.
Molti di quelli che hanno aiutato hanno preferito
rimanere nell’ombra, magari perché non potevano
metterci la faccia. Però sono stati assai preziosi:
per esempio, vari centri commerciali, che hanno
mandato la pasta in scadenza, gli alberghi
con i loro prodotti e in particolare un macellaio
che una sera c’ha dato un sacco di carne:
tipo un quintale di salsicce!
In certi momenti piangi, perché pensi
a ciò che non hai più.
Però poi senti dire da chi ha perso poco
che in fondo non ha perso niente; ma ti colpisce
soprattutto ciò che dice chi ha perso tutto:
“Vabbè, ma almeno sono vivo”.
Un signore mi ha gridato:
“Saverio, Saverio, sposta la
macchina!”. In quel momento
stavo riposando: ho avuto giusto
il tempo di portarla altrove.
Due o tre minuti dopo essere
rientrato in casa, dov’era rimasta
mia moglie, l’acqua ha sommerso
la cantina e il garage. Da noi è
arrivata all’altezza delle ginocchia.
Siamo riusciti a mettere in salvo
i due gattini e il cagnolino, tanto
impauriti, poi abbiamo passato
la notte dalla vicina che vive
al piano superiore.
I giorni successivi il nostro amico
barbiere ci ha ospitato nella sua
mansarda, di fronte a casa, fino
a quando non siamo stati in grado
di tornare alla normalità.
Dopo un mese ho riacquistato
i materassi e siamo rientrati.
Man mano abbiamo sistemato
quel che si poteva, ma la botta
subìta è stata tremenda. Solo se
hai disponibilità economica riesci
a far fronte a tutto: con quello
che ci ha dato la Caritas
ci abbiamo fatto poco o niente...
Sono tornato da Pesaro
passando da Montemarciano.
All’altezza della Chiesa
del Portone mi hanno bloccato.
Da lì ho visto il disastro.
Come tutti gli abitanti della mia
zona, ho subìto danni.
Tutti i miei libri fondamentali
sulla storia di Senigallia
non ci sono più: erano frutto
di una raccolta realizzata
in circa cinquant’anni.
Molte erano edizioni storiche
e lim
14. Persone contattate per partecipare, molte.
Persone coinvolte nel progetto 76.
Tempo di raccolta materiale 6 mesi.
Tempo di editing, variabile.
Corse agli ostacoli, molte!
Copertura economica:
sponsorizzazioni, autofinanziamento e vendita.
Pubblico alla mostra 1800 persone circa.
Le foto della mostra sono state regalate ai soggetti fotografati.
Presentazioni pubbliche 11.
Libri distribuiti 55%
Libri venduti 75% (del distribuito).
Copertura media
stampa e tv locali
Comune di Senigallia
pagina Facebook del progetto.
Affissioni e distribuzione flyer.
“Un regalo che gli allvionati si sono fatti a loro stessi”
15. Progetto
La paura rimane ogni volta che piove
Autoproduzione di
Paolo Monina e Maria Loreta Pagnani
Collaborazioni
Associazione Culturale Gent’d’S’nigaja
Patrocinio
Comune di Senigallia
Curatore, graphic design
Maria Loreta Pagnani
Fotografo
Paolo Monina
Artefatti
Libro
Anno di produzione
2015