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Normale e “altro” nel diritto del lavoro. Primi appunti

di Lorenzo Gaeta

1. Premessa. – 2. Un passato. Il diritto del lavoro come selezione degli interlocutori. – 3.
Un futuro. Contro la mercantilizzazione del diritto del lavoro.



1. Premessa

Lo scopo di questo brevissimo contributo è praticamente impossibile: si tratta, infatti, di dar
conto dei rapporti tra normalità e diversità, tra “ordinario” e “speciale”, nei vari momenti
dell’ormai lunga storia del diritto del lavoro e di tracciare qualche linea di previsione e di
auspicio per il futuro più immediato.
Davanti all’enormità di un compito del genere, risponderò in un modo assolutamente
parziale, sicuramente discutibile e volutamente provocatorio. Forte di qualche precedente
nella materia (quando, con l’aiuto di valenti amici, ho studiato il “diritto diseguale” che
veniva fuori dalla legislazione sulle azioni positive ed ho inquadrato le innumerevoli
sfaccettature dell’“alterità” nel lavoro e nel diritto), cercherò in primo luogo di leggere il
nesso tra chi è dentro e chi è fuori, tra chi è tutelato e chi è escluso, se non discriminato, in
una prospettiva diacronica. Ipotizzerò – per fare questo – una particolare traccia di rilettura
del complesso percorso storico del diritto del lavoro: di alcuni suoi momenti si proporrà
una sorta di (personalissima) istantanea da cui risulterà, ora più nitido ora più sfocato, un
modello che tiene conto di alcune costanti. Infatti, come punto di partenza immagino il
diritto del lavoro alla stregua di un complesso di regole posto sempre e comunque da un
establishment – anche se spesso corretto dalle istanze rappresentative dei contropoteri
sociali – in relazione a determinati obiettivi di volta in volta giudicati meritevoli di essere
perseguiti. Perciò, e schematizzando al massimo, il diritto del lavoro è ripercorribile in ogni
suo momento per il fatto che si è deciso di volta in volta di individuare, definire e
circoscrivere sostanzialmente due tipi di “interlocutori”: dei soggetti collettivi, investiti di un
potere di rappresentanza, coi quali relazionarsi nei modi più diversi allo scopo di
determinare ed emanare le regole; tanti soggetti per lo più individuali, che sono i
destinatari delle regole, e dai quali ci si aspetta un determinato comportamento, sempre in
ragione del perseguimento di un obiettivo o di una funzione di fatto svolta, ora più ora
meno consapevolmente, emanando regole lavoristiche selettive.



2. Un passato: il diritto del lavoro come selezione degli interlocutori

A) In principio era la libertà contrattuale: questa formula magica occulta – nemmeno tanto
bene – la potestà assoluta di chi detiene gli strumenti di produzione nei confronti di chi, a
seguito dell’industrializzazione, si è visto spossessato della sua tecnica e del suo tempo,
ed è costretto a inurbarsi nelle strutture delle grandi fabbriche. Perciò, il diritto del lavoro
delle origini presenta già, verso la fine del XIX secolo, il marchio caratteristico di tutela del
contraente debole. La “legislazione sociale”, costituita da tanti interventi frammentati e
scoordinati, non consente certo di individuare una categoria teorica in qualche modo
come può esserlo un fuorilegge. Si tratta ancora di un diritto del lavoro brutalmente
arcaico, che sembra voler ammorbidire le rigidità eccessive dell’approccio privatistico, ma
alla fine svolge più che altro la funzione di favorire il decollo industriale e il consolidamento
delle prime grandi realtà capitalistiche, per una via in qualche modo controllata e
pianificata.

B) Nei primi decenni del Novecento il diritto del lavoro, al di là delle sue prime
consapevolezze di incarnare una materia “antagonista”, si sviluppa nel senso di
consolidare il destinatario privilegiato. Sul versante dell’individuale, si fanno largo
prepotentemente – sulla scia della fondamentale opera di Lodovico Barassi – le
teorizzazioni a tutto campo, che cominciano a dar vita alla categoria “fondante” della
subordinazione, con la conseguente creazione di un “prototipo” ben individuato, che è
ancora il lavoratore della grande fabbrica industriale, questa volta assurto, però, a
idealtipo di natura generale. Questa tendenza vira poi gradualmente verso un altro vicino
obiettivo, quando comincia a tessersi una rete di tutele che poco alla volta avvolge le
fasce impiegatizie, con l’evidente scopo di accattivarsi i ceti medi. Si agisce, poi, sulla
definizione dell’collettivo, innestando i primi meccanismi di riconoscimento “selettivo” della
libertà sindacale, della contrattazione collettiva e dell’autotutela, in un sapiente gioco di
divieti e aperture condizionate; il riconoscimento opera più di fatto che “di diritto”, ma
riesce comunque – o proprio per questo – a perseguire il suo obiettivo. Entrambi i tipi di
individuazione (di sicuro il primo) convergono nella creazione di figure in certo qual modo
“solide” e disponibili, che si possano rivelare in seguito possibili interlocutori morbidi e
affidabili. E il ceto “imperturbabilmente borghese” della dottrina dominante si impone come
rotagonista di molte selezioni che condizioneranno indelebilmente il futuro applicativo delle
tutele, segnando il solco tra “normale” e “speciale” per tutti gli anni a venire. Il diritto del
lavoro dei due primi decenni del XX secolo cerca di farsi spazio come materia molto più
matura e più solida, autoconsapevole e irresistibilmente liberale; la sua è ora quella di
rafforzare e radicare su solide basi, teoriche e non solo, il potere economico di uno Stato
ormai più che cinquantenario, rivolgendosi ad una controparte non addomesticata, ma
ragionevole e comprensiva.

C) Il diritto del lavoro corporativo si limita a rafforzare in senso autoritario le funzioni già
solidamente acquisite nel periodo liberale. Il destinatario individuale della tutela lavoristica
privilegiata muta quasi impercettibilmente: le regole della politica sociale fascista
selezionano tra i ceti medi quell’interlocutore ragionevole che nel contempo assicuri e
propagandi il consenso al regime. Contemporaneamente viene attivato un meccanismo
più forte di selezione, che emargina di fatto o addirittura espelle senza mezzi termini intere
fasce considerate di rango inferiore, prima con la disincentivazione e ghettizzazione del
lavoro femminile, poi con le vere e proprie discriminazioni razziali. Ma è sul versante della
scelta dell’interlocutore collettivo che il fascismo giuridico rivela il suo volto più tipico,
procedendo alla puntuale creazione di un soggetto sindacale questa volta davvero
addomesticato, che viene incorporato nelle strutture stesse dell’economia statale. Un
puntello giuridico è fornito da meccanismi già collaudati e patrocinati da un compiacente
ceto giuridico in periodo liberale, solo riproposti ora in una variante “autoritaria”:
l’inderogabilità del contratto collettivo e il divieto dello sciopero, per citare solo i più
importanti. Mentre un supporto imprescindibile alla politica sociale del consenso è dato
D) La Costituzione, “antagonista” rispetto allo sconfitto regime, non riesce a trovare
cittadinanza nel mondo del lavoro. Anzi, il diritto del lavoro degli anni ’50 (e della prima
metà degli anni ’60) del secolo scorso è orientato all’annichilimento delle sue garanzie,
che restano “di carta”, consentendo la mano libera alle imprese e i comportamenti più
vessatori nei confronti di una classe ormai arroccata sulla più estrema difensiva. Il
versante collettivo è dominato dalla negazione dei diritti sindacali, soprattutto all’interno
dei luoghi di lavoro; nella logica della guerra fredda, la posizione nei confronti
dell’interlocutore collettivo è talmente di forza che spesso non si ha bisogno di dialogare
con esso. Sul versante individuale, di conseguenza, il destinatario della tutela tipica è
preferibilmente il lavoratore “decostituzionalizzato”, privato dei diritti che pure avrebbe e
succube del libero potere imprenditoriale: è lui a ricevere qualche blando favore – spesso
di natura clientelare – che lo lega all’establishment in cambio della “pace sociale”. Le
teorie giuridiche che prendono rapidamente il sopravvento, anche grazie all’autorevolezza
dei loro paladini (in primo luogo, Francesco Santoro Passarelli), propongono una visione
neoprivatistica del diritto del lavoro, anche come reazione alla pubblicizzazione spinta del
corporativismo; ma spesso finiscono col fornire lo spunto a letture (più o meno
consapevolmente) riduttive dei diritti del lavoratore, soprattutto in campo sindacale.
Operando queste selezioni, il diritto del lavoro del dopoguerra fa palesemente da sostegno
alla ricostruzione delle fabbriche e dell’economia, e poi alla realizzazione di un “boom”
spesso fittizio e solo per i ceti medio-alti. Sulla carta è un diritto aperto, nella prassi è
subdolamente forte; la sua ricerca dell’interlocutore accomodante segue percorsi contorti e
talvolta sotterranei, ma alla fine efficaci.

E) L’era della contestazione generale pare aprire un momento davvero nuovo per il diritto
del lavoro, che sembra ora mutare decisamente funzione. Sul versante collettivo, il
sindacato – quello unitario – è uscito rafforzato dalle lotte “calde” di quegli anni e riesce a
farsi cucire addosso una legislazione lavoristica su misura per il suo sostegno. Sul piano
individuale la scelta dell’interlocutore è indirizzata in buona sostanza all’esaltazione della
realtà di vertice del conflitto sociale, ovvero l’operaio massa della fabbrica industriale
medio-grande, che diventa il vero e proprio eroe protagonista di quel poema epico che per
molti è, e resterà, lo Statuto dei lavoratori. Ma tutto il resto dell’universo lavorativo non
esiste, o emerge poco, in quei tempi di rigide certezze disegnate coi tratti forti di un diritto
del lavoro “ad una dimensione”, che non ha altro riferimento se non la fabbrica. In questo
scenario propizio, si fanno largo teorie giuridiche – i cui iniziatori sono Gino Giugni e
Federico Mancini – che mettono in primo piano i risvolti sociali e politici dei temi affrontati,
attente anche a quel che succede fuori dei confini nazionali. Il diritto del lavoro è diventato
più aperto e garantistico, anche se – con ogni probabilità – si tratta dell’unica risposta
sensata che l’establishment può dare in quel momento per tenere a bada il peso enorme
dell’azione collettiva; il garantismo, ancora una volta, è però estremamente mirato. È
l’esaltazione del diritto del lavoro monolitico, granitico, tutto d’un pezzo. Tutto dura solo
pochi anni, anche se – come spesso accade – certe eredità diventano poi forti e, per
qualcuno, anche ingombranti.

F) Molte cose cambiano con la crisi degli anni più bui. Il diritto del lavoro degli “anni di
piombo” fa, spesso bruscamente, marcia indietro. Davanti all’appello a rimboccarsi tutti
insieme le maniche, il soggetto collettivo forte è costretto ad attestarsi sulla difensiva, e
“perdente” – l’eroe degli anni d’oro sconfitto da imperscrutabili forze esterne – si può
cucire addosso un diritto del lavoro molto più segmentato, studiato per il caso singolo,
derogabile, a termine, con eccezioni, cavilloso, che cerca di assolvere, dove può, all’unica
funzione di rattoppare una situazione che le imprese sentono come molto grave. Eppure è
lui il destinatario privilegiato della materia, o meglio di quel poco che si può ancora
distribuire; chi è fuori non vive tempi molto felici.

G) La situazione viene soltanto raffinata quando negli anni ’80 parte la stagione della
concertazione. Il sindacato viene neocorporativamente richiamato nelle istituzioni, e
(anche per questo) continua a perdere consensi, ora ancora a favore delle istanze
autonome, ora però anche per una contestazione “da sinistra”, che qualche volta comincia
a privilegiare la pistola alla dialettica anche dura. La normativa erosiva dei diritti non è più
calata dall’alto dopo una contrattazione (anche se forzatamente accondiscendente), ma è
concordata in accordi trilaterali che hanno natura giuridica e politica ben diversa, e che –
per inciso – colorano gradatamente alcuni istituti, segnatamente il contratto collettivo, di
suggestioni pubblicistiche. Il nuovo diritto del lavoro tende a ricompattarsi, l’interlocutore
collettivo selezionato è diventato talmente affidabile che lo si lascia entrare nella stanza
dei bottoni, anche se si ha cura che non possa premerne molti. Il punto di riferimento
individuale su cui si addensa l’interesse del diritto del lavoro di questo momento è ora quel
lavoratore che riesce a rimanere, o ad entrare, all’interno di una cittadella sempre più
selettiva nelle ammissioni (pur se ancora zeppa di imbucati e “portoghesi”) e fortificata nel
respingere gli assalti esterni. Fuori di essa, infatti, preme un intero universo –
assolutamente disomogeneo – di soggetti esclusi, che possono essere forti (talvolta
fortissimi) e non più bisognosi di tutele, ma che sono soprattutto deboli, talvolta
debolissimi: il diritto del lavoro troppo spesso finge di non vederli e di non riconoscerli
come lavoratori degni di beneficiare a pieno delle sue cogenti garanzie.

H) Questa funzione del diritto del lavoro ad un certo punto si intreccia con quella
frammentata del diritto del lavoro postmoderno, che si sviluppa non solo (o non tanto) per
l’invasione delle nuove tecnologie quanto per un più complessivo riflusso neoliberista della
società e di un mondo del lavoro sempre più multiculturale, globalizzato e flessibile. La
materia è ormai esplosa, qualcuno ne preconizza addirittura la fine, proprio per il venir
meno del suo punto storico di riferimento (non accorgendosi che il diritto del lavoro è
sempre stato molto bravo a cambiare pelle, adattandosi ad ogni mutamento). Tutto è
plurale, ogni cosa va per proprio conto. Non c’è più una tutela, ma le tutele; non c’è più la
subordinazione, ma le subordinazioni; perciò, non c’è più un interlocutore ma tanti
interlocutori, rispetto a molti dei quali gli strumenti giuridici adoperabili paiono extra-
lavoristici, con operazioni che si risolvono sostanzialmente nel ripescaggio del contratto. Il
diritto del lavoro in senso stretto – che ormai presenta i tratti di disciplina meno garantista
e più derogabile – esiste solo per fasce sempre meno rilevanti di soggetti, individuali e
collettivi; il resto è fuori, se è tutelato lo è da qualcos’altro che col diritto del lavoro ha
qualche parentela, spesso neanche ravvicinata. Si intensificano gli appelli a ripensare e a
rinnovare la materia, pena la sua estinzione, o la trasfigurazione in qualcosa di diverso. E
proprio in questo contesto appare la sinistra scia del “diritto del lavoro insanguinato”,
segnato dal martirio di Massimo D’Antona e Marco Biagi, pacificatori sociali.
indeterminato, segnano il passaggio dalla dimensione collettiva all’individualizzazione, una
disgregazione in cui prevale, di fronte al lavoratore, il cittadino. Via via, però, questo
processo di individualizzazione determina l’impoverimento di una concezione “politica” dei
diritti di cittadinanza; la solidarietà che è alla base del sistema di sicurezza sociale cede il
passo a forme mercantilizzate di assistenza.
Ed è proprio il difficile e problematico impatto con il mercato, con le sue leggi di
funzionamento, a determinare o quantomeno rafforzare, così come ormai riconosciuto dai
più avvertiti economisti, diseguaglianze ed emarginazioni, mettendo quindi in discussione
categorie teoriche per il passato univoche. È il caso del binomio lavoro-sviluppo che ha
acquistato una poliedricità di senso e di significati tale da determinare la “rottura” di un
legame per il passato considerato inscindibile: maggior sviluppo equivale a maggior lavoro
e viceversa. È qui emblematico il dibattito sulle nuove figure e i nuovi modelli di
organizzazione del lavoro, il lavoro che “diminuisce” e il lavoro che “cresce”. La
subordinazione del lavoro al mercato, alle leggi ed alle logiche dei consumi, con l’unica
propensione al massimo profitto e con l’abbandono delle ragioni “nobili” della politica e
della morale rende arido il lavoro, alimentando la costruzione di identità “disumanizzate”,
dominate dalla necessità o dalla propensione al consumo di beni. Nella definizione o
ridefinizione delle varie figure emergenti di lavoro – a tempo parziale, temporaneo,
autonomo nelle sue varie forme – si riscopre la necessità di guidare e controllare, nel
piccolo spazio che residua ai governi ed ai sistemi nazionali, le politiche complessive di
sviluppo, di intervento, di distribuzione, per evitare che esse, univocamente orientate alle
sole esigenze di mercato, creino diseguaglianze intollerabili.
In una prospettiva analoga si colloca tutta la problematica, appena accennata sopra, dei
rapporti con quella che non è certo una “minoranza”, ovvero l’universo femminile, che ha
storicamente, però, sempre espresso posizioni deboli che richiedono ed in alcuni casi
rivendicano una maggior tutela: da quello che è stato definito “diritto diseguale” fino alle
più recenti strategie di mainstreaming, per individuare misure idonee a garantire la tutela
del lavoro femminile e delle pari opportunità con interventi mirati di politica attiva. E
l’elenco delle “diversità”, esterne ed interne, potrebbe durare davvero all’infinito.
Conclusivamente, la problematica dell’alterità costituirà di sicuro un nodo essenziale del
dibattito scientifico nel prossimo futuro; un dibattito reso attuale dai processi di
globalizzazione e di interdipendenza che superano lo spazio fisico e temporale di un
dialogo prossimo tra estranei. Si renderà necessario un impegno a cui non si riuscirà a far
fronte con la predisposizione di modelli giuridici, rigidi e predefiniti, di tutela indifferenziata
del lavoratore da parte dello Stato; questo è chiamato piuttosto ad assumere un ruolo di
garante delle politiche concertative di sviluppo e di tutela delle situazioni soggettive in
gioco. La creatività della riflessione scientifico-giuridica si rivolgerà quindi alla
configurazione di un sistema che sappia declinare in modo vario ed articolato il principio di
“eguaglianza non omogenea”.
Ed al centro di questo futuro dibattito, l’incontro con l’altro che si manifesta sulla scena
pubblica e nello specifico di una relazione lavorativa con tutto il suo bagaglio di tradizioni e
di cultura, e reclama il riconoscimento della cittadinanza, impegnerà non poco la vigile
attenzione di quanti si pongono in atteggiamento critico verso forme di mercantilizzazione
liberista generatrici di diseguaglianza e di emarginazione. L’obiettivo è, allora, quello della
elaborazione di un modello normativo che, cercando modi di coesistenza con razionalità
(anche “interne”) ad esso estranee, faccia del riconoscimento dell’eguale valore dell’altro

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Scritti Persiani

  • 1. Normale e “altro” nel diritto del lavoro. Primi appunti di Lorenzo Gaeta 1. Premessa. – 2. Un passato. Il diritto del lavoro come selezione degli interlocutori. – 3. Un futuro. Contro la mercantilizzazione del diritto del lavoro. 1. Premessa Lo scopo di questo brevissimo contributo è praticamente impossibile: si tratta, infatti, di dar conto dei rapporti tra normalità e diversità, tra “ordinario” e “speciale”, nei vari momenti dell’ormai lunga storia del diritto del lavoro e di tracciare qualche linea di previsione e di auspicio per il futuro più immediato. Davanti all’enormità di un compito del genere, risponderò in un modo assolutamente parziale, sicuramente discutibile e volutamente provocatorio. Forte di qualche precedente nella materia (quando, con l’aiuto di valenti amici, ho studiato il “diritto diseguale” che veniva fuori dalla legislazione sulle azioni positive ed ho inquadrato le innumerevoli sfaccettature dell’“alterità” nel lavoro e nel diritto), cercherò in primo luogo di leggere il nesso tra chi è dentro e chi è fuori, tra chi è tutelato e chi è escluso, se non discriminato, in una prospettiva diacronica. Ipotizzerò – per fare questo – una particolare traccia di rilettura del complesso percorso storico del diritto del lavoro: di alcuni suoi momenti si proporrà una sorta di (personalissima) istantanea da cui risulterà, ora più nitido ora più sfocato, un modello che tiene conto di alcune costanti. Infatti, come punto di partenza immagino il diritto del lavoro alla stregua di un complesso di regole posto sempre e comunque da un establishment – anche se spesso corretto dalle istanze rappresentative dei contropoteri sociali – in relazione a determinati obiettivi di volta in volta giudicati meritevoli di essere perseguiti. Perciò, e schematizzando al massimo, il diritto del lavoro è ripercorribile in ogni suo momento per il fatto che si è deciso di volta in volta di individuare, definire e circoscrivere sostanzialmente due tipi di “interlocutori”: dei soggetti collettivi, investiti di un potere di rappresentanza, coi quali relazionarsi nei modi più diversi allo scopo di determinare ed emanare le regole; tanti soggetti per lo più individuali, che sono i destinatari delle regole, e dai quali ci si aspetta un determinato comportamento, sempre in ragione del perseguimento di un obiettivo o di una funzione di fatto svolta, ora più ora meno consapevolmente, emanando regole lavoristiche selettive. 2. Un passato: il diritto del lavoro come selezione degli interlocutori A) In principio era la libertà contrattuale: questa formula magica occulta – nemmeno tanto bene – la potestà assoluta di chi detiene gli strumenti di produzione nei confronti di chi, a seguito dell’industrializzazione, si è visto spossessato della sua tecnica e del suo tempo, ed è costretto a inurbarsi nelle strutture delle grandi fabbriche. Perciò, il diritto del lavoro delle origini presenta già, verso la fine del XIX secolo, il marchio caratteristico di tutela del contraente debole. La “legislazione sociale”, costituita da tanti interventi frammentati e scoordinati, non consente certo di individuare una categoria teorica in qualche modo
  • 2. come può esserlo un fuorilegge. Si tratta ancora di un diritto del lavoro brutalmente arcaico, che sembra voler ammorbidire le rigidità eccessive dell’approccio privatistico, ma alla fine svolge più che altro la funzione di favorire il decollo industriale e il consolidamento delle prime grandi realtà capitalistiche, per una via in qualche modo controllata e pianificata. B) Nei primi decenni del Novecento il diritto del lavoro, al di là delle sue prime consapevolezze di incarnare una materia “antagonista”, si sviluppa nel senso di consolidare il destinatario privilegiato. Sul versante dell’individuale, si fanno largo prepotentemente – sulla scia della fondamentale opera di Lodovico Barassi – le teorizzazioni a tutto campo, che cominciano a dar vita alla categoria “fondante” della subordinazione, con la conseguente creazione di un “prototipo” ben individuato, che è ancora il lavoratore della grande fabbrica industriale, questa volta assurto, però, a idealtipo di natura generale. Questa tendenza vira poi gradualmente verso un altro vicino obiettivo, quando comincia a tessersi una rete di tutele che poco alla volta avvolge le fasce impiegatizie, con l’evidente scopo di accattivarsi i ceti medi. Si agisce, poi, sulla definizione dell’collettivo, innestando i primi meccanismi di riconoscimento “selettivo” della libertà sindacale, della contrattazione collettiva e dell’autotutela, in un sapiente gioco di divieti e aperture condizionate; il riconoscimento opera più di fatto che “di diritto”, ma riesce comunque – o proprio per questo – a perseguire il suo obiettivo. Entrambi i tipi di individuazione (di sicuro il primo) convergono nella creazione di figure in certo qual modo “solide” e disponibili, che si possano rivelare in seguito possibili interlocutori morbidi e affidabili. E il ceto “imperturbabilmente borghese” della dottrina dominante si impone come rotagonista di molte selezioni che condizioneranno indelebilmente il futuro applicativo delle tutele, segnando il solco tra “normale” e “speciale” per tutti gli anni a venire. Il diritto del lavoro dei due primi decenni del XX secolo cerca di farsi spazio come materia molto più matura e più solida, autoconsapevole e irresistibilmente liberale; la sua è ora quella di rafforzare e radicare su solide basi, teoriche e non solo, il potere economico di uno Stato ormai più che cinquantenario, rivolgendosi ad una controparte non addomesticata, ma ragionevole e comprensiva. C) Il diritto del lavoro corporativo si limita a rafforzare in senso autoritario le funzioni già solidamente acquisite nel periodo liberale. Il destinatario individuale della tutela lavoristica privilegiata muta quasi impercettibilmente: le regole della politica sociale fascista selezionano tra i ceti medi quell’interlocutore ragionevole che nel contempo assicuri e propagandi il consenso al regime. Contemporaneamente viene attivato un meccanismo più forte di selezione, che emargina di fatto o addirittura espelle senza mezzi termini intere fasce considerate di rango inferiore, prima con la disincentivazione e ghettizzazione del lavoro femminile, poi con le vere e proprie discriminazioni razziali. Ma è sul versante della scelta dell’interlocutore collettivo che il fascismo giuridico rivela il suo volto più tipico, procedendo alla puntuale creazione di un soggetto sindacale questa volta davvero addomesticato, che viene incorporato nelle strutture stesse dell’economia statale. Un puntello giuridico è fornito da meccanismi già collaudati e patrocinati da un compiacente ceto giuridico in periodo liberale, solo riproposti ora in una variante “autoritaria”: l’inderogabilità del contratto collettivo e il divieto dello sciopero, per citare solo i più importanti. Mentre un supporto imprescindibile alla politica sociale del consenso è dato
  • 3. D) La Costituzione, “antagonista” rispetto allo sconfitto regime, non riesce a trovare cittadinanza nel mondo del lavoro. Anzi, il diritto del lavoro degli anni ’50 (e della prima metà degli anni ’60) del secolo scorso è orientato all’annichilimento delle sue garanzie, che restano “di carta”, consentendo la mano libera alle imprese e i comportamenti più vessatori nei confronti di una classe ormai arroccata sulla più estrema difensiva. Il versante collettivo è dominato dalla negazione dei diritti sindacali, soprattutto all’interno dei luoghi di lavoro; nella logica della guerra fredda, la posizione nei confronti dell’interlocutore collettivo è talmente di forza che spesso non si ha bisogno di dialogare con esso. Sul versante individuale, di conseguenza, il destinatario della tutela tipica è preferibilmente il lavoratore “decostituzionalizzato”, privato dei diritti che pure avrebbe e succube del libero potere imprenditoriale: è lui a ricevere qualche blando favore – spesso di natura clientelare – che lo lega all’establishment in cambio della “pace sociale”. Le teorie giuridiche che prendono rapidamente il sopravvento, anche grazie all’autorevolezza dei loro paladini (in primo luogo, Francesco Santoro Passarelli), propongono una visione neoprivatistica del diritto del lavoro, anche come reazione alla pubblicizzazione spinta del corporativismo; ma spesso finiscono col fornire lo spunto a letture (più o meno consapevolmente) riduttive dei diritti del lavoratore, soprattutto in campo sindacale. Operando queste selezioni, il diritto del lavoro del dopoguerra fa palesemente da sostegno alla ricostruzione delle fabbriche e dell’economia, e poi alla realizzazione di un “boom” spesso fittizio e solo per i ceti medio-alti. Sulla carta è un diritto aperto, nella prassi è subdolamente forte; la sua ricerca dell’interlocutore accomodante segue percorsi contorti e talvolta sotterranei, ma alla fine efficaci. E) L’era della contestazione generale pare aprire un momento davvero nuovo per il diritto del lavoro, che sembra ora mutare decisamente funzione. Sul versante collettivo, il sindacato – quello unitario – è uscito rafforzato dalle lotte “calde” di quegli anni e riesce a farsi cucire addosso una legislazione lavoristica su misura per il suo sostegno. Sul piano individuale la scelta dell’interlocutore è indirizzata in buona sostanza all’esaltazione della realtà di vertice del conflitto sociale, ovvero l’operaio massa della fabbrica industriale medio-grande, che diventa il vero e proprio eroe protagonista di quel poema epico che per molti è, e resterà, lo Statuto dei lavoratori. Ma tutto il resto dell’universo lavorativo non esiste, o emerge poco, in quei tempi di rigide certezze disegnate coi tratti forti di un diritto del lavoro “ad una dimensione”, che non ha altro riferimento se non la fabbrica. In questo scenario propizio, si fanno largo teorie giuridiche – i cui iniziatori sono Gino Giugni e Federico Mancini – che mettono in primo piano i risvolti sociali e politici dei temi affrontati, attente anche a quel che succede fuori dei confini nazionali. Il diritto del lavoro è diventato più aperto e garantistico, anche se – con ogni probabilità – si tratta dell’unica risposta sensata che l’establishment può dare in quel momento per tenere a bada il peso enorme dell’azione collettiva; il garantismo, ancora una volta, è però estremamente mirato. È l’esaltazione del diritto del lavoro monolitico, granitico, tutto d’un pezzo. Tutto dura solo pochi anni, anche se – come spesso accade – certe eredità diventano poi forti e, per qualcuno, anche ingombranti. F) Molte cose cambiano con la crisi degli anni più bui. Il diritto del lavoro degli “anni di piombo” fa, spesso bruscamente, marcia indietro. Davanti all’appello a rimboccarsi tutti insieme le maniche, il soggetto collettivo forte è costretto ad attestarsi sulla difensiva, e
  • 4. “perdente” – l’eroe degli anni d’oro sconfitto da imperscrutabili forze esterne – si può cucire addosso un diritto del lavoro molto più segmentato, studiato per il caso singolo, derogabile, a termine, con eccezioni, cavilloso, che cerca di assolvere, dove può, all’unica funzione di rattoppare una situazione che le imprese sentono come molto grave. Eppure è lui il destinatario privilegiato della materia, o meglio di quel poco che si può ancora distribuire; chi è fuori non vive tempi molto felici. G) La situazione viene soltanto raffinata quando negli anni ’80 parte la stagione della concertazione. Il sindacato viene neocorporativamente richiamato nelle istituzioni, e (anche per questo) continua a perdere consensi, ora ancora a favore delle istanze autonome, ora però anche per una contestazione “da sinistra”, che qualche volta comincia a privilegiare la pistola alla dialettica anche dura. La normativa erosiva dei diritti non è più calata dall’alto dopo una contrattazione (anche se forzatamente accondiscendente), ma è concordata in accordi trilaterali che hanno natura giuridica e politica ben diversa, e che – per inciso – colorano gradatamente alcuni istituti, segnatamente il contratto collettivo, di suggestioni pubblicistiche. Il nuovo diritto del lavoro tende a ricompattarsi, l’interlocutore collettivo selezionato è diventato talmente affidabile che lo si lascia entrare nella stanza dei bottoni, anche se si ha cura che non possa premerne molti. Il punto di riferimento individuale su cui si addensa l’interesse del diritto del lavoro di questo momento è ora quel lavoratore che riesce a rimanere, o ad entrare, all’interno di una cittadella sempre più selettiva nelle ammissioni (pur se ancora zeppa di imbucati e “portoghesi”) e fortificata nel respingere gli assalti esterni. Fuori di essa, infatti, preme un intero universo – assolutamente disomogeneo – di soggetti esclusi, che possono essere forti (talvolta fortissimi) e non più bisognosi di tutele, ma che sono soprattutto deboli, talvolta debolissimi: il diritto del lavoro troppo spesso finge di non vederli e di non riconoscerli come lavoratori degni di beneficiare a pieno delle sue cogenti garanzie. H) Questa funzione del diritto del lavoro ad un certo punto si intreccia con quella frammentata del diritto del lavoro postmoderno, che si sviluppa non solo (o non tanto) per l’invasione delle nuove tecnologie quanto per un più complessivo riflusso neoliberista della società e di un mondo del lavoro sempre più multiculturale, globalizzato e flessibile. La materia è ormai esplosa, qualcuno ne preconizza addirittura la fine, proprio per il venir meno del suo punto storico di riferimento (non accorgendosi che il diritto del lavoro è sempre stato molto bravo a cambiare pelle, adattandosi ad ogni mutamento). Tutto è plurale, ogni cosa va per proprio conto. Non c’è più una tutela, ma le tutele; non c’è più la subordinazione, ma le subordinazioni; perciò, non c’è più un interlocutore ma tanti interlocutori, rispetto a molti dei quali gli strumenti giuridici adoperabili paiono extra- lavoristici, con operazioni che si risolvono sostanzialmente nel ripescaggio del contratto. Il diritto del lavoro in senso stretto – che ormai presenta i tratti di disciplina meno garantista e più derogabile – esiste solo per fasce sempre meno rilevanti di soggetti, individuali e collettivi; il resto è fuori, se è tutelato lo è da qualcos’altro che col diritto del lavoro ha qualche parentela, spesso neanche ravvicinata. Si intensificano gli appelli a ripensare e a rinnovare la materia, pena la sua estinzione, o la trasfigurazione in qualcosa di diverso. E proprio in questo contesto appare la sinistra scia del “diritto del lavoro insanguinato”, segnato dal martirio di Massimo D’Antona e Marco Biagi, pacificatori sociali.
  • 5. indeterminato, segnano il passaggio dalla dimensione collettiva all’individualizzazione, una disgregazione in cui prevale, di fronte al lavoratore, il cittadino. Via via, però, questo processo di individualizzazione determina l’impoverimento di una concezione “politica” dei diritti di cittadinanza; la solidarietà che è alla base del sistema di sicurezza sociale cede il passo a forme mercantilizzate di assistenza. Ed è proprio il difficile e problematico impatto con il mercato, con le sue leggi di funzionamento, a determinare o quantomeno rafforzare, così come ormai riconosciuto dai più avvertiti economisti, diseguaglianze ed emarginazioni, mettendo quindi in discussione categorie teoriche per il passato univoche. È il caso del binomio lavoro-sviluppo che ha acquistato una poliedricità di senso e di significati tale da determinare la “rottura” di un legame per il passato considerato inscindibile: maggior sviluppo equivale a maggior lavoro e viceversa. È qui emblematico il dibattito sulle nuove figure e i nuovi modelli di organizzazione del lavoro, il lavoro che “diminuisce” e il lavoro che “cresce”. La subordinazione del lavoro al mercato, alle leggi ed alle logiche dei consumi, con l’unica propensione al massimo profitto e con l’abbandono delle ragioni “nobili” della politica e della morale rende arido il lavoro, alimentando la costruzione di identità “disumanizzate”, dominate dalla necessità o dalla propensione al consumo di beni. Nella definizione o ridefinizione delle varie figure emergenti di lavoro – a tempo parziale, temporaneo, autonomo nelle sue varie forme – si riscopre la necessità di guidare e controllare, nel piccolo spazio che residua ai governi ed ai sistemi nazionali, le politiche complessive di sviluppo, di intervento, di distribuzione, per evitare che esse, univocamente orientate alle sole esigenze di mercato, creino diseguaglianze intollerabili. In una prospettiva analoga si colloca tutta la problematica, appena accennata sopra, dei rapporti con quella che non è certo una “minoranza”, ovvero l’universo femminile, che ha storicamente, però, sempre espresso posizioni deboli che richiedono ed in alcuni casi rivendicano una maggior tutela: da quello che è stato definito “diritto diseguale” fino alle più recenti strategie di mainstreaming, per individuare misure idonee a garantire la tutela del lavoro femminile e delle pari opportunità con interventi mirati di politica attiva. E l’elenco delle “diversità”, esterne ed interne, potrebbe durare davvero all’infinito. Conclusivamente, la problematica dell’alterità costituirà di sicuro un nodo essenziale del dibattito scientifico nel prossimo futuro; un dibattito reso attuale dai processi di globalizzazione e di interdipendenza che superano lo spazio fisico e temporale di un dialogo prossimo tra estranei. Si renderà necessario un impegno a cui non si riuscirà a far fronte con la predisposizione di modelli giuridici, rigidi e predefiniti, di tutela indifferenziata del lavoratore da parte dello Stato; questo è chiamato piuttosto ad assumere un ruolo di garante delle politiche concertative di sviluppo e di tutela delle situazioni soggettive in gioco. La creatività della riflessione scientifico-giuridica si rivolgerà quindi alla configurazione di un sistema che sappia declinare in modo vario ed articolato il principio di “eguaglianza non omogenea”. Ed al centro di questo futuro dibattito, l’incontro con l’altro che si manifesta sulla scena pubblica e nello specifico di una relazione lavorativa con tutto il suo bagaglio di tradizioni e di cultura, e reclama il riconoscimento della cittadinanza, impegnerà non poco la vigile attenzione di quanti si pongono in atteggiamento critico verso forme di mercantilizzazione liberista generatrici di diseguaglianza e di emarginazione. L’obiettivo è, allora, quello della elaborazione di un modello normativo che, cercando modi di coesistenza con razionalità (anche “interne”) ad esso estranee, faccia del riconoscimento dell’eguale valore dell’altro