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Centro Militare di Studi Strategici
RICERCA 2014 - RELINT AH-R-09
Direttori della Ricerca
Prof. Igor JELEN
Prof. Sergio ZILLI
-------
Collaboratori
Dr.ssa Elisabetta BENEDETTI
Dr. Enrico MINIATI
Dr.ssa Erica SPECOGNA
Dr.ssa Carolina STERA
Università di Trieste – Gorizia campus
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali
Corso di Laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche
Progetto “Europa della Difesa”.
Individuazione di un possibile percorso
condiviso verso una Difesa comune.UE
Il Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS), istituito nel 1987, è il Centro di eccellenza del
Ministero della Difesa che, nella complessità degli attuali scenari, gestisce la ricerca su temi a
livello strategico, nell’ottica del perseguimento degli obiettivi che le Forze Armate e più in
generale la collettività nazionale si pongono in tema di sicurezza.
La “mission” del Centro nasce dall’ineludibile necessità della Difesa di svolgere un ruolo di
primo piano nel mondo della cultura e della conoscenza scientifica, allo scopo di contribuire
alla comprensione delle problematiche attinenti la sicurezza nazionale.
In particolare, il CeMiSS:
- effettua studi e ricerche a carattere strategico-politico-militare;
- sviluppa collaborazioni tra le Forze Armate, le Università, i Centri di Ricerca (nazionali
ed esteri) nonché le Amministrazioni Pubbliche;
- forma i ricercatori scientifici militari;
- promuove la specializzazione dei giovani nel settore della ricerca;
- pubblica e diffonde gli studi di maggiore interesse.
Le attività del Centro sono rivolte allo studio di fenomeni di natura politica, economica,
sociale, culturale e militare nonchè all’effetto dell’introduzione di nuove tecnologie, ovvero di
qualsiasi fenomeno che determini apprezzabili cambiamenti dello scenario in termini di
sicurezza.
Tali attività sono prioritariamente orientate al soddisfacimento delle esigenze conoscitive e
decisionali dei Vertici istituzionali della Difesa e tendono, in definitiva, ad un continuo
arricchimento delle conoscenze disponibili, rispondendo a criteri di tempestività e di
accuratezza.
Il CeMiSS svolge la propria opera valendosi di esperti civili e militari (italiani e stranieri) che
realizzano le rispettive analisi senza vincoli di espressione del proprio pensiero.
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
3
Premessa.......................................................................................................................................... 6
Riassunto......................................................................................................................................... 7
Capitolo 1 - Esiste una geopolitica europea?................................................................................ 11
Allargamento verso l’esterno e integrazione verso l’interno - Criticità e opportunità - Reazioni e impatti
anche non intenzionali - Geopolitica dei confini intra–europei - Un’economia di “borderland” -
Allargamento ed espansione dello scenario - Una scala imprevedibile - Una situazione di “gioco” tra poteri
- Il confronto con la Nato - Il confronto con le altre Organizzazioni Internazionali - Il confronto con le
tensioni della globalizzazione
Capitolo 2 - Dalla geopolitica all’integrazione............................................................................. 25
L’integrazione europea e i suoi sinonimi - L’impulso originario all’integrazione - Un processo spontaneo o
una strategia pianificata? - Un artificio geo-strategico? - La teoria civica - Le istituzioni inter- e super-
nazionali in un contesto di società aperta - Un fenomeno in evoluzione - Il “patriottismo” della società
aperta - Un’area di interesse comune per le funzioni della sicurezza - La sfida: mantenere in efficienza gli
apparati “aperti” - Il superamento della discontinuità interno/internazionale - Politiche di coesione sociale e
strutturale
Capitolo 3 - L’integrazione e le sue teorie.................................................................................... 40
L’approccio strutturalista: un effetto della globalizzazione - Una situazione di rischio globale - La teoria
della “governance” - La “governance” come evoluzione spontanea - La “governance” multi-livello:
illusione o prospettiva di un governo internazionale? - Sicurezza attiva e passiva - Definizione di rischio e
di funzione strategica - La “governance” delle funzioni strategiche - L’analisi geopolitica classica - Stati
piccoli e “governance” - La proliferazione di attori non statali: il post fordismo interno/ internazionale -
Scomposizione e ricomposizione dello scenario - Strumenti per produrre sicurezza e rischio di riflessività -
Il lavoro di gruppo e la controllabilità in tempo reale - Tradizioni e culture diverse della sicurezza - Il
contesto e la nuova geopolitica - Il superamento delle forme politiche della modernità - Confusione tra
categorie - Il fenomeno della formazione di un nuovo stato - Possibili evoluzioni in seguito al trattato di
Lisbona - Questione di geostrategia: la Nato e l’egemonia americana - Teorie bio-politiche e organicistiche
- Una teoria esclusivista - La realtà del mescolamento - Le modalità dell’integrazione - Nuovo scenario:
l’inquietudine dei “brics” - Il recupero dell’ideale nazionale in senso identitario
Capitolo 4 – Le funzioni strategiche e il limite dell’integrazione................................................. 71
Dalla geopolitica alla geostrategia - Propositi e possibilità di integrazione in ambito militare - Simboli
nazionali e tradizioni militari - Integrazione per fasi: il limite delle funzioni strategiche - Gli ambiti di
difficile integrazione - Inventario delle funzioni strategiche - Il principio della “letalità” - Il principio di
rischio sistemico - Il rischio degli effetti riflessivi (“insider”) - Il principio dell’immediatezza e della
“readiness” - La teoria della superiorità etica della democrazia - I limiti della “governance” in ambito
militare - Fine e mezzo, elemento e contesto - Il principio di imprevedibilità - Il rischio di conflitto tra
poteri: il tabù europeo - Principio di salvaguardia e di “rischio massimo” - Il rischio da insufficienza di
credibilità - Ideali e teleologia, identità e consenso - L’identità in prospettiva primordialista ed essenzialista
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
4
Capitolo 5 – Il precedente dell’unificazione della moneta: cenni di economia............................ 96
I vantaggi dell’unificazione della moneta - Benefici legati ai costi di transazione - Unione monetaria e
crescita economica - Benefici di un’unione valutaria e grado di internazionalizzazione - Significato
complessivo
Capitolo 6 – Esperienze pregresse di integrazione per funzioni strategiche: cenni storici......... 100
Una contraddizione politica fondamentale - Il precedente della decolonizzazione - L’Anschluss austro-
tedesco - La formazione dell’Urss - La Jugoslavia - L’unificazione italiana - L’unificazione tedesca (1871)
- Nuovo esercito o somma degli eserciti precedenti?
Capitolo 7 - L’Euro difesa oggi .................................................................................................. 107
La difesa europea: lo stato di fatto - La Pesd: definizioni - Elementi della Pesd - Caratteri generali: una
scarsa istituzionalizzazione - Agenzie e missioni: una filosofia di “governance” - Rischio di
sovrapposizione e di duplicazione - Rischio di conflitto di interessi - Lista di agenzie - Politica estera e
sicurezza - Caratteri generali delle agenzie - “European battlegroups” - Nuovi settori di intervento - Dalla
sicurezza passiva a quella attiva - Un quadro diversificato - Prospettive di cooperazione in tema di difesa
europea
Capitolo 8 – L’intersezione tra nuovo modello di difesa e società civile................................... 122
L’evoluzione dei modelli di difesa e sicurezza - La sicurezza tra il “globale” e il “sociale” - Un’evoluzione
verso il sociale - Ruolo dei “media”: “social”, “mass” e di altra natura - L’effetto “panopticon” (“casa di
vetro”) - L’intersezione con i sistemi sociali - La vulnerabilità dei sistemi
Capitolo 9 - Tipo e ambiti di intervento...................................................................................... 129
Azioni e interventi: breve rassegna - Prevenzione e controllo di migrazioni di massa e assistenza rifugiati -
Mantenimento di condizioni di libertà di commercio e di navigazione - Prevenzione catastrofi e crisi non
militari - Fattori di rischio relativi ad accessibilità di strumenti bellici - Caratteristiche dell’intervento
europeo: a) settori a minore impatto sugli equilibri complessivi - b) Prima, durante e dopo il conflitto - c)
Un mix di “soft” e “hard” - Il ruolo dell’UE - Il rischio della formazione di scenari “insider” (“riflessivi”) -
Premesse della dottrina “soft” - Un principio di cautela: capacità tattica e valutazioni di scenario
Capitolo 10 - L’evoluzione del rischio ....................................................................................... 141
Nuovi fattori di rischio a scala sempre più ampia - Le “key threats” della ESS: il dovere di enunciare la
strategia - Rischi regionali e migrazioni di massa - La “cyber security” - European Cyber Security Strategy
- Il rischio terroristico - La predisposizione della scala appropriata di intervento - Le minacce interne
all’apparato: a) eversione e infiltrazioni del crimine organizzato - b) Atti ostruzionistici di tipo “insider” al
sistema - c) La concentrazione di potere e le distorsioni del gioco democratico - Il rischio esistenziale:
imborghesimento e “over complacency”
Capitolo 11: Aspetti operativi dell’integrazione delle funzioni strategiche ............................... 155
Dalla competizione alla collaborazione tra paesi europei - L‘integrazione nel trattato di Lisbona - Posizioni
diversificate - Obiettivi e visione strategica comune - Quadro delle visioni strategiche e geopolitiche
nazionali - Il processo decisionale e il vincolo dell’unanimità - “Risposte rapide” - Il “sistema binario” e il
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
5
processo decisionale europeo: coesione o “impasse”? - Il problema della ripartizione delle spese - Il ruolo
delle forze armate - Una struttura flessibile e adattabile - Mezzi e strumenti: carenze operative - Un
obiettivo di standardizzazione - Riforme economico-industriali: il “pooling & sharing” - La Smart Defence
e la collaborazione con la Nato - Definizione di una “vision” continentale - Linee programmatiche del
Ministero della Difesa italiano - Una minaccia per la Psdc: i partiti euroscettici in parlamento
Capitolo 12 – Cenni conclusivi: le opzioni dell’integrazione..................................................... 172
Il compito dell’Italia durante il semestre di presidenza - Le opzioni per l’integrazione - Opzione “meno
uno”: è possibile tornare indietro? - Il confronto con altre aree - Il costo della non integrazione: il “free
riding” - Opzione “zero” e mantenimento dello “status quo” - Il “duale” ovvero l’integrazione come
strumento per sviluppare economie - Integrazione pesante (“road map”) - Specializzazione e divisione di
funzioni - Un ideale di unificazione e la formazione di un super stato - La proposta di un graduale percorso
di condivisione - Due direttrici di attuazione del progetto - Direttrice 1 – Coordinamento dei tagli ai budget
della difesa - Direttrice 2 – “Civil tasks” - Integrazione e azione combinata con Nato e altri “player”
internazionali - “Club ad invito”: alcuni paesi si specializzano in funzioni di sicurezza “attiva” - Gioco di
ruolo: “governance” come combinazione di poteri e di capacità - Efficienza interna e ciclo delle democrazie
- L’integrazione: una sfida per i sistemi politici più evoluti - Un moltiplicatore di capacità
Fonti citate e consultate............................................................................................................... 192
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
6
Premessa
L’elaborato presenta i risultati della ricerca svolta sulla base della convenzione stipulata tra
Università di Trieste e Centro Militare di Studi Strategici in data 11 giugno 2014, ed ha come
obiettivo lo studio delle varie opzioni in materia di integrazione comunitaria di funzioni strategiche.
La ricerca consiste in un lavoro di gruppo, coordinato da Igor Jelen (che ha redatto i capitoli 1, 4 e
9) e Sergio Zilli (capitoli 2 e 3), cui partecipano Maurizio Stanic (che ha redatto il capitolo 5), Erica
Specogna (capitolo 11 e parte del capitolo 12), Carolina Stera (capitoli 8 e 10), Elisabetta Benedetti
(capitolo 7) ed Enrico Miniati (capitolo 6).
Si tratta di una ricerca svolta sulla base della consultazione di fonti accessibili (“open sources”), tra
le quali sono state privilegiate le fonti scientifiche. Il testo è composto per frasi di struttura
semplice, ed è predisposto per la traduzione automatica in varie lingue – salvo ovviamente tutte le
verifiche del caso, solo per usi provvisori.
Come da accordi, la ricerca considera essenzialmente gli aspetti geopolitici della questione,
tralasciando le tematiche prettamente militari, che sono oggetto di un ulteriore studio, parallelo al
presente.
Il testo è aggiornato a dati e informazioni dell’estate 2014, ed è stato redatto nei mesi
ottobre/novembre 2014.
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
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Riassunto
L’istanza dell’integrazione europea emerge in epoca di secondo Dopoguerra sia come ipotesi geo-
strategica, come risposta alla formazione della frattura bipolare, che come risultato di una proposta
ideale, di respiro più ampio, che dà continuità alla tradizione europeista (elaborata da autori come
Altiero Spinelli, e che ha lontani precursori in Mazzini, Kant e altri pensatori dei secoli precedenti):
una visione che vuole superare la situazione di frammentazione che porta spesso nella storia gli stati
del continente a farsi la guerra tra di loro.
Una situazione indotta dalla stessa geografia europea, straordinariamente articolata ed aperta ad
influssi dall’esterno, che è di ostacolo all’affermazione nel tempo di alcun potere centrale ovvero
egemone su tutto l’ambito continentale: un elemento che di per sé tende a favorire particolarismi e
rivalità, che predispone alla continua formazione di differenziali, ma che nel contempo rappresenta
anche la base per una straordinaria ricchezza culturale.
Successivamente, con il superamento dello scenario bipolare (che aveva indotto a sua volta la
formazione di ideologie terzomondiste e di movimenti di “paesi non allineati”), e delle altre
divisioni planetarie caratteristiche del tardo Novecento, indotte in genere da processi di
modernizzazione (ideologie del progresso e dell’innovazione, e corrispondenti reazioni), la stessa
idea di integrazione si combina a una tendenza di dimensioni ancora più ampie: è il caso della
globalizzazione che, originata da fattori tecnologici e culturali, finisce per configurare un nuovo
ordine geopolitico.
In questo contesto il programma europeista si realizza in modo controverso, con un processo che
per certi aspetti rappresenta indubbiamente un successo (per es. per aver ancorato ad una
consuetudine di democrazia, caratteristica dei paesi dell’Europa occidentale ed atlantica, vari paesi
mediterranei e dell’Europa centro-orientale, che escono abbastanza tardi dalla dittatura), ma che
lascia nondimeno aperte varie questioni, tanto da spingere alcuni autori a parlare di “limiti
dell’integrazione”.
Tra questi il limite economico, che è caratteristico del resto di tutti i sistemi “aperti”, che si fondano
sulla redistribuzione continua di potere, che significa la difficoltà di mantenere un controllo dei
costi di qualsiasi tipo (sociali, territoriali, ambientali, strategici) e quindi di valutare le politiche in
qualsiasi dimensione. Questo in particolare in un contesto di democrazia, soggetta di per sé
all’accumulo di “costi invisibili”, che rappresentano nel tempo una minaccia per la sua stessa
stabilità. In realtà la logica dell'integrazione dovrebbe permettere ai singoli sistemi di ottenere
economie, di mettere in comune risorse e di sviluppare un effetto moltiplicatore, che tuttavia può
realizzarsi solamente sulla base di un’efficiente “accountability”, da applicare anche a funzioni di
difficile misurazione (come quelle di tipo politico, militare e strategico).
In genere, la discussione sul “limite” dell’integrazione riguarda la possibilità di proseguire o meno
il processo, ipotizzando un obiettivo finale di “unificazione”: un processo che fino ad ora – in una
storia di circa mezzo secolo - si è svolto sulla base di una logica che è stata definita “funzionalista”,
che quindi interessa prima di tutto le varianti di base, di tipo territoriale, per poi estendersi agli
aspetti direttamente costitutivi di sovranità (cioè le funzioni strategiche), che tradizionalmente
significano l’essenza stessa del potere statale (secondo una definizione che si è consolidata nei
secoli della modernità).
In queste circostanze i processi di integrazione hanno interessato e continuano ad interessare vari
aspetti della vita degli stati, delle società, degli apparati culturali e della comunicazione,
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
8
dell’organizzazione territoriale ed economica, fino al punto di creare le condizioni per una moneta
unica, una politica economica e finanziaria comuni, e fino al punto che, oggi, la Commissione può
rivendicare una “non minore” legittimazione rispetto ai governi nazionali (in quanto legittimata da
un Parlamento e da elezioni a suffragio universale).1
In realtà, il quadro delle relazioni tra gli attori politici istituiti dal Trattato dell’Unione Europea
(TUE) nella più recente versione (quella di Lisbona) non appare sempre coerente, e piuttosto fa
pensare ad una situazione di “gioco tra poteri” che vengono lasciati interagire fino al punto che – si
presume - prevarranno una prassi e uno schema più definiti: un effetto probabilmente
deliberatamente perseguito e funzionale a un concetto di “governance” (di pesi e contrappesi, di
poteri e contropoteri), e quindi di potere che si realizza per procedure piuttosto che per atti imposti
“dall’alto”.
Un approccio che però per le funzioni strategiche (della cd. “high politics”) presenta aspetti
discutibili: un argomento che lo studio qui presentato vuole affrontare, prima di tutto, collocando il
processo di integrazione in un contesto più vasto, di teorie, prassi ed evoluzioni spontanee, cercando
di individuare limiti e prospettive. Funzioni che, per loro stessa natura, difficilmente possono essere
scomposte e ri-composte in procedure, eventualmente tra istituzioni diverse (come previsto da un
meccanismo di “governance”), se non a rischio di creare pericolosi vuoti di potere (oppure di
conflitto, di sovrapposizione o duplicazione tra poteri).
Per questo, il lavoro ha come premessa uno studio sulla definizione di funzione strategica, che nel
nuovo scenario “senza confini” sembra necessario rivedere, e che tende a interessare funzioni
diverse da quelle che consuetamente vengono definite come tali, e che per la tradizionale
definizione di sovranità si riferiscono essenzialmente a rappresentanza internazionale, controllo e
monopolio degli strumenti per produrre forza in un dato territorio. Una definizione, quindi, che
assume le funzioni strategiche non come qualche cosa di estemporaneo (fuori dalla storia e dalla
geografia), ovvero come gli attributi di un potere assoluto (e quindi indiscutibile), ma come funzioni
“normali”, da collocare in un contesto più vasto, sia sociale che politico: alcune tra le tante funzioni
che qualsiasi ordinamento deve svolgere e conseguentemente regolare e controllare per poter
migliorare le proprie capacità.
Un contesto che questo lavoro considera essenzialmente negli aspetti geopolitici, nelle varie
dimensioni, sia nei suoi meccanismi interni, che in senso comparativo. Infatti analoghe tendenze di
integrazione (a quelle che caratterizzano il continente europee) caratterizzano molte o forse tutte le
aree del mondo che presentano caratteristiche geografiche simili (ovvero scenari macro-regionali di
tipo geograficamente circoscritto), dove i progetti di condivisione e unificazione (o “tout court” di
istituzionalizzazione del dialogo multi-laterale) sembrano essere alternativi al persistere di
situazioni conflittuali.
Tuttavia da nessuna parte l’integrazione si è spinta fino e oltre a questo punto, cioè oltre il limite
della riorganizzazione su base comunitaria delle funzioni della forza, e in genere strategiche – un
fatto che per la geografia e la storia della politica sembra rappresentare un’eccezione. Una questione
- l’unificazione o almeno l’istituzione di un coordinamento super-governativo per tali funzioni –
che resta aperta, e che, secondo la letteratura prevalente, è nondimeno necessario affrontare, perché
i vari ordinamenti non vadano incontro al rischio di perdere capacità, e di diventare obsoleti rispetto
alle evoluzioni della realtà più vasta.
1
»'(...) non sono il presidente di una banda di burocrati (...) non siamo meno legittimati rispetto ad altri', ha detto
Juncker parlando al Parlamento europeo a Bruxelles, Corriere della Sera, 4/11/ 2014,
http://www.corriere.it/politica/14_novembre_04/juncker-renzi-non-sono-capo-una-banda-burocrati-e874d63a-6433-
11e4-8b92-e761213fe6b8.shtml
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
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Un rischio che rappresenta il motivo ispiratore di questa ricerca, che vuole individuare una serie di
scenari e di opzioni in questo senso. Tra queste è possibile ipotizzare, in via prioritaria, forme di
integrazione per funzioni che interessano ambiti di tipo innovativo (per es. tecnologie della
cibernetica, del nucleare, della bio-genetica), e in forte evoluzione, che potenzialmente
rappresentano elementi di vulnerabilità, e anche possibili nuovi “fronti di guerra” per i sistemi
sociali.
Settori che sono, per questi stessi motivi, anche meno condizionati da tradizioni nazionali
fortemente radicate, che possano limitare i processi di integrazione in ambito di “nuova Europa”, e
che inoltre sono troppo costosi e impegnativi per essere affrontati singolarmente dai vari paesi. E’ il
caso prototipico dei progetti in ambito satellitare e spaziale che sono sostenibili unicamente su scala
comunitaria, e che, se trascurati, significherebbero per i singoli stati europei il rischio di perdere una
partita che oggi viene giocata da altri stati e da altri poteri, quindi il rischio di perdere capacità
competitiva e tutto ciò che questo comporta (arretratezza industriale e scientifica, debolezza
strategica ecc.).
Una logica che lascia intravvedere una possibilità di integrazione per settori – oltre a quelli
menzionati, caratterizzati da forti margini di crescita e di innovazione - in genere meno
“territorializzati” (ricerca scientifica, “procurement” ecc.), meno esposti ad implicazioni della vita
civile, e periferici rispetto alle strumentazioni e alle simbologie dei vari poteri statuali. E’ il caso di
attività che riguardano dimensioni remote, come i settori marittimo-oceanico (per es. per progetti
che riguardano i fondali oceanici, ricerche di risorse energetiche, il presidio di “choke points” e di
rotte marittime), quelli del sottosuolo (a seconda delle possibilità che l’innovazione tecnologica
prospetta periodicamente) o quelli dello spazio extra–atmosferico.
Settori per i quali la scala di operatività risulta essere di difficile definizione, caratterizzati da
fenomeni scarsamente localizzabili, che presuppongono capacità di proiezione in ambiti nei quali il
nesso tra causa ed effetto è meno evidente. Ambiti nei quali le funzioni di presidio e di controllo
sono di fatto impossibili da perseguire da parte di apparati individuali – in particolare se di
dimensioni e potenzialità limitate, come nel caso di molti stati europei.
Così in realtà non esclusivamente per funzioni considerate consuetamente di tipo strategico, ma
anche per situazioni di altro tipo, sia umano che naturale, che creano continuamente occasioni di
rischio “ubiquitario”, che si manifesta in momenti e con impatti imprevedibili, con effetti che
possono diffondersi improvvisamente ad una scala ingovernabile (configurando appunto un rischio
strategico).
E’ il caso di crisi sociali e culturali (per es. religiose o etniche), di shock economico-finanziari, di
fenomeni di sfruttamento distruttivo di risorse ambientali e di inquinamento a scala di ecosistema,
di crisi di tipo sanitario-epidemico. Fenomeni che si manifestano con effetti “domino”, ma anche e
soprattutto con “vuoti di potere” che appaiono improvvisamente sulla mappa geopolitica, e che
significano guerre e diffusione di movimenti terroristici, conflitti e catastrofi umanitarie, che a loro
volta si traducono in flussi di migranti, massacri su vasta scala e altre situazioni oggi intollerabili
per la comunità internazionale – anche perché prontamente messi in evidenza e a volte amplificati
da una tecnologia della comunicazione che riduce tutto il mondo a una sorta di “villaggio globale”.
Una serie di constatazioni che lascia immaginare un’integrazione per “default” delle forze
strategiche che darebbe origine nel tempo all’accumulazione e alla formazione di nuovi poteri su
scala continentale (non necessariamente in concorrenza con simili strutture di tipo statale-
nazionale). Questo anche considerando che tali settori, più “volatili” (“meno territoriali”) e anche
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
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più dinamici e innovativi, presentano margini di crescita più ampi e di tipo più rapido rispetto a
settori consolidati, che invece si ritrovano a volte in situazioni opposte, di perdita improvvisa di
capacità e di redditività, oltre che di rapida obsolescenza.
Una constatazione che verrebbe confermata da ulteriori elementi di riflessione: in epoca di
globalizzazione, e di progressiva apertura, è difficile per i singoli stati affrontare problemi a scala
così vasta, che pongono questioni di proiezione e di capacità di intervento praticamente su scala
globale (forse con la sola eccezione dell’unica superpotenza sopravvissuta allo scenario bipolare).
Questo anche considerando l’affermazione di una nuova dottrina strategica, che prevede che
l’eventuale intervento debba svilupparsi a scala di “ciclo” (o “processo”), cioè in tutte le fasi di una
certa crisi – e non solo su segmenti specifici. In caso contrario emergerebbe il rischio che lo stesso
intervento risulti scarsamente utile, e che provochi inoltre la possibilità di effetti cd. riflessivi (o
“insider”), che tendono ad alimentare ulteriormente (“dal di dentro”) le crisi senza risolverle: in
realtà il primo e principale problema della politica internazionale contemporanea, come la cronaca
recente sembra dimostrare.
Un fatto che significa la capacità di impiegare risorse nel contempo “hard” e “soft”: una capacità
necessaria se si pensa che l’esclusivo intervento “hard”, presumibilmente nella fase acuta di una
crisi, o al contrario quello esclusivamente di tipo cooperativo e umanitario, per affrontare le fasi
pre- o post-crisi, producono in genere risultati insoddisfacenti o anche controproducenti. Una
constatazione – che cioè le crisi vanno affrontate alla scala appropriata alla quale si manifestano –
che crea spazio e opportunità per la formazione di una prassi e anche di una struttura di sicurezza
europee, che sembrano orientarsi dalle origini sulla base di questi principi.
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
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Capitolo 1 - Esiste una geopolitica europea?
Allargamento verso l’esterno e integrazione verso l’interno
La geografia condiziona in modo rilevante la vita delle nazioni e degli organismi sociali in genere,
fino a volte a determinarne la struttura, la cultura e le stesse prospettive di sopravvivenza e
sviluppo: un fatto particolarmente evidente per un’istituzione in corso di formazione, come
l’Unione Europea (UE), che è caratterizzata da una dimensione territoriale in continua evoluzione,
che periodicamente stravolge la sua stessa identità, nonché il senso dei suoi ordinamenti.
Un’evoluzione che si articola essenzialmente su due dimensioni tra di esse, a seconda delle
circostanze e delle interpretazioni, complementari o mutuamente sostitutive. La prima significa una
tendenza all’allargamento verso l’esterno (verso paesi e aree limitrofe), la seconda un processo di
integrazione al proprio interno, che interessa istituzioni, sistemi economici e codici culturali stata-
nazionali preesistenti:2
due “frontiere”, in un certo senso, una interna e una esterna, che a volte si
combinano, a volte si sovrappongono, intersecandosi reciprocamente.
In questa dinamica si possono riconoscere vari momenti. Da una fase originaria, di consolidamento
euro-occidentale, o anche di patto “renano” franco-tedesco – fondato sul superamento delle tensioni
che avevano portato francesi e tedeschi a scontrarsi con le disastrose guerre del Novecento -, si è
passati, con una serie di successivi “allargamenti”, ad una dimensione più autenticamente euro-
continentale. “Allargamenti” che sembrano essere orientati, non tanto da pianificazione
intenzionale, ma da circostanze, che cambiano periodicamente gli assetti e la stessa mappa dell’UE
(ovvero il verso dell’espansione) che, se originariamente coincide con la parte occidentale del
continente, in una fase più recente si dilata verso sud ed est, fino a interessare i bacini delineati dai
vari mari “interni” ai limiti dell’Europa orientale (oltre al Mediterraneo orientale, mar Baltico e mar
Nero).3
Un’evoluzione che sembra prospettare significati diversi. Mentre in una prima fase la politica
europea si sviluppa in modo abbastanza lineare, e favorevole a priori a qualsiasi possibilità di
allargamento, in una fase successiva assume un atteggiamento più cauto – anche considerando la
criticità di integrazione che è emersa in corrispondenza di alcune aree, in particolare il sud-est e i
Balcani. In un certo senso l’UE si espande a volte suo malgrado: semplicemente in certi casi si
rivela impossibile tenere fuori dal proprio perimetro stati “europei”, con i quali i paesi euro-
occidentali condividono confini, mercati, economie, linee di approvvigionamento, bacini di
reperimento di manodopera e itinerari di migrazioni, che tendono spontaneamente ad integrarsi, al
di là delle intenzioni della politica.
Tutto questo sulla base del principio - abbastanza innovativo nella prassi geopolitica di oggi e di
sempre - che assume l’integrazione, piuttosto che la competizione, come modo “normale” di
relazione tra stati limitrofi che si riferiscono allo stesso ambito culturale, e tra popolazioni che sono
caratterizzate da aspettative e tratti culturali assimilabili. Una politica che si sviluppa sulla base di
un principio, del resto enunciato chiaramente in sede di trattati, essenziale per l’Europa, di
“coesione territoriale”,4
che vuole evitare fenomeni di crescita squilibrata e la formazione di
asimmetrie che in passato sono state spesso causa di tensioni locali che hanno successivamente
coinvolto tutto il continente.
2 Diez T., Manners I., & Whitman R., 2011.
3 Germond B., 2011.
4
Commissione delle Comunità Europee, 2008.
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
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Una consapevolezza che significa l’elaborazione di una politica complessiva, che vuole evitare il
rischio di degenerazioni, ovvero il rischio di ritrovarsi il ”Terzo Mondo alle porte di casa”, con
conseguenti instabilità e costi anche economici, oltre che umani e strategici, su tutto lo scenario. Un
rischio inaccettabile per sistemi stabili, che caratterizza da sempre la vita di confine e che significa
la necessità di perseguire politiche di condivisione, o almeno di regolazione della competizione
economica e di qualsiasi tipo.
Criticità e opportunità
In realtà l’istituzione comunitaria deve affrontare abbastanza presto atteggiamenti critici che
vengono manifestati in diverse occasioni da parte degli stessi stati membri, oltre che da parte di
movimenti e partiti euro-scettici, e di quote di società civile e di opinione pubblica contrarie a
ulteriori integrazioni e allargamenti.
Questo una volta che diventa evidente che l’integrazione comporta anche effetti problematici, come
burocratizzazione, proliferazione istituzionale e aumento di costi “di sistema” (cioè effetti
“riflessivi” ed auto-referenziali). Fino al paradosso di configurare una tendenza che viene percepita
come neo-centralistica che produce istruzioni e regole, oltre che “tout court” tasse, che si sommano
in modo difficilmente giustificabile a quelle prodotte dalle istituzioni già esistenti.5
In un certo
senso, è come se l’UE avesse “ereditato” i difetti che caratterizzano gli stessi stati-apparati da cui è
composta.
In realtà, la tendenza di lungo periodo dimostra che l’UE è capace di creare valore aggiunto, oltre
che in politica, anche in economia. L’integrazione infatti significa una serie di vantaggi funzionali
che derivano essenzialmente dall’ampliamento del mercato e del bacino di utenza e di consumo per
qualsiasi attività (non solo economica), riducendo costi di sistema (amministrativi, doganali e di
qualsiasi tipo), uniformando normative e collegando intere filiere di produzione e commercio,
creando un’area di libero scambio (e di libertà di stabilimento) di straordinario significato. Una
politica che:
a) moltiplica le capacità delle economie più efficienti, e orientate all’innovazione e all’export, in
particolare di quelle che si riferiscono a stati di industrializzazione e terziarizzazione avanzata;
b) incentiva le economie più deboli, e non più tutelate da politiche protezionistiche, a rinnovarsi,
garantendo una base di “welfare” e una politica di sostegno regionale (che si manifestano nei vari
programmi e “fondi” sociali e strutturali) di livello “europeo”;
c) contribuisce al superamento di una condizione di sottosviluppo per intere popolazioni, che fino a
una certa epoca (agli anni ’50 del Novecento) erano costrette a una condizione di isolamento semi-
feudale e alla migrazione di necessità (che assume una dimensione di massa in diverse regioni sud-
ed est-europee), superando differenziali e barriere vecchie di secoli.
Nondimeno, come ormai sembra evidente, l’abbattimento di tali barriere, con l’unificazione del
mercato e del lavoro ad una scala molto più ampia, crea opportunità di crescita ma anche rischi e
problemi: opzioni che probabilmente dipendono dalla qualità della società civile e della struttura
economica locali, che possono essere pronte o meno a recepire, oppure semplicemente costrette a
subire, le varie aperture.
5 Di cui il simbolo è la duplicazione dell’euro-parlamento tra le sedi di Bruxelles e Strasburgo, inspiegabile e costosa.
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
13
Reazioni e impatti anche non intenzionali
Una dinamica che comincia a suscitare ben presto reazioni di qualsiasi tipo, a qualsiasi scala, sia
all’esterno che all’interno, sia positive che negative, fino a configurare addirittura uno standard per
le relazioni internazionali.
Come oggi è possibile verificare, la semplice produzione di norme per i più svariati ambiti della vita
economica e sociale (la dimensione sotto la soglia della politica ufficiale che la prassi UE sembra
privilegiare) configura un riferimento per molti altri paesi, oltre che a quelli candidati all’adesione.
Fino al punto che l’“international law becomes Acquis Communautaire”,6
una sorta di nuova fonte
per il diritto internazionale, e fino al punto che, inoltre, la stessa UE comincia a configurare uno
standard anche dal punto di vista geopolitico (un fatto di cui gli stessi europei non sembrano avere
consapevolezza).
In un certo senso, un’evoluzione che porta l’Europa fuori dalla crisi in cui si era ritrovata dopo la
IIGM, creando scenari di integrazione sia nel contesto internazionale che al proprio interno, ma che
nel contempo dà origine a nuovi fenomeni di centralizzazione (se non altro di tipo burocratico) che,
a seconda delle interpretazioni, rischiano di “frenare” periodicamente lo stesso slancio europeista.
Da allora i due movimenti – di allargamento verso l’esterno e di integrazione al proprio interno –
caratterizzano il dialogo politico in qualsiasi contesto, manifestandosi, a seconda che lo stesso
allargamento venga percepito come un’opportunità oppure una causa di indebolimento internamente
alla stessa UE, in modo complementare o reciprocamente esclusivo.
Un tendenza (neo-espansionistica, come viene percepita a volte dall’esterno) che non sembra ancora
essersi assestata e che delinea oggi una contraddizione tra diverse “vocazioni” geopolitiche e tra gli
stessi paesi che aderiscono all’UE. Questo considerando che, in particolare, la tendenza
all’espansione verso sud-est, eventualmente coinvolgendo paesi importanti (come Ucraina, Turchia,
paesi del sud Caucaso), potrebbe significare il rischio di una diluizione, ovvero un allentamento in
termini di compattezza interna. In realtà, l’integrazione di quegli stati, sebbene possa significare
un’espansione per economia e mercato comunitari, rappresenta anche un rischio in termini di costi
sociali e politici: integrazione che, inoltre, potrebbe essere considerata dalle popolazioni delle aree
deboli che fanno già parte dell’UE, che sono inclini a percepire le politiche comunitarie come
giochi a “somma zero”, come rischio di perdere risorse altrimenti destinate a loro.7
Espansione territoriale e funzionamento interno (ovvero allargamento e integrazione) insomma,
oltre una certa soglia, delineano un effetto di sostituzione, fino al rischio di essere percepiti come
obiettivi contrapposti. Questo anche considerando che l’UE sembrava originariamente voler
costruire il proprio ruolo e la propria legittimazione (piuttosto che come unità politica in
espansione) come fattore di mediazione internazionale tra est e ovest, e tra nord e sud, tra aree
continentali e sfere di dominio marittimo (in senso mackinderiano, tra “heartland” e “rimland”), in
genere tra le varie culture mondiali.
Un ruolo che deriva dalla stessa collocazione geo-storica dell’Europa, di appendice dell’Eurasia e di
“ponte” tra grandi masse continentali, il cui territorio “nazionale” tenderebbe a coincidere allora con
quello di tutto il continente, dall’Atlantico agli Urali e al Caucaso, dal mare del Nord al
Mediterraneo.8
6 Diez T., Manners I., & Whitman R., 2011:127.
7
Jordan P., in stampa.
8 Fino a comprendere la Groenlandia danese, il Medio Oriente della Turchia o l’Asia centrale del Kazakistan, il cui
territorio è per l’8% a ovest del fiume Ural, che secondo certe interpretazioni segna il confine geografico tra Europa e
Asia.
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
14
Un’immagine che continua a funzionare come traino per l’ideale europeo, che prospetta
l’unificazione quasi come inevitabile (quasi come una predestinazione), che assume il principio che
sia la stessa forma del continente ad indurre le condizioni per l’espansione, con i confini politici,
economici e culturali, che finirebbero per coincidere prima o poi, di diritto o di fatto, con quelli
geografici.
Geopolitica dei confini intra–europei
La geografia dell’Europa risulta straordinariamente complessa, oltre che nell’ambiente più vasto in
cui si proietta, anche e soprattutto al suo interno. Un fatto che è, piuttosto che un luogo comune, una
costante della storia antica e recente, che si traduce in un complesso di forme territoriali talmente
contorte da apparire ingestibili, e da sfuggire a qualsiasi teoria (del confine naturale, di una forma
pre-determinata, dello “stato ideale” ecc.).
Una geografia che l’ideale europeista propone semplicemente di superare con gli strumenti della
condivisione nei vari ambiti della vita culturale, e quindi politica. E’ il punto debole per gli stati
europei, che, nel tentativo di risolvere un problema in realtà senza soluzione, e per gestire relazioni
tra culture e etnie, circuiti di economia e sistemi di potere, hanno sempre condotto guerre di tutti i
tipi. Guerre che, secondo certe fonti, si sono rivelate, alla “fine della storia”, fondamentalmente
“inutili”, e che secondo altre fonti invece sarebbero state inevitabili, se non addirittura utili, in
quanto avrebbero costituito le premesse per la maturazione di una consapevolezza.
In realtà, una geografia che prospetta anche delle opportunità, e che oggi può significare un
incentivo per processi di integrazione, che non avrebbero altra alternativa se non la regressione a
condizioni di conflittualità diffusa e di “guerra continua” (che alimenta se stessa, a causa di
persistenti effetti “riflessivi” o “insider”, v. infra). Di fatto il disegno, accidentato, frammentato e
segmentato, di confini e territori crea una situazione tale da far pensare all’integrazione come a
qualche cosa di auspicabile (se non di inevitabile).9
La semplice osservazione della carta geografica mette in evidenza una serie di incongruenze che
rendono impensabile la conduzione, non solo di politiche individualistiche (cd. “free riding”) e
indifferenti al contesto, ma neppure neutralistiche e isolazionistiche. E’ il caso di dimensioni e
forma di stati e regioni, dell’elevato “numero di vicini”, ovvero di confini in comune con altri stati,
che condiziona la politica delle istituzioni.10
Così per accessibilità a mari internazionali e a vie di traffico trans-continentali, per ecosistemi e
barriere naturali, “range” di aziende e commerci, aree di reperimento di risorse, dimensione di
mercati, presenza di minoranze e sovrapposizione di confini etno-nazionali, “exclave” ed “enclave”,
flussi di economia e relazioni centro-periferia. Un insieme di salienti e “cul de sac”, frammenti e
protuberanze, interessi culturali e commerciali che creano un insieme inestricabile, che rende quasi
impossibile per ciascun sistema lo svolgimento di una vita del tutto autonoma, senza in qualche
modo intersecarsi con quella degli altri.
Un fatto che renderebbe inevitabile l’opzione della multi-lateralità, che rappresenta il principale
elemento della dinamica politica del continente: i confini europei da sempre rappresentano qualche
cosa di permeabile, prospettando la continua formazione di asimmetrie tra i vari sistemi nazionali,
tra le diverse dimensioni della vita sociale ed economica. Un fatto che induce a seconda delle
9
Diez T., Manners I., & Whitman R., 2011.
10
Jelen I., 2012.
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
15
circostanze, alternativamente, effetti di repulsione e di attrazione, di competizione o di
collaborazione.11
Un’economia di “borderland”
La stessa rappresentazione cartografica mette in evidenza come tutta l’area del continente risulti
essere una sorta di “borderland”: secondo certe stime più del 50% del territorio e della popolazione
europea sarebbero da considerare “limitrofi”, cioè compresi entro il “range” di una o due ore di
viaggio dal più vicino confine.12
Un contesto nel quale qualsiasi misura di politica ed economia
nazionale non può che coinvolgere gli stati vicini, dove le stesse operazioni “debordano”
inevitabilmente.
E’ il caso di fenomeni di pendolarismo trans-confinario, di insediamenti di imprese, di
organizzazioni e anche di istituzioni che agiscono (anche non intenzionalmente) “oltre confine”,
avviando a volte fenomeni di delocalizzazione, che possono trasformarsi in espedienti per sfuggire a
sistemi amministrativi non efficienti o eccessivamente “pesanti”.
Così per fenomeni di doppia cittadinanza sia di persone fisiche che giuridiche, che si sviluppano
con effetti di mescolamento naturale tra le popolazioni (non necessariamente di confine); così per
migrazioni di “amenity”, per traffici e commerci che configurano effetti di “bencinski turizem”
(turismo della benzina, del tabacco, del dentista ecc.), che sfruttano dislivelli di prezzi per beni di
consumo e di qualsiasi tipo tra paesi vicini.13
Così anche per l’accessibilità di “welfare” e per altre
attività che traggono vantaggio da differenziali di vario tipo (norme amministrative, imposizione
fiscale, costi sociali, o anche proibizioni di gioco d’azzardo, tasse doganali su tabacchi ed alcolici)
che possono provocare un danno abbastanza grave sulle rispettive economie.14
In realtà, uno scenario che a sua volta configura un bivio tra due opzioni (l’integrazione o altrimenti
la regressione a una storia di contenziosi e conflitti senza fine), apparentemente senza soluzioni
intermedie. Una tendenza oggi accentuata dalla diffusione di ICT, e dall’effetto di “compressione
spazio-temporale” e di “morte della distanza”15
che ne deriva, che “ricolloca” di fatto qualsiasi
territorio in un ambito di confine, esposto alla competizione internazionale a qualsiasi scala.
Uno scenario che significa l’accelerazione di mobilità di individui, imprese e attività, che fa pensare
all’impossibilità di svolgere alcuna politica statale “chiusa”. Un dato di fatto che gli apparati
devono considerare, altrimenti non possono sperare di implementare alcuna politica economica
efficace: un vantaggio per consumatori e utenti ma un potenziale danno da “feedback” per i sistemi,
che crea casi di intere economie che sopravvivono sfruttando in modo parassitario le inefficienze
degli stati limitrofi - cd. fenomeni di sciacallaggio di confine. Un atteggiamento che ha effetti
controversi, che può creare situazioni di dipendenza e che nel tempo provoca un danno agli stessi
sistemi che praticano questo tipo di economia, che tendono a svilupparsi in modo distorto e, alla
fine di un circolo vizioso, inefficiente.16
Oggi, qualsiasi politica economica, e di qualsiasi tipo, non può che essere predisposta a scala trans-
confinaria (cioè continentale-europea e anche più vasta), se non a costo di rivelarsi inefficace, e di
11
A seconda ovviamente che lo scenario complessivo venga percepito a somma > o < di zero, in periodi di crescita
complessiva o di saturazione e recessione.
12
Scharr K., Steinicke E., (Hg.), 2012.
13
Heller A., Hrgs., 2011; Scharr K., Steinicke E., (Hg.), 2012.
14 Ovvero “environmental and social dumping”, Dostál P., 2010:42.
15 Cairncross F., 1997; Venables A.J., 2001; Harvey D., 1997.
16 Heller A. Hrgs., 2011.
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
16
essere soggetta a flussi che possono improvvisamente impoverire l’una o l'altra parte del confine
(anche considerando che spesso i “borderland” intra-europei hanno un carattere tri-o multi-
confinario, nei quali è impensabile alcuna politica che non sia multi-laterale). Un fatto che rende
necessario il ripensamento della politica economica, e che rende evidente il carattere inconsistente
delle ideologie che propongono il recupero di politiche neo-centralistiche e neo-protezionistiche, di
isolamento e di auto-esclusione, che non possono che provocare il rischio di produrre danni ancora
maggiori.17
Allargamento ed espansione dello scenario
Le vari fasi di allargamento inducono mutazioni nella geopolitica, creando continuamente nuovi
scenari con la necessità, che emerge a volte improvvisamente, per le organizzazioni politiche di
confrontarsi con situazioni di fatto imprevedibili. Un’eventualità che rende necessario considerare
gli effetti che la stessa geopolitica induce in un ambito più vasto: qualsiasi variazione di scenario,
anche se non intenzionale, provoca reazioni che devono in qualche modo essere normalizzate.
Questo in particolare in ambito europeo, considerando che qualsiasi nuovo allargamento crea di per
sé nuove aree di confine, nuove fasce di esclusione e di indifferenza, nelle quali si manifestano
tensioni di tutti i tipi, e che spesso sono caratterizzate da tensioni rivoluzionarie - come oggi la
mappa delle crisi nelle aree prossime al continente europeo sembra evidenziare.
In realtà, è impossibile capire in che misura i processi in corso in ambito europeo abbiano influito o
stiano influendo sugli scenari delle aree limitrofe (area sud-mediterranea, Caucaso, est Europa). E’
evidente, nondimeno, che l’UE appare all’esterno come un’entità geopolitica compatta, e che già
per questo motivo può svolgere impatti, eventualmente di imitazione ed emulazione, su società
civili permeabili, che possono ripercuotersi in ulteriori dimensioni della vita politica.
a) E’ il caso della sponda sud del Mediterraneo, delle “primavere arabe”, del crollo di una serie di
regimi dittatoriali, e delle tensioni che caratterizzano quell’area e, a un’altra scala, tutta l’Africa
sahariana e sub-sahariana, dalla quale i vari problemi tendono a riflettersi (in genere) verso nord,
creando le premesse per disastrosi flussi migratori.18
b) E’ il caso del sud-est medio-orientale, con guerre e rivoluzioni che si rinnovano continuamente, e
che significano per una serie di paesi la necessità di dover ripartire, ancora una volta, praticamente
da zero, dopo una serie di “false partenze” in epoca post-coloniale (di rivoluzione nazionalista o
socialista, di ideologie anti-capitaliste e terzomondiste ecc.) con un faticoso progetto di
ricostruzione delle istituzioni.
c) E’ il caso, quindi, di vari stati post comunisti e della Russia, per la quale, in particolare,
l’affermazione delle istituzioni pan-europee ai propri confini appare in qualche modo come la
dimostrazione di un fallimento in un processo di transizione post sovietica (sia in termini di
geopolitica, che come esperimento di democrazia e di economia aperta). In quel contesto l’UE si
manifesta a vari livelli, sia come fattore di attrazione politica per paesi tradizionalmente collocati
nell’”orbita” russa, sia come fattore di imitazione per le corrispondenti, e ancora fragili, società
civili. Società che, indebolite da secoli di autoritarismo, senza fiducia in se stesse, sono
17 V. infra; in altre situazioni geo-politicamente analoghe a quella europea, ma senza lo stesso apparato di regolazione
multi-laterale, le relazioni di confine rischiano continuamente di degenerare in conflitti; per l’Asia centrale v. Thorez J.,
2003.
18
E anche oltre il golfo di Aden verso la penisola arabica, sul confine turco-siriano ecc.: è un problema che riguarda un
po’ tutto il mondo e tutte le varie fratture che si formano periodicamente tra nord e sud, est ed ovest, centro-periferia,
“rimlamd-heartland”, mare-terra o interno-esterno; si consideri che i paesi dove le statistiche registrano più immigrati
illegali non sono paesi euro-comunitari, ma USA e Russia (per quest’ultima, prima della recente crisi).
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
17
particolarmente esposte al rischio di manipolazioni (per es. alle suggestioni di una rinnovata politica
imperialista) da parte di élite che possono essere indotte a cercare in un’anacronistica politica di
aggressioni la compensazione per le proprie insufficienze.
Un fatto tipico in realtà per sistemi “chiusi” che non riescono a produrre una corrispondente
evoluzione sociale, né ad assimilare le diversificazioni prodotte dalla crescita, e che ad un certo
punto possono essere indotti a scaricare all’esterno le tensioni che accumulano al proprio interno (in
questo caso la tensione per il fallimento nel passaggio dalla dittatura a una società e economia
aperte).
d) E’ il caso in genere di stati definiti “in ascesa”, i quali, alla fine di un percorso di crescita solo
quantitativa (non in termini di “capitale umano” né sociale), e dopo essersi “scontrati” con i propri
limiti, per reazione possono essere indotti a recuperare qualche politica neo-imperialistica. E’ il
caso, oltre alla Russia, di altri paesi “brics”, che evidenziano politiche aggressive da “frustrazione”,
che potrebbero portare alla destabilizzazione di scenari macro-regionali e continentali (es. sud-est
asiatico, America Latina, Africa centrale, Medio Oriente).
E’ anche una questione di percezioni e di manipolazioni, sia da parte di élite che di popolazioni,
oltre che di “media” e di altre forme di comunicazione e di vita pubblica: ma è evidente che gli
“allargamenti” europei possono essere percepiti come una minaccia in particolare da parte di unità
politiche e sociali tendenzialmente chiuse,19
che l’economia e la cultura del “globale” costringono
in un certo senso ad aprirsi, e che quindi risultano essere sottoposte a stress difficilmente
sopportabili. Stati e sistemi, collocati spesso ai limiti del continente europeo, caratterizzati dal fatto
di perseguire politiche di tipo “organicistico”, che reagiscono alle trasformazioni indotte dal
contesto, appunto, come degli organismi che si sentono attaccati (cioè in modo istintivo): uno
scenario che riporta la geopolitica molto indietro nella storia evolutiva, ad uno scenario primordiale-
ratzeliano (v. infra).
Una scala imprevedibile
La stessa dinamica dell’allargamento induce il coinvolgimento in altri teatri, e quindi la necessità di
adattare le strategie: in un certo senso, l’UE, una volta intrapreso un certo percorso, si ritrova
costretta ad elaborare una geopolitica, ovvero a sviluppare una capacità in questo senso (di apparato
di sicurezza sia in senso passivo che attivo), a rischio di creare situazioni di confusione e tensioni
tra gli stessi stati che la compongono. Il fatto cruciale, e nuovo per la politica attuale, riguarda la
scala, ovvero la dimensione dell’intervento ipotetico al quale le istituzioni devono prepararsi. Un
fatto che significa la necessità di elaborare politiche di sicurezza in qualsiasi ambito - al di là
dell’intenzione originaria e della propensione ad usare la forza -, quindi di organizzare apparati e
reti di presidio, esponendosi al rischio di farsi coinvolgere e di dover intervenire su scenari anche
molto complessi.
E’ sufficiente pensare a politiche di approvvigionamento vitali (di energia, materie prime,
tecnologie ecc.), che comportano il rischio per l’intera Europa di ritrovarsi periodicamente ostaggio
di qualche fornitore con ambizioni monopoliste (paesi arabi, paesi post sovietici). Così per le filiere
di traffici e commerci, con tutto ciò che ne consegue in termini di mantenimento di libertà di
navigazione e di accessibilità in genere, che non può che rappresentare una priorità. Così in
qualsiasi dimensione, per politiche di ambito territoriale e non, per presidio di linee di costa,
missioni spaziali, per sfruttamento risorse minerali e agro-alimentari;20
così per acque interne, vie di
19 Diez T., Manners I., & Whitman R., 2011.
20
In un contesto di rapida evoluzione delle tecnologie non si può escludere niente; è il caso di nuove possibilità di
sfruttamento di risorse sui fondali oceanici, del sottosuolo a grandi profondità, per es. per energia geotermica, “shale
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
18
traffico fluviali (es. il Danubio), per garantire l’utilizzo di infrastrutture e per presidiare condotte
energetiche trans-continentali.
Così in particolare per le politiche marittime, che certe fonti considerano un po’ come il banco di
prova per il prosieguo del progetto europeista: “an Integrated Maritime Policy will enhance
Europe’s capacity to face the challenges of globalisation and competitiveness, climate change,
degradation of the marine environment, maritime safety and security, and energy security and
sustainability”.21
Questo anche considerando che una parte rilevante del commercio europeo verso
l’esterno (secondo alcune fonti il 90%) si sviluppa per mare, in modo vulnerabile quindi al rischio
di “choke” e di qualsiasi tipo.22
Evidentemente l’elemento marittimo (come in genere gli ambienti “poco” territoriali, per es.
l’aereo-spaziale, la cibernetica e le dimensioni dell’ICT) presenta caratteristiche particolari, con
fenomeni “fluidi” e “volatili” (ovvero smaterializzati) che si manifestano ad una scala estremamente
vasta e a volte indefinibile.23
Fenomeni che, in un ambiente di incipiente globalizzazione, di crisi
strutturale e di saturazione ambientale, pongono problemi di controllo e di presidio che alcuno stato
può sperare di affrontare in modo individuale, senza qualche tipo di coordinamento.
In realtà, il fatto stesso di partecipare ai circuiti dell’economia e della società globale induce la
necessità - al di là delle intenzioni originarie - di adeguare l’apparato strategico, perché i processi
tendono ad assumere spontaneamente una dimensione indefinibile, o anche globale. E’ il caso di
interventi per prevenire disastri umanitari, dell’eventualità di attacchi di tipo militare e non militare
(terroristico, criminale o sociale), di interventi per evacuare connazionali (turisti, cooperanti,
dipendenti di aziende, personale diplomatico) da aree di crisi e per ogni altra evenienza. Ed è il caso
di migrazioni di massa e di flussi di qualsiasi tipo, che sono indotti da asimmetrie che possono
formarsi improvvisamente in un ambiente “senza confini”.
E’ il caso, quindi, di impatti sugli ecosistemi, con fenomeni di inquinamento e pratiche di
sfruttamento distruttivo di acque, suolo e risorse ambientali, quindi di interesse collettivo
(“overfishing”, contaminazione da idrocarburi, applicazione di tecnologie invasive, distruzione di
habitat ecc.) che, sebbene originariamente localizzati, possono generare effetti catastrofici in ambiti
così vasti da coincidere di fatto con l’intera comunità umana. Una constatazione che configura un
dovere preciso per gli apparati che si occupano di sicurezza, che devono considerare sempre
l’ipotesi peggiore, anche se improbabile e apparentemente non realistica.
Una situazione di “gioco” tra poteri
Dalle origini la politica UE prevede istituzioni in grado di operare – teoricamente - in modo
indipendente dagli (ed ev. contrapposto agli) stessi governi dai quali sono state originariamente
formate.24
E’ il caso di Commissione e Corte di Giustizia, e presumibilmente del Parlamento, e di
Banca Centrale e di varie altre agenzie e autorità che agiscono in autonomia. Trattati che tuttavia,
piuttosto che prestabilire relazioni in modo rigido, sembrano prevedere un insieme di relazioni “in
divenire”, quasi fossero deliberatamente predisposte per lasciare alle stesse istituzioni la possibilità
gas” e idrocarburi in ambienti “off shore” e in aree circumpolari, che possono improvvisamente cambiare assetti di
economia e di politica.
21 Commission of the European Communities, 2007; Germond B., 2011.
22
Final Report, 2013.
23
Per “scala caratteristica” dei fenomeni si definisce l’ambito nel quale si manifestano in modo tipico gli effetti di una o
più cause, per es. di un qualsiasi evento politico o sociale, umano o naturale.
24 Bailes A.J.K & Thorhallsson B., 2013.
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19
di adeguarsi alle evoluzioni che caratterizzano la realtà concreta, fino al punto di creare le
condizioni per un equilibrio stabile, ma dinamico.
Una situazione che deriva – secondo certa letteratura -, piuttosto che da incapacità di redigere
un’architettura istituzionale coerente, dalla precisa intenzione di non voler regolare troppo, “difetto”
delle politiche europee di sempre, tradizionalmente “top down” (dai tempi dell’assolutismo e del
centralismo napoleonico, nonché dei totalitarismi novecenteschi). O anche dalla volontà di voler
configurare una logica di “gioco”, perché i vari “player” possano sviluppare liberamente un
confronto anche in termini politici, per adeguarsi alle molteplici esigenze che la realtà pone
continuamente – ovvero per non perdere elasticità e capacità di adattamento.
Un fatto che si rivela opportuno anche perché a volte gli stati che partecipano all’UE, al di là delle
dichiarazioni di principio, sono motivati da intenzioni diverse e, seppure esibiscano in certi
momenti degli “ideali”, finiscono spesso per lasciarsi condizionare dalle circostanze. Una logica di
“gioco” che si diffonde spesso in circostanze di questo tipo – caratterizzate da un insieme chiuso di
“giocatori” -, in cui governi e apparati politici tendono ad agire in modo multi-scalare, a volte per
realizzare immediatamente le proprie opportunità, a volte per perseguire obiettivi intermedi, o anche
di lungo termine – come dovrebbe essere in realtà in un contesto di “costruzione” di un’Europa
comune.
Può trattarsi di obiettivi di ottenimento di consenso, della necessità di assecondare tendenze
dell’opinione pubblica locale, di contingenze politico-amministrative, di scadenze di politica interna
- per es. elezioni “di medio termine” o scadenze di contabilità nazionale - o semplicemente di
aspettative sul comportamento di altri stati “amici” o ”rivali” rispetto a qualche questione bilaterale.
Una situazione che resta fluida in cui inoltre è necessario cercare di capire che impatto avrà il
trattato di Lisbona che, riformando il TUE, assegna in particolare alla Commissione il ruolo di
“promuovere l’interesse generale dell’Unione”, formula diplomatica ma forse troppo vaga per
delineare le funzioni di un autentico “governo europeo” (art.17 par.1). Una formula che,
considerando la legittimazione popolare ottenuta con le elezioni del maggio 2014, nonché la fiducia
che la normativa prevede il Parlamento (che ha potere legislativo, di bilancio e di controllo) debba
riconoscere alla Commissione, significa per la stessa Commissione la possibilità di svolgere un
ruolo più incisivo in qualsiasi contesto.
Per le funzioni strategiche il discorso si presenta più articolato. Infatti, in base all’art.42, c.7 dello
stesso trattato (che ingloba la clausola di assistenza reciproca ed è mirato ad incrementare le
capacità di difesa comune, in special modo a fronte di minacce terroristiche), l’UE sembra delegare
le funzioni di sicurezza collettiva alla Nato, che sarebbe anche da considerare come un “forum” per
l’implementazione delle stesse funzioni. Questo per quel che riguarda i paesi membri, lasciando di
conseguenza inalterata la politica per i sei paesi UE non membri Nato.
Una prospettiva appena temperata dalla “possibility of establishing a ‘start-up’ fund (Art.41§3) […]
made up of member states’ contributions and aimed at financing preparatory activities which cannot
be charged to the Union budget”, che però è “still to be formally created”.25
Un fatto che prefigura
la possibilità di avviare attività congiunte tra paesi membri che ne percepiscano la necessità – al di
là degli atteggiamenti ufficiali - in un contesto in cui le spese militari di regola restano di
competenza dei singoli stati, non potendo essere a carico del bilancio dell’UE (art. 41,2): “[i]ndeed,
the Treaty on European Union (TEU) prohibits that ‘expenditure arising from operations having
military or defence implications’ be covered by the EU budget”.26
25
Art.41,3, TUE; Final Report, 2013.
26
Tardy T., 2013.
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20
Una situazione fluida (come è per definizione qualsiasi “gioco”, caratterizzato da un insieme di
relazioni reversibili) che lascia spazio a interpretazioni diverse; in realtà il “nuovo” potere sembra
avere l’intenzione, prima di tutto, di non precludere alcuna opzione, da un lato per non pregiudicare
le istituzioni della sovranità statuale, dall’altro per non bloccare le iniziative di tipo super-
governativo. Una logica di perfetta “governance”, che assume la prassi, essenzialmente le iniziative
che partono dalla base sociale, nel senso più ampio possibile, come fattore cruciale per modellare le
forme della politica – ma che, nondimeno, per le funzioni strategiche presenta degli aspetti critici.27
Il confronto con la Nato
Nel suo percorso, l’UE si imbatte periodicamente in altre organizzazioni (Osce, Ocse, agenzie
dell’ONU, organizzazioni regionali e trans-nazionali), e in particolare si ritrova a dialogare con
l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (Nato), la cui ascesa e affermazione come “player”
internazionale avviene in modo quasi parallelo a quello della stessa UE. Questo a partire dalle
origini, nel secondo Dopoguerra, e quindi in epoca bipolare e successivamente al crollo dell’Urss
(quando la Nato diventa quasi il “braccio armato” dell’UE, alimentando per la verità anche qualche
equivoco),28
quando entrambe le organizzazioni sembrano impegnarsi in uno stesso programma per
colmare un vuoto politico (in particolare in est Europa), e per prevenire un rischio di
destabilizzazione.
Nondimeno si tratta di istituzioni che sviluppano presupposti organizzativi e politici diversi. La
Nato è un’organizzazione perfettamente inter-governativa, dove la sovranità dei singoli stati è ben
delineata, mentre l’UE rappresenta l’ambizione di creare qualche cosa di super-statuale. Un fatto
che significa per la Nato la possibilità di individuare target meglio definiti e in genere di funzionare
in modo più efficiente, ma nel contempo anche, in un certo senso, più limitato: “the EU (…) has
more room for manoeuvre and more positive options for dealing with these larger powers than
Nato, for example, precisely because it does not appear as a strategic competitor in a traditional
zero-sum game”.29
Questo fino al punto che, secondo certa letteratura, la Nato rischierebbe di ritrovarsi in una sorta di
“vicolo cieco” della politica internazionale, esaurendo il proprio ruolo in funzioni di sicurezza di
tipo strettamente “hard”. Infatti, mentre l’UE avrebbe margini di evoluzione (essendo caratterizzata
da un nucleo super-governativo che, per quanto debole, può funzionare come principio di
accumulazione di potere), la Nato difficilmente può crescere oltre a quello che è già per diventare
qualche cosa di politico.
A questo riguardo, sono da verificare alcune recenti dichiarazioni di Obama a proposito di una Nato
“economica”, ovvero di una “partnership transatlantica”, che si proporrebbe di incentivare la
collaborazione USA–UE anche in ambiti diversi da quello militare.30
Dichiarazioni che si
combinano ad altri segnali che fanno ritenere che la situazione potrebbe cambiare; è il caso della
27
Tuttavia, ed evidentemente, anche in questa materia vale la distinzione tra regola materiale e formale, tanto che è
sempre necessario verificare che cosa della lettera dei trattati troverà nel tempo applicazione concreta e in che termini.
28
Per questo probabilmente la Russia dalle origini percepisce l’UE come qualche cosa di politico e anche come una
minaccia sui propri confini.
29 Bailes A.J.K & Thorhallsson B., 2013:109; come ente super-governativo, l’UE ha una libertà di manovra più ampia
rispetto alla Nato, ma è anche meno agile nell’azione; v. anche Whitman R.G., 2011.
30 Corriere della Sera, 13/6/2014, Obama spinge su libero scambio Usa-Ue, “Creare nuovi posti di lavoro per i giovani”,
http://www.corriere.it/esteri/13_giugno_17/obama-negoziati-usa-ue_52560492-d75f-11e2-a4df-7eff8733b462.shtml;
negli ultimi mesi, e dopo il summit in Galles, Newport, 4-5 settembre 2014, in ambito Nato sembra emergere
l’intenzione di formare un nucleo permanente e apparentemente super-governativo, che ne cambierebbe struttura e
“target”.
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
21
presunta “riluttanza” dello stesso presidente americano a lasciarsi coinvolgere militarmente in vari
scenari, almeno in modo diretto, alla quale si combinerebbe la tendenza da parte della stessa UE ad
occuparsi maggiormente di questioni di sicurezza “attiva” (seppure considerando che il cd. “the
right of first refusal” resta indiscutibilmente a favore della Nato).
In realtà UE e Nato dalle origini non sembrano avere problemi particolari di convivenza, e
continuano a sviluppare oggi un partnerariato “focusing on stronger complementarity, cooperation
and coordination”,31
configurando le condizioni per un gioco di squadra, in cui ciascuno sembra
avere bisogno dell’altro: disponendo la Nato di esclusivo “hard power”, mentre l’UE quasi
esclusivamente di capacità “soft”, i due “player” avrebbero la possibilità di integrarsi sia
tatticamente che politicamente.
Questo anche considerando l’evoluzione attuale di dottrina e prassi che prevedono la necessità, al
fine di affrontare e risolvere effettivamente una certa crisi, di intervenire a scala di ciclo (o contesto,
o processo) in modo combinato “soft-hard”, civile-militare, strategico-tattico, e in qualsiasi
segmento della stessa crisi, che è da considerate nella sua interezza. Anche per questo relazioni e
collaborazione tra Nato e UE appaiono decisive - sebbene in una certa misura possano anche essere
percepite dall’esterno in modo ambiguo.32
Il confronto con le altre Organizzazioni Internazionali
Mentre la Nato consiste in un’alleanza militare di tipo “classico”, l’affermazione dell’UE si svolge
in uno scenario nuovo, di esplosione di un universo di organizzazioni internazionali (OI) che
sembra caratterizzare la tarda modernità (e il passaggio alla post modernità). Si tratta di un percorso
complesso che anche altre OI di tipo generalista, oppure settoriale, regionale o universale, inter- o
trans-governativo, hanno intrapreso, evidenziando le stesse o anche maggiori difficoltà.
E’ il caso, prima di tutto, dell’ONU la cui azione, dopo uno slancio iniziale, tende ad indebolirsi,
fino a diventare a volte, come è stato definito, una sorta di “convitato di pietra” della
globalizzazione, almeno per gli aspetti politici: un’organizzazione che sembra oggi rappresentare,
per paradosso, una sorta di “esempio negativo” per le OI di formazione più recente (almeno per
quelle con aspirazione universalistica e super-governativa).
Problemi che derivano, a seconda delle interpretazioni, da un certo idealismo originario, o anche da
effetti di “riflessività” (costi di funzionamento, burocratizzazione, occupazione e spartizione di
“poltrone” ecc.) che sono difficili da evitare per organizzazioni di questo tipo (come anche per la
stessa UE). In genere, secondo la letteratura prevalente, l’ONU è debole per aver immaginato un
obiettivo troppo ambizioso per l’epoca, di rappresentare una sorta di meccanismo di
istituzionalizzazione della democrazia mondiale: un’ambizione che ne fa oggetto di
strumentalizzazioni e manipolazioni varie, ovvero di tutti i rischi cui sono soggetti in genere gli
ordinamenti “aperti” (come appunto le OI super-governative).33
Detto questo – ed evidentemente -, l’ONU continua a svolgere un ruolo essenziale per il
mantenimento della pace, anche se agisce in settori e scenari regionali circoscritti, con missioni che
31
Final Report, 2013.
32
Un fatto che in realtà fa apparire l’UE, piuttosto che potere “disarmato”, fatto che ne agevola l’azione in certi ambiti,
come una sorta di potere complementare a quello della Nato (come può apparire per es. agli occhi di russi, arabi e
africani); questo anche considerando che l’UE ha la tendenza a promuovere e finanziare interventi di “peace building”
che poi vengono condotti operativamente da altri paesi; Tardy T., 2013.
33
In un certo senso l’ONU non riesce ad evitare gli errori compiuti a suo tempo dalla Società delle Nazioni di cui
voleva probabilmente rappresentare la continuazione.
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
22
non hanno impatti diretti sugli equilibri politici complessivi (sui quali gli stati sovrani sembrano
voler riservarsi una capacità esclusiva, eventualmente aderendo a “coalizioni di volenterosi” di tipo
inter-governativo). Scenari nei quali le funzioni di sicurezza assumono piuttosto un carattere di tipo
passivo,34
di difesa di istituzioni e popolazioni civili.
Soprattutto l’ONU è lo strumento con il quale la comunità internazionale persegue una serie di
programmi per servizi di base (“basic needs”), che rappresentano una sorta di originario “welfare”
per funzioni di sanità, alimentazione, tutela all’infanzia, cultura, istruzione, ambiente, diritti umani
ecc. da applicare su scala mondiale: funzioni che, in un contesto “senza confini”, rappresentano
un’esigenza autenticamente strategica (anche se difficilmente valutabile in senso politico). Questo
in particolare in situazioni di emergenza umanitaria – quindi politicamente già compromesse -,
quando l’intervento delle agenzie ONU è di fatto senza alternative.
Tutti, questi, elementi che potrebbero indurre di per sé nel tempo lo sviluppo di capacità strategiche
e di istituzioni di tipo super-governativo. Questo perché, l’azione in un ambito internazionale – da
considerare un ambito “senza legge”, nel quale l’azione politica tende a combinarsi alle funzioni
della forza e alla possibilità di “fare la guerra” – creerebbe consequenzialmente le condizioni per lo
sviluppo di funzioni attive e per l’ulteriore istituzionalizzazione delle stesse funzioni strategiche (un
fatto che per quanto riguarda l’ONU comunque fino ad oggi non si è realizzato).
Questo sulla base di definizioni di politica estera e di funzione strategica che appaiono comunque
superate: l’ambito internazionale oggi pone problemi complessi, che devono essere affrontati con
una combinazione di mezzi e tattiche, non esclusivamente con la forza “hard” (che piuttosto tende
ad assumere una funzione residuale, di “extrema ratio”). Si tratta di una materia in evoluzione, così
come le relazioni che oggi l’ONU, oltre che l’UE, sviluppano con altre OI (Osce, Ocse, WTO,
Banca Mondiale ecc.) e con altre organizzazioni dell’economia e della cultura che operano sullo
stesso scenario.
Per tutti questi motivi non si può dire che l’ONU abbia raggiunto pienamente l’obiettivo per cui era
stata fondata, ma neppure si può negare il ruolo che svolge, e che è insostituibile nello scenario
internazionale, che necessita di meccanismi di istituzionalizzazione di questo tipo. Questo, se non
altro, per continuare a rappresentare un “tessuto” di codici per supportare le relazioni bi- e multi-
laterali che si sviluppano spontaneamente, che caratterizzano un quadro in evoluzione e soggetto
alle accelerazioni indotte dalla globalizzazione.
Il confronto con le tensioni della globalizzazione
Lo scenario della globalizzazione significa la necessità per le OI di adeguarsi continuamente, di
perseguire sempre nuove politiche in un ambiente instabile, in cui le tecnologie sembrano proiettare
la vita umana in nuove dimensioni, inducendo un’accelerazione dei processi materiali e culturali,
oltre qualsiasi confine, e oltre le stesse dimensioni della territorialità. In questo contesto le consuete
categorie della geopolitica (confine, massa e forma delle unità politiche, dottrine di difesa statica e
dinamica, della posizione assoluta e relativa all’interno di uno scenario, struttura e proiezione di
potenza, distinzione “hard-soft”, schemi centro-periferia), perdono senso.35
In seguito alle ultime evoluzioni, il territorio (e tutto ciò che rappresenta) diventa qualche cosa di
diverso da ciò che era in altre epoche (cioè un modo per materializzare il potere), e che allora era
relativamente facile da presidiare con un perimetro di confini strutturati. Oggi gli stati e le varie
organizzazioni possono stabilire relazioni a prescindere da distanza, massa, forma, posizione e di
34
Tardy T., 2013.
35
Gray C., 1977; Gray C.S. and Sloan G., editors, 1999.
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23
qualsiasi altro elemento geo-politico, in un contesto in cui i fenomeni assumono una caratteristica
consistenza “s-materializzata” o “de-territorializzata”.
Il fatto stesso di accettare le sfide della globalità significa la necessità di assumere certi ruoli e certe
responsabilità, pena il rischio di diventare vittima dei fenomeni che quelle stesse aperture
provocano. Per es. il fatto di accettare la liberalizzazione dei movimenti di qualsiasi tipo (di traffico,
navigazione, commercio) significa la necessità di contribuire al presidio di una serie di potenziali
“choke points” (Aden, Hormuz, Malacca ecc.), e quindi di assumere la capacità di proiettare le
politiche (sia militari che non militari) oltre i propri confini, anche in aree molto lontane del proprio
retroterra statale-nazionale.
Una condizione che crea le premesse per coinvolgimenti di qualsiasi tipo e che rende inevitabile la
partecipazione alle procedure della sicurezza, che caratterizza non solo la politica ma anche altri
ambiti che nel mondo del globale si sviluppano ad una scala indefinibile e anche illimitata. Così per
i mercati di qualsiasi tipo e dimensione, e così per i mercati finanziari (ai quali attingono i ministeri
dei governi nazionali per rifinanziare il debito pubblico), delle valute e dei titoli, che configurano un
giro vorticoso di valori immateriali e a volte invisibili, tanto che a volte neppure possono essere
registrati con le più efficienti tecniche di “accountability” e di “corporate governance”.
Così anche per servizi, beni reali, materie prime, energia e anche informazioni, conoscenze e
capacità di qualsiasi tipo, che sono impossibili da controllare e anche da manipolare da parte di
qualsiasi potere, e che per questo si avvicinano a configurare una condizione di “concorrenza
perfetta” ovvero di “competition” senza regole (che è pensabile “governare” soltanto in un contesto
di “governance”, v. infra).
Da questo punto di vista, il processo di integrazione UE, avviato in epoca di tarda modernità, dagli
anni ’50, coincide con una manovra di adattamento di scala dei fenomeni dell’economia alle
capacità della politica (un fenomeno noto in letteratura come “re-scaling”).36
Quasi una manovra
per “ri-territorializzare” le istituzioni del potere (così come i mercati, le linee di
approvvigionamento, le unità linguistiche-culturali ecc.), forse troppo ambiziosa per l’UE e che
delinea una nuova e possibile contraddizione, ovvero una manovra di ri-territorializzazione della
politica in un contesto di progressiva de-territorializzazione globale.
Una tendenza che coincide con l’affermazione di un nuovo paradigma che sembra sfavorire unità di
grandi dimensioni e molto strutturate; è il caso di stati-apparati che consistono in grandi masse
(territori e popolazioni, ma anche apparati industriali e reti di infrastrutture), che perseguono
programmi di “welfare” “pesanti” e molto “territorializzati”, caratterizzati da costi fissi e sociali
difficilmente gestibili.37
E’ il caso in genere di “medie potenze”, cioè di stati che non intendono
subire le potenze egemoni, ma che nel contempo non hanno i mezzi per sostenere politiche di
potenza, di organizzazioni super-governative, per loro stessa natura tendenzialmente “pesanti”, e di
multinazionali fortemente strutturate e patrimonializzate.
Uno scenario che sembra invece “premiare” stati “piccoli” e “leggeri”, che possono agire in modo
flessibile, mantenendo capacità di riconversione e adattamento, e all’occorrenza condurre politiche
competitive (di tipo “paradiso fiscale”, economia “off-shore” e geografie di “amenity”) a discapito
degli stessi stati “pesanti”; così in genere per organizzazioni scarsamente strutturate, oltre che per
gli stati, per associazioni private, aziendali, ecc.
36
Uitermark J., 2002; Cox K.R., 1998.
37
Holmes S., Sunstein C.R., 1999.
gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group
24
Una tendenza che si interseca con i processi della globalizzazione che si affermano in termini di
sfida alle organizzazioni territoriali e sovrane, in prospettiva dell’affermazione di realtà trans-
statuali (aziende multinazionali, aziende che esternalizzano la produzione, “public companies”,
fondi d’investimento, organizzazioni finanziarie) e di nuove identità globali (la “global civil
society”, le “global city”). Tanto da far pensare che la stessa istituzione europea ed il progetto che
essa rappresenta – fondamentalmente di ri-territorializzazione della politica, da una scala di stato-
nazione ad una di stato-continente plurinazionale - sia già un po’ superata.
Un’interpretazione che per certi aspetti farebbe ritenere invecchiato precocemente l’ideale
comunitario, che si proponeva inizialmente di combinare, se non di sostituire, il proprio con gli
ideali dei singoli stati-nazione (anch’essi in realtà in crisi, come qualsiasi altra organizzazione
fortemente territorializzata).
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25
Capitolo 2 - Dalla geopolitica all’integrazione
L’integrazione europea e i suoi sinonimi
L’intenzione di mettere in comune risorse ed apparati, e di elaborare una politica di convergenza tra
unità statuali sovrane, emerge all’indomani della conclusione della IIGM, per svilupparsi
successivamente su livelli diversi, assumendo modalità e obiettivi che a volte si rivelano essere
contraddittori.
Un’operazione che rappresenta un caso eccezionale della geografia politica - di oggi come di ieri -,
più spesso caratterizzata da altre circostanze: più spesso la politica internazionale non persegue
obiettivi di integrazione, e in quel caso si limita all’elaborazione di dispositivi per regolazione di
contenziosi in ambito di relazioni prevalentemente bi-laterali o, se multi-laterali, di tipo inter-
governativo. Nel caso europeo invece alcuni paesi sovrani decidono di perseguire obiettivi di
condivisione per gli strumenti sui quali essi stessi fondano storicamente la propria capacità politica.
Un fatto che – come tutto ciò che riguarda sovranità e territorio, e relativi simbolismi, elementi tra i
più rischiosi della dialettica politica, causa frequente di guerre - deve essere trattato con cautela, ed
analizzato sia nella teoria che nella prassi, alle diverse scale (di contesto e di dettaglio, dal locale al
globale, di strategia e di tattica). Di fatto l’integrazione europea è un caso che non ha precedenti, di
“prassi” che anticipa la teoria, che è interessante collocare in un contesto di schemi teorici: per
definizione, una possibilità ma anche un rischio, oltre che una straordinaria occasione per i cultori
di geografia politica.38
In questa sede, in realtà, non si intende discutere i presupposti del fenomeno - se giusto o sbagliato,
inevitabile o necessario, realistico o irrealistico -, ma evidenziare come e in che misura il processo
si stia evolvendo, in quale contesto più vasto si colloca, quali possono essere gli sviluppi e quali i
problemi, gli ostacoli e gli scenari di rischio che ne possono derivare. Questo assumendo che i
problemi che il “percorso condiviso” europeo manifesta attualmente siano dovuti almeno in parte a
questioni di impostazione, ovvero alle stesse definizioni che ne sono alla base. E’ il caso di
“integrazione” e di “funzione strategica”, di rischio e di geopolitica, tutti concetti suscettibili di
interpretazioni diverse, che prospettano il rischio di equivoci e incomprensioni.39
L’impulso originario all’integrazione
Le ragioni alla base dell’integrazione sono - come è noto - collegate al superamento dello shock
causato dalle guerre novecentesche e alla maturazione di una serie di consapevolezze.40
Tra queste,
quella che deriva dal carattere distruttivo che possono sviluppare le nuove armi (e in genere le
nuove tecnologie) in epoca tardo-moderna, ormai caratterizzate da una capacità tale da configurare
un rischio di “feedback” autodistruttivo su scala planetaria.
Un’evoluzione che conferisce a singoli apparati, che abbiano accesso a quelle stesse armi, una
capacità di “ricatto” rispetto all’intera comunità umana, che cambia sostanzialmente lo scenario
strategico:41
la tecnologia tardo-moderna mette a disposizione di stati individuali (e di chiunque) un
38
Goio F., Spizzo D., a cura di, 2001.
39
Questo per gli aspetti essenzialmente geo-politici della questione, essendo gli aspetti di tipo militare, come già
ricordato nella premessa, oggetto di un ulteriore studio parallelo al presente; CeMiSS, 2014.
40
Beck U., 2000; Beck U., Giddens A., Lash. S., 1999.
41
È il caso in particolare dell’arma atomica; Diez T., Manners I., & Whitman R., 2011:122; vedi anche Bull H., 1977.
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26
potere troppo forte, potenzialmente incontrollabile, per non dover applicare qualche forma di
controllo e di condivisione a scala di sistema. Una consapevolezza che si diffonde fino al punto di
prevedere l’istituzione di codici e procedure trans-nazionali in grado di imporsi sull’insieme dei
singoli stati, configurando inevitabilmente un depotenziamento degli stessi apparati sovrani.
Un dato di fatto che ha varie conseguenze tra le quali la consapevolezza che sia necessario garantire
le condizioni per una continuità di dialogo tra stati, nazioni e altri “player”, al di là di contingenze
(per es. dalle intenzioni di un singolo governo, dell’eventualità che si formino differenziali di
sviluppo tra stati confinanti) e di contenziosi, ovvero per immunizzare le tensioni che ne possono
derivare. Infatti, come l’esperienza insegna, la dinamica di competizione tra i sistemi politici può
evolversi in modo tale da diventare incontrollabile e da sfuggire di mano anche ai più esperti e
collaudati ordinamenti.42
Un obiettivo che è possibile ottenere con l’applicazione di tecniche di istituzionalizzazione delle
stesse relazioni internazionali, elaborando un ambito multi-laterale e comunitario, con stati che
accettano la possibilità di vincolarsi reciprocamente sulla base di qualche accordo. Come
affermavano i “padri fondatori” dell’UE - ispirati da una filosofia appunto un po’ paternalistica - “la
pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli
che la minacciano”,43
sottolineando in questo modo il rischio che la persistenza di divisioni statuali
da ritenersi definitive e irreversibili, potesse far riemergere in qualche circostanza tensioni difficili
da controllare, ovvero le premesse per nuovi conflitti.
Un fatto che rappresenta l’aspetto autenticamente critico di tutta la storia europea, antica e recente,
che però in ambito di tarda modernità configura un rischio che non può più essere tollerato:
l’ambito di confine,44
e i differenziali che inevitabilmente si formano tra i sistemi nelle varie
epoche, è caratterizzato dall’accumulo di tensioni che possono riverberarsi in modo distruttivo sui
vari piani della politica sia interna che internazionale. Un fatto che va oltre la contingenza di un
certo scenario e i “buoni rapporti” che in realtà costituiscono la regola delle relazioni tra gli stati
(seppure a volte un po’ di maniera). Evidentemente, non si può escludere che neppure gli stati più
stabili nel loro percorso di vita possano essere in qualche momento interessati da fenomeni
degenerativi.45
E’ il caso dell’affermazione di élite che consolidano posizioni di rendita, che diventano con il tempo
irresponsabili rispetto al resto della popolazione, della diffusione di ideologie populistiche e di
ondate di “odio” sociale, classista, nazionalista o di altro tipo. E’ il caso di “guerre” economiche,
fiscali e doganali, di rivoluzioni “di piazza” e di ribellioni etno-sociali che possono avere origine nel
quartiere emarginato di una grande città per diffondersi e per provocare effetti domino a vasta scala.
E’ il caso – come succede oggi – di flussi che si sviluppano in modo incontrollabile in qualsiasi
senso, che riguardano persone, conoscenze, merci, strumenti, idee, aziende e interi apparati (come
nel caso di fenomeni di delocalizzazione), e che possono comportare improvvisi effetti distruttivi
per interi sistemi.
42
La storia abbonda di casi di questo tipo; è il caso di un governo che amministra in modo irresponsabile e che,
piuttosto che perdere il potere, per timore di vendette o semplicemente per deviare l’attenzione dalle proprie
responsabilità, è capace di scatenare una guerra; ovviamente anche i regimi pluralisti sono soggetti a questi e ad altri
rischi degenerativi.
43 Dichiarazione Schuman, 1950.
44 Scharr K., Steinicke E., Hg., 2012; Heller A., Hrgs., 2011.
45
Evidentemente quando la moltitudine umana diventa, da società civile, “folla” è maggiormente soggetta a dinamiche
ed evoluzioni imprevedibili; Le Bon G., 1980.
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27
Un processo spontaneo o una strategia pianificata?
A seconda delle interpretazioni il processo di integrazione europea si sviluppa sulla base di una
pianificazione deliberatamente perseguita oppure in modo spontaneo, senza seguire un particolare
disegno, sia in termini di allargamento verso l’esterno, che di integrazione interna.
Alcuni autori ritengono di individuare in questo percorso criteri ben definiti; è il caso della “logica
funzionalista”,46
che teorizza un processo che, interessando originariamente alcune “funzioni
chiave”, si estenderebbe poi alle altre dimensioni della società,47
e finalmente alle funzioni della cd.
“alta politica”, costitutive direttamente di sovranità (forze armate, rappresentanza e politica estera,
funzioni di tipo autenticamente strategico).
Un fatto che sembra evidente considerando i 50 anni di storia di integrazione della UE a partire dai
trattati di Parigi e Roma negli anni ’50, che in effetti si realizza su un percorso che considera prima
le produzioni di tipo primario, per definizione molto “territoriali”, per poi passare alle funzioni
meno materiali e più strategiche (ovviamente secondo una definizione coeva che oggi ha perso una
parte di significato).
E’ il caso della Politica Agricola Comune (PAC), per stabilizzare i prezzi in agricoltura, in un
contesto ancora diffusamente pre-industriale (negli anni ’50), in cui stabilità del mercato e della
produzione agraria (ovvero la paura per la carestia, un motivo ricorrente in epoca premoderna)
erano ancora qualche cosa di fondamentale. E’ il caso delle risorse energetiche e minerarie (materie
prime, carbone e acciaio, nucleare) con l’istituzione di Ceca ed Euratom, che si proponevano di
mettere in comune risorse essenziali per l’industria, e per rendere in questo modo “materialmente”
impossibile una nuova guerra per le materie prime.48
E’ il caso, quindi, di infrastrutture e di pianificazione di mobilità, di corridoi “paneuropei”, di
“nodi” e di “hub” (aeroporti, porti e stazioni intermodali), di assi di comunicazione su scala
continentale per TAV e autostrade, di condotte per risorse energetiche (essenzialmente idrocarburi),
di raffinerie e rigassificatori: una politica che predispone fondi “strutturali” e investimenti co-
finanziati, e anche una serie di “agende” europee che, conseguentemente, ne possano certificare
l’efficienza, nonché impatti su economia, ambiente e società.
Un percorso che si sviluppa sulla base della convinzione che, una volta integrate le basi materiali (e
maturato un senso dell’interesse comune da parte di popolazioni e società civili), le dinamiche della
convergenza possano auto-alimentarsi, predisponendo a un processo irreversibile. Una traiettoria
predisposta per “aggirare”, in quella fase, le funzioni e i simbolismi dell’”alta politica”, ma anche e
soprattutto per evitare reazioni da parte di élite nazionali, nonché di “piazze” e di settori della
società maggiormente sensibili a quelle tematiche, oltre che dei vari altri “players” della politica
nazionale e internazionale.49
Una politica che, una volta superato questo ostacolo, avrebbe potuto interessare - una volta che i
tempi si fossero dimostrati maturi – gli strati più vasti della popolazione, inducendo le stesse élite a
promuovere l’integrazione anche per le funzioni direttamente costitutive di potere. Tra queste, le
46
http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell'integrazione_europea (accesso ottobre 2014).
47 Jelen I., 2012.
48 Dichiarazione Schuman, 1950.
49
Essenzialmente le super-potenze in un contesto che vede l’Europa divisa e indebolita: secondo alcuni autori già
questo può essere considerato un motivo valido per perseguire l’unificazione delle funzioni strategiche, ovvero per
evitare che l’Europa diventi oggetto di manovre di “divide et impera”, e talvolta il campo di battaglia di potenze esterne,
che cercherebbero di mettere gli uni contro gli altri, innescando conflitti di varia natura.
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funzioni di politica economica e fiscale, di supervisione di moneta e attività bancarie, di dogana e di
controlli alle frontiere, di uso e di controllo degli strumenti per produrre la forza; infine, le funzioni
di governo e le funzioni strategiche (un percorso che configura di fatto il programma europeista).
Il percorso dell’integrazione
La prospettiva funzionalista si scontra con quella “costruttivista” (oppure “idealista”) che invece
prevede, in modo reciproco, che siano gli ideali a “produrre” la prassi, ovvero, in ultima analisi, le
decisioni concrete della politica.50
Una prospettiva che pone il risalto, piuttosto che sulla materialità,
sull’immaginario e sulla capacità di immaginare un obiettivo sia da parte delle élite che delle
popolazioni, che – si presume - avrebbero la possibilità di organizzare e finalizzare coerentemente
la propria azione.
Una riflessione (sui fattori che generano l’impulso originario all’integrazione e le modalità con le
quali la stessa si realizza) non solo accademica. Infatti, è importante capire il verso dell’integrazione
- ammesso che ce ne sia uno - per tentare di comprendere quali possano essere le future evoluzioni
in termini di limiti, opportunità ed ev. blocchi, in particolare, per i fini di questo studio, per le
funzioni della cd. ”alta politica”.
Al di là di questo, è evidente come il processo abbia affrontato (e in certi casi superato) una serie di
salti di scala, che abbia avuto quindi un andamento non lineare, suscitando reazioni di segno
opposto. Un fatto dovuto a interessi e resistenze che si manifestano a volte in modo imprevedibile,
che fanno riferimento a lobby o movimenti di opinione, a gruppi di stati e gruppi di potere a volte
difficili da riconoscere, che si formano attorno a qualche interesse particolare.
In effetti – così come prevede una visione “realista” - spesso gli stati perseguono intenzioni
opportunistiche, al di là dell’ostentazione di qualche ideale, praticando piuttosto strategie di
massimizzazione di interessi immediati o intermedi, da adattare a seconda delle circostanze,
compattandosi eventualmente in qualche sotto-gruppo o lobby.
Così – per il caso europeo – per i paesi del sud e del nord, dell’est e dell’ovest, per paesi che fanno
parte del “nucleo fondatore” e “new entry” (i quali, si presume, debbano essere sottoposti a qualche
rito di “iniziazione”); è il caso di paesi a vocazione industriale, con economie orientate all’export,
oppure di paesi che si basano su attività terziarie, tutela di ambiente e paesaggio, turismo e attività
culturali, su agricoltura intensiva oppure “mediterranea” e di qualità, e via dicendo.51
Paesi che
sviluppano strategie diverse, in una certa misura in contraddizione tra di loro, e che, in un contesto
di parlamento europeo, assumono il ruolo che all’interno dei rispettivi parlamenti nazionali hanno i
partiti regionali, che tendono a rappresentare interessi di parte – un fatto che però fino ad ora non ha
comportato rischi troppo gravi di fratture.
In realtà, un rischio che si manifesta soprattutto per le funzioni di tipo strategico, per definizione
difficilmente o non-negoziabili, con i vari governi individuali che tendono ad “usare” l’UE per
obiettivi che da soli non potrebbero sperare di perseguire. E’ il caso degli stati “piccoli”, che
tenderebbero a usare l’istituzione europea per assicurarsi una rappresentanza internazionale e per
sfuggire all’egemonia delle super-potenze; e di quelli più grandi, ma non abbastanza da sperare in
un ruolo di potenza, che invece cercherebbero di sfruttare la stessa istituzione comunitaria per
cercare surrettiziamente di realizzare politiche di influenza.52
50 Anderson B., 1991.
51 Bailes A.J.K & Thorhallsson B., 2013.
52 Diez T., Manners I., & Whitman R., 2011.
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  • 1. Centro Militare di Studi Strategici RICERCA 2014 - RELINT AH-R-09 Direttori della Ricerca Prof. Igor JELEN Prof. Sergio ZILLI ------- Collaboratori Dr.ssa Elisabetta BENEDETTI Dr. Enrico MINIATI Dr.ssa Erica SPECOGNA Dr.ssa Carolina STERA Università di Trieste – Gorizia campus Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali Corso di Laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche Progetto “Europa della Difesa”. Individuazione di un possibile percorso condiviso verso una Difesa comune.UE
  • 2. Il Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS), istituito nel 1987, è il Centro di eccellenza del Ministero della Difesa che, nella complessità degli attuali scenari, gestisce la ricerca su temi a livello strategico, nell’ottica del perseguimento degli obiettivi che le Forze Armate e più in generale la collettività nazionale si pongono in tema di sicurezza. La “mission” del Centro nasce dall’ineludibile necessità della Difesa di svolgere un ruolo di primo piano nel mondo della cultura e della conoscenza scientifica, allo scopo di contribuire alla comprensione delle problematiche attinenti la sicurezza nazionale. In particolare, il CeMiSS: - effettua studi e ricerche a carattere strategico-politico-militare; - sviluppa collaborazioni tra le Forze Armate, le Università, i Centri di Ricerca (nazionali ed esteri) nonché le Amministrazioni Pubbliche; - forma i ricercatori scientifici militari; - promuove la specializzazione dei giovani nel settore della ricerca; - pubblica e diffonde gli studi di maggiore interesse. Le attività del Centro sono rivolte allo studio di fenomeni di natura politica, economica, sociale, culturale e militare nonchè all’effetto dell’introduzione di nuove tecnologie, ovvero di qualsiasi fenomeno che determini apprezzabili cambiamenti dello scenario in termini di sicurezza. Tali attività sono prioritariamente orientate al soddisfacimento delle esigenze conoscitive e decisionali dei Vertici istituzionali della Difesa e tendono, in definitiva, ad un continuo arricchimento delle conoscenze disponibili, rispondendo a criteri di tempestività e di accuratezza. Il CeMiSS svolge la propria opera valendosi di esperti civili e militari (italiani e stranieri) che realizzano le rispettive analisi senza vincoli di espressione del proprio pensiero.
  • 3. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 3 Premessa.......................................................................................................................................... 6 Riassunto......................................................................................................................................... 7 Capitolo 1 - Esiste una geopolitica europea?................................................................................ 11 Allargamento verso l’esterno e integrazione verso l’interno - Criticità e opportunità - Reazioni e impatti anche non intenzionali - Geopolitica dei confini intra–europei - Un’economia di “borderland” - Allargamento ed espansione dello scenario - Una scala imprevedibile - Una situazione di “gioco” tra poteri - Il confronto con la Nato - Il confronto con le altre Organizzazioni Internazionali - Il confronto con le tensioni della globalizzazione Capitolo 2 - Dalla geopolitica all’integrazione............................................................................. 25 L’integrazione europea e i suoi sinonimi - L’impulso originario all’integrazione - Un processo spontaneo o una strategia pianificata? - Un artificio geo-strategico? - La teoria civica - Le istituzioni inter- e super- nazionali in un contesto di società aperta - Un fenomeno in evoluzione - Il “patriottismo” della società aperta - Un’area di interesse comune per le funzioni della sicurezza - La sfida: mantenere in efficienza gli apparati “aperti” - Il superamento della discontinuità interno/internazionale - Politiche di coesione sociale e strutturale Capitolo 3 - L’integrazione e le sue teorie.................................................................................... 40 L’approccio strutturalista: un effetto della globalizzazione - Una situazione di rischio globale - La teoria della “governance” - La “governance” come evoluzione spontanea - La “governance” multi-livello: illusione o prospettiva di un governo internazionale? - Sicurezza attiva e passiva - Definizione di rischio e di funzione strategica - La “governance” delle funzioni strategiche - L’analisi geopolitica classica - Stati piccoli e “governance” - La proliferazione di attori non statali: il post fordismo interno/ internazionale - Scomposizione e ricomposizione dello scenario - Strumenti per produrre sicurezza e rischio di riflessività - Il lavoro di gruppo e la controllabilità in tempo reale - Tradizioni e culture diverse della sicurezza - Il contesto e la nuova geopolitica - Il superamento delle forme politiche della modernità - Confusione tra categorie - Il fenomeno della formazione di un nuovo stato - Possibili evoluzioni in seguito al trattato di Lisbona - Questione di geostrategia: la Nato e l’egemonia americana - Teorie bio-politiche e organicistiche - Una teoria esclusivista - La realtà del mescolamento - Le modalità dell’integrazione - Nuovo scenario: l’inquietudine dei “brics” - Il recupero dell’ideale nazionale in senso identitario Capitolo 4 – Le funzioni strategiche e il limite dell’integrazione................................................. 71 Dalla geopolitica alla geostrategia - Propositi e possibilità di integrazione in ambito militare - Simboli nazionali e tradizioni militari - Integrazione per fasi: il limite delle funzioni strategiche - Gli ambiti di difficile integrazione - Inventario delle funzioni strategiche - Il principio della “letalità” - Il principio di rischio sistemico - Il rischio degli effetti riflessivi (“insider”) - Il principio dell’immediatezza e della “readiness” - La teoria della superiorità etica della democrazia - I limiti della “governance” in ambito militare - Fine e mezzo, elemento e contesto - Il principio di imprevedibilità - Il rischio di conflitto tra poteri: il tabù europeo - Principio di salvaguardia e di “rischio massimo” - Il rischio da insufficienza di credibilità - Ideali e teleologia, identità e consenso - L’identità in prospettiva primordialista ed essenzialista
  • 4. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 4 Capitolo 5 – Il precedente dell’unificazione della moneta: cenni di economia............................ 96 I vantaggi dell’unificazione della moneta - Benefici legati ai costi di transazione - Unione monetaria e crescita economica - Benefici di un’unione valutaria e grado di internazionalizzazione - Significato complessivo Capitolo 6 – Esperienze pregresse di integrazione per funzioni strategiche: cenni storici......... 100 Una contraddizione politica fondamentale - Il precedente della decolonizzazione - L’Anschluss austro- tedesco - La formazione dell’Urss - La Jugoslavia - L’unificazione italiana - L’unificazione tedesca (1871) - Nuovo esercito o somma degli eserciti precedenti? Capitolo 7 - L’Euro difesa oggi .................................................................................................. 107 La difesa europea: lo stato di fatto - La Pesd: definizioni - Elementi della Pesd - Caratteri generali: una scarsa istituzionalizzazione - Agenzie e missioni: una filosofia di “governance” - Rischio di sovrapposizione e di duplicazione - Rischio di conflitto di interessi - Lista di agenzie - Politica estera e sicurezza - Caratteri generali delle agenzie - “European battlegroups” - Nuovi settori di intervento - Dalla sicurezza passiva a quella attiva - Un quadro diversificato - Prospettive di cooperazione in tema di difesa europea Capitolo 8 – L’intersezione tra nuovo modello di difesa e società civile................................... 122 L’evoluzione dei modelli di difesa e sicurezza - La sicurezza tra il “globale” e il “sociale” - Un’evoluzione verso il sociale - Ruolo dei “media”: “social”, “mass” e di altra natura - L’effetto “panopticon” (“casa di vetro”) - L’intersezione con i sistemi sociali - La vulnerabilità dei sistemi Capitolo 9 - Tipo e ambiti di intervento...................................................................................... 129 Azioni e interventi: breve rassegna - Prevenzione e controllo di migrazioni di massa e assistenza rifugiati - Mantenimento di condizioni di libertà di commercio e di navigazione - Prevenzione catastrofi e crisi non militari - Fattori di rischio relativi ad accessibilità di strumenti bellici - Caratteristiche dell’intervento europeo: a) settori a minore impatto sugli equilibri complessivi - b) Prima, durante e dopo il conflitto - c) Un mix di “soft” e “hard” - Il ruolo dell’UE - Il rischio della formazione di scenari “insider” (“riflessivi”) - Premesse della dottrina “soft” - Un principio di cautela: capacità tattica e valutazioni di scenario Capitolo 10 - L’evoluzione del rischio ....................................................................................... 141 Nuovi fattori di rischio a scala sempre più ampia - Le “key threats” della ESS: il dovere di enunciare la strategia - Rischi regionali e migrazioni di massa - La “cyber security” - European Cyber Security Strategy - Il rischio terroristico - La predisposizione della scala appropriata di intervento - Le minacce interne all’apparato: a) eversione e infiltrazioni del crimine organizzato - b) Atti ostruzionistici di tipo “insider” al sistema - c) La concentrazione di potere e le distorsioni del gioco democratico - Il rischio esistenziale: imborghesimento e “over complacency” Capitolo 11: Aspetti operativi dell’integrazione delle funzioni strategiche ............................... 155 Dalla competizione alla collaborazione tra paesi europei - L‘integrazione nel trattato di Lisbona - Posizioni diversificate - Obiettivi e visione strategica comune - Quadro delle visioni strategiche e geopolitiche nazionali - Il processo decisionale e il vincolo dell’unanimità - “Risposte rapide” - Il “sistema binario” e il
  • 5. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 5 processo decisionale europeo: coesione o “impasse”? - Il problema della ripartizione delle spese - Il ruolo delle forze armate - Una struttura flessibile e adattabile - Mezzi e strumenti: carenze operative - Un obiettivo di standardizzazione - Riforme economico-industriali: il “pooling & sharing” - La Smart Defence e la collaborazione con la Nato - Definizione di una “vision” continentale - Linee programmatiche del Ministero della Difesa italiano - Una minaccia per la Psdc: i partiti euroscettici in parlamento Capitolo 12 – Cenni conclusivi: le opzioni dell’integrazione..................................................... 172 Il compito dell’Italia durante il semestre di presidenza - Le opzioni per l’integrazione - Opzione “meno uno”: è possibile tornare indietro? - Il confronto con altre aree - Il costo della non integrazione: il “free riding” - Opzione “zero” e mantenimento dello “status quo” - Il “duale” ovvero l’integrazione come strumento per sviluppare economie - Integrazione pesante (“road map”) - Specializzazione e divisione di funzioni - Un ideale di unificazione e la formazione di un super stato - La proposta di un graduale percorso di condivisione - Due direttrici di attuazione del progetto - Direttrice 1 – Coordinamento dei tagli ai budget della difesa - Direttrice 2 – “Civil tasks” - Integrazione e azione combinata con Nato e altri “player” internazionali - “Club ad invito”: alcuni paesi si specializzano in funzioni di sicurezza “attiva” - Gioco di ruolo: “governance” come combinazione di poteri e di capacità - Efficienza interna e ciclo delle democrazie - L’integrazione: una sfida per i sistemi politici più evoluti - Un moltiplicatore di capacità Fonti citate e consultate............................................................................................................... 192
  • 6. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 6 Premessa L’elaborato presenta i risultati della ricerca svolta sulla base della convenzione stipulata tra Università di Trieste e Centro Militare di Studi Strategici in data 11 giugno 2014, ed ha come obiettivo lo studio delle varie opzioni in materia di integrazione comunitaria di funzioni strategiche. La ricerca consiste in un lavoro di gruppo, coordinato da Igor Jelen (che ha redatto i capitoli 1, 4 e 9) e Sergio Zilli (capitoli 2 e 3), cui partecipano Maurizio Stanic (che ha redatto il capitolo 5), Erica Specogna (capitolo 11 e parte del capitolo 12), Carolina Stera (capitoli 8 e 10), Elisabetta Benedetti (capitolo 7) ed Enrico Miniati (capitolo 6). Si tratta di una ricerca svolta sulla base della consultazione di fonti accessibili (“open sources”), tra le quali sono state privilegiate le fonti scientifiche. Il testo è composto per frasi di struttura semplice, ed è predisposto per la traduzione automatica in varie lingue – salvo ovviamente tutte le verifiche del caso, solo per usi provvisori. Come da accordi, la ricerca considera essenzialmente gli aspetti geopolitici della questione, tralasciando le tematiche prettamente militari, che sono oggetto di un ulteriore studio, parallelo al presente. Il testo è aggiornato a dati e informazioni dell’estate 2014, ed è stato redatto nei mesi ottobre/novembre 2014.
  • 7. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 7 Riassunto L’istanza dell’integrazione europea emerge in epoca di secondo Dopoguerra sia come ipotesi geo- strategica, come risposta alla formazione della frattura bipolare, che come risultato di una proposta ideale, di respiro più ampio, che dà continuità alla tradizione europeista (elaborata da autori come Altiero Spinelli, e che ha lontani precursori in Mazzini, Kant e altri pensatori dei secoli precedenti): una visione che vuole superare la situazione di frammentazione che porta spesso nella storia gli stati del continente a farsi la guerra tra di loro. Una situazione indotta dalla stessa geografia europea, straordinariamente articolata ed aperta ad influssi dall’esterno, che è di ostacolo all’affermazione nel tempo di alcun potere centrale ovvero egemone su tutto l’ambito continentale: un elemento che di per sé tende a favorire particolarismi e rivalità, che predispone alla continua formazione di differenziali, ma che nel contempo rappresenta anche la base per una straordinaria ricchezza culturale. Successivamente, con il superamento dello scenario bipolare (che aveva indotto a sua volta la formazione di ideologie terzomondiste e di movimenti di “paesi non allineati”), e delle altre divisioni planetarie caratteristiche del tardo Novecento, indotte in genere da processi di modernizzazione (ideologie del progresso e dell’innovazione, e corrispondenti reazioni), la stessa idea di integrazione si combina a una tendenza di dimensioni ancora più ampie: è il caso della globalizzazione che, originata da fattori tecnologici e culturali, finisce per configurare un nuovo ordine geopolitico. In questo contesto il programma europeista si realizza in modo controverso, con un processo che per certi aspetti rappresenta indubbiamente un successo (per es. per aver ancorato ad una consuetudine di democrazia, caratteristica dei paesi dell’Europa occidentale ed atlantica, vari paesi mediterranei e dell’Europa centro-orientale, che escono abbastanza tardi dalla dittatura), ma che lascia nondimeno aperte varie questioni, tanto da spingere alcuni autori a parlare di “limiti dell’integrazione”. Tra questi il limite economico, che è caratteristico del resto di tutti i sistemi “aperti”, che si fondano sulla redistribuzione continua di potere, che significa la difficoltà di mantenere un controllo dei costi di qualsiasi tipo (sociali, territoriali, ambientali, strategici) e quindi di valutare le politiche in qualsiasi dimensione. Questo in particolare in un contesto di democrazia, soggetta di per sé all’accumulo di “costi invisibili”, che rappresentano nel tempo una minaccia per la sua stessa stabilità. In realtà la logica dell'integrazione dovrebbe permettere ai singoli sistemi di ottenere economie, di mettere in comune risorse e di sviluppare un effetto moltiplicatore, che tuttavia può realizzarsi solamente sulla base di un’efficiente “accountability”, da applicare anche a funzioni di difficile misurazione (come quelle di tipo politico, militare e strategico). In genere, la discussione sul “limite” dell’integrazione riguarda la possibilità di proseguire o meno il processo, ipotizzando un obiettivo finale di “unificazione”: un processo che fino ad ora – in una storia di circa mezzo secolo - si è svolto sulla base di una logica che è stata definita “funzionalista”, che quindi interessa prima di tutto le varianti di base, di tipo territoriale, per poi estendersi agli aspetti direttamente costitutivi di sovranità (cioè le funzioni strategiche), che tradizionalmente significano l’essenza stessa del potere statale (secondo una definizione che si è consolidata nei secoli della modernità). In queste circostanze i processi di integrazione hanno interessato e continuano ad interessare vari aspetti della vita degli stati, delle società, degli apparati culturali e della comunicazione,
  • 8. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 8 dell’organizzazione territoriale ed economica, fino al punto di creare le condizioni per una moneta unica, una politica economica e finanziaria comuni, e fino al punto che, oggi, la Commissione può rivendicare una “non minore” legittimazione rispetto ai governi nazionali (in quanto legittimata da un Parlamento e da elezioni a suffragio universale).1 In realtà, il quadro delle relazioni tra gli attori politici istituiti dal Trattato dell’Unione Europea (TUE) nella più recente versione (quella di Lisbona) non appare sempre coerente, e piuttosto fa pensare ad una situazione di “gioco tra poteri” che vengono lasciati interagire fino al punto che – si presume - prevarranno una prassi e uno schema più definiti: un effetto probabilmente deliberatamente perseguito e funzionale a un concetto di “governance” (di pesi e contrappesi, di poteri e contropoteri), e quindi di potere che si realizza per procedure piuttosto che per atti imposti “dall’alto”. Un approccio che però per le funzioni strategiche (della cd. “high politics”) presenta aspetti discutibili: un argomento che lo studio qui presentato vuole affrontare, prima di tutto, collocando il processo di integrazione in un contesto più vasto, di teorie, prassi ed evoluzioni spontanee, cercando di individuare limiti e prospettive. Funzioni che, per loro stessa natura, difficilmente possono essere scomposte e ri-composte in procedure, eventualmente tra istituzioni diverse (come previsto da un meccanismo di “governance”), se non a rischio di creare pericolosi vuoti di potere (oppure di conflitto, di sovrapposizione o duplicazione tra poteri). Per questo, il lavoro ha come premessa uno studio sulla definizione di funzione strategica, che nel nuovo scenario “senza confini” sembra necessario rivedere, e che tende a interessare funzioni diverse da quelle che consuetamente vengono definite come tali, e che per la tradizionale definizione di sovranità si riferiscono essenzialmente a rappresentanza internazionale, controllo e monopolio degli strumenti per produrre forza in un dato territorio. Una definizione, quindi, che assume le funzioni strategiche non come qualche cosa di estemporaneo (fuori dalla storia e dalla geografia), ovvero come gli attributi di un potere assoluto (e quindi indiscutibile), ma come funzioni “normali”, da collocare in un contesto più vasto, sia sociale che politico: alcune tra le tante funzioni che qualsiasi ordinamento deve svolgere e conseguentemente regolare e controllare per poter migliorare le proprie capacità. Un contesto che questo lavoro considera essenzialmente negli aspetti geopolitici, nelle varie dimensioni, sia nei suoi meccanismi interni, che in senso comparativo. Infatti analoghe tendenze di integrazione (a quelle che caratterizzano il continente europee) caratterizzano molte o forse tutte le aree del mondo che presentano caratteristiche geografiche simili (ovvero scenari macro-regionali di tipo geograficamente circoscritto), dove i progetti di condivisione e unificazione (o “tout court” di istituzionalizzazione del dialogo multi-laterale) sembrano essere alternativi al persistere di situazioni conflittuali. Tuttavia da nessuna parte l’integrazione si è spinta fino e oltre a questo punto, cioè oltre il limite della riorganizzazione su base comunitaria delle funzioni della forza, e in genere strategiche – un fatto che per la geografia e la storia della politica sembra rappresentare un’eccezione. Una questione - l’unificazione o almeno l’istituzione di un coordinamento super-governativo per tali funzioni – che resta aperta, e che, secondo la letteratura prevalente, è nondimeno necessario affrontare, perché i vari ordinamenti non vadano incontro al rischio di perdere capacità, e di diventare obsoleti rispetto alle evoluzioni della realtà più vasta. 1 »'(...) non sono il presidente di una banda di burocrati (...) non siamo meno legittimati rispetto ad altri', ha detto Juncker parlando al Parlamento europeo a Bruxelles, Corriere della Sera, 4/11/ 2014, http://www.corriere.it/politica/14_novembre_04/juncker-renzi-non-sono-capo-una-banda-burocrati-e874d63a-6433- 11e4-8b92-e761213fe6b8.shtml
  • 9. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 9 Un rischio che rappresenta il motivo ispiratore di questa ricerca, che vuole individuare una serie di scenari e di opzioni in questo senso. Tra queste è possibile ipotizzare, in via prioritaria, forme di integrazione per funzioni che interessano ambiti di tipo innovativo (per es. tecnologie della cibernetica, del nucleare, della bio-genetica), e in forte evoluzione, che potenzialmente rappresentano elementi di vulnerabilità, e anche possibili nuovi “fronti di guerra” per i sistemi sociali. Settori che sono, per questi stessi motivi, anche meno condizionati da tradizioni nazionali fortemente radicate, che possano limitare i processi di integrazione in ambito di “nuova Europa”, e che inoltre sono troppo costosi e impegnativi per essere affrontati singolarmente dai vari paesi. E’ il caso prototipico dei progetti in ambito satellitare e spaziale che sono sostenibili unicamente su scala comunitaria, e che, se trascurati, significherebbero per i singoli stati europei il rischio di perdere una partita che oggi viene giocata da altri stati e da altri poteri, quindi il rischio di perdere capacità competitiva e tutto ciò che questo comporta (arretratezza industriale e scientifica, debolezza strategica ecc.). Una logica che lascia intravvedere una possibilità di integrazione per settori – oltre a quelli menzionati, caratterizzati da forti margini di crescita e di innovazione - in genere meno “territorializzati” (ricerca scientifica, “procurement” ecc.), meno esposti ad implicazioni della vita civile, e periferici rispetto alle strumentazioni e alle simbologie dei vari poteri statuali. E’ il caso di attività che riguardano dimensioni remote, come i settori marittimo-oceanico (per es. per progetti che riguardano i fondali oceanici, ricerche di risorse energetiche, il presidio di “choke points” e di rotte marittime), quelli del sottosuolo (a seconda delle possibilità che l’innovazione tecnologica prospetta periodicamente) o quelli dello spazio extra–atmosferico. Settori per i quali la scala di operatività risulta essere di difficile definizione, caratterizzati da fenomeni scarsamente localizzabili, che presuppongono capacità di proiezione in ambiti nei quali il nesso tra causa ed effetto è meno evidente. Ambiti nei quali le funzioni di presidio e di controllo sono di fatto impossibili da perseguire da parte di apparati individuali – in particolare se di dimensioni e potenzialità limitate, come nel caso di molti stati europei. Così in realtà non esclusivamente per funzioni considerate consuetamente di tipo strategico, ma anche per situazioni di altro tipo, sia umano che naturale, che creano continuamente occasioni di rischio “ubiquitario”, che si manifesta in momenti e con impatti imprevedibili, con effetti che possono diffondersi improvvisamente ad una scala ingovernabile (configurando appunto un rischio strategico). E’ il caso di crisi sociali e culturali (per es. religiose o etniche), di shock economico-finanziari, di fenomeni di sfruttamento distruttivo di risorse ambientali e di inquinamento a scala di ecosistema, di crisi di tipo sanitario-epidemico. Fenomeni che si manifestano con effetti “domino”, ma anche e soprattutto con “vuoti di potere” che appaiono improvvisamente sulla mappa geopolitica, e che significano guerre e diffusione di movimenti terroristici, conflitti e catastrofi umanitarie, che a loro volta si traducono in flussi di migranti, massacri su vasta scala e altre situazioni oggi intollerabili per la comunità internazionale – anche perché prontamente messi in evidenza e a volte amplificati da una tecnologia della comunicazione che riduce tutto il mondo a una sorta di “villaggio globale”. Una serie di constatazioni che lascia immaginare un’integrazione per “default” delle forze strategiche che darebbe origine nel tempo all’accumulazione e alla formazione di nuovi poteri su scala continentale (non necessariamente in concorrenza con simili strutture di tipo statale- nazionale). Questo anche considerando che tali settori, più “volatili” (“meno territoriali”) e anche
  • 10. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 10 più dinamici e innovativi, presentano margini di crescita più ampi e di tipo più rapido rispetto a settori consolidati, che invece si ritrovano a volte in situazioni opposte, di perdita improvvisa di capacità e di redditività, oltre che di rapida obsolescenza. Una constatazione che verrebbe confermata da ulteriori elementi di riflessione: in epoca di globalizzazione, e di progressiva apertura, è difficile per i singoli stati affrontare problemi a scala così vasta, che pongono questioni di proiezione e di capacità di intervento praticamente su scala globale (forse con la sola eccezione dell’unica superpotenza sopravvissuta allo scenario bipolare). Questo anche considerando l’affermazione di una nuova dottrina strategica, che prevede che l’eventuale intervento debba svilupparsi a scala di “ciclo” (o “processo”), cioè in tutte le fasi di una certa crisi – e non solo su segmenti specifici. In caso contrario emergerebbe il rischio che lo stesso intervento risulti scarsamente utile, e che provochi inoltre la possibilità di effetti cd. riflessivi (o “insider”), che tendono ad alimentare ulteriormente (“dal di dentro”) le crisi senza risolverle: in realtà il primo e principale problema della politica internazionale contemporanea, come la cronaca recente sembra dimostrare. Un fatto che significa la capacità di impiegare risorse nel contempo “hard” e “soft”: una capacità necessaria se si pensa che l’esclusivo intervento “hard”, presumibilmente nella fase acuta di una crisi, o al contrario quello esclusivamente di tipo cooperativo e umanitario, per affrontare le fasi pre- o post-crisi, producono in genere risultati insoddisfacenti o anche controproducenti. Una constatazione – che cioè le crisi vanno affrontate alla scala appropriata alla quale si manifestano – che crea spazio e opportunità per la formazione di una prassi e anche di una struttura di sicurezza europee, che sembrano orientarsi dalle origini sulla base di questi principi.
  • 11. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 11 Capitolo 1 - Esiste una geopolitica europea? Allargamento verso l’esterno e integrazione verso l’interno La geografia condiziona in modo rilevante la vita delle nazioni e degli organismi sociali in genere, fino a volte a determinarne la struttura, la cultura e le stesse prospettive di sopravvivenza e sviluppo: un fatto particolarmente evidente per un’istituzione in corso di formazione, come l’Unione Europea (UE), che è caratterizzata da una dimensione territoriale in continua evoluzione, che periodicamente stravolge la sua stessa identità, nonché il senso dei suoi ordinamenti. Un’evoluzione che si articola essenzialmente su due dimensioni tra di esse, a seconda delle circostanze e delle interpretazioni, complementari o mutuamente sostitutive. La prima significa una tendenza all’allargamento verso l’esterno (verso paesi e aree limitrofe), la seconda un processo di integrazione al proprio interno, che interessa istituzioni, sistemi economici e codici culturali stata- nazionali preesistenti:2 due “frontiere”, in un certo senso, una interna e una esterna, che a volte si combinano, a volte si sovrappongono, intersecandosi reciprocamente. In questa dinamica si possono riconoscere vari momenti. Da una fase originaria, di consolidamento euro-occidentale, o anche di patto “renano” franco-tedesco – fondato sul superamento delle tensioni che avevano portato francesi e tedeschi a scontrarsi con le disastrose guerre del Novecento -, si è passati, con una serie di successivi “allargamenti”, ad una dimensione più autenticamente euro- continentale. “Allargamenti” che sembrano essere orientati, non tanto da pianificazione intenzionale, ma da circostanze, che cambiano periodicamente gli assetti e la stessa mappa dell’UE (ovvero il verso dell’espansione) che, se originariamente coincide con la parte occidentale del continente, in una fase più recente si dilata verso sud ed est, fino a interessare i bacini delineati dai vari mari “interni” ai limiti dell’Europa orientale (oltre al Mediterraneo orientale, mar Baltico e mar Nero).3 Un’evoluzione che sembra prospettare significati diversi. Mentre in una prima fase la politica europea si sviluppa in modo abbastanza lineare, e favorevole a priori a qualsiasi possibilità di allargamento, in una fase successiva assume un atteggiamento più cauto – anche considerando la criticità di integrazione che è emersa in corrispondenza di alcune aree, in particolare il sud-est e i Balcani. In un certo senso l’UE si espande a volte suo malgrado: semplicemente in certi casi si rivela impossibile tenere fuori dal proprio perimetro stati “europei”, con i quali i paesi euro- occidentali condividono confini, mercati, economie, linee di approvvigionamento, bacini di reperimento di manodopera e itinerari di migrazioni, che tendono spontaneamente ad integrarsi, al di là delle intenzioni della politica. Tutto questo sulla base del principio - abbastanza innovativo nella prassi geopolitica di oggi e di sempre - che assume l’integrazione, piuttosto che la competizione, come modo “normale” di relazione tra stati limitrofi che si riferiscono allo stesso ambito culturale, e tra popolazioni che sono caratterizzate da aspettative e tratti culturali assimilabili. Una politica che si sviluppa sulla base di un principio, del resto enunciato chiaramente in sede di trattati, essenziale per l’Europa, di “coesione territoriale”,4 che vuole evitare fenomeni di crescita squilibrata e la formazione di asimmetrie che in passato sono state spesso causa di tensioni locali che hanno successivamente coinvolto tutto il continente. 2 Diez T., Manners I., & Whitman R., 2011. 3 Germond B., 2011. 4 Commissione delle Comunità Europee, 2008.
  • 12. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 12 Una consapevolezza che significa l’elaborazione di una politica complessiva, che vuole evitare il rischio di degenerazioni, ovvero il rischio di ritrovarsi il ”Terzo Mondo alle porte di casa”, con conseguenti instabilità e costi anche economici, oltre che umani e strategici, su tutto lo scenario. Un rischio inaccettabile per sistemi stabili, che caratterizza da sempre la vita di confine e che significa la necessità di perseguire politiche di condivisione, o almeno di regolazione della competizione economica e di qualsiasi tipo. Criticità e opportunità In realtà l’istituzione comunitaria deve affrontare abbastanza presto atteggiamenti critici che vengono manifestati in diverse occasioni da parte degli stessi stati membri, oltre che da parte di movimenti e partiti euro-scettici, e di quote di società civile e di opinione pubblica contrarie a ulteriori integrazioni e allargamenti. Questo una volta che diventa evidente che l’integrazione comporta anche effetti problematici, come burocratizzazione, proliferazione istituzionale e aumento di costi “di sistema” (cioè effetti “riflessivi” ed auto-referenziali). Fino al paradosso di configurare una tendenza che viene percepita come neo-centralistica che produce istruzioni e regole, oltre che “tout court” tasse, che si sommano in modo difficilmente giustificabile a quelle prodotte dalle istituzioni già esistenti.5 In un certo senso, è come se l’UE avesse “ereditato” i difetti che caratterizzano gli stessi stati-apparati da cui è composta. In realtà, la tendenza di lungo periodo dimostra che l’UE è capace di creare valore aggiunto, oltre che in politica, anche in economia. L’integrazione infatti significa una serie di vantaggi funzionali che derivano essenzialmente dall’ampliamento del mercato e del bacino di utenza e di consumo per qualsiasi attività (non solo economica), riducendo costi di sistema (amministrativi, doganali e di qualsiasi tipo), uniformando normative e collegando intere filiere di produzione e commercio, creando un’area di libero scambio (e di libertà di stabilimento) di straordinario significato. Una politica che: a) moltiplica le capacità delle economie più efficienti, e orientate all’innovazione e all’export, in particolare di quelle che si riferiscono a stati di industrializzazione e terziarizzazione avanzata; b) incentiva le economie più deboli, e non più tutelate da politiche protezionistiche, a rinnovarsi, garantendo una base di “welfare” e una politica di sostegno regionale (che si manifestano nei vari programmi e “fondi” sociali e strutturali) di livello “europeo”; c) contribuisce al superamento di una condizione di sottosviluppo per intere popolazioni, che fino a una certa epoca (agli anni ’50 del Novecento) erano costrette a una condizione di isolamento semi- feudale e alla migrazione di necessità (che assume una dimensione di massa in diverse regioni sud- ed est-europee), superando differenziali e barriere vecchie di secoli. Nondimeno, come ormai sembra evidente, l’abbattimento di tali barriere, con l’unificazione del mercato e del lavoro ad una scala molto più ampia, crea opportunità di crescita ma anche rischi e problemi: opzioni che probabilmente dipendono dalla qualità della società civile e della struttura economica locali, che possono essere pronte o meno a recepire, oppure semplicemente costrette a subire, le varie aperture. 5 Di cui il simbolo è la duplicazione dell’euro-parlamento tra le sedi di Bruxelles e Strasburgo, inspiegabile e costosa.
  • 13. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 13 Reazioni e impatti anche non intenzionali Una dinamica che comincia a suscitare ben presto reazioni di qualsiasi tipo, a qualsiasi scala, sia all’esterno che all’interno, sia positive che negative, fino a configurare addirittura uno standard per le relazioni internazionali. Come oggi è possibile verificare, la semplice produzione di norme per i più svariati ambiti della vita economica e sociale (la dimensione sotto la soglia della politica ufficiale che la prassi UE sembra privilegiare) configura un riferimento per molti altri paesi, oltre che a quelli candidati all’adesione. Fino al punto che l’“international law becomes Acquis Communautaire”,6 una sorta di nuova fonte per il diritto internazionale, e fino al punto che, inoltre, la stessa UE comincia a configurare uno standard anche dal punto di vista geopolitico (un fatto di cui gli stessi europei non sembrano avere consapevolezza). In un certo senso, un’evoluzione che porta l’Europa fuori dalla crisi in cui si era ritrovata dopo la IIGM, creando scenari di integrazione sia nel contesto internazionale che al proprio interno, ma che nel contempo dà origine a nuovi fenomeni di centralizzazione (se non altro di tipo burocratico) che, a seconda delle interpretazioni, rischiano di “frenare” periodicamente lo stesso slancio europeista. Da allora i due movimenti – di allargamento verso l’esterno e di integrazione al proprio interno – caratterizzano il dialogo politico in qualsiasi contesto, manifestandosi, a seconda che lo stesso allargamento venga percepito come un’opportunità oppure una causa di indebolimento internamente alla stessa UE, in modo complementare o reciprocamente esclusivo. Un tendenza (neo-espansionistica, come viene percepita a volte dall’esterno) che non sembra ancora essersi assestata e che delinea oggi una contraddizione tra diverse “vocazioni” geopolitiche e tra gli stessi paesi che aderiscono all’UE. Questo considerando che, in particolare, la tendenza all’espansione verso sud-est, eventualmente coinvolgendo paesi importanti (come Ucraina, Turchia, paesi del sud Caucaso), potrebbe significare il rischio di una diluizione, ovvero un allentamento in termini di compattezza interna. In realtà, l’integrazione di quegli stati, sebbene possa significare un’espansione per economia e mercato comunitari, rappresenta anche un rischio in termini di costi sociali e politici: integrazione che, inoltre, potrebbe essere considerata dalle popolazioni delle aree deboli che fanno già parte dell’UE, che sono inclini a percepire le politiche comunitarie come giochi a “somma zero”, come rischio di perdere risorse altrimenti destinate a loro.7 Espansione territoriale e funzionamento interno (ovvero allargamento e integrazione) insomma, oltre una certa soglia, delineano un effetto di sostituzione, fino al rischio di essere percepiti come obiettivi contrapposti. Questo anche considerando che l’UE sembrava originariamente voler costruire il proprio ruolo e la propria legittimazione (piuttosto che come unità politica in espansione) come fattore di mediazione internazionale tra est e ovest, e tra nord e sud, tra aree continentali e sfere di dominio marittimo (in senso mackinderiano, tra “heartland” e “rimland”), in genere tra le varie culture mondiali. Un ruolo che deriva dalla stessa collocazione geo-storica dell’Europa, di appendice dell’Eurasia e di “ponte” tra grandi masse continentali, il cui territorio “nazionale” tenderebbe a coincidere allora con quello di tutto il continente, dall’Atlantico agli Urali e al Caucaso, dal mare del Nord al Mediterraneo.8 6 Diez T., Manners I., & Whitman R., 2011:127. 7 Jordan P., in stampa. 8 Fino a comprendere la Groenlandia danese, il Medio Oriente della Turchia o l’Asia centrale del Kazakistan, il cui territorio è per l’8% a ovest del fiume Ural, che secondo certe interpretazioni segna il confine geografico tra Europa e Asia.
  • 14. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 14 Un’immagine che continua a funzionare come traino per l’ideale europeo, che prospetta l’unificazione quasi come inevitabile (quasi come una predestinazione), che assume il principio che sia la stessa forma del continente ad indurre le condizioni per l’espansione, con i confini politici, economici e culturali, che finirebbero per coincidere prima o poi, di diritto o di fatto, con quelli geografici. Geopolitica dei confini intra–europei La geografia dell’Europa risulta straordinariamente complessa, oltre che nell’ambiente più vasto in cui si proietta, anche e soprattutto al suo interno. Un fatto che è, piuttosto che un luogo comune, una costante della storia antica e recente, che si traduce in un complesso di forme territoriali talmente contorte da apparire ingestibili, e da sfuggire a qualsiasi teoria (del confine naturale, di una forma pre-determinata, dello “stato ideale” ecc.). Una geografia che l’ideale europeista propone semplicemente di superare con gli strumenti della condivisione nei vari ambiti della vita culturale, e quindi politica. E’ il punto debole per gli stati europei, che, nel tentativo di risolvere un problema in realtà senza soluzione, e per gestire relazioni tra culture e etnie, circuiti di economia e sistemi di potere, hanno sempre condotto guerre di tutti i tipi. Guerre che, secondo certe fonti, si sono rivelate, alla “fine della storia”, fondamentalmente “inutili”, e che secondo altre fonti invece sarebbero state inevitabili, se non addirittura utili, in quanto avrebbero costituito le premesse per la maturazione di una consapevolezza. In realtà, una geografia che prospetta anche delle opportunità, e che oggi può significare un incentivo per processi di integrazione, che non avrebbero altra alternativa se non la regressione a condizioni di conflittualità diffusa e di “guerra continua” (che alimenta se stessa, a causa di persistenti effetti “riflessivi” o “insider”, v. infra). Di fatto il disegno, accidentato, frammentato e segmentato, di confini e territori crea una situazione tale da far pensare all’integrazione come a qualche cosa di auspicabile (se non di inevitabile).9 La semplice osservazione della carta geografica mette in evidenza una serie di incongruenze che rendono impensabile la conduzione, non solo di politiche individualistiche (cd. “free riding”) e indifferenti al contesto, ma neppure neutralistiche e isolazionistiche. E’ il caso di dimensioni e forma di stati e regioni, dell’elevato “numero di vicini”, ovvero di confini in comune con altri stati, che condiziona la politica delle istituzioni.10 Così per accessibilità a mari internazionali e a vie di traffico trans-continentali, per ecosistemi e barriere naturali, “range” di aziende e commerci, aree di reperimento di risorse, dimensione di mercati, presenza di minoranze e sovrapposizione di confini etno-nazionali, “exclave” ed “enclave”, flussi di economia e relazioni centro-periferia. Un insieme di salienti e “cul de sac”, frammenti e protuberanze, interessi culturali e commerciali che creano un insieme inestricabile, che rende quasi impossibile per ciascun sistema lo svolgimento di una vita del tutto autonoma, senza in qualche modo intersecarsi con quella degli altri. Un fatto che renderebbe inevitabile l’opzione della multi-lateralità, che rappresenta il principale elemento della dinamica politica del continente: i confini europei da sempre rappresentano qualche cosa di permeabile, prospettando la continua formazione di asimmetrie tra i vari sistemi nazionali, tra le diverse dimensioni della vita sociale ed economica. Un fatto che induce a seconda delle 9 Diez T., Manners I., & Whitman R., 2011. 10 Jelen I., 2012.
  • 15. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 15 circostanze, alternativamente, effetti di repulsione e di attrazione, di competizione o di collaborazione.11 Un’economia di “borderland” La stessa rappresentazione cartografica mette in evidenza come tutta l’area del continente risulti essere una sorta di “borderland”: secondo certe stime più del 50% del territorio e della popolazione europea sarebbero da considerare “limitrofi”, cioè compresi entro il “range” di una o due ore di viaggio dal più vicino confine.12 Un contesto nel quale qualsiasi misura di politica ed economia nazionale non può che coinvolgere gli stati vicini, dove le stesse operazioni “debordano” inevitabilmente. E’ il caso di fenomeni di pendolarismo trans-confinario, di insediamenti di imprese, di organizzazioni e anche di istituzioni che agiscono (anche non intenzionalmente) “oltre confine”, avviando a volte fenomeni di delocalizzazione, che possono trasformarsi in espedienti per sfuggire a sistemi amministrativi non efficienti o eccessivamente “pesanti”. Così per fenomeni di doppia cittadinanza sia di persone fisiche che giuridiche, che si sviluppano con effetti di mescolamento naturale tra le popolazioni (non necessariamente di confine); così per migrazioni di “amenity”, per traffici e commerci che configurano effetti di “bencinski turizem” (turismo della benzina, del tabacco, del dentista ecc.), che sfruttano dislivelli di prezzi per beni di consumo e di qualsiasi tipo tra paesi vicini.13 Così anche per l’accessibilità di “welfare” e per altre attività che traggono vantaggio da differenziali di vario tipo (norme amministrative, imposizione fiscale, costi sociali, o anche proibizioni di gioco d’azzardo, tasse doganali su tabacchi ed alcolici) che possono provocare un danno abbastanza grave sulle rispettive economie.14 In realtà, uno scenario che a sua volta configura un bivio tra due opzioni (l’integrazione o altrimenti la regressione a una storia di contenziosi e conflitti senza fine), apparentemente senza soluzioni intermedie. Una tendenza oggi accentuata dalla diffusione di ICT, e dall’effetto di “compressione spazio-temporale” e di “morte della distanza”15 che ne deriva, che “ricolloca” di fatto qualsiasi territorio in un ambito di confine, esposto alla competizione internazionale a qualsiasi scala. Uno scenario che significa l’accelerazione di mobilità di individui, imprese e attività, che fa pensare all’impossibilità di svolgere alcuna politica statale “chiusa”. Un dato di fatto che gli apparati devono considerare, altrimenti non possono sperare di implementare alcuna politica economica efficace: un vantaggio per consumatori e utenti ma un potenziale danno da “feedback” per i sistemi, che crea casi di intere economie che sopravvivono sfruttando in modo parassitario le inefficienze degli stati limitrofi - cd. fenomeni di sciacallaggio di confine. Un atteggiamento che ha effetti controversi, che può creare situazioni di dipendenza e che nel tempo provoca un danno agli stessi sistemi che praticano questo tipo di economia, che tendono a svilupparsi in modo distorto e, alla fine di un circolo vizioso, inefficiente.16 Oggi, qualsiasi politica economica, e di qualsiasi tipo, non può che essere predisposta a scala trans- confinaria (cioè continentale-europea e anche più vasta), se non a costo di rivelarsi inefficace, e di 11 A seconda ovviamente che lo scenario complessivo venga percepito a somma > o < di zero, in periodi di crescita complessiva o di saturazione e recessione. 12 Scharr K., Steinicke E., (Hg.), 2012. 13 Heller A., Hrgs., 2011; Scharr K., Steinicke E., (Hg.), 2012. 14 Ovvero “environmental and social dumping”, Dostál P., 2010:42. 15 Cairncross F., 1997; Venables A.J., 2001; Harvey D., 1997. 16 Heller A. Hrgs., 2011.
  • 16. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 16 essere soggetta a flussi che possono improvvisamente impoverire l’una o l'altra parte del confine (anche considerando che spesso i “borderland” intra-europei hanno un carattere tri-o multi- confinario, nei quali è impensabile alcuna politica che non sia multi-laterale). Un fatto che rende necessario il ripensamento della politica economica, e che rende evidente il carattere inconsistente delle ideologie che propongono il recupero di politiche neo-centralistiche e neo-protezionistiche, di isolamento e di auto-esclusione, che non possono che provocare il rischio di produrre danni ancora maggiori.17 Allargamento ed espansione dello scenario Le vari fasi di allargamento inducono mutazioni nella geopolitica, creando continuamente nuovi scenari con la necessità, che emerge a volte improvvisamente, per le organizzazioni politiche di confrontarsi con situazioni di fatto imprevedibili. Un’eventualità che rende necessario considerare gli effetti che la stessa geopolitica induce in un ambito più vasto: qualsiasi variazione di scenario, anche se non intenzionale, provoca reazioni che devono in qualche modo essere normalizzate. Questo in particolare in ambito europeo, considerando che qualsiasi nuovo allargamento crea di per sé nuove aree di confine, nuove fasce di esclusione e di indifferenza, nelle quali si manifestano tensioni di tutti i tipi, e che spesso sono caratterizzate da tensioni rivoluzionarie - come oggi la mappa delle crisi nelle aree prossime al continente europeo sembra evidenziare. In realtà, è impossibile capire in che misura i processi in corso in ambito europeo abbiano influito o stiano influendo sugli scenari delle aree limitrofe (area sud-mediterranea, Caucaso, est Europa). E’ evidente, nondimeno, che l’UE appare all’esterno come un’entità geopolitica compatta, e che già per questo motivo può svolgere impatti, eventualmente di imitazione ed emulazione, su società civili permeabili, che possono ripercuotersi in ulteriori dimensioni della vita politica. a) E’ il caso della sponda sud del Mediterraneo, delle “primavere arabe”, del crollo di una serie di regimi dittatoriali, e delle tensioni che caratterizzano quell’area e, a un’altra scala, tutta l’Africa sahariana e sub-sahariana, dalla quale i vari problemi tendono a riflettersi (in genere) verso nord, creando le premesse per disastrosi flussi migratori.18 b) E’ il caso del sud-est medio-orientale, con guerre e rivoluzioni che si rinnovano continuamente, e che significano per una serie di paesi la necessità di dover ripartire, ancora una volta, praticamente da zero, dopo una serie di “false partenze” in epoca post-coloniale (di rivoluzione nazionalista o socialista, di ideologie anti-capitaliste e terzomondiste ecc.) con un faticoso progetto di ricostruzione delle istituzioni. c) E’ il caso, quindi, di vari stati post comunisti e della Russia, per la quale, in particolare, l’affermazione delle istituzioni pan-europee ai propri confini appare in qualche modo come la dimostrazione di un fallimento in un processo di transizione post sovietica (sia in termini di geopolitica, che come esperimento di democrazia e di economia aperta). In quel contesto l’UE si manifesta a vari livelli, sia come fattore di attrazione politica per paesi tradizionalmente collocati nell’”orbita” russa, sia come fattore di imitazione per le corrispondenti, e ancora fragili, società civili. Società che, indebolite da secoli di autoritarismo, senza fiducia in se stesse, sono 17 V. infra; in altre situazioni geo-politicamente analoghe a quella europea, ma senza lo stesso apparato di regolazione multi-laterale, le relazioni di confine rischiano continuamente di degenerare in conflitti; per l’Asia centrale v. Thorez J., 2003. 18 E anche oltre il golfo di Aden verso la penisola arabica, sul confine turco-siriano ecc.: è un problema che riguarda un po’ tutto il mondo e tutte le varie fratture che si formano periodicamente tra nord e sud, est ed ovest, centro-periferia, “rimlamd-heartland”, mare-terra o interno-esterno; si consideri che i paesi dove le statistiche registrano più immigrati illegali non sono paesi euro-comunitari, ma USA e Russia (per quest’ultima, prima della recente crisi).
  • 17. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 17 particolarmente esposte al rischio di manipolazioni (per es. alle suggestioni di una rinnovata politica imperialista) da parte di élite che possono essere indotte a cercare in un’anacronistica politica di aggressioni la compensazione per le proprie insufficienze. Un fatto tipico in realtà per sistemi “chiusi” che non riescono a produrre una corrispondente evoluzione sociale, né ad assimilare le diversificazioni prodotte dalla crescita, e che ad un certo punto possono essere indotti a scaricare all’esterno le tensioni che accumulano al proprio interno (in questo caso la tensione per il fallimento nel passaggio dalla dittatura a una società e economia aperte). d) E’ il caso in genere di stati definiti “in ascesa”, i quali, alla fine di un percorso di crescita solo quantitativa (non in termini di “capitale umano” né sociale), e dopo essersi “scontrati” con i propri limiti, per reazione possono essere indotti a recuperare qualche politica neo-imperialistica. E’ il caso, oltre alla Russia, di altri paesi “brics”, che evidenziano politiche aggressive da “frustrazione”, che potrebbero portare alla destabilizzazione di scenari macro-regionali e continentali (es. sud-est asiatico, America Latina, Africa centrale, Medio Oriente). E’ anche una questione di percezioni e di manipolazioni, sia da parte di élite che di popolazioni, oltre che di “media” e di altre forme di comunicazione e di vita pubblica: ma è evidente che gli “allargamenti” europei possono essere percepiti come una minaccia in particolare da parte di unità politiche e sociali tendenzialmente chiuse,19 che l’economia e la cultura del “globale” costringono in un certo senso ad aprirsi, e che quindi risultano essere sottoposte a stress difficilmente sopportabili. Stati e sistemi, collocati spesso ai limiti del continente europeo, caratterizzati dal fatto di perseguire politiche di tipo “organicistico”, che reagiscono alle trasformazioni indotte dal contesto, appunto, come degli organismi che si sentono attaccati (cioè in modo istintivo): uno scenario che riporta la geopolitica molto indietro nella storia evolutiva, ad uno scenario primordiale- ratzeliano (v. infra). Una scala imprevedibile La stessa dinamica dell’allargamento induce il coinvolgimento in altri teatri, e quindi la necessità di adattare le strategie: in un certo senso, l’UE, una volta intrapreso un certo percorso, si ritrova costretta ad elaborare una geopolitica, ovvero a sviluppare una capacità in questo senso (di apparato di sicurezza sia in senso passivo che attivo), a rischio di creare situazioni di confusione e tensioni tra gli stessi stati che la compongono. Il fatto cruciale, e nuovo per la politica attuale, riguarda la scala, ovvero la dimensione dell’intervento ipotetico al quale le istituzioni devono prepararsi. Un fatto che significa la necessità di elaborare politiche di sicurezza in qualsiasi ambito - al di là dell’intenzione originaria e della propensione ad usare la forza -, quindi di organizzare apparati e reti di presidio, esponendosi al rischio di farsi coinvolgere e di dover intervenire su scenari anche molto complessi. E’ sufficiente pensare a politiche di approvvigionamento vitali (di energia, materie prime, tecnologie ecc.), che comportano il rischio per l’intera Europa di ritrovarsi periodicamente ostaggio di qualche fornitore con ambizioni monopoliste (paesi arabi, paesi post sovietici). Così per le filiere di traffici e commerci, con tutto ciò che ne consegue in termini di mantenimento di libertà di navigazione e di accessibilità in genere, che non può che rappresentare una priorità. Così in qualsiasi dimensione, per politiche di ambito territoriale e non, per presidio di linee di costa, missioni spaziali, per sfruttamento risorse minerali e agro-alimentari;20 così per acque interne, vie di 19 Diez T., Manners I., & Whitman R., 2011. 20 In un contesto di rapida evoluzione delle tecnologie non si può escludere niente; è il caso di nuove possibilità di sfruttamento di risorse sui fondali oceanici, del sottosuolo a grandi profondità, per es. per energia geotermica, “shale
  • 18. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 18 traffico fluviali (es. il Danubio), per garantire l’utilizzo di infrastrutture e per presidiare condotte energetiche trans-continentali. Così in particolare per le politiche marittime, che certe fonti considerano un po’ come il banco di prova per il prosieguo del progetto europeista: “an Integrated Maritime Policy will enhance Europe’s capacity to face the challenges of globalisation and competitiveness, climate change, degradation of the marine environment, maritime safety and security, and energy security and sustainability”.21 Questo anche considerando che una parte rilevante del commercio europeo verso l’esterno (secondo alcune fonti il 90%) si sviluppa per mare, in modo vulnerabile quindi al rischio di “choke” e di qualsiasi tipo.22 Evidentemente l’elemento marittimo (come in genere gli ambienti “poco” territoriali, per es. l’aereo-spaziale, la cibernetica e le dimensioni dell’ICT) presenta caratteristiche particolari, con fenomeni “fluidi” e “volatili” (ovvero smaterializzati) che si manifestano ad una scala estremamente vasta e a volte indefinibile.23 Fenomeni che, in un ambiente di incipiente globalizzazione, di crisi strutturale e di saturazione ambientale, pongono problemi di controllo e di presidio che alcuno stato può sperare di affrontare in modo individuale, senza qualche tipo di coordinamento. In realtà, il fatto stesso di partecipare ai circuiti dell’economia e della società globale induce la necessità - al di là delle intenzioni originarie - di adeguare l’apparato strategico, perché i processi tendono ad assumere spontaneamente una dimensione indefinibile, o anche globale. E’ il caso di interventi per prevenire disastri umanitari, dell’eventualità di attacchi di tipo militare e non militare (terroristico, criminale o sociale), di interventi per evacuare connazionali (turisti, cooperanti, dipendenti di aziende, personale diplomatico) da aree di crisi e per ogni altra evenienza. Ed è il caso di migrazioni di massa e di flussi di qualsiasi tipo, che sono indotti da asimmetrie che possono formarsi improvvisamente in un ambiente “senza confini”. E’ il caso, quindi, di impatti sugli ecosistemi, con fenomeni di inquinamento e pratiche di sfruttamento distruttivo di acque, suolo e risorse ambientali, quindi di interesse collettivo (“overfishing”, contaminazione da idrocarburi, applicazione di tecnologie invasive, distruzione di habitat ecc.) che, sebbene originariamente localizzati, possono generare effetti catastrofici in ambiti così vasti da coincidere di fatto con l’intera comunità umana. Una constatazione che configura un dovere preciso per gli apparati che si occupano di sicurezza, che devono considerare sempre l’ipotesi peggiore, anche se improbabile e apparentemente non realistica. Una situazione di “gioco” tra poteri Dalle origini la politica UE prevede istituzioni in grado di operare – teoricamente - in modo indipendente dagli (ed ev. contrapposto agli) stessi governi dai quali sono state originariamente formate.24 E’ il caso di Commissione e Corte di Giustizia, e presumibilmente del Parlamento, e di Banca Centrale e di varie altre agenzie e autorità che agiscono in autonomia. Trattati che tuttavia, piuttosto che prestabilire relazioni in modo rigido, sembrano prevedere un insieme di relazioni “in divenire”, quasi fossero deliberatamente predisposte per lasciare alle stesse istituzioni la possibilità gas” e idrocarburi in ambienti “off shore” e in aree circumpolari, che possono improvvisamente cambiare assetti di economia e di politica. 21 Commission of the European Communities, 2007; Germond B., 2011. 22 Final Report, 2013. 23 Per “scala caratteristica” dei fenomeni si definisce l’ambito nel quale si manifestano in modo tipico gli effetti di una o più cause, per es. di un qualsiasi evento politico o sociale, umano o naturale. 24 Bailes A.J.K & Thorhallsson B., 2013.
  • 19. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 19 di adeguarsi alle evoluzioni che caratterizzano la realtà concreta, fino al punto di creare le condizioni per un equilibrio stabile, ma dinamico. Una situazione che deriva – secondo certa letteratura -, piuttosto che da incapacità di redigere un’architettura istituzionale coerente, dalla precisa intenzione di non voler regolare troppo, “difetto” delle politiche europee di sempre, tradizionalmente “top down” (dai tempi dell’assolutismo e del centralismo napoleonico, nonché dei totalitarismi novecenteschi). O anche dalla volontà di voler configurare una logica di “gioco”, perché i vari “player” possano sviluppare liberamente un confronto anche in termini politici, per adeguarsi alle molteplici esigenze che la realtà pone continuamente – ovvero per non perdere elasticità e capacità di adattamento. Un fatto che si rivela opportuno anche perché a volte gli stati che partecipano all’UE, al di là delle dichiarazioni di principio, sono motivati da intenzioni diverse e, seppure esibiscano in certi momenti degli “ideali”, finiscono spesso per lasciarsi condizionare dalle circostanze. Una logica di “gioco” che si diffonde spesso in circostanze di questo tipo – caratterizzate da un insieme chiuso di “giocatori” -, in cui governi e apparati politici tendono ad agire in modo multi-scalare, a volte per realizzare immediatamente le proprie opportunità, a volte per perseguire obiettivi intermedi, o anche di lungo termine – come dovrebbe essere in realtà in un contesto di “costruzione” di un’Europa comune. Può trattarsi di obiettivi di ottenimento di consenso, della necessità di assecondare tendenze dell’opinione pubblica locale, di contingenze politico-amministrative, di scadenze di politica interna - per es. elezioni “di medio termine” o scadenze di contabilità nazionale - o semplicemente di aspettative sul comportamento di altri stati “amici” o ”rivali” rispetto a qualche questione bilaterale. Una situazione che resta fluida in cui inoltre è necessario cercare di capire che impatto avrà il trattato di Lisbona che, riformando il TUE, assegna in particolare alla Commissione il ruolo di “promuovere l’interesse generale dell’Unione”, formula diplomatica ma forse troppo vaga per delineare le funzioni di un autentico “governo europeo” (art.17 par.1). Una formula che, considerando la legittimazione popolare ottenuta con le elezioni del maggio 2014, nonché la fiducia che la normativa prevede il Parlamento (che ha potere legislativo, di bilancio e di controllo) debba riconoscere alla Commissione, significa per la stessa Commissione la possibilità di svolgere un ruolo più incisivo in qualsiasi contesto. Per le funzioni strategiche il discorso si presenta più articolato. Infatti, in base all’art.42, c.7 dello stesso trattato (che ingloba la clausola di assistenza reciproca ed è mirato ad incrementare le capacità di difesa comune, in special modo a fronte di minacce terroristiche), l’UE sembra delegare le funzioni di sicurezza collettiva alla Nato, che sarebbe anche da considerare come un “forum” per l’implementazione delle stesse funzioni. Questo per quel che riguarda i paesi membri, lasciando di conseguenza inalterata la politica per i sei paesi UE non membri Nato. Una prospettiva appena temperata dalla “possibility of establishing a ‘start-up’ fund (Art.41§3) […] made up of member states’ contributions and aimed at financing preparatory activities which cannot be charged to the Union budget”, che però è “still to be formally created”.25 Un fatto che prefigura la possibilità di avviare attività congiunte tra paesi membri che ne percepiscano la necessità – al di là degli atteggiamenti ufficiali - in un contesto in cui le spese militari di regola restano di competenza dei singoli stati, non potendo essere a carico del bilancio dell’UE (art. 41,2): “[i]ndeed, the Treaty on European Union (TEU) prohibits that ‘expenditure arising from operations having military or defence implications’ be covered by the EU budget”.26 25 Art.41,3, TUE; Final Report, 2013. 26 Tardy T., 2013.
  • 20. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 20 Una situazione fluida (come è per definizione qualsiasi “gioco”, caratterizzato da un insieme di relazioni reversibili) che lascia spazio a interpretazioni diverse; in realtà il “nuovo” potere sembra avere l’intenzione, prima di tutto, di non precludere alcuna opzione, da un lato per non pregiudicare le istituzioni della sovranità statuale, dall’altro per non bloccare le iniziative di tipo super- governativo. Una logica di perfetta “governance”, che assume la prassi, essenzialmente le iniziative che partono dalla base sociale, nel senso più ampio possibile, come fattore cruciale per modellare le forme della politica – ma che, nondimeno, per le funzioni strategiche presenta degli aspetti critici.27 Il confronto con la Nato Nel suo percorso, l’UE si imbatte periodicamente in altre organizzazioni (Osce, Ocse, agenzie dell’ONU, organizzazioni regionali e trans-nazionali), e in particolare si ritrova a dialogare con l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (Nato), la cui ascesa e affermazione come “player” internazionale avviene in modo quasi parallelo a quello della stessa UE. Questo a partire dalle origini, nel secondo Dopoguerra, e quindi in epoca bipolare e successivamente al crollo dell’Urss (quando la Nato diventa quasi il “braccio armato” dell’UE, alimentando per la verità anche qualche equivoco),28 quando entrambe le organizzazioni sembrano impegnarsi in uno stesso programma per colmare un vuoto politico (in particolare in est Europa), e per prevenire un rischio di destabilizzazione. Nondimeno si tratta di istituzioni che sviluppano presupposti organizzativi e politici diversi. La Nato è un’organizzazione perfettamente inter-governativa, dove la sovranità dei singoli stati è ben delineata, mentre l’UE rappresenta l’ambizione di creare qualche cosa di super-statuale. Un fatto che significa per la Nato la possibilità di individuare target meglio definiti e in genere di funzionare in modo più efficiente, ma nel contempo anche, in un certo senso, più limitato: “the EU (…) has more room for manoeuvre and more positive options for dealing with these larger powers than Nato, for example, precisely because it does not appear as a strategic competitor in a traditional zero-sum game”.29 Questo fino al punto che, secondo certa letteratura, la Nato rischierebbe di ritrovarsi in una sorta di “vicolo cieco” della politica internazionale, esaurendo il proprio ruolo in funzioni di sicurezza di tipo strettamente “hard”. Infatti, mentre l’UE avrebbe margini di evoluzione (essendo caratterizzata da un nucleo super-governativo che, per quanto debole, può funzionare come principio di accumulazione di potere), la Nato difficilmente può crescere oltre a quello che è già per diventare qualche cosa di politico. A questo riguardo, sono da verificare alcune recenti dichiarazioni di Obama a proposito di una Nato “economica”, ovvero di una “partnership transatlantica”, che si proporrebbe di incentivare la collaborazione USA–UE anche in ambiti diversi da quello militare.30 Dichiarazioni che si combinano ad altri segnali che fanno ritenere che la situazione potrebbe cambiare; è il caso della 27 Tuttavia, ed evidentemente, anche in questa materia vale la distinzione tra regola materiale e formale, tanto che è sempre necessario verificare che cosa della lettera dei trattati troverà nel tempo applicazione concreta e in che termini. 28 Per questo probabilmente la Russia dalle origini percepisce l’UE come qualche cosa di politico e anche come una minaccia sui propri confini. 29 Bailes A.J.K & Thorhallsson B., 2013:109; come ente super-governativo, l’UE ha una libertà di manovra più ampia rispetto alla Nato, ma è anche meno agile nell’azione; v. anche Whitman R.G., 2011. 30 Corriere della Sera, 13/6/2014, Obama spinge su libero scambio Usa-Ue, “Creare nuovi posti di lavoro per i giovani”, http://www.corriere.it/esteri/13_giugno_17/obama-negoziati-usa-ue_52560492-d75f-11e2-a4df-7eff8733b462.shtml; negli ultimi mesi, e dopo il summit in Galles, Newport, 4-5 settembre 2014, in ambito Nato sembra emergere l’intenzione di formare un nucleo permanente e apparentemente super-governativo, che ne cambierebbe struttura e “target”.
  • 21. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 21 presunta “riluttanza” dello stesso presidente americano a lasciarsi coinvolgere militarmente in vari scenari, almeno in modo diretto, alla quale si combinerebbe la tendenza da parte della stessa UE ad occuparsi maggiormente di questioni di sicurezza “attiva” (seppure considerando che il cd. “the right of first refusal” resta indiscutibilmente a favore della Nato). In realtà UE e Nato dalle origini non sembrano avere problemi particolari di convivenza, e continuano a sviluppare oggi un partnerariato “focusing on stronger complementarity, cooperation and coordination”,31 configurando le condizioni per un gioco di squadra, in cui ciascuno sembra avere bisogno dell’altro: disponendo la Nato di esclusivo “hard power”, mentre l’UE quasi esclusivamente di capacità “soft”, i due “player” avrebbero la possibilità di integrarsi sia tatticamente che politicamente. Questo anche considerando l’evoluzione attuale di dottrina e prassi che prevedono la necessità, al fine di affrontare e risolvere effettivamente una certa crisi, di intervenire a scala di ciclo (o contesto, o processo) in modo combinato “soft-hard”, civile-militare, strategico-tattico, e in qualsiasi segmento della stessa crisi, che è da considerate nella sua interezza. Anche per questo relazioni e collaborazione tra Nato e UE appaiono decisive - sebbene in una certa misura possano anche essere percepite dall’esterno in modo ambiguo.32 Il confronto con le altre Organizzazioni Internazionali Mentre la Nato consiste in un’alleanza militare di tipo “classico”, l’affermazione dell’UE si svolge in uno scenario nuovo, di esplosione di un universo di organizzazioni internazionali (OI) che sembra caratterizzare la tarda modernità (e il passaggio alla post modernità). Si tratta di un percorso complesso che anche altre OI di tipo generalista, oppure settoriale, regionale o universale, inter- o trans-governativo, hanno intrapreso, evidenziando le stesse o anche maggiori difficoltà. E’ il caso, prima di tutto, dell’ONU la cui azione, dopo uno slancio iniziale, tende ad indebolirsi, fino a diventare a volte, come è stato definito, una sorta di “convitato di pietra” della globalizzazione, almeno per gli aspetti politici: un’organizzazione che sembra oggi rappresentare, per paradosso, una sorta di “esempio negativo” per le OI di formazione più recente (almeno per quelle con aspirazione universalistica e super-governativa). Problemi che derivano, a seconda delle interpretazioni, da un certo idealismo originario, o anche da effetti di “riflessività” (costi di funzionamento, burocratizzazione, occupazione e spartizione di “poltrone” ecc.) che sono difficili da evitare per organizzazioni di questo tipo (come anche per la stessa UE). In genere, secondo la letteratura prevalente, l’ONU è debole per aver immaginato un obiettivo troppo ambizioso per l’epoca, di rappresentare una sorta di meccanismo di istituzionalizzazione della democrazia mondiale: un’ambizione che ne fa oggetto di strumentalizzazioni e manipolazioni varie, ovvero di tutti i rischi cui sono soggetti in genere gli ordinamenti “aperti” (come appunto le OI super-governative).33 Detto questo – ed evidentemente -, l’ONU continua a svolgere un ruolo essenziale per il mantenimento della pace, anche se agisce in settori e scenari regionali circoscritti, con missioni che 31 Final Report, 2013. 32 Un fatto che in realtà fa apparire l’UE, piuttosto che potere “disarmato”, fatto che ne agevola l’azione in certi ambiti, come una sorta di potere complementare a quello della Nato (come può apparire per es. agli occhi di russi, arabi e africani); questo anche considerando che l’UE ha la tendenza a promuovere e finanziare interventi di “peace building” che poi vengono condotti operativamente da altri paesi; Tardy T., 2013. 33 In un certo senso l’ONU non riesce ad evitare gli errori compiuti a suo tempo dalla Società delle Nazioni di cui voleva probabilmente rappresentare la continuazione.
  • 22. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 22 non hanno impatti diretti sugli equilibri politici complessivi (sui quali gli stati sovrani sembrano voler riservarsi una capacità esclusiva, eventualmente aderendo a “coalizioni di volenterosi” di tipo inter-governativo). Scenari nei quali le funzioni di sicurezza assumono piuttosto un carattere di tipo passivo,34 di difesa di istituzioni e popolazioni civili. Soprattutto l’ONU è lo strumento con il quale la comunità internazionale persegue una serie di programmi per servizi di base (“basic needs”), che rappresentano una sorta di originario “welfare” per funzioni di sanità, alimentazione, tutela all’infanzia, cultura, istruzione, ambiente, diritti umani ecc. da applicare su scala mondiale: funzioni che, in un contesto “senza confini”, rappresentano un’esigenza autenticamente strategica (anche se difficilmente valutabile in senso politico). Questo in particolare in situazioni di emergenza umanitaria – quindi politicamente già compromesse -, quando l’intervento delle agenzie ONU è di fatto senza alternative. Tutti, questi, elementi che potrebbero indurre di per sé nel tempo lo sviluppo di capacità strategiche e di istituzioni di tipo super-governativo. Questo perché, l’azione in un ambito internazionale – da considerare un ambito “senza legge”, nel quale l’azione politica tende a combinarsi alle funzioni della forza e alla possibilità di “fare la guerra” – creerebbe consequenzialmente le condizioni per lo sviluppo di funzioni attive e per l’ulteriore istituzionalizzazione delle stesse funzioni strategiche (un fatto che per quanto riguarda l’ONU comunque fino ad oggi non si è realizzato). Questo sulla base di definizioni di politica estera e di funzione strategica che appaiono comunque superate: l’ambito internazionale oggi pone problemi complessi, che devono essere affrontati con una combinazione di mezzi e tattiche, non esclusivamente con la forza “hard” (che piuttosto tende ad assumere una funzione residuale, di “extrema ratio”). Si tratta di una materia in evoluzione, così come le relazioni che oggi l’ONU, oltre che l’UE, sviluppano con altre OI (Osce, Ocse, WTO, Banca Mondiale ecc.) e con altre organizzazioni dell’economia e della cultura che operano sullo stesso scenario. Per tutti questi motivi non si può dire che l’ONU abbia raggiunto pienamente l’obiettivo per cui era stata fondata, ma neppure si può negare il ruolo che svolge, e che è insostituibile nello scenario internazionale, che necessita di meccanismi di istituzionalizzazione di questo tipo. Questo, se non altro, per continuare a rappresentare un “tessuto” di codici per supportare le relazioni bi- e multi- laterali che si sviluppano spontaneamente, che caratterizzano un quadro in evoluzione e soggetto alle accelerazioni indotte dalla globalizzazione. Il confronto con le tensioni della globalizzazione Lo scenario della globalizzazione significa la necessità per le OI di adeguarsi continuamente, di perseguire sempre nuove politiche in un ambiente instabile, in cui le tecnologie sembrano proiettare la vita umana in nuove dimensioni, inducendo un’accelerazione dei processi materiali e culturali, oltre qualsiasi confine, e oltre le stesse dimensioni della territorialità. In questo contesto le consuete categorie della geopolitica (confine, massa e forma delle unità politiche, dottrine di difesa statica e dinamica, della posizione assoluta e relativa all’interno di uno scenario, struttura e proiezione di potenza, distinzione “hard-soft”, schemi centro-periferia), perdono senso.35 In seguito alle ultime evoluzioni, il territorio (e tutto ciò che rappresenta) diventa qualche cosa di diverso da ciò che era in altre epoche (cioè un modo per materializzare il potere), e che allora era relativamente facile da presidiare con un perimetro di confini strutturati. Oggi gli stati e le varie organizzazioni possono stabilire relazioni a prescindere da distanza, massa, forma, posizione e di 34 Tardy T., 2013. 35 Gray C., 1977; Gray C.S. and Sloan G., editors, 1999.
  • 23. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 23 qualsiasi altro elemento geo-politico, in un contesto in cui i fenomeni assumono una caratteristica consistenza “s-materializzata” o “de-territorializzata”. Il fatto stesso di accettare le sfide della globalità significa la necessità di assumere certi ruoli e certe responsabilità, pena il rischio di diventare vittima dei fenomeni che quelle stesse aperture provocano. Per es. il fatto di accettare la liberalizzazione dei movimenti di qualsiasi tipo (di traffico, navigazione, commercio) significa la necessità di contribuire al presidio di una serie di potenziali “choke points” (Aden, Hormuz, Malacca ecc.), e quindi di assumere la capacità di proiettare le politiche (sia militari che non militari) oltre i propri confini, anche in aree molto lontane del proprio retroterra statale-nazionale. Una condizione che crea le premesse per coinvolgimenti di qualsiasi tipo e che rende inevitabile la partecipazione alle procedure della sicurezza, che caratterizza non solo la politica ma anche altri ambiti che nel mondo del globale si sviluppano ad una scala indefinibile e anche illimitata. Così per i mercati di qualsiasi tipo e dimensione, e così per i mercati finanziari (ai quali attingono i ministeri dei governi nazionali per rifinanziare il debito pubblico), delle valute e dei titoli, che configurano un giro vorticoso di valori immateriali e a volte invisibili, tanto che a volte neppure possono essere registrati con le più efficienti tecniche di “accountability” e di “corporate governance”. Così anche per servizi, beni reali, materie prime, energia e anche informazioni, conoscenze e capacità di qualsiasi tipo, che sono impossibili da controllare e anche da manipolare da parte di qualsiasi potere, e che per questo si avvicinano a configurare una condizione di “concorrenza perfetta” ovvero di “competition” senza regole (che è pensabile “governare” soltanto in un contesto di “governance”, v. infra). Da questo punto di vista, il processo di integrazione UE, avviato in epoca di tarda modernità, dagli anni ’50, coincide con una manovra di adattamento di scala dei fenomeni dell’economia alle capacità della politica (un fenomeno noto in letteratura come “re-scaling”).36 Quasi una manovra per “ri-territorializzare” le istituzioni del potere (così come i mercati, le linee di approvvigionamento, le unità linguistiche-culturali ecc.), forse troppo ambiziosa per l’UE e che delinea una nuova e possibile contraddizione, ovvero una manovra di ri-territorializzazione della politica in un contesto di progressiva de-territorializzazione globale. Una tendenza che coincide con l’affermazione di un nuovo paradigma che sembra sfavorire unità di grandi dimensioni e molto strutturate; è il caso di stati-apparati che consistono in grandi masse (territori e popolazioni, ma anche apparati industriali e reti di infrastrutture), che perseguono programmi di “welfare” “pesanti” e molto “territorializzati”, caratterizzati da costi fissi e sociali difficilmente gestibili.37 E’ il caso in genere di “medie potenze”, cioè di stati che non intendono subire le potenze egemoni, ma che nel contempo non hanno i mezzi per sostenere politiche di potenza, di organizzazioni super-governative, per loro stessa natura tendenzialmente “pesanti”, e di multinazionali fortemente strutturate e patrimonializzate. Uno scenario che sembra invece “premiare” stati “piccoli” e “leggeri”, che possono agire in modo flessibile, mantenendo capacità di riconversione e adattamento, e all’occorrenza condurre politiche competitive (di tipo “paradiso fiscale”, economia “off-shore” e geografie di “amenity”) a discapito degli stessi stati “pesanti”; così in genere per organizzazioni scarsamente strutturate, oltre che per gli stati, per associazioni private, aziendali, ecc. 36 Uitermark J., 2002; Cox K.R., 1998. 37 Holmes S., Sunstein C.R., 1999.
  • 24. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 24 Una tendenza che si interseca con i processi della globalizzazione che si affermano in termini di sfida alle organizzazioni territoriali e sovrane, in prospettiva dell’affermazione di realtà trans- statuali (aziende multinazionali, aziende che esternalizzano la produzione, “public companies”, fondi d’investimento, organizzazioni finanziarie) e di nuove identità globali (la “global civil society”, le “global city”). Tanto da far pensare che la stessa istituzione europea ed il progetto che essa rappresenta – fondamentalmente di ri-territorializzazione della politica, da una scala di stato- nazione ad una di stato-continente plurinazionale - sia già un po’ superata. Un’interpretazione che per certi aspetti farebbe ritenere invecchiato precocemente l’ideale comunitario, che si proponeva inizialmente di combinare, se non di sostituire, il proprio con gli ideali dei singoli stati-nazione (anch’essi in realtà in crisi, come qualsiasi altra organizzazione fortemente territorializzata).
  • 25. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 25 Capitolo 2 - Dalla geopolitica all’integrazione L’integrazione europea e i suoi sinonimi L’intenzione di mettere in comune risorse ed apparati, e di elaborare una politica di convergenza tra unità statuali sovrane, emerge all’indomani della conclusione della IIGM, per svilupparsi successivamente su livelli diversi, assumendo modalità e obiettivi che a volte si rivelano essere contraddittori. Un’operazione che rappresenta un caso eccezionale della geografia politica - di oggi come di ieri -, più spesso caratterizzata da altre circostanze: più spesso la politica internazionale non persegue obiettivi di integrazione, e in quel caso si limita all’elaborazione di dispositivi per regolazione di contenziosi in ambito di relazioni prevalentemente bi-laterali o, se multi-laterali, di tipo inter- governativo. Nel caso europeo invece alcuni paesi sovrani decidono di perseguire obiettivi di condivisione per gli strumenti sui quali essi stessi fondano storicamente la propria capacità politica. Un fatto che – come tutto ciò che riguarda sovranità e territorio, e relativi simbolismi, elementi tra i più rischiosi della dialettica politica, causa frequente di guerre - deve essere trattato con cautela, ed analizzato sia nella teoria che nella prassi, alle diverse scale (di contesto e di dettaglio, dal locale al globale, di strategia e di tattica). Di fatto l’integrazione europea è un caso che non ha precedenti, di “prassi” che anticipa la teoria, che è interessante collocare in un contesto di schemi teorici: per definizione, una possibilità ma anche un rischio, oltre che una straordinaria occasione per i cultori di geografia politica.38 In questa sede, in realtà, non si intende discutere i presupposti del fenomeno - se giusto o sbagliato, inevitabile o necessario, realistico o irrealistico -, ma evidenziare come e in che misura il processo si stia evolvendo, in quale contesto più vasto si colloca, quali possono essere gli sviluppi e quali i problemi, gli ostacoli e gli scenari di rischio che ne possono derivare. Questo assumendo che i problemi che il “percorso condiviso” europeo manifesta attualmente siano dovuti almeno in parte a questioni di impostazione, ovvero alle stesse definizioni che ne sono alla base. E’ il caso di “integrazione” e di “funzione strategica”, di rischio e di geopolitica, tutti concetti suscettibili di interpretazioni diverse, che prospettano il rischio di equivoci e incomprensioni.39 L’impulso originario all’integrazione Le ragioni alla base dell’integrazione sono - come è noto - collegate al superamento dello shock causato dalle guerre novecentesche e alla maturazione di una serie di consapevolezze.40 Tra queste, quella che deriva dal carattere distruttivo che possono sviluppare le nuove armi (e in genere le nuove tecnologie) in epoca tardo-moderna, ormai caratterizzate da una capacità tale da configurare un rischio di “feedback” autodistruttivo su scala planetaria. Un’evoluzione che conferisce a singoli apparati, che abbiano accesso a quelle stesse armi, una capacità di “ricatto” rispetto all’intera comunità umana, che cambia sostanzialmente lo scenario strategico:41 la tecnologia tardo-moderna mette a disposizione di stati individuali (e di chiunque) un 38 Goio F., Spizzo D., a cura di, 2001. 39 Questo per gli aspetti essenzialmente geo-politici della questione, essendo gli aspetti di tipo militare, come già ricordato nella premessa, oggetto di un ulteriore studio parallelo al presente; CeMiSS, 2014. 40 Beck U., 2000; Beck U., Giddens A., Lash. S., 1999. 41 È il caso in particolare dell’arma atomica; Diez T., Manners I., & Whitman R., 2011:122; vedi anche Bull H., 1977.
  • 26. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 26 potere troppo forte, potenzialmente incontrollabile, per non dover applicare qualche forma di controllo e di condivisione a scala di sistema. Una consapevolezza che si diffonde fino al punto di prevedere l’istituzione di codici e procedure trans-nazionali in grado di imporsi sull’insieme dei singoli stati, configurando inevitabilmente un depotenziamento degli stessi apparati sovrani. Un dato di fatto che ha varie conseguenze tra le quali la consapevolezza che sia necessario garantire le condizioni per una continuità di dialogo tra stati, nazioni e altri “player”, al di là di contingenze (per es. dalle intenzioni di un singolo governo, dell’eventualità che si formino differenziali di sviluppo tra stati confinanti) e di contenziosi, ovvero per immunizzare le tensioni che ne possono derivare. Infatti, come l’esperienza insegna, la dinamica di competizione tra i sistemi politici può evolversi in modo tale da diventare incontrollabile e da sfuggire di mano anche ai più esperti e collaudati ordinamenti.42 Un obiettivo che è possibile ottenere con l’applicazione di tecniche di istituzionalizzazione delle stesse relazioni internazionali, elaborando un ambito multi-laterale e comunitario, con stati che accettano la possibilità di vincolarsi reciprocamente sulla base di qualche accordo. Come affermavano i “padri fondatori” dell’UE - ispirati da una filosofia appunto un po’ paternalistica - “la pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”,43 sottolineando in questo modo il rischio che la persistenza di divisioni statuali da ritenersi definitive e irreversibili, potesse far riemergere in qualche circostanza tensioni difficili da controllare, ovvero le premesse per nuovi conflitti. Un fatto che rappresenta l’aspetto autenticamente critico di tutta la storia europea, antica e recente, che però in ambito di tarda modernità configura un rischio che non può più essere tollerato: l’ambito di confine,44 e i differenziali che inevitabilmente si formano tra i sistemi nelle varie epoche, è caratterizzato dall’accumulo di tensioni che possono riverberarsi in modo distruttivo sui vari piani della politica sia interna che internazionale. Un fatto che va oltre la contingenza di un certo scenario e i “buoni rapporti” che in realtà costituiscono la regola delle relazioni tra gli stati (seppure a volte un po’ di maniera). Evidentemente, non si può escludere che neppure gli stati più stabili nel loro percorso di vita possano essere in qualche momento interessati da fenomeni degenerativi.45 E’ il caso dell’affermazione di élite che consolidano posizioni di rendita, che diventano con il tempo irresponsabili rispetto al resto della popolazione, della diffusione di ideologie populistiche e di ondate di “odio” sociale, classista, nazionalista o di altro tipo. E’ il caso di “guerre” economiche, fiscali e doganali, di rivoluzioni “di piazza” e di ribellioni etno-sociali che possono avere origine nel quartiere emarginato di una grande città per diffondersi e per provocare effetti domino a vasta scala. E’ il caso – come succede oggi – di flussi che si sviluppano in modo incontrollabile in qualsiasi senso, che riguardano persone, conoscenze, merci, strumenti, idee, aziende e interi apparati (come nel caso di fenomeni di delocalizzazione), e che possono comportare improvvisi effetti distruttivi per interi sistemi. 42 La storia abbonda di casi di questo tipo; è il caso di un governo che amministra in modo irresponsabile e che, piuttosto che perdere il potere, per timore di vendette o semplicemente per deviare l’attenzione dalle proprie responsabilità, è capace di scatenare una guerra; ovviamente anche i regimi pluralisti sono soggetti a questi e ad altri rischi degenerativi. 43 Dichiarazione Schuman, 1950. 44 Scharr K., Steinicke E., Hg., 2012; Heller A., Hrgs., 2011. 45 Evidentemente quando la moltitudine umana diventa, da società civile, “folla” è maggiormente soggetta a dinamiche ed evoluzioni imprevedibili; Le Bon G., 1980.
  • 27. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 27 Un processo spontaneo o una strategia pianificata? A seconda delle interpretazioni il processo di integrazione europea si sviluppa sulla base di una pianificazione deliberatamente perseguita oppure in modo spontaneo, senza seguire un particolare disegno, sia in termini di allargamento verso l’esterno, che di integrazione interna. Alcuni autori ritengono di individuare in questo percorso criteri ben definiti; è il caso della “logica funzionalista”,46 che teorizza un processo che, interessando originariamente alcune “funzioni chiave”, si estenderebbe poi alle altre dimensioni della società,47 e finalmente alle funzioni della cd. “alta politica”, costitutive direttamente di sovranità (forze armate, rappresentanza e politica estera, funzioni di tipo autenticamente strategico). Un fatto che sembra evidente considerando i 50 anni di storia di integrazione della UE a partire dai trattati di Parigi e Roma negli anni ’50, che in effetti si realizza su un percorso che considera prima le produzioni di tipo primario, per definizione molto “territoriali”, per poi passare alle funzioni meno materiali e più strategiche (ovviamente secondo una definizione coeva che oggi ha perso una parte di significato). E’ il caso della Politica Agricola Comune (PAC), per stabilizzare i prezzi in agricoltura, in un contesto ancora diffusamente pre-industriale (negli anni ’50), in cui stabilità del mercato e della produzione agraria (ovvero la paura per la carestia, un motivo ricorrente in epoca premoderna) erano ancora qualche cosa di fondamentale. E’ il caso delle risorse energetiche e minerarie (materie prime, carbone e acciaio, nucleare) con l’istituzione di Ceca ed Euratom, che si proponevano di mettere in comune risorse essenziali per l’industria, e per rendere in questo modo “materialmente” impossibile una nuova guerra per le materie prime.48 E’ il caso, quindi, di infrastrutture e di pianificazione di mobilità, di corridoi “paneuropei”, di “nodi” e di “hub” (aeroporti, porti e stazioni intermodali), di assi di comunicazione su scala continentale per TAV e autostrade, di condotte per risorse energetiche (essenzialmente idrocarburi), di raffinerie e rigassificatori: una politica che predispone fondi “strutturali” e investimenti co- finanziati, e anche una serie di “agende” europee che, conseguentemente, ne possano certificare l’efficienza, nonché impatti su economia, ambiente e società. Un percorso che si sviluppa sulla base della convinzione che, una volta integrate le basi materiali (e maturato un senso dell’interesse comune da parte di popolazioni e società civili), le dinamiche della convergenza possano auto-alimentarsi, predisponendo a un processo irreversibile. Una traiettoria predisposta per “aggirare”, in quella fase, le funzioni e i simbolismi dell’”alta politica”, ma anche e soprattutto per evitare reazioni da parte di élite nazionali, nonché di “piazze” e di settori della società maggiormente sensibili a quelle tematiche, oltre che dei vari altri “players” della politica nazionale e internazionale.49 Una politica che, una volta superato questo ostacolo, avrebbe potuto interessare - una volta che i tempi si fossero dimostrati maturi – gli strati più vasti della popolazione, inducendo le stesse élite a promuovere l’integrazione anche per le funzioni direttamente costitutive di potere. Tra queste, le 46 http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell'integrazione_europea (accesso ottobre 2014). 47 Jelen I., 2012. 48 Dichiarazione Schuman, 1950. 49 Essenzialmente le super-potenze in un contesto che vede l’Europa divisa e indebolita: secondo alcuni autori già questo può essere considerato un motivo valido per perseguire l’unificazione delle funzioni strategiche, ovvero per evitare che l’Europa diventi oggetto di manovre di “divide et impera”, e talvolta il campo di battaglia di potenze esterne, che cercherebbero di mettere gli uni contro gli altri, innescando conflitti di varia natura.
  • 28. gruppo di ricerca [UniTs Gorizia Campus – CeMiSS] research group 28 funzioni di politica economica e fiscale, di supervisione di moneta e attività bancarie, di dogana e di controlli alle frontiere, di uso e di controllo degli strumenti per produrre la forza; infine, le funzioni di governo e le funzioni strategiche (un percorso che configura di fatto il programma europeista). Il percorso dell’integrazione La prospettiva funzionalista si scontra con quella “costruttivista” (oppure “idealista”) che invece prevede, in modo reciproco, che siano gli ideali a “produrre” la prassi, ovvero, in ultima analisi, le decisioni concrete della politica.50 Una prospettiva che pone il risalto, piuttosto che sulla materialità, sull’immaginario e sulla capacità di immaginare un obiettivo sia da parte delle élite che delle popolazioni, che – si presume - avrebbero la possibilità di organizzare e finalizzare coerentemente la propria azione. Una riflessione (sui fattori che generano l’impulso originario all’integrazione e le modalità con le quali la stessa si realizza) non solo accademica. Infatti, è importante capire il verso dell’integrazione - ammesso che ce ne sia uno - per tentare di comprendere quali possano essere le future evoluzioni in termini di limiti, opportunità ed ev. blocchi, in particolare, per i fini di questo studio, per le funzioni della cd. ”alta politica”. Al di là di questo, è evidente come il processo abbia affrontato (e in certi casi superato) una serie di salti di scala, che abbia avuto quindi un andamento non lineare, suscitando reazioni di segno opposto. Un fatto dovuto a interessi e resistenze che si manifestano a volte in modo imprevedibile, che fanno riferimento a lobby o movimenti di opinione, a gruppi di stati e gruppi di potere a volte difficili da riconoscere, che si formano attorno a qualche interesse particolare. In effetti – così come prevede una visione “realista” - spesso gli stati perseguono intenzioni opportunistiche, al di là dell’ostentazione di qualche ideale, praticando piuttosto strategie di massimizzazione di interessi immediati o intermedi, da adattare a seconda delle circostanze, compattandosi eventualmente in qualche sotto-gruppo o lobby. Così – per il caso europeo – per i paesi del sud e del nord, dell’est e dell’ovest, per paesi che fanno parte del “nucleo fondatore” e “new entry” (i quali, si presume, debbano essere sottoposti a qualche rito di “iniziazione”); è il caso di paesi a vocazione industriale, con economie orientate all’export, oppure di paesi che si basano su attività terziarie, tutela di ambiente e paesaggio, turismo e attività culturali, su agricoltura intensiva oppure “mediterranea” e di qualità, e via dicendo.51 Paesi che sviluppano strategie diverse, in una certa misura in contraddizione tra di loro, e che, in un contesto di parlamento europeo, assumono il ruolo che all’interno dei rispettivi parlamenti nazionali hanno i partiti regionali, che tendono a rappresentare interessi di parte – un fatto che però fino ad ora non ha comportato rischi troppo gravi di fratture. In realtà, un rischio che si manifesta soprattutto per le funzioni di tipo strategico, per definizione difficilmente o non-negoziabili, con i vari governi individuali che tendono ad “usare” l’UE per obiettivi che da soli non potrebbero sperare di perseguire. E’ il caso degli stati “piccoli”, che tenderebbero a usare l’istituzione europea per assicurarsi una rappresentanza internazionale e per sfuggire all’egemonia delle super-potenze; e di quelli più grandi, ma non abbastanza da sperare in un ruolo di potenza, che invece cercherebbero di sfruttare la stessa istituzione comunitaria per cercare surrettiziamente di realizzare politiche di influenza.52 50 Anderson B., 1991. 51 Bailes A.J.K & Thorhallsson B., 2013. 52 Diez T., Manners I., & Whitman R., 2011.