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La neuropsicologia, ovvero lo studio dei rapporti fra lesioni cerebrali e disfunzioni comportamentali, ha rappresentato –
per l’intera durata del XIX secolo e per buona parte del presente – l’unico metodo disponibile per lo studio
dell’organizzazione funzionale del cervello umano. Alle origini del paradigma neuropsicologico sta la scoperta del fatto
che lesioni locali di particolari regioni della corteccia cerebrale, anziché produrre disordini indistinti nel comportamento
sensorimotorio, emotivo e cognitivo dei soggetti che ne erano affetti, generavano deficit specifici di particolari
capacità: l’identificazione di disfunzioni selettive che lasciavano cioè complessivamente inalterato l’insieme delle
restanti facoltà ha dato origine alla concezione del cervello come sistema costituito da organi differenti e relativamente
autonomi, specializzati nella realizzazione di diverse funzioni. Gli eredi della tradizione frenologica, a partire da
Bouillaud, diedero vita su queste basi al primo paradigma sperimentale scientifico per lo studio del rapporto fra
comportamento e cervello nell’uomo: quello dell’afasiologia e dello studio della sede cerebrale della facoltà del
linguaggio1[1]. Malgrado le ondate polemiche che travolsero la tradizione afasiologica – e, insieme ad essa, l’ipotesi
“localizzazionista” (come d’ora in poi chiameremo l’assunzione relativa all’organizzazione del cervello in regioni
distinte sotto il profilo della specializzazione funzionale e suscettibili di lesioni selettive) – possiamo affermare che i
principî fondamentali su cui si fonda l’attuale neuropsicologia non si pongano in sostanziale discontinuità con quelli
delle sue origini2[2]. Ciò che invece ha subito un radicale progresso è, in primo luogo, l’insieme dei criteri per l’analisi
del comportamento e degli strumenti teorici per l’interpretazione dei deficit. Inoltre, si è sviluppata una notevole
sensibilità per lo statuto epistemologico dei modelli descrittivi delle disfunzioni comportamentali e per la
generalizzazione interindividuale delle ipotesi, nonché una cautela sempre maggiore nella formulazione di ipotesi di
correlazione fra i componenti funzionali postulati a partire dai deficit e i sostrati neurali interessati dalla lesione.
Nel corso di questo capitolo cercheremo di chiarire, alla luce della riflessione contemporanea sul valore degli studi di
deficit, in che modo si articoli il programma di ricerca neuropsicologico, da quali assunzioni di fondo dipenda
l’adeguatezza esplicativa di questa metodologia, e a quale insieme di problemi, più o meno inevitabili, essa soggiaccia.
Nella sua forma più generica, la neuropsicologia si avvale di due classi di fenomeni come base empirica: da un lato
anomalie specifiche ricorrenti in un soggetto nello svolgimento di determinate attività, come ad esempio il nominare un
oggetto percepito, il ripetere parole ascoltate, il leggere ad alta voce sequenze scritte di caratteri, il classificare stimoli
visivi in base al colore, e via dicendo; dall’altro, la presenza nello stesso soggetto di una lesione circoscritta
(clinicamente delimitabile) di una determinata area cerebrale. Scopo dello studio neuropsicologico è quello di porre in
relazione la dislocazione anatomica di tale lesione con la disfunzione osservata a livello comportamentale.
Il primo requisito per inferire un qualsiasi tipo di rapporto tra il luogo della lesione e la disfunzione comportamentale è
che il deficit osservato sia interpretabile in modo significativo rispetto al comportamento normale. La sindrome
(ovverosia l’insieme dei sintomi manifesti) presa di per sé non possiede infatti alcun valore empirico se non all’interno
di una teoria del funzionamento normale della capacità considerata.
È assunzione fondamentale di quanti sostengono la validità dell’approccio neuropsicologico che lo studio di una
determinata capacità possa essere illuminato molto più dallo studio dei deficit o delle anomalie di tale capacità che non
dal suo normale funzionamento3[3]. Senza l’ipotesi di una relazione interpretabile fra comportamento normale e
comportamento anomalo, la strada alla ricostruzione neuropsicologica si presenta fin da principio inagibile. Ciò che
innanzitutto è richiesto è dunque un modello analitico del funzionamento normale di una determinata capacità: soltanto
rispetto ad esso il sintomo potrà essere interpretato come disfunzione “locale”, circoscritta di una specifica struttura
funzionale all’interno del sistema che realizza tale capacità.
Se il comportamento anomalo di un soggetto nello svolgimento di una specifica attività fosse infatti da attribuire non al
deficit di un sottoinsieme limitato di queste strutture, bensì ad una globale modifica o riorganizzazione delle funzioni
normalmente impiegate, il deficit comportamentale perderebbe qualsiasi rilevanza per la comprensione di come questa
attività viene svolta in casi non patologici.
1

[1] Si vedano, per la storia della neurofisiologia ottocentesca, e in particolare degli studi afasiologici,
OMBREDANE (1951), FINGER (1994), JEANNEROD (1996).

2

[2] Cfr. MORTON (1984). La mediazione fra la stagione originaria dell’afasiologia e la neuropsicologia
cognitiva contemporanea è principalmente dovuta all’opera di N.Geschwind.

3

[3] Non ci soffermeremo qui a considerare gli argomenti a difesa del metodo dei deficit studies rispetto a
quello della psicologia cognitiva classica, per i quali si rimanda a SHALLICE (1988), p. 5ss.
È questo il principio noto come “assunzione di trasparenza”: essa stabilisce che schemi comportamentali deficitarî siano
interpretabili rispetto a comportamenti normali solo a condizione che si possa ritenere inalterato nel paziente l’insieme
delle restanti capacità4[4].
Ci soffermeremo brevemente su quest’assunzione, dal momento che rappresenta uno dei presupposti cardine dell’intero
programma di ricerca neuropsicologico.
L’assunzione di trasparenza garantisce che il deficit sia interpretabile rispetto all’architettura funzionale ordinaria della
capacità lesa. Abbiamo introdotto nella premessa a questo lavoro che cosa debba intendersi per architettura funzionale
di una capacità cognitiva: essa rappresenta l’insieme delle strutture e dei processi che si assume concorrano alla
realizzazione dei compiti propri di questa capacità. In sede neuropsicologica, si considera che l’architettura funzionale
di determinate capacità sia costante da individuo a individuo, che i sistemi cognitivi siano cioè qualitativamente simili
fra soggetti diversi e che simili siano anche le procedure con cui essi svolgono compiti ordinari tramite tali sistemi 5[5].
Ora, l’assunzione di trasparenza postula che una lesione cerebrale non alteri complessivamente l’organizzazione dei
sistemi cognitivi, ma abbia effetto tutt’al più sulle procedure con cui determinati compiti vengono realizzati. Sotto
questa condizione, un modello normativo (o architettura funzionale) di una data capacità fornisce una cornice teorica
per la classificazione dei disturbi selettivi nonché per la previsione di eventuali deficit non ancora osservati.
A questo proposito, va ricordato che uno stimolo fortissimo alla rinascita della neuropsicologia dalle ceneri dei
“diagram-makers” ottocenteschi è stato dato dall’applicazione allo studio dei deficit di modelli information processing,
sviluppati in sede di psicologia cognitiva tra gli anni ‘60 e ’70: la possibilità di “lesionare” concettualmente un modello
information processing ha infatti costituito uno strumento concettuale estremamente versatile per prevedere gli effetti
delle lesioni cerebrali, ed ha permesso di definire rigorosamente (in termini di livello di descrizione) il tipo di fenomeni
di cui i modelli funzionali possono rappresentare un’adeguata spiegazione6[6].

4

5

6

[4] Cfr. CARAMAZZA (1986), p.51 – Una serie di osservazioni E, costituita dal comportamento cognitivo
anomalo di un paziente soggetto ad una lesione cerebrale, è rilevante per la costruzione di un modello M
del comportamento normale solo se tale serie di osservazioni è descrivibile a partire da M, insieme ad
un’ipotesi complessa L sulla posizione della disfunzione nell’architettura funzionale del sistema e ad una
serie di assunzioni riguardanti gli effetti del danno ipotizzato nel sistema cognitivo. Questa assunzione, in
altre parole, richiede che il sistema cognitivo di un paziente che presenta una lesione cerebrale sia
essenzialmente lo stesso di quello di un soggetto normale, eccezion fatta per una modifica “locale” (L) del
sistema. Viene cioè respinta la possibilità che una lesione cerebrale comporti la creazione di nuove
operazioni cognitive, tali da dare luogo nel soggetto ad un diverso sistema cognitivo M i che abbia una
relazione non trasparente con il sistema originario M. Schemi di risposta devianti sarebbero di scarso
valore teorico se fossero privi di restrizioni, se cioè fossero devianti su tutte le funzioni interessate. Cfr.
anche CAPLAN (1981), p.124-125; VON ECKARDT KLEIN (1978), p.47: “Either a functional analysis
specific to the abnormal organism must be provided or the explanation of deviant output must occurr at a
non-functional level, i.e., at the level of causal mechanism.”
[5] Cfr. SHALLICE (1988), 219.

[6] Cfr. MASSARO & COWAN (1993).
A titolo di esempio di cosa si debba intendere per modello normativo di una capacità riportiamo lo schema, ormai
classico, di Lichtheim, inteso a ricostruire, sulla base di deficit osservati, l’architettura della facoltà del linguaggio e,
nello specifico, le procedure legate alla comprensione e alla riproduzione degli stimoli linguistici.

Lo schema di sinistra descrive i “centri di elaborazione” del linguaggio e i percorsi dell’informazione attraverso di
essi: a sta per l’input sensoriale (stimolo uditivo), m sta per l’output motorio (elocuzione verbale), A per il centro delle
rappresentazioni uditive delle parole, M per il centro delle rappresentazioni motorie delle parole, O per il centro delle
rappresentazioni visive delle parole, B per il centro semantico, E per il centro d’innervazione degli organi deputati alla
scrittura.
All’interno di questo modello è possibile individuare, in forma generica, l’insieme delle operazioni e delle procedure
richieste dai diversi tipi di compiti linguistici che compiamo abitualmente, come trascrivere parole udite, ripeterle ad
alta voce, e via dicendo.
Lo schema semplificato di destra riporta, infine, i vari punti in cui il sistema è suscettibile di lesioni tali da produrre
deficit comportamentali selettivi: l’importanza di questo modello sta nel fatto che attraverso di esso è stata possibile la
prima descrizione unitaria delle diverse sindromi descritte nella letteratura afasiologica 7[7]. Consideriamo i casi più
rilevanti:
•

•

•

Da una lesione in 1. (che colpisce il centro dell’articolazione motoria M), discende la sindrome afasica descritta
da Broca, o – secondo la definizione di Wernicke – afasia motoria, tale da abolire la parola spontanea (BMm),
la ripetizione di parole (aAm), la lettura ad alta voce (OABMm), la scrittura (BME) e la scrittura sotto dettatura
(aAME), senza alterare invece la comprensione uditiva della parola (aAB), la comprensione della parola scritta
(OAB), la capacità di copiare.
Ad una lesione in 2. (che interessa il centro uditivo A), è riconducibile l’afasia sensoriale di Wernicke, che
lasciando intatte la capacità di copiare, la scrittura spontanea e la parola spontanea (anche se queste ultime
suscettibili di paragrafie e parafasie), abolisce la comprensione del linguaggio orale e scritto, la possibilità di
ripetere parole udite, la possibilità di scrivere sotto dettatura e di leggere ad alta voce.
Ad una lesione in 3. (percorso di connessione fra il centro uditivo A e il centro di articolazione M) è
riconducibile la cosiddetta afasia di conduzione di Wernicke, che mantenendo intatte la comprensione della
parola, la lettura silenziosa e la capacità di copiare, abolisce invece la capacità di ripetizione, la lettura ad alta
voce e la scrittura sotto dettato e altera l’elocuzione spontanea e la scrittura spontanea.
Altre forme di deficit linguistico, osservate o puramente postulate, sono interpretabili alla luce di questo

modello (4: afasia motoria transcorticale, 5: afasia motoria subcorticale, 6: afasia sensoriale transcorticale, 7: afasia
sensoriale subcorticale); altre non risultano invece interpretabili tramite di esso, come forme dissociate di agrafia o la
cosiddetta afasia nominale8[8].
Il modello di Lichtheim ci interessa particolarmente poiché stabilisce una diretta corrispondenza fra capacità deficitarie
da un lato e lesioni selettive di componenti funzionali o percorsi di trasmissione dall’altro. Ciò che tale modello
evidentemente non contempla è la possibilità di spiegazioni molteplici dello stesso deficit. È riconosciuto, in campo
neuropsicologico, che non sussiste alcuna relazione univoca tra un comportamento anomalo osservato e un deficit
funzionale soggiacente: anche accettando l’ipotesi forte che in un cervello leso nuove capacità non emergano in seguito
ad una riorganizzazione delle risorse preesistenti (possibilità esclusa dall’assunzione di trasparenza), la spiegazione di
7

[7] Cfr. OMBREDANE (1951), p.97.

8

[8] Cfr. OMBREDANE (1951), p.99 e p.125ss.
un comportamento anomalo nell’esecuzione di una data attività resta fondamentalmente sottodeterminata rispetto alle
molteplici descrizioni alternative ed altrettanto adeguate dello stesso deficit 9[9]. Mentre è in principio prevedibile in
modo univoco, a partire da un deficit funzionale valutato sul modello, il tipo di anomalia comportamentale che ne
conseguirà, diversamente nulla garantisce la validità dell’inferenza opposta10[10].
Sebbene dipendano da modelli ideali e spesso privi di adeguatezza empirica, i single component deficit sono stati spesso
ritenuti dei punti di partenza, fruttuosi sotto il profilo euristico, per ulteriori analisi delle disfunzioni
comportamentali11[11].
Per contro, si è rivelata sempre più cruciale l’individuazione di criteri per isolare le strutture responsabili di particolari
deficit. L’analisi di disordini comportamentali come risultato del carattere deficitario di singoli componenti funzionali o
di singole vie di trasmissione è ciò che, storicamente, ha promosso la ricerca di “casi puri” di patologie
linguistiche12[12].
Nella neuropsicologia contemporanea, individuare casi di sindrome pura significa porre delle condizioni tassonomiche
sui complessi di sintomi che si manifestano nei pazienti: si considera in genere che tanto più selettivo risulta un tipo di
deficit, tanto più valide sono in generale le inferenze che se ne possono trarre sulla semplicità dei sistemi da cui esso
dipende.
La strategia più rappresentativa impiegata in sede neuropsicologica per identificare deficit altamente selettivi è quella
nota sotto il nome di metodo delle “doppie dissociazioni”. Per “dissociazione” si intende in generale la perdita
dell’abilità di eseguire un certo tipo di operazioni, di fronte al mantenimento di altre capacità: le dissociazioni, insieme
alle associazioni di deficit, hanno costituito la base sperimentale di tutta l’afasiologia classica. Il limite alla loro
affidabilità sta però nel fatto che cause molteplici, come abbiamo visto, possono generare capacità dissociate: si è resa
urgente, di conseguenza, l’individuazione di criteri più stringenti per identificare singoli componenti deficitarî ed
evitare il rischio di artefatti.
Questo criterio è stato fornito dalla strategia delle “doppie dissociazioni”. Il riscontro, rispettivamente, in due soggetti
che riportano una lesione cerebrale di 1) una capacità A deficitaria di fronte a una capacità B illesa e 2) della stessa
capacità A illesa accanto alla capacità B deficitaria, si assume generalmente sufficiente a garantire l’indipendenza dei
due sistemi responsabili dei deficit osservati13[13].
La strategia delle doppie dissociazioni ha rappresentato lo strumento teorico più comune in sede neuropsicologica per la
costruzione o la refutazione di modelli normativi di date capacità cognitive 14[14]. In realtà, il suo valore come criterio di
isolabilità di componenti funzionali distinti è stato messo ampiamente in discussione da diversi studiosi 15[15]:
torneremo nel capitolo III su questo punto, per sottolineare come diversi sistemi non modulari possano dar luogo a
dissociazioni e talvolta a doppie dissociazioni, una volta lesionati.
La spiegazione di una capacità complessa attraverso un modello normativo, seppur sufficiente a dar ragione in termini
astratti del suo funzionamento e dei suoi potenziali deficit, invoca in sede neuropsicologica un ulteriore requisito: che i
9

[9] Cfr. GREGORY (1961), p.320ss.

10

[10] Cfr. VON ECKARDT KLEIN (1978), ibidem; SHALLICE (1988), p.23; KOSSLYN & VAN KLEECK
(1990), p.395. Se anche ciascuno dei componenti opera in modo normale, si può ad esempio postulare
che il modo in cui essi interagiscono non lo sia – che non lo sia cioè l’insieme delle procedure attraverso
cui i vari componenti realizzano dati compiti.

11

[11] Cfr. SHALLICE (1988), p. 221.

12

[12] Cfr. LICHTHEIM (1885).

13

[13] Cfr. SHALLICE (1988), p.34-37 e soprattutto p.220ss.

14

[14] Cfr. SHALLICE (1988), p.232.

15

[15] Si veda CARAMAZZA (1986), p.63ss. Rimandiamo al capitolo III per un’ulteriore discussione sui criteri
di isolabilità dei componenti funzionali.
processi descritti a livello di architettura funzionale siano ad un certo livello di analisi confrontabili con i processi
effettivamente realizzati dal cervello.
Perché un’analisi funzionale rispondesse a tale istanza di adeguatezza implementazionale, la neuropsicologia classica
assumeva che dovesse esistere almeno una regione cerebrale che fosse la realizzazione fisica di ogni singolo
componente funzionale specificato dal modello e che tali regioni (o più precisamente “centri”) fossero tra loro connesse
in modo tale da implementare i processi descritti dal modello 16[16]. Tale concezione, che proiettava tout court
componenti e connessioni, identificate a livello comportamentale, sull’anatomia cerebrale è stata oggetto di aspra critica
nella prima metà del XX secolo 17[17] e non è più accettata ciecamente da parte della moderna neuropsicologia
cognitiva. Ciò non toglie che anche quest’ultima debba porsi il problema dell’adeguatezza implementazionale dei propri
modelli. Per rendere valida una qualsiasi forma di inferenza tra deficit comportamentali e lesioni cerebrali è cioè
necessario che l’organizzazione anatomo-fisiologica del cervello rispecchi, in qualche forma, l’architettura funzionale
delle diverse capacità18[18].
Una volta identificato il locus anatomico della lesione, stabilita la natura della devianza comportamentale come effetto
del carattere deficitario di un componente isolabile, e costruito un modello analitico della capacità considerata, si tratta
di stabilire che ruolo abbia l’area colpita dalla lesione rispetto al deficit identificato. In altre parole, si tratta di stabilire
se esista un rapporto fra la semplice localizzazione della lesione e l’identificazione di una regione specializzata nello
svolgimento della funzione deficitaria.
Il dibattito sulla validità di questo passaggio inferenziale ha scosso gli studi neuropsicologici fin dalle loro origini (si
pensi soprattutto alla grande ondata critica sollevata da studiosi come Head, Lashley o Freud in ambito afasiologico
contro la fede “frenologica” di cui soffrirebbe lo studio tradizionale delle patologie del linguaggio 19[19]) e si può
affermare che il problema continui ad affliggere la moderna neuropsicologia. L’insieme di assunzioni che occorre
accettare per compiere quest’inferenza eccede di gran lunga quelle semplicemente richieste dalla descrizione di un
sintomo in termini di deficit funzionale, tanto che un filone della ricerca neuropsicologica non si espone, in attesa di
conoscenze più precise da parte neurologica sulle strutture che realizzano i processi cognitivi, a sostenere tesi
“localizzazioniste” azzardate.
CARAMAZZA20[20] sostiene, ad esempio, che i modelli che la neuropsicologia produce debbano limitarsi a
“specificare architetture funzionali che permettano di descrivere in termini computazionalmente espliciti le relazioni di
input/output di particolari sistemi cognitivi”. Un simile genere di approccio, che mette in secondo piano la rilevanza
della dislocazione anatomica della lesione e in questo si distinguerebbe radicalmente dalla neuropsicologia tradizionale,
è stato da alcuni definito come approccio“ultracognitivo”21[21].
Resta da rilevare il fatto che gran parte dell’attuale ricerca neuropsicologica (in particolar modo quella che studia gruppi
di pazienti piuttosto che casi isolati) impiega nondimeno evidenza clinica a sostegno di ipotesi - se non sull’esistenza di
16

[16] Riprendiamo qui la definizione di VON ECKARDT KLEIN (1978), p. 41ss.: “a functional analysis A of
how an organism O has capacity C is structurally adequate if there exists a structural decomposition of O
into component (physical) parts suc that: 1) – operation of those parts results in O’s exercising C; 2) – for
each constituent capacity of A there exists at least one of those structural components which has that
capacity; 3) – the order in which those component parts operate when O is exercising C mirrors the
algorithm specified in A.”

17

[17] Cfr. SHALLICE (1988), p.9ss.

18

[18] Sarà scopo del capitolo III quello di delineare che cosa la neuropsicologia propriamente identifichi
come correlato neurale dei componenti postulati a livello di architettura funzionale di un sistema.

19

[19] Cfr. MORTON (1984), p.49ss.

20

[20] CARAMAZZA (1986), p. 43.

21

[21] SHALLICE (1988), p.203, identifica sotto questa definizione approcci metodologici di studiosi
provenienti per lo più dalla psicologia cognitiva classica e dalla linguistica e ne individua i tratti caratteristici
nell’enfasi sui casi individuali, nel rifiuto dei group studies e nell’indifferenza nei confronti della base
neurologica del comportamento. Egli stesso si spinge ad affermare che “informazioni sulla localizzazione
della lesione”, pur non essendo da escludere dalla neuropsicologia cognitiva, “non sono per essa vitali”.
precisi “centri” di elaborazione - quantomeno sulla localizzazione di aree specialmente coinvolte nello svolgimento di
determinati processi. Ne è un indice il fatto che la classificazione delle patologie continui ad avvenire non solo sulla
base della distinzione fra diversi tipi di sindrome e di deficit comportamentali ( ovvero di risposte differenziate a
specifiche batterie di test), ma anche sulla base della dislocazione anatomica delle lesioni 22[22].
I.2 – PROBLEMATICHE EPISTEMOLOGICHE
Abbiamo visto quali siano le forti assunzioni cui è necessario ricorrere in sede neuropsicologica semplicemente per
garantire l’interpretabilità dei sintomi osservati. Abbiamo mostrato, alla luce di queste considerazioni, come non
sussista alcuna relazione univoca tra il tipo di deficit comportamentale e l’architettura funzionale ipotizzabile a sua
spiegazione. Abbiamo infine ricordato la divergenza di opinioni in campo neuropsicologico riguardo alla rilevanza
della localizzazione fisica della lesione ai fini dell’interpretazione delle sindromi. Ci occuperemo in quanto segue di
passare in rassegna le problematiche epistemologiche legate a questi presupposti metodologici.
Al fine di esaminare le diverse critiche che sono state mosse all’impianto metodologico della neuropsicologia,
bisogna premettere che il tentativo di organizzarle per classi di interesse (definizione dei sintomi, costruzione del
modello funzionale, requisiti di adeguatezza strutturale, validità delle inferenze di localizzazione) risulta fin da
principio poco significativo, vertendo la maggior parte degli argomenti critici proprio sulla collisione fra tali piani
che affliggerebbe i modelli costruiti in sede neuropsicologica.
A) – La definizione dei fenomeni non è indipendente dalla teoria esplicativa assunta.
Questa prima osservazione sottolinea la relazione complessa che sussiste tra fenomeni osservati e teoria. Ciò che è
ritenuto negli studi basati su anomalie comportamentali “fenomeno rilevante” non è indipendente dal modello
normativo assunto: il tipo di cornice esplicativa che viene adottato determina cioè in larga misura ciò che dovrà
contare come fenomeno di interesse da esplicare23[23]. Il problema epistemologico che ne discende presenta un
duplice risvolto: da un lato il rischio della costruzione di modelli ad hoc per il tipo di fenomeni in esame, di modelli
che escludano altri fenomeni quali sindromi complesse, definendoli irrilevanti ai fini della modellizzazione;
dall’altro il rischio dell’incommensurabilità delle restrizioni che da tali modelli conseguono 24[24].
B) – Il disturbo non è direttamente riconducibile al deficit di un componente funzionale.
L’assunzione che abbiamo visto essere alla base dei single-component models, considerata da alcuni un requisito
essenziale di interpretabilità dei fenomeni, da altri un semplice criterio euristico ma indispensabile nelle prime fasi
dell’indagine, ha da sempre rappresentato la spina nel costato della neuropsicologia: già i primi critici degli approcci
ottocenteschi allo studio dei disturbi del linguaggio hanno denunciato la labilità del criterio di individuazione dei
cosiddetti “casi puri” che, nelle intenzioni dei loro fautori, avrebbero dovuto rappresentare l’effetto
comportamentale di deficit funzionali “semplici”. L’assunzione che viene oggi criticata è quella che vuole che i
deficit non possano essere studiati che come effetto della lesione di singoli componenti funzionali isolabili dal resto
del sistema25[25]. Se l’assunzione del single-component deficit viene considerata più che un semplice strumento
teorico d’approccio allo studio di anomalie comportamentali, il rischio è quello di farne il fine dell’indagine, e di
formulare ipotesi ingenue di localizzazione di componenti funzionali in particolari aree cerebrali.
C) – Il comportamento deficitario è il risultato di diverse cause concorrenti.
I critici moderni della neuropsicologia accusano gli eredi degli afasiologi del XIX secolo di trascurare le molteplici
cause che possono essere all’origine di deficit comportamentali. L’assunzione di trasparenza deve necessariamente
22

[22] Non intendiamo soffermarci qui sul problema spinoso della categorizzazione delle sindromi: ci
limitiamo a rilevare come la localizzazione della lesione sia spesso impiegata come criterio per la
classificazione dei pazienti, cfr. MCCARTHY & WARRINGTON (1990); KERTESZ (1983).

23

[23] CARAMAZZA (1986), p.47.

24

[24] SHALLICE (1988), p. 226, riconosce il rischio, pur ritenendo di poterlo evitare attraverso la selezione
di double dissociations: “Any cognitive task requires the use of multiple subsystems. If in addition, the task
involved can be carried out by various procedures any falsification inference would become rococo in its
complexity and impossible in practice. There would also be many false leads to negate the heuristic value
of any observations of impaired behaviour”

25

[25] È chiaro che la “transparency assumption” acquista significato solo in un quadro teorico che assuma
l’esistenza di componenti di capacità complesse in una certa misura “modulari” (cfr. capitolo III). David C.
Plaut nel commento a FARAH (1994), p. 77: “the standard locality assumption [ciò che qui abbiamo
chiamato carattere modulare] is simply a way to assure that the transparency assumption is tractable, and
the transparency assumption is simply a way to ensure that the effects of damage are interpretable”.
scontrarsi con il complesso spettro di risposte che un sistema deficitario può fornire per arginare il difetto. Capacità
intatte possono essere riorganizzate, nuove capacità possono essere assemblate, le risorse esistenti possono essere
quantitativamente ridistribuite all’interno del sistema per simulare la capacità venuta a mancare e via dicendo 26[26].
I modelli normativi basati sull’evidenza di deficit comportamentali selettivi devono fare quindi i conti non solo con
problemi inerenti alla presunta architettura delle capacità illese, ma anche con la validità stessa dell’idea di
un’architettura funzionale stabile a fronte alle esigenze di riadattamento conseguenti la lesione 27[27].
Un corollario di tale questione riguarda inoltre la natura del deficit ipotizzato: si parla spesso nella letteratura
neuropsicologica di componenti funzionali “lesi” o di connessioni “inattive”, laddove lo stesso tipo di sintomi può
essere spiegato da una semplice diminuzione quantitativa della partecipazione di una struttura alla realizzazione di
un task. Non è cioè necessario (anzi, è spesso deviante) assumere che i componenti funzionali postulati nei modelli
normativi operino secondo una logica all-or-none; al contrario, deficit quantitativi possono produrre rilevanti effetti
qualitativi e i processi interessati risultare diversamente sensibili al disturbo neurologico 28[28].
D) – Non ci sono garanzie circa l’adeguatezza implementazionale dei modelli costruiti su base
neuropsicologica.
Altra fonte di perplessità nei confronti degli studi neuropsicologici è spesso rappresentata dall’adeguatezza
implementazionale dei modelli. Lo studio di una capacità deficitaria come effetto di una lesione cerebrale soggiace,
alla stregua di ogni studio basato su dati di tipo comportamentale, al limite intrinseco a questa classe di studi 29[29].
Torneremo oltre sulla legittimità di descrivere i processi cognitivi a livello puramente funzionale,
indipendentemente dalla loro realizzazione a livello cerebrale. Qui basti osservare che i criteri di adeguatezza
invocati in sede neuropsicologica a garanzia della plausibilità dei modelli astratti di performance si fondano spesso
su osservazioni di scarso valore dal punto di vista neurologico30[30].
È questa una delle critiche che più contribuirono a minare la credibilità degli studi afasiologici del secolo scorso, il
cui limite (considerate le conoscenze anatomiche del periodo) veniva proprio individuato nell’inadeguatezza dei
concetti psicologici e dei modelli funzionali impiegati 31[31].
26

[26] cfr. VON ECKARDT KLEIN (1978), p.47; SHALLICE (1988), p. 241-243; KOSSLYN & VAN KLEECK
(1990), p.395. La conseguenza principale che ne deriva è l’ingenuità di un approccio al deficit che consideri
il sistema leso come semplicemente “localmente” inattivo in un componente e normalmente funzionante
per il resto: un sistema leso è sempre un sistema alla ricerca di compensazioni della lesione. Si consideri
l’esempio della “lettura semantica” come risposta a particolari difficoltà nell’accesso al lessico fonetico
osservate nelle forme di dislessia profonda (cfr. SHALLICE (1988), p.98ss.).

27

[27] Come campione di una posizione programmatica condivisa in neuropsicologia a questo proposito, cfr.
MARIN, SAFFRAN & SCHWARTZ (1976), p.869: “We are arguing that the behavior of the patient with
organic brain disease largely reflects capacities which existed in the premorbid state. We should therefore
be able to make some inferences about the organization of normal language function from patterns of
functional preservation and impairment: if process X is intact where process Y is severely compromised or
absent, and especially if the converse is found in other patients, there is reason to believe that X and Y
reflect different underlying mechanisms in the normal state. At the very least, the resulting matrix of intact
and impaired functions should yield a taxonomy of functional subsystems. It may not tell us how these
subsystems interact – but it should at identify and describe what distinct capacities are available.”

28

[28] cfr. SHALLICE (1988), p.232-237; KOSSLYN & VAN KLEECK (1990), p. 395; CAPLAN (1981), p.125126.

29

[29] Il rischio è quello di costruire modelli normativi di processi cognitivi sulla base di categorie psicologiche
poco rilevanti dal punto di vista della elaborazione dell’informazione a livello cerebrale. Una delle questioni
più dibattute in proposito è quella dell’overlapping implementation, sulla quale torneremo più ampiamente
nel corso del III capitolo. A difesa dell’autonomia della descrizione dei fenomeni a livello comportamentale,
si veda MARIN, SAFFRAN & SCHWARTZ (1976), p. 870: “ (…) the method is, of course, limited by the
functional topology of the brain. Because functions may overlap in their anatomical substrates, we cannot
state with assurance that every functional system which could be observed will be observed. But positive
evidence that functions are organized independently should be significant for a theory of the language
process”.

30

[30] cfr. SHALLICE (1988), p.213-214; KOSSLYN & VAN KLEECK (1990), p. 394.

31

[31] MORTON (1984), p.49ss. dà una sommaria rassegna delle critiche che Freud e Head mossero contro
E) – I componenti funzionali postulati possono essere realizzati in modo non discernibile nel cervello.
Come si è visto, una delle maggiori difficoltà legate all’approccio neuropsicologico è quella della fragilità
dell’assunzione che le funzioni postulate a partire da osservazioni comportamentali possano identificare
efficacemente la specializzazione di specifiche regioni cerebrali. Ci possiamo spingere oltre, rilevando che anche
laddove esistano effettivamente aree cerebrali responsabili di funzioni postulate a livello architettonico, tali aree
possano non essere isolabili con precisione o possano non essere suscettibili di venir colpite in modo esclusivo da
una lesione. Ovverosia, l’esistenza di aree cerebrali deputate in modo selettivo alla realizzazione di specifici
processi non garantisce che si tratti di aree cerebrali compatte (clustered) e circoscrivibili (tali da risultare, per
esempio, rimovibili con precisione così come avviene negli studi di ablazione su animali 32[32]). Non va infatti
trascurata la possibilità che il componente strutturale postulato sia implementato da popolazioni neurali distribuite,
non dedicate esclusivamente alla realizzazione delle operazioni ipotizzate o costituite da un numero esiguo di
neuroni.
Bisogna inoltre considerare la possibilità che gli effetti fisiologici di una lesione interessino anche tessuti diversi da
quelli propriamente colpiti dal trauma33[33].
L’insieme di queste osservazioni rende discutibile l’idea che una lesione possa specificamente interessare una
regione responsabile di particolari processi34[34].
F) - I modelli normativi non contemplano alcuna descrizione dei processi microstrutturali attraverso i quali i
componenti realizzino le operazioni postulate.
Riportiamo per ragioni di completezza questo problema, anche se riteniamo che esso riguardi, più che i modelli
neuropsicologici in sé, il livello di analisi dei fenomeni rispetto al quale si ritiene che tali modelli debbano fornire
una descrizione. In generale, l’assunzione che i processi cognitivi siano descrivibili attraverso modelli information
processing li dispensa da una descrizione di come determinati processi vengano realizzati entro ciascuno dei
componenti funzionali postulati35[35]. Tuttavia, ciò che si intende generalmente rilevare attraverso simili obiezioni
Lichtheim circa l’inadeguatezza strutturale dei suoi modelli di spiegazione delle afasie e osserva come
entrambi ne abbiano frainteso lo spirito, accusandolo – ad esempio – di aver postulato pathways prive di
precisi correlati neurali. In realtà, osserva MORTON, il valore dell’opera di Lichtheim sta proprio nel suo
tentativo di separare descrizioni della funzione da descrizioni dell’anatomia e nella sua intenzione di isolare
un dominio indipendente di ricerca inteso a studiare la pura articolazione funzionale dei processi linguistici
alterati in seguito a lesioni (ciò che in termini marriani, definiremmo un’analisi a livello computazionale). La
mistificazione operata dai denigratori dei diagram makers deriverebbe, secondo Morton, dall’aver essi
interpretato l’associazione lesione-sindrome, correttamente individuata da Lichtheim, come
un’associazione lesione-componente funzionale, dall’aver cioè caricato di valenze “localizzazioniste”
ipotesi che non lo erano affatto nelle intenzioni dell’autore. Contro una tale confusione dalla localizzazione
dei sintomi alla localizzazione delle funzioni, l’argomento classico è quello di JACKSON (1874).
32

[32] cfr. GROBSTEIN (1990), p.24: “From a naive perspective, the theory of lesion experiments is relatively
simple: to determine what a part of the nervous system is doing, one removes the selected structure and
defines its function in terms of the resulting behavioral deficits. There are a host of problems with this
perspective, both practical and conceptual. Not the least of these is that such a theory presumes what
need not in principle be the case: that the nervous system is organized in such a way as to display a high
degree of localization of functions, with the localizable functions corresponding to known aspects of
behavior”

33

[33] Si veda il problema delle diaschisi, ovvero degli effetti fisiologici della lesione sulle regioni adiacenti,
definiti per la prima volta da von Monakow, come riporta CAPLAN (1981), p. 128

34

[34] KOSSLYN & VAN KLEECK (1990), p.393, propongono le alternative menzionate: clustered vs.
distributed neurons, shared vs. dedicated neurons, large vs. small number of neurons. Il problema tocca
più in generale i criteri di scomposizione anatomica del cervello in regioni rilevanti ai fini di un’analisi
funzionale e la validità dei metodi di classificazione anatomica delle lesioni: diversi neuropsicologi
denunciano l’inadeguatezza della definizione di certe sindromi (e della relativa classificazione di pazienti
sotto una medesima categoria) basata su grossolane considerazioni anatomiche relative al locus cerebrale
della lesione - cfr. MORTON (1984), p.56-57.

35

[35] Per una posizione dissenziente, almeno sotto il profilo programmatico, cfr. CARAMAZZA (1986), p.44,
il quale sostiene che uno dei requisiti di completezza di dei modelli normativi è una descrizione della
struttura computazionale interna di ognuno dei componenti postulati in un’architettura funzionale. FARAH
non è, in generale, la legittimità di uno studio dei fenomeni attraverso modelli architettonici che postulino
componenti funzionali non ulteriormente analizzati (a rigore, la scelta di un grado di analisi è strutturale ad ogni
descrizione). Piuttosto, esse sono intese a mettere in luce l’inadeguatezza delle strutture identificate a livello
anatomico al fine dello studio dei meccanismi neurali che implementano determinate capacità 36[36].
G) – La validità delle categorizzazioni dei pazienti in base ai sintomi e alla natura delle lesioni è controversa.
Due sono le strategie normalmente impiegate per classificare le sindromi in campo neuropsicologico: da un lato la
scelta di casi singoli, più o meno vicini al deficit “puro” ipotizzato, e la relativa svalutazione di casi affini, in quanto
gravati da complessi secondari di sintomi; dall’altro l’esame di gruppi di pazienti, classificati in base a due criteri
alternativi: o sulla base del sito della lesione (con una successiva analisi della performance media del gruppo rispetto
a determinati test), o sulla base della categoria diagnostica definita a partire dalle risposte a specifiche batterie di test
(con una successiva analisi delle affinità anatomiche delle lesioni cerebrali). Senza dilungarci sulla validità di
entrambe queste scelte operative37[37], ci limitiamo a osservare come tutti i problemi di classificazione dei pazienti
derivino direttamente dalle questioni che abbiamo delineato sopra circa la validità dell’interpretazione dei sintomi in
termini di deficit “puri” e l’adeguatezza dei criteri di classificazione anatomica delle lesioni. Le uniche precisazioni
che è opportuno aggiungere riguardano il fatto che se, da un lato, il criterio di classificazione dei pazienti in base a
schemi analoghi di risposta a specifici test non fornisce basi sufficienti, generalmente, per porre in relazione
significativa le lesioni che li producono38[38]; dall’altro, un’interpretazione quantitativa dei deficit basata sulla
performance media di gruppi di pazienti classificati sulla base esclusiva di criteri anatomici circa la localizzazione
della lesione è considerata da alcuni studiosi irrilevante al fine di modellare l’architettura di determinati sistemi
cognitivi39[39].
H) – I tipi di deficit osservati non hanno stabilità temporale
Una questione non irrilevante che tocca i single case studies (ma che colpisce indirettamente anche gli approcci di
gruppo allo studio dell’effetto di lesioni cerebrali) è la seguente: basare un modello normativo di una determinata
capacità cognitiva sulla base dei deficit osservati in un singoli paziente, ad un dato momento del decorso della sua
patologia, non fornisca alcuna garanzia sufficiente della stabilità dell’architettura funzionale postulata. Abbiamo già
sottolineato come un sistema deficitario sia sempre un sistema in cerca di strategie di compensazione del deficit. La
modificabilità del comportamento di un soggetto col trascorrere del tempo dopo la lesione oltre ad essere un indice
della complessità delle possibili reazioni al deficit da parte del sistema lesionato 40[40], comporta anche la grave

(1994) utilizza argomentazioni tratte dal campo del parallel distributed processing per invalidare la
legittimità di ipotesi localizzazioniste. È nostra opinione che l’opzione tra PDP o ipotesi computazionali
tradizionali sia del tutto irrilevante ai fini del problema della localizzabilità di specifici sistemi cognitivi in
aree discrete del cervello.
36

[36] La questione è sollevata da CAPLAN (1981), p.129-133, il quale addita una disparità tra la finezza
delle analisi funzionali di cui disponiamo per descrivere fenomeni come quello del linguaggio e la relativa
povertà di informazioni sui meccanismi neurali che li realizzano: “the point is that, while behavioral or
psychological functions may in fact correlate with gross neuroanatomical regions, they would do so, as
best we know, because of the correlations between elements of these functions and elements of these
structures, both grouped in particular ways (…); as long as we remain focused on neural categories such
as “convolutions” [le unità anatomiche classicamente invocate per localizzare le lesioni], which are not
information-bearing structures in the appropriate sense, we cannot pose a variety of questions regarding
brain-language relationships in meaningful ways”. Riteniamo che l’affermazione di Caplan, pur essendo
legittima, escluda a priori il valore euristico legato alla scoperta di specializzazioni regionali a larga scala
nella corteccia cerebrale.

37

[37] Per una discussione articolata del problema cfr. CARAMAZZA (1986); SHALLICE (1988), p.205-212.

38

[38] cfr. CAPLAN (1981), p.126: differenti lesioni possono dar luogo allo stesso tipo di deficit. Dal punto di
vista interpretativo, rilevano MARIN, SAFFRAN & SCHWARTZ (1976), p.870, lo stesso livello di
performance registrato in diversi pazienti può essere dovuto alle ragioni più disparate: per esempio, un
paziente può non essere in grado di ripetere accuratamente frasi ascoltate a causa di un problema di
decodificazione, di un deficit espressivo, di un deficit della memoria a breve termine, di un disordine di tipo
sintattico e via dicendo.

39

[39] Questo tipo di approccio soggiace al problema, comune a tutti gli studi sull’anatomia funzionale del
cervello, della notevole variabilità individuale. Cfr. CARAMAZZA (1986), p.56.
conseguenza della non ripetibilità delle misurazioni effettuate in determinate condizioni e ad un dato grado di
sviluppo della patologia, ovvero dell’instabilità dei fenomeni osservati.
I.3 – CONCLUSIONI

Concludiamo la discussione delle principali problematiche epistemologiche che il metodo
neuropsicologico solleva, con alcune osservazioni di carattere generale.
Abbiamo osservato che la validità dell’impianto inferenziale neuropsicologico dipende da vari presupposti:
•
•
•
•
•
•
•
•
•

i sistemi cognitivi sono analizzabili in componenti isolabili e tali da poter risultare singolarmente deficitarî
senza che ne risulti significativamente alterato il resto del sistema.
l’organizzazione dei sistemi cognitivi deve essere considerata complessivamente identica da individuo a
individuo.
esistono procedure standard tramite le quali vengono svolti i particolari compiti cui adempie una capacità
cognitiva.
l’organizzazione anatomo-funzionale del cervello è tale da permettere confronti interindividuali.
una lesione cerebrale che produce deficit selettivi non dà luogo ad una riorganizzazione complessiva del sistema
cognitivo del paziente, ma ad una modifica locale di una data capacità, interpretabile rispetto all’organizzazione
normale di quest’ultima.
lo stesso deficit funzionale emerge in corrispondenza di lesioni di una specifica regione cerebrale.
lo stesso deficit non è prodotto da altre lesioni indipendenti.
l’area interessata dalla lesione è definibile clinicamente con precisione.
il deficit rilevato mostra una complessiva stabilità temporale.

Nel corso della nostra rassegna, abbiamo mostrato come ciascuna di queste assunzioni soggiaccia a diversi problemi
che, nel complesso, possono invalidare ipotesi di correlazione fra aspetti del comportamento cognitivo e specifiche
regioni del cervello.
La conseguenza è che una parte rilevante dell’indagine neuropsicologica si limita all’impiego dell’evidenza clinica e
comportamentale per costruire modelli normativi del funzionamento dei sistemi cognitivi deficitarî, senza esporsi a
ipotesi sulla localizzazione cerebrale di questi ultimi.
Al fine di formulare ipotesi di correlazione fra cervello e comportamento, sono richieste ai modelli normativi e ai criteri
di individuazione della lesione alcune severe prerogative. La maggior parte delle debolezze dell’impianto inferenziale
neuropsicologico emerge laddove il modello funzionale assunto sulla base dell’evidenza patologica è impiegato per
determinare l’organizzazione funzionale delle regioni cerebrali interessate dalla lesione. Le istanze di localizzazione
tradiscono la tendenza a proiettare sull’anatomia cerebrale, senza un’adeguata conoscenza della natura di quest’ultima, i
risultati delle analisi funzionali. La conseguenza è che, stanti queste debolezze metodologiche, risulta difficile
considerare l’approccio neuropsicologico, singolarmente preso, come una strategia di indagine più potente rispetto a
quella degli approcci cognitivi classici, che non si avvalgono di evidenza clinica41[41].
Un ruolo fondamentale per lo studio del rapporto fra comportamento e sue basi neurali la neuropsicologia può
acquistarlo soltanto in un quadro di dialogo con le neuroscienze.
Da un lato, informazioni dettagliate sulla struttura anatomica e sull’organizzazione funzionale del cervello sono infatti
condizione indispensabile perché l’effetto delle lesioni possa essere messo in relazione con la specializzazione delle
regioni colpite.

40

[40] cfr. CAPLAN (1981), p.127-128.

41

[41] cfr. KOSSLYN & VAN KLEECK (1990), p.391.
Dall’altro il contributo analitico della neuropsicologia rimane essenziale a condizione che esso si concretizzi
nell’elaborazione di modelli normativi predittivi (e di conseguenza testabili) delle capacità cognitive studiate.
Le tecniche moderne di pathway tracing consentono infatti di mappare le connessioni tanto uscenti quanto entranti di
una qualsiasi area del cervello: è cioè possibile individuare possibili destinazioni e provenienze del segnale che
raggiunge una determinata area cerebrale42[16].
L’insieme di questi due fattori – l’elevatissima risoluzione spazio-temporale e la possibilità di analizzare la connettività
dei tessuti – fa sì che per via elettrofisiologica si possano individuare il percorso e le proprietà del flusso del segnale
che interessa una qualsiasi area corticale. Valga, a titolo di esempio, il caso del sistema visivo dei primati, che il metodo
elettrofisiologico è riuscito a scomporre in una mappa di 32 diverse aree di elaborazione, organizzate in modo
gerarchico e fra loro collegate da 305 diverse connessioni, per la maggior parte bidirezionali 43[17]. Osserveremo
successivamente come per inferire dalla rilevazione di connessioni fra aree il loro ruolo funzionale in termini sistematici
(ovverosia impiegare evidenza sulla connettività a sostegno di ipotesi sull’architettura di un sistema) sia necessario
disporre preliminarmente di un modello funzionale complessivo che specifichi gli obiettivi del sistema e le operazioni
che putativamente sono richieste a questo scopo.
LOCALITA’ FUNZIONALE, LOCALITA’ STRUTTURALE
Nei due capitoli precedenti abbiamo considerato le strategie di analisi di cui due paradigmi metodologici esemplari si
avvalgono al fine di mettere in relazione l’architettura funzionale di dati sistemi con l’anatomia del cervello. Abbiamo
mostrato a tale scopo come, tanto le metodologie di correlazione diretta (tecniche elettrofisiologiche, stimolazione
transcorticale), quanto quelle di correlazione indiretta a partire da deficit (neuropsicologia, studi di lesione su animali,
inibizione magnetica) mirino ad isolare proprietà “locali” dalla complessità dei fenomeni che studiano: tanto cercare il
sostrato neurale di una disfunzione comportamentale o di una certa capacità quanto indagare la specializzazione
funzionale di una popolazione di neuroni sono istanze che richiedono, da un lato, di segmentare un comportamento in
sottoprocessi, dall’altro di tracciare confini discernibili fra strutture del cervello che possano essere messe in relazione
significativa con questi ultimi. Ciò che cercheremo di indagare in questo capitolo è che cosa si intenda per “componente
funzionale” da un lato e per “correlato neurale” dall’altro.
La “nuova organologia”, secondo la definizione di Marshall 44[1], è un paradigma scientifico che considera il cervello,
anziché equipotenziale e globalmente coinvolto da qualsiasi tipo di attività 45[2], costituito da una collezione di organi
distinti deputati a diverse funzioni, o – più precisamente – organizzato in aree fortemente specializzate che realizzano
particolari classi di operazioni richieste da processi più complessi. Il nuovo paradigma, rispetto a quello dei
neurofisiologi del secolo scorso, si avvale di conoscenze ben più dettagliate dell’anatomia e della fisiologia cerebrale,
nonché di strumenti di analisi estremamente più fini per la scomposizione dei processi dal punto di vista
comportamentale: si rende perciò possibile, all’interno di esso, un esame metateorico di quali criteri si possono
assumere per “isolare” i componenti postulati.
In questo capitolo cercheremo di esaminare e, in alcuni casi, di dirimere alcune questioni relative alla nozione di
“località” che permea tutti questi studi, tentando di distinguere i criteri che permettono di identificare una località
funzionale ed una località strutturale. Ci soffermeremo in primo luogo sulla definizione classica di “modulo”, concetto
cardine del paradigma localizzazionista, e presenteremo contestualmente alcune definizioni più deboli, ma
empiricamente più adeguate, della stessa nozione. In particolare mostreremo come si celi spesso nel concetto di modulo
un’ambiguità tale da ingenerare sovrapposizioni fra il piano descrittivo dell’architettura funzionale e quello
dell’anatomia funzionale e come, al fine di porre in modo rigoroso il problema della correlazione fra funzione e
struttura, vadano distinti rigorosamente questi due piani. Ci soffermeremo altresì sulla necessità di grane di analisi
congrue per permettere di formulare ipotesi di correlazione. Concluderemo con un esame dei modelli che vengono
prodotti nel quadro delle diverse metodologie, interrogandoci sulla natura e sullo status teorico dei componenti che essi
postulano.
III.2 - CHE COSA E’ UN MODULO?

42
43
44[1]

MARSHALL (1980).

45[2]

Secondo il principio della mass action propugnato da Lashley, cfr. SHALLICE (1988).
L’ipotesi che il cervello sia costituito da sistemi operanti in maniera indipendente gli uni dagli altri ha assunto vigore
negli ultimi quarant’anni sotto la pressione di diverse discipline: argomenti di natura computazionale, linguistica,
psicologica e neurofisiologica hanno fatto di quest’idea, già tacciata di ingenuità scientifica 46[3], uno dei principî più
ampiamente condivisi ai fini di descrivere l’organizzazione cerebrale. Tentativi di caratterizzare in modo rigoroso
quest’ipotesi – a cui d’ora in poi faremo riferimento come “modularità” o “ipotesi modulare” – si sono succeduti negli
anni ’80, aprendo un dibattito sull’adeguatezza dei criteri a fronte dei risultati della ricerca tanto in campo psicologicocomportamentale, quanto in quello neurobiologico.
Di questi tentativi, il più rappresentativo è certamente quello di Fodor 47[4]. La sua proposta, pur suggerendo una nozione
di modulo non banale ma per certi aspetti “vuota” (come cercheremo di mostrare in seguito), è quella che meglio ha
sviscerato le caratteristiche in virtù delle quali si possano isolare particolari sottosistemi funzionali e che fra i primi ha
gettato luce sul quadro concettuale che fa da sfondo ai modelli di information-processing48[5]. Non ci interessa in questa
sede valutare l’attendibilità del quadro complessivo di organizzazione cerebrale in cui viene inscritta questa nozione di
modularità (quella cioè della dicotomia fra sistemi periferici di elaborazione degli stimoli sensoriali e sistemi
centrali49[6]), quanto piuttosto sottoporre a critica l’insieme dei tratti definitori proposti, per valutarne la testabilità
sperimentale, l’adeguatezza ai fini della correlazione col sostrato neurale e l’idea complessiva di “località” che da essi
risulta.
I criteri proposti da Fodor sono per la maggior parte intesi a stabilire in base a quali proprietà architettoniche (relative,
cioè, a quanto abbiamo chiamato “architettura funzionale”) sia possibile isolare determinati sottosistemi all’interno di
facoltà più ampie come la facoltà della visione o la facoltà del linguaggio (o più precisamente i processi coinvolti dalla
lettura, dalla scrittura, dall’espressione verbale, etc.): si tratta, cioè, di proprietà relative al puro trattamento
dell’informazione all’interno di tali sottosistemi, senza alcuna assunzione in merito alla loro implementazione neurale.
Fodor non si limita però a questo e si spinge ad enunciare criteri relativi alla realizzazione fisica dei moduli: ci interessa
qui capire se la definizione dei moduli sia effettivamente scevra da ingerenze anatomo-funzionali o se invece la
realizzazione neurale subentri in qualche modo nella loro definizione e, in quest’ultimo caso, quali conseguenze ne
discendano.
Fodor definisce “modulo” un componente di un sistema più complesso che goda delle seguenti proprietà:
1. domain specificity: per specificità di dominio si intende la destinazione di un sistema all’elaborazione
dell’informazione proveniente da una sola modalità sensoriale o, meglio, all’elaborazione selettiva di un certo
tipo di informazione proveniente dai sensi. Questa caratteristica esclude cioè che lo stesso componente
funzionale possa trattare input esterni al dominio per il quale è designato. In sede sperimentale, la specificità di
dominio è testabile attraverso la selettività della risposta di aree cerebrali a classi definite di stimoli. Si tratta di
una proprietà squisitamente architettonica che può ricevere potenziali conferme o confutazioni empiriche dalla
scoperta di stadi primari multimodali di elaborazione dell’informazione.
2. innateness: è questo un tratto che ci interessa meno discutere in questa sede, dal momento che tocca questioni di
ordine diverso rispetto al nostro, in particolare quella dello sviluppo cerebrale e del rapporto che intercorre
46[3]

Cfr. SHALLICE (1988), p.6ss; RICHARDSON & BECHTEL (1993), p.93ss.

47[4]

FODOR (1983).

48[5]

Cfr. SHALLICE (1984), p.243: “For nearly thirty years information-processing models have been used by
psychologists. For as long, with some rare exceptions, there has been remarkably little concern about the
assumptions implicit in the conceptual framework. Theorists have used a similar box-and-arrow notation to
express theoretical positions of very different sorts. (…) Fodor has at the very least done cognitive
psychology a major service by forcing it to consider much more seriously what the “boxes” of “box-andarrows” notation represent.

49[6]

Il modello globale dell’architettura funzionale dei processi cognitivi proposto da Fodor si articola in tre
distinte classi di operatori: transducers, input systems, central processing systems. Per transducers, Fodor
intende quegli operatori che sono in diretto contatto fisico con l’ambiente (come, ad esempio, la superficie
della retina) e che trasmettono l’informazione ai primi centri di elaborazione sensoriale. I central
processors, relegati al livello più alto della gerarchia funzionale, sono i soli componenti “intelligenti”,
responsabili dell’integrazione e dell’elaborazione dell’output dei diversi input systems. Questi ultimi, che
occupano il livello intermedio fra la periferia e il centro dell’architettura di un dato sistema, sono
propriamente ciò che Fodor chiama moduli, ovverosia operatori specializzati e reciprocamente
indipendenti, incaricati di filtrare l’informazione proveniente dall’esterno ad uso dei processi più alti.
nell’acquisizione di tali sistemi fra specificazione endogena (geneticamente codificata) e apprendimento. Dal
punto di vista funzionale, la domanda circa l’innatezza di un sistema può riformularsi nella domanda relativa allo
sfruttamento di risorse primitive nel cervello, piuttosto che risorse da queste derivanti. Che tale caratteristica non
abbia conseguenze soltanto sul piano architettonico lo dimostra il suo strettissimo legame con la 3.
3. not assembled: uno dei criteri a nostro avviso più problematici è quello del carattere primitivo piuttosto che
assemblato di un dato sistema. Viene definito assembled “un sistema costituito dall’unione di un insieme di
processi più elementari”, rispetto ad uno la cui architettura virtuale “corrisponde invece in modo relativamente
diretto alla sua implementazione neurale”. È chiaro che con questo criterio ci spostiamo su un piano non più
semplicemente architettonico, ma in una certa misura ibrido, dal momento che riguarda al tempo stesso lo status
del sottocomponente considerato nei confronti di altri componenti nel quadro dell’organizzazione funzionale del
sistema e la sua specifica realizzazione a livello cerebrale. La questione se un componente funzionale sia
elementare o assemblato nella formulazione di Fodor è a nostro avviso complessivamente mal posta. In primo
luogo, dal punto di vista puramente funzionale (senza cioè considerare la questione, cui Fodor è particolarmente
interessato, dell’ontogenesi del sistema50[7]), la definizione di un componente come “assemblato” dipende dalla
grana di analisi funzionale adottata: ridefinire un componente come non primitivo non significa tanto rivelare la
sua natura complessa in termini di sottocomponenti ancora più semplici, quanto adottare una grana di analisi
funzionale più fine51[8]. La semplicità di un componente dipende da che cosa si consideri atomico ai sensi
dell’analisi funzionale, è cioè una variabile legata alla profondità dell’analisi funzionale che adottiamo. In
secondo luogo, dal punto di vista implementazionale risulta oscuro cosa debba significare “direttamente
associato con un’architettura neurale fissa”: ci sembra di potere rilevare in questa idea di implementazione
diretta un’ingenuità epistemologica, la pretesa cioè di trarre garanzie sulla validità dell’analisi funzionale dal
riscontro di popolazioni neurali che realizzino direttamente i componenti postulati. La scoperta di aree cerebrali
che implementano componenti funzionali non ulteriormente analizzabili dipende dalla grana dell’analisi
funzionale adottata e dal livello più basso al quale un processo fisiologico può essere interpretato in termini
funzionali: assumere evidenza neuroscientifica per stabilire la “semplicità” funzionale di un componente
ipotizzato dipende da una larga serie di assunzioni e comporta difficoltà teoriche ardue da sormontare 52[9].
Complessivamente, la definizione di “assemblato” è mal posta in quanto sovrappone indebitamente il piano
dell’architettura funzionale con quello dell’anatomia funzionale: “essere costituito da un insieme di processi più
elementari” (una caratteristica propriamente architettonica) non può infatti venire contrapposto a “essere
associato ad una architettura neurale fissa” (caratteristica anatomo-funzionale). Appare, in conclusione, nella
definizione di “assemblato” quella collisione fra i due livelli descrittivi che inficia la possibilità stessa di stabilire
una valida correlazione fra funzione e struttura – collisione sulla quale torneremo in seguito.
4. hardwired: in stretta relazione con i due criteri precedenti è la caratteristica di essere associato a meccanismi
neurali specifici e localizzabili. Se si lascia da parte l’idea della realizzazione neurale come indice del carattere
“primitivo” piuttosto che acquisito di un sistema cognitivo, resta comunque teoricamente possibile stabilire se
una lesione neurale alteri o inibisca in modo selettivo l’attività di un dato sistema. Questa caratteristica, relativa
al piano implementazionale, è cioè direttamente esperibile attraverso lo studio dell’effetto di lesioni che
producono deficit selettivi di determinate capacità e in questo senso è intimamente correlata al criterio 1. di
specificità di dominio. Il problema merita però alcune precisazioni. Innanzitutto esistono fenomeni patologici
che relativizzano l’idea della lesionabilità selettiva di un solo sistema 53[10]. Rimane però da definire un criterio
50[7]

L’idea di fondo è che componenti non acquisiti attraverso l’apprendimento ma codificati a livello genetico
debbano mostrare caratteristiche costanti e universali nella loro realizzazione neurale, mentre operatori
acquisiti debbano sfruttare risorse preesistenti e di conseguenza avere un carattere non primitivo e una
realizzazione neurale composita.

51[8]

La questione è riconosciuta dallo stesso FODOR (1983), p.62, laddove afferma che “non si possa dire
dalle capacità input-output di un sistema cognitivo se esso è per così dire una parte primitiva di architettura
mentale o qualcosa che è stato messo insieme da parti più piccole. I sistemi computazionalmente
equivalenti possono, in linea di principio, esser costruiti in entrambi i modi”.

52[9]

Affermazioni come la seguente mostrano esattamente il rischio che stiamo cercando di mettere in luce:
FODOR (1983), p.67 “E’ forse impossibile dire dal di fuori se un certo sistema è assemblato o primitivo, ma
si dovrebbe essere certamente in grado di farlo dal di dentro. Concepire le facoltà come assemblate
comporta anche concepire la corrispondente base neurologica, almeno inizialmente, come diffusa ed
equipotenziale”.

53[10]

È il caso celeberrimo della “blindsight”. Individui che presentano forme di cecità totale acquisita in
seguito a lesioni delle cortecce visive primarie (lesioni che si presume distruggano completamente la
capacità percettiva), possono nondimeno mostrare in alcuni casi una sensibilità superstite a particolari
adeguato per distinguere ciò che è hardwired in questo senso da ciò che non lo è: se sistemi non concentrati in
specifiche regioni cerebrali, ma distribuiti in varie aree della corteccia si presentano nondimeno omogenei dal
punto di vista della specificità funzionale, il fatto che non siano suscettibili di lesioni selettive ci porterebbe
infatti a concluderne, secondo la definizione data, il carattere non hardwired 54[11].
5. computationally autonomous: un componente si definisce computazionalmente autonomo se non condivide con
altri componenti risorse comuni come meccanismi attenzionali, o buffer di memoria. Il problema è qui quello,
puramente architettonico, dell’accesso del sistema a risorse condivise: se cioè il componente domandi tali risorse
e possa esserne fornito o invece porti a termine l’intero processo di cui è responsabile in modo completamente
autonomo. L’idea è che se un sistema non è autonomo dal punto di vista computazionale, i sistemi cognitivi
centrali hanno accesso a stadi intermedi del processo che esso svolge – e non soltanto all’output finale di
quest’ultimo. Si consideri ad esempio il caso del del riconoscimento di stimoli uditivi: se, da un lato, dettagli
subfonetici non sono estrapolabili dai primi stadi del processo, dall’altro livelli intermedi fra la decodifica della
forma fonologica e quella della forma logica sono disponibili se la loro estrapolazione è richiesta dalle necessità
del task 55[12]. L’idea di Fodor – confutata da diversi studi in campo comportamentale sulle modulazioni
attenzionali che intervengono anche a stadi estremamente bassi di elaborazione dell’informazione – è che
l’accesso a stadi intermedi del processo realizzato da un componente sia possibile solo imponendo particolari
richieste computazionali alle risorse di memoria e di attenzione e che altrimenti solo l’output complessivo risulti
accessibile.
6. informationally encapsulated: l’idea di incapsulatezza (o “impenetrabilità cognitiva” 56[13]) è forse il tratto
definitorio più forte della nozione fodoriana di modulo. Un sistema si definisce “incapsulato” se non riceve
informazioni da altri sistemi, ovverosia se i processi che svolge non sono modulati dall’insieme di informazioni
di cui l’organismo nel suo complesso dispone, ma dipendono soltanto da informazione di livello più basso (nel
modello di Fodor, quella proveniente dai transducers) o da informazione contenuta nel sistema stesso: un caso in
cui valutare la validità empirica dell’incapsulatezza è ad esempio quello della visione, dove si può cercare di
stabilire in che misura gli stadi iniziali della percezione visiva non siano interessati da conoscenze preacquisite
(ingerenze top-down), ma svolgano autonomamente la loro elaborazione degli stimoli. È importante precisare la
distinzione che intercorre fra incapsulatezza ed autonomia computazionale: se infatti la seconda si riferisce ad un
semplice accesso a risorse condivise, la prima riguarda la permeabilità informazionale del processo realizzato da
un sistema. Impiegando le parole di Fodor, i moduli sono componenti “non intelligenti” in quanto sono isolati
dall’insieme delle informazioni a disposizione dell’organismo. Senza soffermarci qui sulla discussione relativa
alla validità empirica di quest’ipotesi sulla natura dei sistemi di eleborazione periferici 57[14], ci interessa valutare
se la caratteristica di informational encapsulation sia un criterio appropriato per definire “isolabile” un
componente dal punto di vista architettonico. Se consideriamo, ad esempio, un ipotetico componente di controllo
inteso a misurare il grado di attività complessiva di diversi sistemi, e tale da ricevere informazione entrante da
ognuno di questi sistemi, nulla impedisce che esso sia neurologicamente e funzionalmente isolabile, pur non
essendo, secondo la definizione data, incapsulato 58[15]. In generale, la caratteristica di incapsulatezza è un criterio
definitorio più forte di quanto non si richieda ai fini di isolare componenti funzionali.

fenomeni come, ad esempio, oggetti in movimento. Questo tipo di evidenza ridimensiona l’idea, già
discussa nella nostra trattazione sulla neuropsicologia, che sia possibile stabilire nette corrispondenze fra
lesioni di regioni cerebrali di cui si conosce la specializzazione funzionale e i loro effetti sul piano
comportamentale.
54[11]

Cfr. KOSSLYN & VAN KLEECK (1990). Va però rilevato che alcune architetture neurali “distribuite” sono
altrettanto suscettibili di mostrare dissociazioni funzionali una volta lese, cfr. MARSHALL (1984), p.228.

55[12]

MARSHALL (1984), p.220.

56[13]

Cfr. PYLYSHYN (1984).

57[14]

Per questa discussione, che è funzionale in Fodor ad una critica della “New Look” psychology, si
rimanda, oltre che a PYLYSHYN (1984), a MARSHALL (1984), SHALLICE (1984), PUTNAM (1984) e
FODOR (1985).

58[15]

Cfr. SHALLICE (1984), p.247.
Accanto a queste caratteristiche, Fodor ne elenca altre correlate in modo più o meno diretto con le precedenti: i moduli
sono veloci (ovvero non subiscono interferenze da parte di altri sistemi tali da aver conseguenze sulla durata del
processo), sono obbligati (“mandatory”, nel senso che, ad esempio, non è possibile percepire l’enunciazione di una
frase come una pura sequenza di suoni o percepire visivamente una scena indipendentemente dalla sua organizzazione
tridimensionale), mostrano schemi di disfunzione peculiari (caratteristica legata alla loro specificità di dominio e di
fondamentale importanza per l’indagine neuropsicologica), e seguono infine nel loro sviluppo ontogenico un ritmo e
una sequenza caratteristica.
L’insieme di queste caratteristiche, intese come condizioni di “isolabilità” di componenti funzionali, invoca alcune
osservazioni generali.
In primo luogo, va sottolineata la disinvoltura con cui sono sovrapposti criteri architettonici e criteri anatomici nella
definizione di sistemi isolabili: abbiamo mostrato nel capitolo I come l’affidabilità delle inferenze dalla lesione alle
cause del deficit in sede neuropsicologica richieda una precisa distinzione fra il componente funzionale ipotizzato e la
sua realizzazione neurale, al fine di non generare artefatti teorici o concludere a ipotesi di localizzazione ingenua. Se la
definizione di modulo vuole essere plausibile ai fini di ipotesi di correlazione con l’anatomia cerebrale, deve essere
indipendente da proprietà relative al piano anatomo-funzionale. Se cioè, con Fodor, accettiamo di definire un
componente “modulo” solo nel caso in cui questo sia al tempo stesso A) autonomo dal punto di vista funzionale (nei
vari sensi che abbiamo indicato) e B) associato ad una specifica area corticale, corriamo il rischio di assumere una
nozione epistemologicamente ingenua, quanto lo era la nozione di “centro corticale” della neuropsicologia
tradizionale59[16].
La definizione fodoriana si espone all’ulteriore rischio di risultare vuota, ovverosia di selezionare in base ai suoi criteri
un insieme talmente esiguo di componenti funzionali da risultare poco proficua sul piano sperimentale. Se è pur vero
che Fodor riconosce la possibilità di diversi “gradi” di modularità, ovvero di componenti isolabili sulla base di un
sottoinsieme dei tratti definitori, l’insieme dei requisiti necessari per soddisfare la sua definizione è troppo stringente per
poter essere utilmente impiegato in sede euristica60[17].
Dal momento che la questione che stiamo qui affrontando investe tanto un problema classificatorio quanto un problema
euristico, occorre distinguere a questo proposito due diverse caratterizzazione possibili dell’idea di modulo.
I. Da un lato, una caratterizzazione ontologica volta a definire che cosa sia un modulo: ovvero quale sia
l’insieme delle proprietà che in astratto un componente deve soddisfare per poter essere classificato come
modulo. In una simile definizione potranno comparire anche tratti non riscontrati dal punto di vista
sperimentale, ma semplicemente richiesti dalla coerenza della definizione.
II. Dall’altro, una caratterizzazione epistemica di modularità volta a stabilire come sia individuabile un modulo:
ovverosia attraverso quali procedure sia possibile isolare un componente che goda di proprietà
precedentemente definite.
In principio, le proprietà caratterizzanti dovrebbero essere definibili indipendentemente dalle strategie per individuarle;
di fatto, nella prassi psicologica e neuroscientifica vengono definiti moduli esclusivamente quei componenti per i quali
siamo in grado di esibire una procedura di isolabilità.
Ora, riteniamo che la nozione fodoriana risponda in modo insoddisfacente a entrambi questi aspetti. Dal punto di vista
epistemico (II), è evidente che la nozione fodoriana si limita a fornire una definizione di che cosa debba intendersi per
modulo, senza esplicitare alcun tipo di procedura empirica per stabilire se un componente funzionale soddisfi tale
59[16]

MARSHALL (1984), p.228 – sostiene che la concezione fodoriana celi un’idea di organizzazione neurale
ereditata direttamente dai “diagram-makers”, i quali, proiettando tout court sull’anatomia cerebrale i modelli
di architettura funzionale della facoltà del linguaggio, postulavano l’esistenza di lunghe connessioni neurali
fra la periferia sensoriale e il cervello, centri di elaborazione costituiti da cellule largamente interconnesse
da corte fibre e destinati a computare specifiche fome di rappresentazione interna, ed ulteriori lunghe fibre
volte a connettere fra loro questi diversi centri.

60[17]

Cfr. SHALLICE (1988), p.20 – “Fodor’s view of the modules no doubt seems like a forbidding jungle of
abstractions. In fact, his account is most elegant. But for neuropsychological purposes, the criteria he
suggests may well be too specific and the systems to which they are supposed to apply too limited”.
KOSSLYN (1994), p.29: “Although his characterization may have utility at very coarse levels of analysis, it
stands little chance of being an apt description of the component processes that underlie visual
processing”.
definizione. Per contro, il dibattito in sede neuropsicologica circa l’affidabilità delle strategie dissociative o quello
analogo nel campo della psicologia cognitiva (o, come vedremo nel prossimo capitolo, dei metodi di brain imaging)
sulle strategie sottrattive rappresenta proprio un tentativo di caratterizzare dal punto di vista epistemico la nozione di
modulo61[18].
Sul piano definitorio (I), invece, abbiamo visto come la nozione fodoriana risulta talmente restrittiva da rivelarsi vuota.
Gran parte degli studiosi ha proposto un’idea di modularità debole (weak modularità) intesa a sostituire la nozione
fodoriana di modularità (cui ci riferiremo in seguito come nozione classica o forte – strong – di modularità), tale cioè da
rendere conto dell’isolabilità di componenti che rispetto a quest’ultima definizione non risulterebbero modulari 62[19].
Il problema, in altri termini è quello di individuare dei criteri definitori più deboli ma al tempo stesso non banali (tali
cioè da non perdere valore discriminante), e che siano altresì compatibili con le strategie di isolabilità proprie delle
singole metodologie. Più precisamente, una nuova definizione di modulo è richiesta dall’esigenza di descrivere sistemi
funzionali che non ricadano necessariamente entro le due grandi categorie distinte da Fodor di sistemi periferici e
sistemi centrali. Ciò è auspicabile innanzitutto per rendere conto delle proprietà di sistemi che non siano né totalmente
equipotenziali e privi di specificità come quelli che egli chiama centrali, né completamente isolati e specializzati come
quelli che egli chiama periferici. In secondo luogo, una nuova definizione è richiesta per poter contemplare la scoperta
di specificità funzionali di aree a rigore non propriamente periferiche della corteccia cerebrale: la concezione di Fodor
non lascia, infatti, spazio ad altri sistemi “localizzabili” nella corteccia cerebrale diversi da quelli relegati ai livelli più
bassi della gerarchia dei processi cognitivi: lo studio dell’anatomia funzionale del sistema visivo o, in misura più
controversa, del sistema linguistico mostrano la complessiva inadeguatezza empirica di questa ipotesi.
III.3 - MODULARITA’ DEBOLE
Il problema di ridefinire la nozione forte di modulo, abbiamo detto, si è configurato come un tentativo di stabilire
quali dei tratti definitorî classici fossero dispensabili: in altri termini si è trattato di formulare una definizione di
isolabilità, non altrettanto selettiva e al contempo non banale, attraverso l’indebolimento dei singoli requisiti
individuati da Fodor. Ciò che va garantito è cioè che l’assunzione di criteri meno forti non precluda comunque la
possibilità di isolare sistemi: il rischio opposto ad una definizione troppo rigida è infatti quello di una definizione
troppo debole, incapace di far emergere distinzioni e di conseguenza ancor meno rilevante sul piano euristico della
prima. Le caratteristiche di cui tener conto per una riformulazione “debole” della nozione di modularità sono
svariate. Elencheremo qui di seguito tanto quelle che emergono dalle esigenze neuropsicologiche, relative
soprattutto a proprietà dell’architettura funzionale, quanto quelle invocate da evidenza neuroscientifica – alle quali
dedicheremo una riflessione specifica, nel paragrafo successivo, relativamente alle restrizioni sull’architettura
funzionale (e alla revisione della rilevanza di determinati criteri di isolabilità) che tale evidenza può suffragare.
1. Penetrability – nella nostra rassegna sul metodo elettrofisiologico (capitolo II) abbiamo riportato lo stato della
ricerca nel campo dello studio delle cortecce visive nei primati: una delle caratteristiche più salienti di questi
risultati è che quasi ogni area riceve e proietta informazione da e verso un’altra area. Abbiamo ricordato la
cautela che è richiesta nell’inferire - dall’esistenza di un elevato numero di connessioni - ipotesi sul trattamento
dell’informazione all’interno delle singole aree. Tuttavia diversi studi suggeriscono la possibilità che le
proiezioni non trasmettano semplicemente l’output di processi incapsulati, ma che invece in molti casi
l’interazione fra aree e la presenza massiva di feedback modulino in modo significativo i processi che avvengono
all’interno di queste aree63[20]: se le cose stanno in questo modo, abbiamo evidenza rilevante per ridimensionare
l’importanza dell’informational encapsulation a vantaggio della penetrabilità nella definizione di modulo. Da
parte neuropsicologica, d’altro canto, si è sollevata l’esigenza di contemplare la possibilità di modulazioni da
parte di diversi componenti o di risorse condivise nei confronti dei processi computazionali realizzati da singoli
sistemi. Si è cioè richiesto di indebolire i requisiti di informational encapsulation e di computational autonomy
e di reinserirli in una gamma differenziata di possibilità relative al “grado di interazione” fra sistemi64[21]. In
61[18]

SHALLICE (1988), p.245ss. – espone un’ampia revisione dell’idea, da lui stesso precedentemente
sottoscritta, secondo cui il rilevamento di doppie dissociazioni garantirebbe la separabilità dei
sottocomponenti da cui il sistema dissociato si ritiene costituito. Egli fornisce di seguito una serie di esempi
di sistemi organizzati in modo non-modulare capaci di produrre dissociazioni in seguito a lesione.

62[19]

SHALLICE (1984), p.247; KOSSLYN (1994), p.29.

63[20]

KOSSLYN (1994), p.29.

64[21]

Shallice importa questa nozione da MARR (1982), p.356.
questa prospettiva i sistemi si possono considerare differenti nel loro grado di modularità ed un sistema
relativamente modulare può risultare suscettibile di impiegare risorse più generali. L’esigenza comune – che
emerge tanto in sede neuroscientifica quanto in sede neuropsicologica – di rendere conto delle interazioni fra i
vari componenti, senza pregiudicarne la specificità computazionale, è colta in modo particolarmente felice dalla
concezione di “sistema quasi-scomponibile” (nearly decomposable subsystem) formulata da SIMON65[22]: egli
definisce quasi-scomponibile un sistema che, ad un livello di analisi superficiale, risulti costituito da
sottocomponenti che operano in maniera indipendente l’uno dall’altro e le cui interazioni sono relativamente
deboli, e che – a misure più sensibili – riveli invece schemi complessi di interazione fra tali componenti:
l’efficacia descrittiva di una simile nozione sta nel fatto che un’analisi di un sistema in termini di componenti
debolmente modulari (analisi indispensabile per la comprensione dell’architettura funzionale di tale sistema) non
esclude la possibilità di rendere conto, a livelli di analisi più fini, di interazioni fra componenti il cui effetto non
emerge al livello sistematico complessivo66[23].
2. Functional Interdependence – Affine al precedente, ma per certi aspetti distinto è il problema
dell’interdipendenza funzionale: mentre la questione della penetrabilità richiede che una nozione di modularità
“debole” possa contemplare il caso in cui due componenti siano isolabili anche in presenza di interazioni
trascurabili a livello macroscopico, la nozione di interdipendenza funzionale richiede che due sistemi si possano
ritenere isolabili anche se ricevono input da componenti condivisi. L’architettura di un sistema può essere
caratterizzata a diversi livelli di analisi. È possibile, in questo senso, che sistemi identificati ad un livello più
grossolano siano il prodotto dell’attività congiunta di una serie di sottosistemi più semplici, rilevabili ad
un’analisi più fine, che interagiscono per realizzare il processo richiesto. Si può ragionevolmente assumere che
un sottosistema relativamente specializzato contribuisca ai processi di più sistemi caratterizzati ad un livello di
analisi più superficiale. Questa possibilità, che è chiaramente esclusa da una nozione forte di modularità, può
essere reintegrata in un’accezione debole ridimensionando i criteri di specificità di dominio e di
incapsulatezza67[24].
3. Overlapping subsystems – tanto dal punto di vista neuroscientifico quanto da quello psicologico emerge la
possibilità che un sottosistema computi più di una funzione al tempo stesso: abbiamo considerato il problema più
da vicino nel caso della difficoltà di definire la specializzazione funzionale di determinate aree del sistema
visivo, rispondenti a diverse dimensioni dello stimolo visivo (capitolo II). Ci interessa in questa sede distinguere
due sensi differenti in cui due sistemi possono essere considerati “overlapping”. Dal punto di vista
dell’architettura funzionale, un componente può considerarsi specializzato nella computazione di più funzioni
semplicemente per il fatto che le categorie che impieghiamo comunemente in sede di analisi comportamentale
risultano inadeguate a descrivere in modo unitario due funzioni che appaiono distinte (come, ad esempio, la
discriminazione della lunghezza d’onda e del contrasto di uno stimolo, o l’elaborazione del colore e della forma
di un oggetto percepito visivamente) 68[25]. Diversamente, due sistemi possono risultare “overlapping” per il fatto
che sul piano strutturale non è discernibile l’implementazione dell’uno da quella dell’altro all’interno di una
stessa area cerebrale69[26]. Quello che intendiamo qui sottolineare è il fatto che la specializzazione funzionale
(così come la sovrapposizione di diverse funzioni) di una parte del sistema può essere riferita tanto ad un
processo (dal punto di vista puramente architettonico) quanto ad una regione fisica, e che a seconda del senso in
cui tale caratteristica viene presa ne discendono conseguenze diverse ai fini della correlazione fra modelli
funzionali e anatomia cerebrale del cervello. Va da sé che, in entrambe le accezioni, questa caratteristica non è
contemplata dalla nozione di modularità forte.

65[22]

SIMON (1969).

66[23]

SHALLICE (1988), p.251 – definisce il “grado di isolabilità” di due sistemi in termini che la imparentano
con la nozione di Simon: “The degree of isolability of a subsystem will then be the average of the ratio of
intra-subsystem variables to extra-subsystem variables necessary for explaining the behaviour of elements
of the subsystem on a microlevel”. Si confronti anche la definizione che viene contestualmente formulata
di “semimodulo” – su cui torneremo oltre in questo stesso capitolo.

67[24]

Cfr. KOSSLYN (1994), p.30.

68[25]

Cfr. MOUTOUSSIS & ZEKI (1997), p.1408.

69[26]

Cfr. SHALLICE (1988), p.257. La situazione è quella indicata da MUNDALE (1997), p.87 – col nome di
“multiple functionality”.
4. Distributed physical realization o weak localizability – una delle caratteristiche non esplicitate 70[27], ma
comunque latenti nella definizione fodoriana di modulo è quella della localizzabilità di un componente
funzionale in un’area circoscritta e uniforme (clustered) della corteccia cerebrale. In generale, si è visto nei
capitoli precedenti che un sottosistema non è necessariamente instanziato da una popolazione di neuroni
concentrata in un’area contigua e definita del cervello: sono possibili infatti realizzazioni anatomiche distribuite
di sistemi unitari sotto il profilo dell’architettura funzionale. Si è tuttavia osservato che spesso alcune porzioni di
circuiti neurali possono essere localizzate in aree discrete del cervello; non tutti i neuroni che implementano un
sottosistema devono però necessariamente essere compresi in tali aree. Ciò che propriamente risulta localizzabile
è allora una zona di convergenza dell’informazione elaborata da un sottosistema (più che il sottosistema
propriamente detto), un’area in cui cioè un input può servire a generare risposte associative 71[28]. Le rimanenti
parti del circuito neurale possono esserne distaccate e condividere un sostrato neurale comune con altri sistemi
(vedi sopra, overlapping subsystems, nella seconda accezione del concetto).
Abbiamo elencato alcune proprietà di componenti funzionali che risultano incompatibili con una nozione forte di
modularità e che ciò malgrado permettono di definire criteri di isolabilità non banali. L’esigenza che ne deriva è quella
di adottare un insieme di criteri meno stringenti di quelli proposti da Fodor: pur non essendo chiaro fra i diversi studiosi
quale debba essere questo insieme di nuovi criteri definitori (a rigore, una definizione esplicita di modularità debole non
è reperibile nella letteratura dei vari campi d’indagine che ne fanno uso), ne risulta complessivamente una nozione
“debole” di modulo che non esclude interazioni con altri componenti o l’impiego di risorse globali, che dispensi da
un’idea stretta di domain specificity e che permetta di concepire un’associazione ad un sostrato neurale fisso, anche se
non necessariamente localizzabile. È interessante rilevare, d’altro canto, che cosa va perso in questa operazione di
indebolimento rispetto alla nozione fodoriana: in generale, della definizione di Fodor viene meno il carattere obbligato e
incapsulato dei processi svolti dai moduli. L’interesse principale di Fodor era quello di stabilire fino a che stadio di
elaborazione l’informazione sensoriale potesse rimanere scevra da ingerenze top-down: è chiaro che lasciando cadere
quest’esigenza, viene meno anche il bisogno di garantire l’assoluta autonomia processuale dei moduli. Al tempo stesso
una della caratteristiche che vengono meno da un indebolimento della nozione di modulo è quella della possibilità di far
corrispondere specifici schemi di deficit a lesioni circoscritte di aree corticali: è chiaro cioè che, se la specializzazione
funzionale non è da considerarsi prerogativa di singole regioni, ma è una proprietà condivisa da un insieme di aree,
l’effetto sul comportamento di lesioni cerebrali sarà molto diverso e potrà dar luogo a deficit meno selettivi di quelli
ipotizzabili nel caso contrario.
Conclusa questa discussione relativa alle proprietà architettoniche in virtù delle quali un sistema può risultare isolabile,
ci soffermeremo su ciò che permetta di definire una struttura cerebrale come “area di elaborazione”: ci sembra infatti
altrettanto importante definire, accanto ad una nozione di “località funzionale”, una nozione di “località strutturale” al
fine di comprendere che cosa si intenda in sede neuroscientifica per “modulo” – concetto che spesso nulla ha a che fare
con quello definito in sede comportamentale.
III.4 - LOCALITA’ STRUTTURALE
Nel capitolo II, abbiamo mostrato i criteri di analisi microstrutturale in virtù dei quali è possibile definire una
nozione di “località” strutturale. Abbiamo visto, in questo senso, come i criteri più forti per isolare sistemi neurali
distinti, siano quelli della connettività e della struttura citoarchitettonica: essi forniscono le distinzioni fondamentali
alle quali rapportare ulteriori proprietà, come quelle di specializzazione funzionale. In particolare, l’esame della
connettività rivela che i singoli neuroni all’interno di un sistema sono collegati fra loro in modo complesso, ma
strutturato, sono cioè divisibili ad un’analisi macroscopica in circuiti fra loro distinti 72[29]. Si è osservato che i confini
tracciati sulla corteccia in base alla connettività ed alle proprietà citoarchitettoniche sono spesso coerenti con confini
relativi alla selettività funzionale, anche se questa convergenza non è indispensabile al fine di definire aree corticali
distinte. Altrettanto spesso, infatti, aree contigue e dissimili sotto il profilo strutturale mostrano forti analogie nel
tipo di informazione che codificano. Discende da questo un’idea di “località” strutturale che non presenta alcun
diretto isomorfismo con la “località” definita sul piano architettonico. Il risultato è che il ruolo sistematico
70[27]

La caratteristica non è formulata esplicitamente da Fodor, ma riteniamo che sia tacitamente implicata
dalle due condizioni implementazionali contenute nella definizione di modularità forte (la “hardwiredness” e
la possibilità di deficit selettivi in seguito a lesioni neurali circoscritte): la loro unione implica che il modulo
debba essere in una certa misura localizzabile in un’area discreta del cervello.

71[28]

72[29]

Cfr. DAMASIO (1994).

Nel senso che abbiamo chiarito precedentemente attraverso la nozione simoniana di quasi
scomponibilità.
normalmente attribuito ad un componente in un modello architettonico risulta distribuito dal punto di vista neurale
fra diverse aree cerebrali.
Dobbiamo a questo punto interrogarci sullo status epistemologico delle mappe cerebrali e vedere in che modo
possono essere raffrontate con i modelli funzionali di determinati sistemi.
I soli strumenti empirici di cui le neuroscienze dispongono al fine di interpretare il ruolo sistematico di aree e
connessioni all’interno di un sistema sono quelli di stabilire dei rapporti gerarchici fra aree, di studiarne la selettività
funzionale e di individuare i percorsi più importanti del segnale: attraverso questi dati è possibile formulare delle
ipotesi funzionali sul percorso del segnale attraverso il sistema, ovverosia interpretare il flusso del segnale come
“flusso informazionale”.
È un approccio di questo tipo che ha permesso, ad esempio, di discernere due percorsi principali dell’informazione
all’interno del sistema visivo73[30]. Il raffronto fra specializzazione delle aree e rilevanza delle loro connessioni ha
cioè permesso di mostrare che l’elaborazione di uno stimolo visivo coinvolge un’insieme di aree organizzate
secondo due percorsi principali, che vanno dalla corteccia visiva primaria nel lobo occipitale a due diverse regioni
del cervello: da un lato verso i lobi parietali prossimi alle cortecce sensori-motorie (dorsal pathway), dall’altro verso
i lobi temporali, prossimi alle aree coinvolte nell’elaborazione linguistica (ventral pathway). Questa scoperta è
servita a sostanziare, insieme a dati relativi agli effetti di lesioni cerebrali, un’ipotesi sui diversi obiettivi della
visione e sui meccanismi neurali che li realizzano: da un lato il percorso ventrale del segnale è stato interpretato
come una “what” pathway ovverosia un insieme di aree specializzate nel riconoscimento di proprietà degli oggetti
percepiti quali la forma o il colore, cioè un insieme di tratti funzionali alla decodificazione “semantica” della scena
visiva; dall’altro, il percorso dorsale è stato interpretato come una “where” pathway, ovverosia come un insieme di
aree che elaborano informazioni sulla dislocazione spaziale di un oggetto all’interno della scena visiva.
Figura
1.
Organizzazione
(Van Essen & Gallant, 1994)

gerarchica

del

sistema

visivo

nei

macachi

È evidente come queste ipotesi di larga scala dipendano crucialmente da informazioni note relativamente alla
specializzazione delle aree cerebrali e da assunzioni complessive sulla plausibilità biologica ed evolutiva dell’esistenza
di determinati meccanismi.
In questo senso, se vogliamo comprendere che cosa differenzi una mappa gerarchica delle aree di un sistema da un
modello architettonico vero e proprio, dobbiamo riconoscere lo scarto che sussiste fra la semplice individuazione di
relazioni fra aree di diversa competenza funzionale e principali connessioni neurali, da un lato, e la loro interpretazione
in termini di organizzazione sistematica, dall’altro.
In primo luogo, le aree individuate all’interno di un sistema presentano due tratti che le differenziano fondamentalmente
da un modello architettonico di un determinato processo: la loro ridondanza (ovverosia la molteplicità delle strutture

73[30]

Cfr. MISHKIN, UNGERLEIDER & MACKO (1983); VAN ESSEN & GALLANT (1994).
apparentemente deputate a codificare le medesime proprietà di uno stimolo) e la loro specializzazione funzionale spesso
indeterminata (ovverosia la destinazione della stessa area a svolgere più funzioni diverse – si veda la prima accezione
che abbiamo introdotto di “overlapping subsystems”).
In secondo luogo, come diretta conseguenza di queste due caratteristiche, è difficile associare lesioni di singole aree a
deficit comportamentali selettivi74[31].
Infine – e tocchiamo con questo il punto più critico – il semplice raffronto della specializzazione funzionale delle
singole aree e della rilevanza delle loro connessioni non permette, in mancanza di assunzioni più generali, di esplicitare
l’organizzazione computazionale di tali aree all’interno del sistema, di determinare cioè quali siano gli obiettivi e gli
stadi dell’elaborazione dell’informazione proveniente dai livelli più periferici o da sistemi differenti.
III.5 - ARCHITETTURA FUNZIONALE E ANATOMIA FUNZIONALE
Nell’esame delle proprietà che permettono di definire che cosa si possa considerare “locale” ci siamo preoccupati di
distinguere fra proprietà relative al piano puramente architettonico e proprietà relative invece al piano anatomofunzionale.
Le ragioni, come abbiamo detto in precedenza, stanno essenzialmente nell’uso diverso che del termine “modulo”
viene fatto, a seconda che si stia considerando il semplice trattamento dell’informazione all’interno di un sistema
oppure il modo in cui il segnale è trattato da parte di particolari regioni della corteccia cerebrale.
L’importanza di questa distinzione sta a nostro avviso nel fatto che una definizione architettonica di modulo deve
essere scevra da ingerenze relative alla sua realizzazione neurale: da questa distinzione dipende il rigore di ipotesi di
correlazione e la possibilità di applicare vincoli comportamentali all’identificazione di aree cerebrali e viceversa.
Uno dei rischi più comuni, in questo senso, è quello di introdurre inavvertitamente determinazioni architettoniche
laddove si parla, a rigore, di proprietà di regioni fisiche del cervello (e, come conseguenza ulteriore, di interpretare
direttamente lesioni cerebrali in termini di lesioni virtuali all’architettura funzionale di un sistema). Anche da parte
di studiosi attenti ad un quadro epistemologicamente valido entro cui collocare il problema del rapporto fra mente e
cervello emerge talvolta una simile ambiguità concettuale. Riportiamo qui di seguito alcuni esempi che riteniamo
significativi a questo proposito, esempi cioè di descrizioni ibride che non distinguono fra l’anatomia funzionale del
cervello e l’architettura computazionale di determinati processi.
KOSSLYN75[32] adopera, ad esempio, il caso della capacità di riconoscimento visivo di oggetti per discutere del modo in
cui information processing systems siano implementati nel tessuto neurale. A questo proposito, egli inizia la sua
esposizione con la dichiarazione: “we posit a functional architecture with six major components as follows” [corsivo
nostro]. Quello che segue è una definizione ibrida di componenti funzionali e di aree cerebrali che dà per acquisita la
loro correlazione: “The visual buffer is a set of topographically organized areas in the occipital lobe. [corsivo nostro].
These areas preserve, roughly, the spatial structure of images striking the back of the retina (…) and have a key role in
organizing visual input into perceptual units”. Facciamo credito a Kosslyn del fatto che laddove egli dice “is” egli
sottintenda in realtà “is implemented by” o “is localized in”, ma riteniamo importante rilevare che un simile abito
epistemologico, nel caso di sistemi meno investigati di quello visivo, possa ingenerare errori grossolani sul piano della
correlazione fra funzione e anatomia cerebrale.
POSNER e ROTHBART76[33], in uno studio sui modelli di controllo attenzionale, descrivono le proprietà architettoniche
(in termini cioè di proprietà del modello information processing) di cui i circuiti attenzionali devono godere: “First, the
results of attentional controls are widely distributed, resulting in amplification of activity in the anatomical areas that
originally computed that information. Second, the source of this attentional control need not involve a system that has
access to the information being amplified, but can be a system that has connections to places where the computations
occur” – e poco oltre: “as the result of activity within the attention network, the relevant brain areas will be amplified
and irrelevant ones inhibited, leaving the brain to be dominated by the selected computations”. È evidente che si
sovrappongono al modello puramente computazionale considerazioni di tipo anatomo-funzionale. Ciò che di seguito
viene definito “anterior attention network” oppure “posterior attention network” è evidentemente un sistema fisico
localizzato in un’area circoscritta della corteccia, e definito su basi anatomo-funzionali, che gode di determinate
proprietà dal punto di vista neurofisiologico nei confronti di altre aree e che al contempo viene interpretato come “box”
in un modello architettonico della organizzazione funzionale di una data capacità (nel nostro caso, quella
74
75[32]

KOSSLYN (1999), p.1284

76[33]

POSNER & ROTHBART (1994), p.195
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  • 1. La neuropsicologia, ovvero lo studio dei rapporti fra lesioni cerebrali e disfunzioni comportamentali, ha rappresentato – per l’intera durata del XIX secolo e per buona parte del presente – l’unico metodo disponibile per lo studio dell’organizzazione funzionale del cervello umano. Alle origini del paradigma neuropsicologico sta la scoperta del fatto che lesioni locali di particolari regioni della corteccia cerebrale, anziché produrre disordini indistinti nel comportamento sensorimotorio, emotivo e cognitivo dei soggetti che ne erano affetti, generavano deficit specifici di particolari capacità: l’identificazione di disfunzioni selettive che lasciavano cioè complessivamente inalterato l’insieme delle restanti facoltà ha dato origine alla concezione del cervello come sistema costituito da organi differenti e relativamente autonomi, specializzati nella realizzazione di diverse funzioni. Gli eredi della tradizione frenologica, a partire da Bouillaud, diedero vita su queste basi al primo paradigma sperimentale scientifico per lo studio del rapporto fra comportamento e cervello nell’uomo: quello dell’afasiologia e dello studio della sede cerebrale della facoltà del linguaggio1[1]. Malgrado le ondate polemiche che travolsero la tradizione afasiologica – e, insieme ad essa, l’ipotesi “localizzazionista” (come d’ora in poi chiameremo l’assunzione relativa all’organizzazione del cervello in regioni distinte sotto il profilo della specializzazione funzionale e suscettibili di lesioni selettive) – possiamo affermare che i principî fondamentali su cui si fonda l’attuale neuropsicologia non si pongano in sostanziale discontinuità con quelli delle sue origini2[2]. Ciò che invece ha subito un radicale progresso è, in primo luogo, l’insieme dei criteri per l’analisi del comportamento e degli strumenti teorici per l’interpretazione dei deficit. Inoltre, si è sviluppata una notevole sensibilità per lo statuto epistemologico dei modelli descrittivi delle disfunzioni comportamentali e per la generalizzazione interindividuale delle ipotesi, nonché una cautela sempre maggiore nella formulazione di ipotesi di correlazione fra i componenti funzionali postulati a partire dai deficit e i sostrati neurali interessati dalla lesione. Nel corso di questo capitolo cercheremo di chiarire, alla luce della riflessione contemporanea sul valore degli studi di deficit, in che modo si articoli il programma di ricerca neuropsicologico, da quali assunzioni di fondo dipenda l’adeguatezza esplicativa di questa metodologia, e a quale insieme di problemi, più o meno inevitabili, essa soggiaccia. Nella sua forma più generica, la neuropsicologia si avvale di due classi di fenomeni come base empirica: da un lato anomalie specifiche ricorrenti in un soggetto nello svolgimento di determinate attività, come ad esempio il nominare un oggetto percepito, il ripetere parole ascoltate, il leggere ad alta voce sequenze scritte di caratteri, il classificare stimoli visivi in base al colore, e via dicendo; dall’altro, la presenza nello stesso soggetto di una lesione circoscritta (clinicamente delimitabile) di una determinata area cerebrale. Scopo dello studio neuropsicologico è quello di porre in relazione la dislocazione anatomica di tale lesione con la disfunzione osservata a livello comportamentale. Il primo requisito per inferire un qualsiasi tipo di rapporto tra il luogo della lesione e la disfunzione comportamentale è che il deficit osservato sia interpretabile in modo significativo rispetto al comportamento normale. La sindrome (ovverosia l’insieme dei sintomi manifesti) presa di per sé non possiede infatti alcun valore empirico se non all’interno di una teoria del funzionamento normale della capacità considerata. È assunzione fondamentale di quanti sostengono la validità dell’approccio neuropsicologico che lo studio di una determinata capacità possa essere illuminato molto più dallo studio dei deficit o delle anomalie di tale capacità che non dal suo normale funzionamento3[3]. Senza l’ipotesi di una relazione interpretabile fra comportamento normale e comportamento anomalo, la strada alla ricostruzione neuropsicologica si presenta fin da principio inagibile. Ciò che innanzitutto è richiesto è dunque un modello analitico del funzionamento normale di una determinata capacità: soltanto rispetto ad esso il sintomo potrà essere interpretato come disfunzione “locale”, circoscritta di una specifica struttura funzionale all’interno del sistema che realizza tale capacità. Se il comportamento anomalo di un soggetto nello svolgimento di una specifica attività fosse infatti da attribuire non al deficit di un sottoinsieme limitato di queste strutture, bensì ad una globale modifica o riorganizzazione delle funzioni normalmente impiegate, il deficit comportamentale perderebbe qualsiasi rilevanza per la comprensione di come questa attività viene svolta in casi non patologici. 1 [1] Si vedano, per la storia della neurofisiologia ottocentesca, e in particolare degli studi afasiologici, OMBREDANE (1951), FINGER (1994), JEANNEROD (1996). 2 [2] Cfr. MORTON (1984). La mediazione fra la stagione originaria dell’afasiologia e la neuropsicologia cognitiva contemporanea è principalmente dovuta all’opera di N.Geschwind. 3 [3] Non ci soffermeremo qui a considerare gli argomenti a difesa del metodo dei deficit studies rispetto a quello della psicologia cognitiva classica, per i quali si rimanda a SHALLICE (1988), p. 5ss.
  • 2. È questo il principio noto come “assunzione di trasparenza”: essa stabilisce che schemi comportamentali deficitarî siano interpretabili rispetto a comportamenti normali solo a condizione che si possa ritenere inalterato nel paziente l’insieme delle restanti capacità4[4]. Ci soffermeremo brevemente su quest’assunzione, dal momento che rappresenta uno dei presupposti cardine dell’intero programma di ricerca neuropsicologico. L’assunzione di trasparenza garantisce che il deficit sia interpretabile rispetto all’architettura funzionale ordinaria della capacità lesa. Abbiamo introdotto nella premessa a questo lavoro che cosa debba intendersi per architettura funzionale di una capacità cognitiva: essa rappresenta l’insieme delle strutture e dei processi che si assume concorrano alla realizzazione dei compiti propri di questa capacità. In sede neuropsicologica, si considera che l’architettura funzionale di determinate capacità sia costante da individuo a individuo, che i sistemi cognitivi siano cioè qualitativamente simili fra soggetti diversi e che simili siano anche le procedure con cui essi svolgono compiti ordinari tramite tali sistemi 5[5]. Ora, l’assunzione di trasparenza postula che una lesione cerebrale non alteri complessivamente l’organizzazione dei sistemi cognitivi, ma abbia effetto tutt’al più sulle procedure con cui determinati compiti vengono realizzati. Sotto questa condizione, un modello normativo (o architettura funzionale) di una data capacità fornisce una cornice teorica per la classificazione dei disturbi selettivi nonché per la previsione di eventuali deficit non ancora osservati. A questo proposito, va ricordato che uno stimolo fortissimo alla rinascita della neuropsicologia dalle ceneri dei “diagram-makers” ottocenteschi è stato dato dall’applicazione allo studio dei deficit di modelli information processing, sviluppati in sede di psicologia cognitiva tra gli anni ‘60 e ’70: la possibilità di “lesionare” concettualmente un modello information processing ha infatti costituito uno strumento concettuale estremamente versatile per prevedere gli effetti delle lesioni cerebrali, ed ha permesso di definire rigorosamente (in termini di livello di descrizione) il tipo di fenomeni di cui i modelli funzionali possono rappresentare un’adeguata spiegazione6[6]. 4 5 6 [4] Cfr. CARAMAZZA (1986), p.51 – Una serie di osservazioni E, costituita dal comportamento cognitivo anomalo di un paziente soggetto ad una lesione cerebrale, è rilevante per la costruzione di un modello M del comportamento normale solo se tale serie di osservazioni è descrivibile a partire da M, insieme ad un’ipotesi complessa L sulla posizione della disfunzione nell’architettura funzionale del sistema e ad una serie di assunzioni riguardanti gli effetti del danno ipotizzato nel sistema cognitivo. Questa assunzione, in altre parole, richiede che il sistema cognitivo di un paziente che presenta una lesione cerebrale sia essenzialmente lo stesso di quello di un soggetto normale, eccezion fatta per una modifica “locale” (L) del sistema. Viene cioè respinta la possibilità che una lesione cerebrale comporti la creazione di nuove operazioni cognitive, tali da dare luogo nel soggetto ad un diverso sistema cognitivo M i che abbia una relazione non trasparente con il sistema originario M. Schemi di risposta devianti sarebbero di scarso valore teorico se fossero privi di restrizioni, se cioè fossero devianti su tutte le funzioni interessate. Cfr. anche CAPLAN (1981), p.124-125; VON ECKARDT KLEIN (1978), p.47: “Either a functional analysis specific to the abnormal organism must be provided or the explanation of deviant output must occurr at a non-functional level, i.e., at the level of causal mechanism.” [5] Cfr. SHALLICE (1988), 219. [6] Cfr. MASSARO & COWAN (1993).
  • 3. A titolo di esempio di cosa si debba intendere per modello normativo di una capacità riportiamo lo schema, ormai classico, di Lichtheim, inteso a ricostruire, sulla base di deficit osservati, l’architettura della facoltà del linguaggio e, nello specifico, le procedure legate alla comprensione e alla riproduzione degli stimoli linguistici. Lo schema di sinistra descrive i “centri di elaborazione” del linguaggio e i percorsi dell’informazione attraverso di essi: a sta per l’input sensoriale (stimolo uditivo), m sta per l’output motorio (elocuzione verbale), A per il centro delle rappresentazioni uditive delle parole, M per il centro delle rappresentazioni motorie delle parole, O per il centro delle rappresentazioni visive delle parole, B per il centro semantico, E per il centro d’innervazione degli organi deputati alla scrittura. All’interno di questo modello è possibile individuare, in forma generica, l’insieme delle operazioni e delle procedure richieste dai diversi tipi di compiti linguistici che compiamo abitualmente, come trascrivere parole udite, ripeterle ad alta voce, e via dicendo. Lo schema semplificato di destra riporta, infine, i vari punti in cui il sistema è suscettibile di lesioni tali da produrre deficit comportamentali selettivi: l’importanza di questo modello sta nel fatto che attraverso di esso è stata possibile la prima descrizione unitaria delle diverse sindromi descritte nella letteratura afasiologica 7[7]. Consideriamo i casi più rilevanti: • • • Da una lesione in 1. (che colpisce il centro dell’articolazione motoria M), discende la sindrome afasica descritta da Broca, o – secondo la definizione di Wernicke – afasia motoria, tale da abolire la parola spontanea (BMm), la ripetizione di parole (aAm), la lettura ad alta voce (OABMm), la scrittura (BME) e la scrittura sotto dettatura (aAME), senza alterare invece la comprensione uditiva della parola (aAB), la comprensione della parola scritta (OAB), la capacità di copiare. Ad una lesione in 2. (che interessa il centro uditivo A), è riconducibile l’afasia sensoriale di Wernicke, che lasciando intatte la capacità di copiare, la scrittura spontanea e la parola spontanea (anche se queste ultime suscettibili di paragrafie e parafasie), abolisce la comprensione del linguaggio orale e scritto, la possibilità di ripetere parole udite, la possibilità di scrivere sotto dettatura e di leggere ad alta voce. Ad una lesione in 3. (percorso di connessione fra il centro uditivo A e il centro di articolazione M) è riconducibile la cosiddetta afasia di conduzione di Wernicke, che mantenendo intatte la comprensione della parola, la lettura silenziosa e la capacità di copiare, abolisce invece la capacità di ripetizione, la lettura ad alta voce e la scrittura sotto dettato e altera l’elocuzione spontanea e la scrittura spontanea. Altre forme di deficit linguistico, osservate o puramente postulate, sono interpretabili alla luce di questo modello (4: afasia motoria transcorticale, 5: afasia motoria subcorticale, 6: afasia sensoriale transcorticale, 7: afasia sensoriale subcorticale); altre non risultano invece interpretabili tramite di esso, come forme dissociate di agrafia o la cosiddetta afasia nominale8[8]. Il modello di Lichtheim ci interessa particolarmente poiché stabilisce una diretta corrispondenza fra capacità deficitarie da un lato e lesioni selettive di componenti funzionali o percorsi di trasmissione dall’altro. Ciò che tale modello evidentemente non contempla è la possibilità di spiegazioni molteplici dello stesso deficit. È riconosciuto, in campo neuropsicologico, che non sussiste alcuna relazione univoca tra un comportamento anomalo osservato e un deficit funzionale soggiacente: anche accettando l’ipotesi forte che in un cervello leso nuove capacità non emergano in seguito ad una riorganizzazione delle risorse preesistenti (possibilità esclusa dall’assunzione di trasparenza), la spiegazione di 7 [7] Cfr. OMBREDANE (1951), p.97. 8 [8] Cfr. OMBREDANE (1951), p.99 e p.125ss.
  • 4. un comportamento anomalo nell’esecuzione di una data attività resta fondamentalmente sottodeterminata rispetto alle molteplici descrizioni alternative ed altrettanto adeguate dello stesso deficit 9[9]. Mentre è in principio prevedibile in modo univoco, a partire da un deficit funzionale valutato sul modello, il tipo di anomalia comportamentale che ne conseguirà, diversamente nulla garantisce la validità dell’inferenza opposta10[10]. Sebbene dipendano da modelli ideali e spesso privi di adeguatezza empirica, i single component deficit sono stati spesso ritenuti dei punti di partenza, fruttuosi sotto il profilo euristico, per ulteriori analisi delle disfunzioni comportamentali11[11]. Per contro, si è rivelata sempre più cruciale l’individuazione di criteri per isolare le strutture responsabili di particolari deficit. L’analisi di disordini comportamentali come risultato del carattere deficitario di singoli componenti funzionali o di singole vie di trasmissione è ciò che, storicamente, ha promosso la ricerca di “casi puri” di patologie linguistiche12[12]. Nella neuropsicologia contemporanea, individuare casi di sindrome pura significa porre delle condizioni tassonomiche sui complessi di sintomi che si manifestano nei pazienti: si considera in genere che tanto più selettivo risulta un tipo di deficit, tanto più valide sono in generale le inferenze che se ne possono trarre sulla semplicità dei sistemi da cui esso dipende. La strategia più rappresentativa impiegata in sede neuropsicologica per identificare deficit altamente selettivi è quella nota sotto il nome di metodo delle “doppie dissociazioni”. Per “dissociazione” si intende in generale la perdita dell’abilità di eseguire un certo tipo di operazioni, di fronte al mantenimento di altre capacità: le dissociazioni, insieme alle associazioni di deficit, hanno costituito la base sperimentale di tutta l’afasiologia classica. Il limite alla loro affidabilità sta però nel fatto che cause molteplici, come abbiamo visto, possono generare capacità dissociate: si è resa urgente, di conseguenza, l’individuazione di criteri più stringenti per identificare singoli componenti deficitarî ed evitare il rischio di artefatti. Questo criterio è stato fornito dalla strategia delle “doppie dissociazioni”. Il riscontro, rispettivamente, in due soggetti che riportano una lesione cerebrale di 1) una capacità A deficitaria di fronte a una capacità B illesa e 2) della stessa capacità A illesa accanto alla capacità B deficitaria, si assume generalmente sufficiente a garantire l’indipendenza dei due sistemi responsabili dei deficit osservati13[13]. La strategia delle doppie dissociazioni ha rappresentato lo strumento teorico più comune in sede neuropsicologica per la costruzione o la refutazione di modelli normativi di date capacità cognitive 14[14]. In realtà, il suo valore come criterio di isolabilità di componenti funzionali distinti è stato messo ampiamente in discussione da diversi studiosi 15[15]: torneremo nel capitolo III su questo punto, per sottolineare come diversi sistemi non modulari possano dar luogo a dissociazioni e talvolta a doppie dissociazioni, una volta lesionati. La spiegazione di una capacità complessa attraverso un modello normativo, seppur sufficiente a dar ragione in termini astratti del suo funzionamento e dei suoi potenziali deficit, invoca in sede neuropsicologica un ulteriore requisito: che i 9 [9] Cfr. GREGORY (1961), p.320ss. 10 [10] Cfr. VON ECKARDT KLEIN (1978), ibidem; SHALLICE (1988), p.23; KOSSLYN & VAN KLEECK (1990), p.395. Se anche ciascuno dei componenti opera in modo normale, si può ad esempio postulare che il modo in cui essi interagiscono non lo sia – che non lo sia cioè l’insieme delle procedure attraverso cui i vari componenti realizzano dati compiti. 11 [11] Cfr. SHALLICE (1988), p. 221. 12 [12] Cfr. LICHTHEIM (1885). 13 [13] Cfr. SHALLICE (1988), p.34-37 e soprattutto p.220ss. 14 [14] Cfr. SHALLICE (1988), p.232. 15 [15] Si veda CARAMAZZA (1986), p.63ss. Rimandiamo al capitolo III per un’ulteriore discussione sui criteri di isolabilità dei componenti funzionali.
  • 5. processi descritti a livello di architettura funzionale siano ad un certo livello di analisi confrontabili con i processi effettivamente realizzati dal cervello. Perché un’analisi funzionale rispondesse a tale istanza di adeguatezza implementazionale, la neuropsicologia classica assumeva che dovesse esistere almeno una regione cerebrale che fosse la realizzazione fisica di ogni singolo componente funzionale specificato dal modello e che tali regioni (o più precisamente “centri”) fossero tra loro connesse in modo tale da implementare i processi descritti dal modello 16[16]. Tale concezione, che proiettava tout court componenti e connessioni, identificate a livello comportamentale, sull’anatomia cerebrale è stata oggetto di aspra critica nella prima metà del XX secolo 17[17] e non è più accettata ciecamente da parte della moderna neuropsicologia cognitiva. Ciò non toglie che anche quest’ultima debba porsi il problema dell’adeguatezza implementazionale dei propri modelli. Per rendere valida una qualsiasi forma di inferenza tra deficit comportamentali e lesioni cerebrali è cioè necessario che l’organizzazione anatomo-fisiologica del cervello rispecchi, in qualche forma, l’architettura funzionale delle diverse capacità18[18]. Una volta identificato il locus anatomico della lesione, stabilita la natura della devianza comportamentale come effetto del carattere deficitario di un componente isolabile, e costruito un modello analitico della capacità considerata, si tratta di stabilire che ruolo abbia l’area colpita dalla lesione rispetto al deficit identificato. In altre parole, si tratta di stabilire se esista un rapporto fra la semplice localizzazione della lesione e l’identificazione di una regione specializzata nello svolgimento della funzione deficitaria. Il dibattito sulla validità di questo passaggio inferenziale ha scosso gli studi neuropsicologici fin dalle loro origini (si pensi soprattutto alla grande ondata critica sollevata da studiosi come Head, Lashley o Freud in ambito afasiologico contro la fede “frenologica” di cui soffrirebbe lo studio tradizionale delle patologie del linguaggio 19[19]) e si può affermare che il problema continui ad affliggere la moderna neuropsicologia. L’insieme di assunzioni che occorre accettare per compiere quest’inferenza eccede di gran lunga quelle semplicemente richieste dalla descrizione di un sintomo in termini di deficit funzionale, tanto che un filone della ricerca neuropsicologica non si espone, in attesa di conoscenze più precise da parte neurologica sulle strutture che realizzano i processi cognitivi, a sostenere tesi “localizzazioniste” azzardate. CARAMAZZA20[20] sostiene, ad esempio, che i modelli che la neuropsicologia produce debbano limitarsi a “specificare architetture funzionali che permettano di descrivere in termini computazionalmente espliciti le relazioni di input/output di particolari sistemi cognitivi”. Un simile genere di approccio, che mette in secondo piano la rilevanza della dislocazione anatomica della lesione e in questo si distinguerebbe radicalmente dalla neuropsicologia tradizionale, è stato da alcuni definito come approccio“ultracognitivo”21[21]. Resta da rilevare il fatto che gran parte dell’attuale ricerca neuropsicologica (in particolar modo quella che studia gruppi di pazienti piuttosto che casi isolati) impiega nondimeno evidenza clinica a sostegno di ipotesi - se non sull’esistenza di 16 [16] Riprendiamo qui la definizione di VON ECKARDT KLEIN (1978), p. 41ss.: “a functional analysis A of how an organism O has capacity C is structurally adequate if there exists a structural decomposition of O into component (physical) parts suc that: 1) – operation of those parts results in O’s exercising C; 2) – for each constituent capacity of A there exists at least one of those structural components which has that capacity; 3) – the order in which those component parts operate when O is exercising C mirrors the algorithm specified in A.” 17 [17] Cfr. SHALLICE (1988), p.9ss. 18 [18] Sarà scopo del capitolo III quello di delineare che cosa la neuropsicologia propriamente identifichi come correlato neurale dei componenti postulati a livello di architettura funzionale di un sistema. 19 [19] Cfr. MORTON (1984), p.49ss. 20 [20] CARAMAZZA (1986), p. 43. 21 [21] SHALLICE (1988), p.203, identifica sotto questa definizione approcci metodologici di studiosi provenienti per lo più dalla psicologia cognitiva classica e dalla linguistica e ne individua i tratti caratteristici nell’enfasi sui casi individuali, nel rifiuto dei group studies e nell’indifferenza nei confronti della base neurologica del comportamento. Egli stesso si spinge ad affermare che “informazioni sulla localizzazione della lesione”, pur non essendo da escludere dalla neuropsicologia cognitiva, “non sono per essa vitali”.
  • 6. precisi “centri” di elaborazione - quantomeno sulla localizzazione di aree specialmente coinvolte nello svolgimento di determinati processi. Ne è un indice il fatto che la classificazione delle patologie continui ad avvenire non solo sulla base della distinzione fra diversi tipi di sindrome e di deficit comportamentali ( ovvero di risposte differenziate a specifiche batterie di test), ma anche sulla base della dislocazione anatomica delle lesioni 22[22]. I.2 – PROBLEMATICHE EPISTEMOLOGICHE Abbiamo visto quali siano le forti assunzioni cui è necessario ricorrere in sede neuropsicologica semplicemente per garantire l’interpretabilità dei sintomi osservati. Abbiamo mostrato, alla luce di queste considerazioni, come non sussista alcuna relazione univoca tra il tipo di deficit comportamentale e l’architettura funzionale ipotizzabile a sua spiegazione. Abbiamo infine ricordato la divergenza di opinioni in campo neuropsicologico riguardo alla rilevanza della localizzazione fisica della lesione ai fini dell’interpretazione delle sindromi. Ci occuperemo in quanto segue di passare in rassegna le problematiche epistemologiche legate a questi presupposti metodologici. Al fine di esaminare le diverse critiche che sono state mosse all’impianto metodologico della neuropsicologia, bisogna premettere che il tentativo di organizzarle per classi di interesse (definizione dei sintomi, costruzione del modello funzionale, requisiti di adeguatezza strutturale, validità delle inferenze di localizzazione) risulta fin da principio poco significativo, vertendo la maggior parte degli argomenti critici proprio sulla collisione fra tali piani che affliggerebbe i modelli costruiti in sede neuropsicologica. A) – La definizione dei fenomeni non è indipendente dalla teoria esplicativa assunta. Questa prima osservazione sottolinea la relazione complessa che sussiste tra fenomeni osservati e teoria. Ciò che è ritenuto negli studi basati su anomalie comportamentali “fenomeno rilevante” non è indipendente dal modello normativo assunto: il tipo di cornice esplicativa che viene adottato determina cioè in larga misura ciò che dovrà contare come fenomeno di interesse da esplicare23[23]. Il problema epistemologico che ne discende presenta un duplice risvolto: da un lato il rischio della costruzione di modelli ad hoc per il tipo di fenomeni in esame, di modelli che escludano altri fenomeni quali sindromi complesse, definendoli irrilevanti ai fini della modellizzazione; dall’altro il rischio dell’incommensurabilità delle restrizioni che da tali modelli conseguono 24[24]. B) – Il disturbo non è direttamente riconducibile al deficit di un componente funzionale. L’assunzione che abbiamo visto essere alla base dei single-component models, considerata da alcuni un requisito essenziale di interpretabilità dei fenomeni, da altri un semplice criterio euristico ma indispensabile nelle prime fasi dell’indagine, ha da sempre rappresentato la spina nel costato della neuropsicologia: già i primi critici degli approcci ottocenteschi allo studio dei disturbi del linguaggio hanno denunciato la labilità del criterio di individuazione dei cosiddetti “casi puri” che, nelle intenzioni dei loro fautori, avrebbero dovuto rappresentare l’effetto comportamentale di deficit funzionali “semplici”. L’assunzione che viene oggi criticata è quella che vuole che i deficit non possano essere studiati che come effetto della lesione di singoli componenti funzionali isolabili dal resto del sistema25[25]. Se l’assunzione del single-component deficit viene considerata più che un semplice strumento teorico d’approccio allo studio di anomalie comportamentali, il rischio è quello di farne il fine dell’indagine, e di formulare ipotesi ingenue di localizzazione di componenti funzionali in particolari aree cerebrali. C) – Il comportamento deficitario è il risultato di diverse cause concorrenti. I critici moderni della neuropsicologia accusano gli eredi degli afasiologi del XIX secolo di trascurare le molteplici cause che possono essere all’origine di deficit comportamentali. L’assunzione di trasparenza deve necessariamente 22 [22] Non intendiamo soffermarci qui sul problema spinoso della categorizzazione delle sindromi: ci limitiamo a rilevare come la localizzazione della lesione sia spesso impiegata come criterio per la classificazione dei pazienti, cfr. MCCARTHY & WARRINGTON (1990); KERTESZ (1983). 23 [23] CARAMAZZA (1986), p.47. 24 [24] SHALLICE (1988), p. 226, riconosce il rischio, pur ritenendo di poterlo evitare attraverso la selezione di double dissociations: “Any cognitive task requires the use of multiple subsystems. If in addition, the task involved can be carried out by various procedures any falsification inference would become rococo in its complexity and impossible in practice. There would also be many false leads to negate the heuristic value of any observations of impaired behaviour” 25 [25] È chiaro che la “transparency assumption” acquista significato solo in un quadro teorico che assuma l’esistenza di componenti di capacità complesse in una certa misura “modulari” (cfr. capitolo III). David C. Plaut nel commento a FARAH (1994), p. 77: “the standard locality assumption [ciò che qui abbiamo chiamato carattere modulare] is simply a way to assure that the transparency assumption is tractable, and the transparency assumption is simply a way to ensure that the effects of damage are interpretable”.
  • 7. scontrarsi con il complesso spettro di risposte che un sistema deficitario può fornire per arginare il difetto. Capacità intatte possono essere riorganizzate, nuove capacità possono essere assemblate, le risorse esistenti possono essere quantitativamente ridistribuite all’interno del sistema per simulare la capacità venuta a mancare e via dicendo 26[26]. I modelli normativi basati sull’evidenza di deficit comportamentali selettivi devono fare quindi i conti non solo con problemi inerenti alla presunta architettura delle capacità illese, ma anche con la validità stessa dell’idea di un’architettura funzionale stabile a fronte alle esigenze di riadattamento conseguenti la lesione 27[27]. Un corollario di tale questione riguarda inoltre la natura del deficit ipotizzato: si parla spesso nella letteratura neuropsicologica di componenti funzionali “lesi” o di connessioni “inattive”, laddove lo stesso tipo di sintomi può essere spiegato da una semplice diminuzione quantitativa della partecipazione di una struttura alla realizzazione di un task. Non è cioè necessario (anzi, è spesso deviante) assumere che i componenti funzionali postulati nei modelli normativi operino secondo una logica all-or-none; al contrario, deficit quantitativi possono produrre rilevanti effetti qualitativi e i processi interessati risultare diversamente sensibili al disturbo neurologico 28[28]. D) – Non ci sono garanzie circa l’adeguatezza implementazionale dei modelli costruiti su base neuropsicologica. Altra fonte di perplessità nei confronti degli studi neuropsicologici è spesso rappresentata dall’adeguatezza implementazionale dei modelli. Lo studio di una capacità deficitaria come effetto di una lesione cerebrale soggiace, alla stregua di ogni studio basato su dati di tipo comportamentale, al limite intrinseco a questa classe di studi 29[29]. Torneremo oltre sulla legittimità di descrivere i processi cognitivi a livello puramente funzionale, indipendentemente dalla loro realizzazione a livello cerebrale. Qui basti osservare che i criteri di adeguatezza invocati in sede neuropsicologica a garanzia della plausibilità dei modelli astratti di performance si fondano spesso su osservazioni di scarso valore dal punto di vista neurologico30[30]. È questa una delle critiche che più contribuirono a minare la credibilità degli studi afasiologici del secolo scorso, il cui limite (considerate le conoscenze anatomiche del periodo) veniva proprio individuato nell’inadeguatezza dei concetti psicologici e dei modelli funzionali impiegati 31[31]. 26 [26] cfr. VON ECKARDT KLEIN (1978), p.47; SHALLICE (1988), p. 241-243; KOSSLYN & VAN KLEECK (1990), p.395. La conseguenza principale che ne deriva è l’ingenuità di un approccio al deficit che consideri il sistema leso come semplicemente “localmente” inattivo in un componente e normalmente funzionante per il resto: un sistema leso è sempre un sistema alla ricerca di compensazioni della lesione. Si consideri l’esempio della “lettura semantica” come risposta a particolari difficoltà nell’accesso al lessico fonetico osservate nelle forme di dislessia profonda (cfr. SHALLICE (1988), p.98ss.). 27 [27] Come campione di una posizione programmatica condivisa in neuropsicologia a questo proposito, cfr. MARIN, SAFFRAN & SCHWARTZ (1976), p.869: “We are arguing that the behavior of the patient with organic brain disease largely reflects capacities which existed in the premorbid state. We should therefore be able to make some inferences about the organization of normal language function from patterns of functional preservation and impairment: if process X is intact where process Y is severely compromised or absent, and especially if the converse is found in other patients, there is reason to believe that X and Y reflect different underlying mechanisms in the normal state. At the very least, the resulting matrix of intact and impaired functions should yield a taxonomy of functional subsystems. It may not tell us how these subsystems interact – but it should at identify and describe what distinct capacities are available.” 28 [28] cfr. SHALLICE (1988), p.232-237; KOSSLYN & VAN KLEECK (1990), p. 395; CAPLAN (1981), p.125126. 29 [29] Il rischio è quello di costruire modelli normativi di processi cognitivi sulla base di categorie psicologiche poco rilevanti dal punto di vista della elaborazione dell’informazione a livello cerebrale. Una delle questioni più dibattute in proposito è quella dell’overlapping implementation, sulla quale torneremo più ampiamente nel corso del III capitolo. A difesa dell’autonomia della descrizione dei fenomeni a livello comportamentale, si veda MARIN, SAFFRAN & SCHWARTZ (1976), p. 870: “ (…) the method is, of course, limited by the functional topology of the brain. Because functions may overlap in their anatomical substrates, we cannot state with assurance that every functional system which could be observed will be observed. But positive evidence that functions are organized independently should be significant for a theory of the language process”. 30 [30] cfr. SHALLICE (1988), p.213-214; KOSSLYN & VAN KLEECK (1990), p. 394. 31 [31] MORTON (1984), p.49ss. dà una sommaria rassegna delle critiche che Freud e Head mossero contro
  • 8. E) – I componenti funzionali postulati possono essere realizzati in modo non discernibile nel cervello. Come si è visto, una delle maggiori difficoltà legate all’approccio neuropsicologico è quella della fragilità dell’assunzione che le funzioni postulate a partire da osservazioni comportamentali possano identificare efficacemente la specializzazione di specifiche regioni cerebrali. Ci possiamo spingere oltre, rilevando che anche laddove esistano effettivamente aree cerebrali responsabili di funzioni postulate a livello architettonico, tali aree possano non essere isolabili con precisione o possano non essere suscettibili di venir colpite in modo esclusivo da una lesione. Ovverosia, l’esistenza di aree cerebrali deputate in modo selettivo alla realizzazione di specifici processi non garantisce che si tratti di aree cerebrali compatte (clustered) e circoscrivibili (tali da risultare, per esempio, rimovibili con precisione così come avviene negli studi di ablazione su animali 32[32]). Non va infatti trascurata la possibilità che il componente strutturale postulato sia implementato da popolazioni neurali distribuite, non dedicate esclusivamente alla realizzazione delle operazioni ipotizzate o costituite da un numero esiguo di neuroni. Bisogna inoltre considerare la possibilità che gli effetti fisiologici di una lesione interessino anche tessuti diversi da quelli propriamente colpiti dal trauma33[33]. L’insieme di queste osservazioni rende discutibile l’idea che una lesione possa specificamente interessare una regione responsabile di particolari processi34[34]. F) - I modelli normativi non contemplano alcuna descrizione dei processi microstrutturali attraverso i quali i componenti realizzino le operazioni postulate. Riportiamo per ragioni di completezza questo problema, anche se riteniamo che esso riguardi, più che i modelli neuropsicologici in sé, il livello di analisi dei fenomeni rispetto al quale si ritiene che tali modelli debbano fornire una descrizione. In generale, l’assunzione che i processi cognitivi siano descrivibili attraverso modelli information processing li dispensa da una descrizione di come determinati processi vengano realizzati entro ciascuno dei componenti funzionali postulati35[35]. Tuttavia, ciò che si intende generalmente rilevare attraverso simili obiezioni Lichtheim circa l’inadeguatezza strutturale dei suoi modelli di spiegazione delle afasie e osserva come entrambi ne abbiano frainteso lo spirito, accusandolo – ad esempio – di aver postulato pathways prive di precisi correlati neurali. In realtà, osserva MORTON, il valore dell’opera di Lichtheim sta proprio nel suo tentativo di separare descrizioni della funzione da descrizioni dell’anatomia e nella sua intenzione di isolare un dominio indipendente di ricerca inteso a studiare la pura articolazione funzionale dei processi linguistici alterati in seguito a lesioni (ciò che in termini marriani, definiremmo un’analisi a livello computazionale). La mistificazione operata dai denigratori dei diagram makers deriverebbe, secondo Morton, dall’aver essi interpretato l’associazione lesione-sindrome, correttamente individuata da Lichtheim, come un’associazione lesione-componente funzionale, dall’aver cioè caricato di valenze “localizzazioniste” ipotesi che non lo erano affatto nelle intenzioni dell’autore. Contro una tale confusione dalla localizzazione dei sintomi alla localizzazione delle funzioni, l’argomento classico è quello di JACKSON (1874). 32 [32] cfr. GROBSTEIN (1990), p.24: “From a naive perspective, the theory of lesion experiments is relatively simple: to determine what a part of the nervous system is doing, one removes the selected structure and defines its function in terms of the resulting behavioral deficits. There are a host of problems with this perspective, both practical and conceptual. Not the least of these is that such a theory presumes what need not in principle be the case: that the nervous system is organized in such a way as to display a high degree of localization of functions, with the localizable functions corresponding to known aspects of behavior” 33 [33] Si veda il problema delle diaschisi, ovvero degli effetti fisiologici della lesione sulle regioni adiacenti, definiti per la prima volta da von Monakow, come riporta CAPLAN (1981), p. 128 34 [34] KOSSLYN & VAN KLEECK (1990), p.393, propongono le alternative menzionate: clustered vs. distributed neurons, shared vs. dedicated neurons, large vs. small number of neurons. Il problema tocca più in generale i criteri di scomposizione anatomica del cervello in regioni rilevanti ai fini di un’analisi funzionale e la validità dei metodi di classificazione anatomica delle lesioni: diversi neuropsicologi denunciano l’inadeguatezza della definizione di certe sindromi (e della relativa classificazione di pazienti sotto una medesima categoria) basata su grossolane considerazioni anatomiche relative al locus cerebrale della lesione - cfr. MORTON (1984), p.56-57. 35 [35] Per una posizione dissenziente, almeno sotto il profilo programmatico, cfr. CARAMAZZA (1986), p.44, il quale sostiene che uno dei requisiti di completezza di dei modelli normativi è una descrizione della struttura computazionale interna di ognuno dei componenti postulati in un’architettura funzionale. FARAH
  • 9. non è, in generale, la legittimità di uno studio dei fenomeni attraverso modelli architettonici che postulino componenti funzionali non ulteriormente analizzati (a rigore, la scelta di un grado di analisi è strutturale ad ogni descrizione). Piuttosto, esse sono intese a mettere in luce l’inadeguatezza delle strutture identificate a livello anatomico al fine dello studio dei meccanismi neurali che implementano determinate capacità 36[36]. G) – La validità delle categorizzazioni dei pazienti in base ai sintomi e alla natura delle lesioni è controversa. Due sono le strategie normalmente impiegate per classificare le sindromi in campo neuropsicologico: da un lato la scelta di casi singoli, più o meno vicini al deficit “puro” ipotizzato, e la relativa svalutazione di casi affini, in quanto gravati da complessi secondari di sintomi; dall’altro l’esame di gruppi di pazienti, classificati in base a due criteri alternativi: o sulla base del sito della lesione (con una successiva analisi della performance media del gruppo rispetto a determinati test), o sulla base della categoria diagnostica definita a partire dalle risposte a specifiche batterie di test (con una successiva analisi delle affinità anatomiche delle lesioni cerebrali). Senza dilungarci sulla validità di entrambe queste scelte operative37[37], ci limitiamo a osservare come tutti i problemi di classificazione dei pazienti derivino direttamente dalle questioni che abbiamo delineato sopra circa la validità dell’interpretazione dei sintomi in termini di deficit “puri” e l’adeguatezza dei criteri di classificazione anatomica delle lesioni. Le uniche precisazioni che è opportuno aggiungere riguardano il fatto che se, da un lato, il criterio di classificazione dei pazienti in base a schemi analoghi di risposta a specifici test non fornisce basi sufficienti, generalmente, per porre in relazione significativa le lesioni che li producono38[38]; dall’altro, un’interpretazione quantitativa dei deficit basata sulla performance media di gruppi di pazienti classificati sulla base esclusiva di criteri anatomici circa la localizzazione della lesione è considerata da alcuni studiosi irrilevante al fine di modellare l’architettura di determinati sistemi cognitivi39[39]. H) – I tipi di deficit osservati non hanno stabilità temporale Una questione non irrilevante che tocca i single case studies (ma che colpisce indirettamente anche gli approcci di gruppo allo studio dell’effetto di lesioni cerebrali) è la seguente: basare un modello normativo di una determinata capacità cognitiva sulla base dei deficit osservati in un singoli paziente, ad un dato momento del decorso della sua patologia, non fornisca alcuna garanzia sufficiente della stabilità dell’architettura funzionale postulata. Abbiamo già sottolineato come un sistema deficitario sia sempre un sistema in cerca di strategie di compensazione del deficit. La modificabilità del comportamento di un soggetto col trascorrere del tempo dopo la lesione oltre ad essere un indice della complessità delle possibili reazioni al deficit da parte del sistema lesionato 40[40], comporta anche la grave (1994) utilizza argomentazioni tratte dal campo del parallel distributed processing per invalidare la legittimità di ipotesi localizzazioniste. È nostra opinione che l’opzione tra PDP o ipotesi computazionali tradizionali sia del tutto irrilevante ai fini del problema della localizzabilità di specifici sistemi cognitivi in aree discrete del cervello. 36 [36] La questione è sollevata da CAPLAN (1981), p.129-133, il quale addita una disparità tra la finezza delle analisi funzionali di cui disponiamo per descrivere fenomeni come quello del linguaggio e la relativa povertà di informazioni sui meccanismi neurali che li realizzano: “the point is that, while behavioral or psychological functions may in fact correlate with gross neuroanatomical regions, they would do so, as best we know, because of the correlations between elements of these functions and elements of these structures, both grouped in particular ways (…); as long as we remain focused on neural categories such as “convolutions” [le unità anatomiche classicamente invocate per localizzare le lesioni], which are not information-bearing structures in the appropriate sense, we cannot pose a variety of questions regarding brain-language relationships in meaningful ways”. Riteniamo che l’affermazione di Caplan, pur essendo legittima, escluda a priori il valore euristico legato alla scoperta di specializzazioni regionali a larga scala nella corteccia cerebrale. 37 [37] Per una discussione articolata del problema cfr. CARAMAZZA (1986); SHALLICE (1988), p.205-212. 38 [38] cfr. CAPLAN (1981), p.126: differenti lesioni possono dar luogo allo stesso tipo di deficit. Dal punto di vista interpretativo, rilevano MARIN, SAFFRAN & SCHWARTZ (1976), p.870, lo stesso livello di performance registrato in diversi pazienti può essere dovuto alle ragioni più disparate: per esempio, un paziente può non essere in grado di ripetere accuratamente frasi ascoltate a causa di un problema di decodificazione, di un deficit espressivo, di un deficit della memoria a breve termine, di un disordine di tipo sintattico e via dicendo. 39 [39] Questo tipo di approccio soggiace al problema, comune a tutti gli studi sull’anatomia funzionale del cervello, della notevole variabilità individuale. Cfr. CARAMAZZA (1986), p.56.
  • 10. conseguenza della non ripetibilità delle misurazioni effettuate in determinate condizioni e ad un dato grado di sviluppo della patologia, ovvero dell’instabilità dei fenomeni osservati. I.3 – CONCLUSIONI Concludiamo la discussione delle principali problematiche epistemologiche che il metodo neuropsicologico solleva, con alcune osservazioni di carattere generale. Abbiamo osservato che la validità dell’impianto inferenziale neuropsicologico dipende da vari presupposti: • • • • • • • • • i sistemi cognitivi sono analizzabili in componenti isolabili e tali da poter risultare singolarmente deficitarî senza che ne risulti significativamente alterato il resto del sistema. l’organizzazione dei sistemi cognitivi deve essere considerata complessivamente identica da individuo a individuo. esistono procedure standard tramite le quali vengono svolti i particolari compiti cui adempie una capacità cognitiva. l’organizzazione anatomo-funzionale del cervello è tale da permettere confronti interindividuali. una lesione cerebrale che produce deficit selettivi non dà luogo ad una riorganizzazione complessiva del sistema cognitivo del paziente, ma ad una modifica locale di una data capacità, interpretabile rispetto all’organizzazione normale di quest’ultima. lo stesso deficit funzionale emerge in corrispondenza di lesioni di una specifica regione cerebrale. lo stesso deficit non è prodotto da altre lesioni indipendenti. l’area interessata dalla lesione è definibile clinicamente con precisione. il deficit rilevato mostra una complessiva stabilità temporale. Nel corso della nostra rassegna, abbiamo mostrato come ciascuna di queste assunzioni soggiaccia a diversi problemi che, nel complesso, possono invalidare ipotesi di correlazione fra aspetti del comportamento cognitivo e specifiche regioni del cervello. La conseguenza è che una parte rilevante dell’indagine neuropsicologica si limita all’impiego dell’evidenza clinica e comportamentale per costruire modelli normativi del funzionamento dei sistemi cognitivi deficitarî, senza esporsi a ipotesi sulla localizzazione cerebrale di questi ultimi. Al fine di formulare ipotesi di correlazione fra cervello e comportamento, sono richieste ai modelli normativi e ai criteri di individuazione della lesione alcune severe prerogative. La maggior parte delle debolezze dell’impianto inferenziale neuropsicologico emerge laddove il modello funzionale assunto sulla base dell’evidenza patologica è impiegato per determinare l’organizzazione funzionale delle regioni cerebrali interessate dalla lesione. Le istanze di localizzazione tradiscono la tendenza a proiettare sull’anatomia cerebrale, senza un’adeguata conoscenza della natura di quest’ultima, i risultati delle analisi funzionali. La conseguenza è che, stanti queste debolezze metodologiche, risulta difficile considerare l’approccio neuropsicologico, singolarmente preso, come una strategia di indagine più potente rispetto a quella degli approcci cognitivi classici, che non si avvalgono di evidenza clinica41[41]. Un ruolo fondamentale per lo studio del rapporto fra comportamento e sue basi neurali la neuropsicologia può acquistarlo soltanto in un quadro di dialogo con le neuroscienze. Da un lato, informazioni dettagliate sulla struttura anatomica e sull’organizzazione funzionale del cervello sono infatti condizione indispensabile perché l’effetto delle lesioni possa essere messo in relazione con la specializzazione delle regioni colpite. 40 [40] cfr. CAPLAN (1981), p.127-128. 41 [41] cfr. KOSSLYN & VAN KLEECK (1990), p.391.
  • 11. Dall’altro il contributo analitico della neuropsicologia rimane essenziale a condizione che esso si concretizzi nell’elaborazione di modelli normativi predittivi (e di conseguenza testabili) delle capacità cognitive studiate. Le tecniche moderne di pathway tracing consentono infatti di mappare le connessioni tanto uscenti quanto entranti di una qualsiasi area del cervello: è cioè possibile individuare possibili destinazioni e provenienze del segnale che raggiunge una determinata area cerebrale42[16]. L’insieme di questi due fattori – l’elevatissima risoluzione spazio-temporale e la possibilità di analizzare la connettività dei tessuti – fa sì che per via elettrofisiologica si possano individuare il percorso e le proprietà del flusso del segnale che interessa una qualsiasi area corticale. Valga, a titolo di esempio, il caso del sistema visivo dei primati, che il metodo elettrofisiologico è riuscito a scomporre in una mappa di 32 diverse aree di elaborazione, organizzate in modo gerarchico e fra loro collegate da 305 diverse connessioni, per la maggior parte bidirezionali 43[17]. Osserveremo successivamente come per inferire dalla rilevazione di connessioni fra aree il loro ruolo funzionale in termini sistematici (ovverosia impiegare evidenza sulla connettività a sostegno di ipotesi sull’architettura di un sistema) sia necessario disporre preliminarmente di un modello funzionale complessivo che specifichi gli obiettivi del sistema e le operazioni che putativamente sono richieste a questo scopo. LOCALITA’ FUNZIONALE, LOCALITA’ STRUTTURALE Nei due capitoli precedenti abbiamo considerato le strategie di analisi di cui due paradigmi metodologici esemplari si avvalgono al fine di mettere in relazione l’architettura funzionale di dati sistemi con l’anatomia del cervello. Abbiamo mostrato a tale scopo come, tanto le metodologie di correlazione diretta (tecniche elettrofisiologiche, stimolazione transcorticale), quanto quelle di correlazione indiretta a partire da deficit (neuropsicologia, studi di lesione su animali, inibizione magnetica) mirino ad isolare proprietà “locali” dalla complessità dei fenomeni che studiano: tanto cercare il sostrato neurale di una disfunzione comportamentale o di una certa capacità quanto indagare la specializzazione funzionale di una popolazione di neuroni sono istanze che richiedono, da un lato, di segmentare un comportamento in sottoprocessi, dall’altro di tracciare confini discernibili fra strutture del cervello che possano essere messe in relazione significativa con questi ultimi. Ciò che cercheremo di indagare in questo capitolo è che cosa si intenda per “componente funzionale” da un lato e per “correlato neurale” dall’altro. La “nuova organologia”, secondo la definizione di Marshall 44[1], è un paradigma scientifico che considera il cervello, anziché equipotenziale e globalmente coinvolto da qualsiasi tipo di attività 45[2], costituito da una collezione di organi distinti deputati a diverse funzioni, o – più precisamente – organizzato in aree fortemente specializzate che realizzano particolari classi di operazioni richieste da processi più complessi. Il nuovo paradigma, rispetto a quello dei neurofisiologi del secolo scorso, si avvale di conoscenze ben più dettagliate dell’anatomia e della fisiologia cerebrale, nonché di strumenti di analisi estremamente più fini per la scomposizione dei processi dal punto di vista comportamentale: si rende perciò possibile, all’interno di esso, un esame metateorico di quali criteri si possono assumere per “isolare” i componenti postulati. In questo capitolo cercheremo di esaminare e, in alcuni casi, di dirimere alcune questioni relative alla nozione di “località” che permea tutti questi studi, tentando di distinguere i criteri che permettono di identificare una località funzionale ed una località strutturale. Ci soffermeremo in primo luogo sulla definizione classica di “modulo”, concetto cardine del paradigma localizzazionista, e presenteremo contestualmente alcune definizioni più deboli, ma empiricamente più adeguate, della stessa nozione. In particolare mostreremo come si celi spesso nel concetto di modulo un’ambiguità tale da ingenerare sovrapposizioni fra il piano descrittivo dell’architettura funzionale e quello dell’anatomia funzionale e come, al fine di porre in modo rigoroso il problema della correlazione fra funzione e struttura, vadano distinti rigorosamente questi due piani. Ci soffermeremo altresì sulla necessità di grane di analisi congrue per permettere di formulare ipotesi di correlazione. Concluderemo con un esame dei modelli che vengono prodotti nel quadro delle diverse metodologie, interrogandoci sulla natura e sullo status teorico dei componenti che essi postulano. III.2 - CHE COSA E’ UN MODULO? 42 43 44[1] MARSHALL (1980). 45[2] Secondo il principio della mass action propugnato da Lashley, cfr. SHALLICE (1988).
  • 12. L’ipotesi che il cervello sia costituito da sistemi operanti in maniera indipendente gli uni dagli altri ha assunto vigore negli ultimi quarant’anni sotto la pressione di diverse discipline: argomenti di natura computazionale, linguistica, psicologica e neurofisiologica hanno fatto di quest’idea, già tacciata di ingenuità scientifica 46[3], uno dei principî più ampiamente condivisi ai fini di descrivere l’organizzazione cerebrale. Tentativi di caratterizzare in modo rigoroso quest’ipotesi – a cui d’ora in poi faremo riferimento come “modularità” o “ipotesi modulare” – si sono succeduti negli anni ’80, aprendo un dibattito sull’adeguatezza dei criteri a fronte dei risultati della ricerca tanto in campo psicologicocomportamentale, quanto in quello neurobiologico. Di questi tentativi, il più rappresentativo è certamente quello di Fodor 47[4]. La sua proposta, pur suggerendo una nozione di modulo non banale ma per certi aspetti “vuota” (come cercheremo di mostrare in seguito), è quella che meglio ha sviscerato le caratteristiche in virtù delle quali si possano isolare particolari sottosistemi funzionali e che fra i primi ha gettato luce sul quadro concettuale che fa da sfondo ai modelli di information-processing48[5]. Non ci interessa in questa sede valutare l’attendibilità del quadro complessivo di organizzazione cerebrale in cui viene inscritta questa nozione di modularità (quella cioè della dicotomia fra sistemi periferici di elaborazione degli stimoli sensoriali e sistemi centrali49[6]), quanto piuttosto sottoporre a critica l’insieme dei tratti definitori proposti, per valutarne la testabilità sperimentale, l’adeguatezza ai fini della correlazione col sostrato neurale e l’idea complessiva di “località” che da essi risulta. I criteri proposti da Fodor sono per la maggior parte intesi a stabilire in base a quali proprietà architettoniche (relative, cioè, a quanto abbiamo chiamato “architettura funzionale”) sia possibile isolare determinati sottosistemi all’interno di facoltà più ampie come la facoltà della visione o la facoltà del linguaggio (o più precisamente i processi coinvolti dalla lettura, dalla scrittura, dall’espressione verbale, etc.): si tratta, cioè, di proprietà relative al puro trattamento dell’informazione all’interno di tali sottosistemi, senza alcuna assunzione in merito alla loro implementazione neurale. Fodor non si limita però a questo e si spinge ad enunciare criteri relativi alla realizzazione fisica dei moduli: ci interessa qui capire se la definizione dei moduli sia effettivamente scevra da ingerenze anatomo-funzionali o se invece la realizzazione neurale subentri in qualche modo nella loro definizione e, in quest’ultimo caso, quali conseguenze ne discendano. Fodor definisce “modulo” un componente di un sistema più complesso che goda delle seguenti proprietà: 1. domain specificity: per specificità di dominio si intende la destinazione di un sistema all’elaborazione dell’informazione proveniente da una sola modalità sensoriale o, meglio, all’elaborazione selettiva di un certo tipo di informazione proveniente dai sensi. Questa caratteristica esclude cioè che lo stesso componente funzionale possa trattare input esterni al dominio per il quale è designato. In sede sperimentale, la specificità di dominio è testabile attraverso la selettività della risposta di aree cerebrali a classi definite di stimoli. Si tratta di una proprietà squisitamente architettonica che può ricevere potenziali conferme o confutazioni empiriche dalla scoperta di stadi primari multimodali di elaborazione dell’informazione. 2. innateness: è questo un tratto che ci interessa meno discutere in questa sede, dal momento che tocca questioni di ordine diverso rispetto al nostro, in particolare quella dello sviluppo cerebrale e del rapporto che intercorre 46[3] Cfr. SHALLICE (1988), p.6ss; RICHARDSON & BECHTEL (1993), p.93ss. 47[4] FODOR (1983). 48[5] Cfr. SHALLICE (1984), p.243: “For nearly thirty years information-processing models have been used by psychologists. For as long, with some rare exceptions, there has been remarkably little concern about the assumptions implicit in the conceptual framework. Theorists have used a similar box-and-arrow notation to express theoretical positions of very different sorts. (…) Fodor has at the very least done cognitive psychology a major service by forcing it to consider much more seriously what the “boxes” of “box-andarrows” notation represent. 49[6] Il modello globale dell’architettura funzionale dei processi cognitivi proposto da Fodor si articola in tre distinte classi di operatori: transducers, input systems, central processing systems. Per transducers, Fodor intende quegli operatori che sono in diretto contatto fisico con l’ambiente (come, ad esempio, la superficie della retina) e che trasmettono l’informazione ai primi centri di elaborazione sensoriale. I central processors, relegati al livello più alto della gerarchia funzionale, sono i soli componenti “intelligenti”, responsabili dell’integrazione e dell’elaborazione dell’output dei diversi input systems. Questi ultimi, che occupano il livello intermedio fra la periferia e il centro dell’architettura di un dato sistema, sono propriamente ciò che Fodor chiama moduli, ovverosia operatori specializzati e reciprocamente indipendenti, incaricati di filtrare l’informazione proveniente dall’esterno ad uso dei processi più alti.
  • 13. nell’acquisizione di tali sistemi fra specificazione endogena (geneticamente codificata) e apprendimento. Dal punto di vista funzionale, la domanda circa l’innatezza di un sistema può riformularsi nella domanda relativa allo sfruttamento di risorse primitive nel cervello, piuttosto che risorse da queste derivanti. Che tale caratteristica non abbia conseguenze soltanto sul piano architettonico lo dimostra il suo strettissimo legame con la 3. 3. not assembled: uno dei criteri a nostro avviso più problematici è quello del carattere primitivo piuttosto che assemblato di un dato sistema. Viene definito assembled “un sistema costituito dall’unione di un insieme di processi più elementari”, rispetto ad uno la cui architettura virtuale “corrisponde invece in modo relativamente diretto alla sua implementazione neurale”. È chiaro che con questo criterio ci spostiamo su un piano non più semplicemente architettonico, ma in una certa misura ibrido, dal momento che riguarda al tempo stesso lo status del sottocomponente considerato nei confronti di altri componenti nel quadro dell’organizzazione funzionale del sistema e la sua specifica realizzazione a livello cerebrale. La questione se un componente funzionale sia elementare o assemblato nella formulazione di Fodor è a nostro avviso complessivamente mal posta. In primo luogo, dal punto di vista puramente funzionale (senza cioè considerare la questione, cui Fodor è particolarmente interessato, dell’ontogenesi del sistema50[7]), la definizione di un componente come “assemblato” dipende dalla grana di analisi funzionale adottata: ridefinire un componente come non primitivo non significa tanto rivelare la sua natura complessa in termini di sottocomponenti ancora più semplici, quanto adottare una grana di analisi funzionale più fine51[8]. La semplicità di un componente dipende da che cosa si consideri atomico ai sensi dell’analisi funzionale, è cioè una variabile legata alla profondità dell’analisi funzionale che adottiamo. In secondo luogo, dal punto di vista implementazionale risulta oscuro cosa debba significare “direttamente associato con un’architettura neurale fissa”: ci sembra di potere rilevare in questa idea di implementazione diretta un’ingenuità epistemologica, la pretesa cioè di trarre garanzie sulla validità dell’analisi funzionale dal riscontro di popolazioni neurali che realizzino direttamente i componenti postulati. La scoperta di aree cerebrali che implementano componenti funzionali non ulteriormente analizzabili dipende dalla grana dell’analisi funzionale adottata e dal livello più basso al quale un processo fisiologico può essere interpretato in termini funzionali: assumere evidenza neuroscientifica per stabilire la “semplicità” funzionale di un componente ipotizzato dipende da una larga serie di assunzioni e comporta difficoltà teoriche ardue da sormontare 52[9]. Complessivamente, la definizione di “assemblato” è mal posta in quanto sovrappone indebitamente il piano dell’architettura funzionale con quello dell’anatomia funzionale: “essere costituito da un insieme di processi più elementari” (una caratteristica propriamente architettonica) non può infatti venire contrapposto a “essere associato ad una architettura neurale fissa” (caratteristica anatomo-funzionale). Appare, in conclusione, nella definizione di “assemblato” quella collisione fra i due livelli descrittivi che inficia la possibilità stessa di stabilire una valida correlazione fra funzione e struttura – collisione sulla quale torneremo in seguito. 4. hardwired: in stretta relazione con i due criteri precedenti è la caratteristica di essere associato a meccanismi neurali specifici e localizzabili. Se si lascia da parte l’idea della realizzazione neurale come indice del carattere “primitivo” piuttosto che acquisito di un sistema cognitivo, resta comunque teoricamente possibile stabilire se una lesione neurale alteri o inibisca in modo selettivo l’attività di un dato sistema. Questa caratteristica, relativa al piano implementazionale, è cioè direttamente esperibile attraverso lo studio dell’effetto di lesioni che producono deficit selettivi di determinate capacità e in questo senso è intimamente correlata al criterio 1. di specificità di dominio. Il problema merita però alcune precisazioni. Innanzitutto esistono fenomeni patologici che relativizzano l’idea della lesionabilità selettiva di un solo sistema 53[10]. Rimane però da definire un criterio 50[7] L’idea di fondo è che componenti non acquisiti attraverso l’apprendimento ma codificati a livello genetico debbano mostrare caratteristiche costanti e universali nella loro realizzazione neurale, mentre operatori acquisiti debbano sfruttare risorse preesistenti e di conseguenza avere un carattere non primitivo e una realizzazione neurale composita. 51[8] La questione è riconosciuta dallo stesso FODOR (1983), p.62, laddove afferma che “non si possa dire dalle capacità input-output di un sistema cognitivo se esso è per così dire una parte primitiva di architettura mentale o qualcosa che è stato messo insieme da parti più piccole. I sistemi computazionalmente equivalenti possono, in linea di principio, esser costruiti in entrambi i modi”. 52[9] Affermazioni come la seguente mostrano esattamente il rischio che stiamo cercando di mettere in luce: FODOR (1983), p.67 “E’ forse impossibile dire dal di fuori se un certo sistema è assemblato o primitivo, ma si dovrebbe essere certamente in grado di farlo dal di dentro. Concepire le facoltà come assemblate comporta anche concepire la corrispondente base neurologica, almeno inizialmente, come diffusa ed equipotenziale”. 53[10] È il caso celeberrimo della “blindsight”. Individui che presentano forme di cecità totale acquisita in seguito a lesioni delle cortecce visive primarie (lesioni che si presume distruggano completamente la capacità percettiva), possono nondimeno mostrare in alcuni casi una sensibilità superstite a particolari
  • 14. adeguato per distinguere ciò che è hardwired in questo senso da ciò che non lo è: se sistemi non concentrati in specifiche regioni cerebrali, ma distribuiti in varie aree della corteccia si presentano nondimeno omogenei dal punto di vista della specificità funzionale, il fatto che non siano suscettibili di lesioni selettive ci porterebbe infatti a concluderne, secondo la definizione data, il carattere non hardwired 54[11]. 5. computationally autonomous: un componente si definisce computazionalmente autonomo se non condivide con altri componenti risorse comuni come meccanismi attenzionali, o buffer di memoria. Il problema è qui quello, puramente architettonico, dell’accesso del sistema a risorse condivise: se cioè il componente domandi tali risorse e possa esserne fornito o invece porti a termine l’intero processo di cui è responsabile in modo completamente autonomo. L’idea è che se un sistema non è autonomo dal punto di vista computazionale, i sistemi cognitivi centrali hanno accesso a stadi intermedi del processo che esso svolge – e non soltanto all’output finale di quest’ultimo. Si consideri ad esempio il caso del del riconoscimento di stimoli uditivi: se, da un lato, dettagli subfonetici non sono estrapolabili dai primi stadi del processo, dall’altro livelli intermedi fra la decodifica della forma fonologica e quella della forma logica sono disponibili se la loro estrapolazione è richiesta dalle necessità del task 55[12]. L’idea di Fodor – confutata da diversi studi in campo comportamentale sulle modulazioni attenzionali che intervengono anche a stadi estremamente bassi di elaborazione dell’informazione – è che l’accesso a stadi intermedi del processo realizzato da un componente sia possibile solo imponendo particolari richieste computazionali alle risorse di memoria e di attenzione e che altrimenti solo l’output complessivo risulti accessibile. 6. informationally encapsulated: l’idea di incapsulatezza (o “impenetrabilità cognitiva” 56[13]) è forse il tratto definitorio più forte della nozione fodoriana di modulo. Un sistema si definisce “incapsulato” se non riceve informazioni da altri sistemi, ovverosia se i processi che svolge non sono modulati dall’insieme di informazioni di cui l’organismo nel suo complesso dispone, ma dipendono soltanto da informazione di livello più basso (nel modello di Fodor, quella proveniente dai transducers) o da informazione contenuta nel sistema stesso: un caso in cui valutare la validità empirica dell’incapsulatezza è ad esempio quello della visione, dove si può cercare di stabilire in che misura gli stadi iniziali della percezione visiva non siano interessati da conoscenze preacquisite (ingerenze top-down), ma svolgano autonomamente la loro elaborazione degli stimoli. È importante precisare la distinzione che intercorre fra incapsulatezza ed autonomia computazionale: se infatti la seconda si riferisce ad un semplice accesso a risorse condivise, la prima riguarda la permeabilità informazionale del processo realizzato da un sistema. Impiegando le parole di Fodor, i moduli sono componenti “non intelligenti” in quanto sono isolati dall’insieme delle informazioni a disposizione dell’organismo. Senza soffermarci qui sulla discussione relativa alla validità empirica di quest’ipotesi sulla natura dei sistemi di eleborazione periferici 57[14], ci interessa valutare se la caratteristica di informational encapsulation sia un criterio appropriato per definire “isolabile” un componente dal punto di vista architettonico. Se consideriamo, ad esempio, un ipotetico componente di controllo inteso a misurare il grado di attività complessiva di diversi sistemi, e tale da ricevere informazione entrante da ognuno di questi sistemi, nulla impedisce che esso sia neurologicamente e funzionalmente isolabile, pur non essendo, secondo la definizione data, incapsulato 58[15]. In generale, la caratteristica di incapsulatezza è un criterio definitorio più forte di quanto non si richieda ai fini di isolare componenti funzionali. fenomeni come, ad esempio, oggetti in movimento. Questo tipo di evidenza ridimensiona l’idea, già discussa nella nostra trattazione sulla neuropsicologia, che sia possibile stabilire nette corrispondenze fra lesioni di regioni cerebrali di cui si conosce la specializzazione funzionale e i loro effetti sul piano comportamentale. 54[11] Cfr. KOSSLYN & VAN KLEECK (1990). Va però rilevato che alcune architetture neurali “distribuite” sono altrettanto suscettibili di mostrare dissociazioni funzionali una volta lese, cfr. MARSHALL (1984), p.228. 55[12] MARSHALL (1984), p.220. 56[13] Cfr. PYLYSHYN (1984). 57[14] Per questa discussione, che è funzionale in Fodor ad una critica della “New Look” psychology, si rimanda, oltre che a PYLYSHYN (1984), a MARSHALL (1984), SHALLICE (1984), PUTNAM (1984) e FODOR (1985). 58[15] Cfr. SHALLICE (1984), p.247.
  • 15. Accanto a queste caratteristiche, Fodor ne elenca altre correlate in modo più o meno diretto con le precedenti: i moduli sono veloci (ovvero non subiscono interferenze da parte di altri sistemi tali da aver conseguenze sulla durata del processo), sono obbligati (“mandatory”, nel senso che, ad esempio, non è possibile percepire l’enunciazione di una frase come una pura sequenza di suoni o percepire visivamente una scena indipendentemente dalla sua organizzazione tridimensionale), mostrano schemi di disfunzione peculiari (caratteristica legata alla loro specificità di dominio e di fondamentale importanza per l’indagine neuropsicologica), e seguono infine nel loro sviluppo ontogenico un ritmo e una sequenza caratteristica. L’insieme di queste caratteristiche, intese come condizioni di “isolabilità” di componenti funzionali, invoca alcune osservazioni generali. In primo luogo, va sottolineata la disinvoltura con cui sono sovrapposti criteri architettonici e criteri anatomici nella definizione di sistemi isolabili: abbiamo mostrato nel capitolo I come l’affidabilità delle inferenze dalla lesione alle cause del deficit in sede neuropsicologica richieda una precisa distinzione fra il componente funzionale ipotizzato e la sua realizzazione neurale, al fine di non generare artefatti teorici o concludere a ipotesi di localizzazione ingenua. Se la definizione di modulo vuole essere plausibile ai fini di ipotesi di correlazione con l’anatomia cerebrale, deve essere indipendente da proprietà relative al piano anatomo-funzionale. Se cioè, con Fodor, accettiamo di definire un componente “modulo” solo nel caso in cui questo sia al tempo stesso A) autonomo dal punto di vista funzionale (nei vari sensi che abbiamo indicato) e B) associato ad una specifica area corticale, corriamo il rischio di assumere una nozione epistemologicamente ingenua, quanto lo era la nozione di “centro corticale” della neuropsicologia tradizionale59[16]. La definizione fodoriana si espone all’ulteriore rischio di risultare vuota, ovverosia di selezionare in base ai suoi criteri un insieme talmente esiguo di componenti funzionali da risultare poco proficua sul piano sperimentale. Se è pur vero che Fodor riconosce la possibilità di diversi “gradi” di modularità, ovvero di componenti isolabili sulla base di un sottoinsieme dei tratti definitori, l’insieme dei requisiti necessari per soddisfare la sua definizione è troppo stringente per poter essere utilmente impiegato in sede euristica60[17]. Dal momento che la questione che stiamo qui affrontando investe tanto un problema classificatorio quanto un problema euristico, occorre distinguere a questo proposito due diverse caratterizzazione possibili dell’idea di modulo. I. Da un lato, una caratterizzazione ontologica volta a definire che cosa sia un modulo: ovvero quale sia l’insieme delle proprietà che in astratto un componente deve soddisfare per poter essere classificato come modulo. In una simile definizione potranno comparire anche tratti non riscontrati dal punto di vista sperimentale, ma semplicemente richiesti dalla coerenza della definizione. II. Dall’altro, una caratterizzazione epistemica di modularità volta a stabilire come sia individuabile un modulo: ovverosia attraverso quali procedure sia possibile isolare un componente che goda di proprietà precedentemente definite. In principio, le proprietà caratterizzanti dovrebbero essere definibili indipendentemente dalle strategie per individuarle; di fatto, nella prassi psicologica e neuroscientifica vengono definiti moduli esclusivamente quei componenti per i quali siamo in grado di esibire una procedura di isolabilità. Ora, riteniamo che la nozione fodoriana risponda in modo insoddisfacente a entrambi questi aspetti. Dal punto di vista epistemico (II), è evidente che la nozione fodoriana si limita a fornire una definizione di che cosa debba intendersi per modulo, senza esplicitare alcun tipo di procedura empirica per stabilire se un componente funzionale soddisfi tale 59[16] MARSHALL (1984), p.228 – sostiene che la concezione fodoriana celi un’idea di organizzazione neurale ereditata direttamente dai “diagram-makers”, i quali, proiettando tout court sull’anatomia cerebrale i modelli di architettura funzionale della facoltà del linguaggio, postulavano l’esistenza di lunghe connessioni neurali fra la periferia sensoriale e il cervello, centri di elaborazione costituiti da cellule largamente interconnesse da corte fibre e destinati a computare specifiche fome di rappresentazione interna, ed ulteriori lunghe fibre volte a connettere fra loro questi diversi centri. 60[17] Cfr. SHALLICE (1988), p.20 – “Fodor’s view of the modules no doubt seems like a forbidding jungle of abstractions. In fact, his account is most elegant. But for neuropsychological purposes, the criteria he suggests may well be too specific and the systems to which they are supposed to apply too limited”. KOSSLYN (1994), p.29: “Although his characterization may have utility at very coarse levels of analysis, it stands little chance of being an apt description of the component processes that underlie visual processing”.
  • 16. definizione. Per contro, il dibattito in sede neuropsicologica circa l’affidabilità delle strategie dissociative o quello analogo nel campo della psicologia cognitiva (o, come vedremo nel prossimo capitolo, dei metodi di brain imaging) sulle strategie sottrattive rappresenta proprio un tentativo di caratterizzare dal punto di vista epistemico la nozione di modulo61[18]. Sul piano definitorio (I), invece, abbiamo visto come la nozione fodoriana risulta talmente restrittiva da rivelarsi vuota. Gran parte degli studiosi ha proposto un’idea di modularità debole (weak modularità) intesa a sostituire la nozione fodoriana di modularità (cui ci riferiremo in seguito come nozione classica o forte – strong – di modularità), tale cioè da rendere conto dell’isolabilità di componenti che rispetto a quest’ultima definizione non risulterebbero modulari 62[19]. Il problema, in altri termini è quello di individuare dei criteri definitori più deboli ma al tempo stesso non banali (tali cioè da non perdere valore discriminante), e che siano altresì compatibili con le strategie di isolabilità proprie delle singole metodologie. Più precisamente, una nuova definizione di modulo è richiesta dall’esigenza di descrivere sistemi funzionali che non ricadano necessariamente entro le due grandi categorie distinte da Fodor di sistemi periferici e sistemi centrali. Ciò è auspicabile innanzitutto per rendere conto delle proprietà di sistemi che non siano né totalmente equipotenziali e privi di specificità come quelli che egli chiama centrali, né completamente isolati e specializzati come quelli che egli chiama periferici. In secondo luogo, una nuova definizione è richiesta per poter contemplare la scoperta di specificità funzionali di aree a rigore non propriamente periferiche della corteccia cerebrale: la concezione di Fodor non lascia, infatti, spazio ad altri sistemi “localizzabili” nella corteccia cerebrale diversi da quelli relegati ai livelli più bassi della gerarchia dei processi cognitivi: lo studio dell’anatomia funzionale del sistema visivo o, in misura più controversa, del sistema linguistico mostrano la complessiva inadeguatezza empirica di questa ipotesi. III.3 - MODULARITA’ DEBOLE Il problema di ridefinire la nozione forte di modulo, abbiamo detto, si è configurato come un tentativo di stabilire quali dei tratti definitorî classici fossero dispensabili: in altri termini si è trattato di formulare una definizione di isolabilità, non altrettanto selettiva e al contempo non banale, attraverso l’indebolimento dei singoli requisiti individuati da Fodor. Ciò che va garantito è cioè che l’assunzione di criteri meno forti non precluda comunque la possibilità di isolare sistemi: il rischio opposto ad una definizione troppo rigida è infatti quello di una definizione troppo debole, incapace di far emergere distinzioni e di conseguenza ancor meno rilevante sul piano euristico della prima. Le caratteristiche di cui tener conto per una riformulazione “debole” della nozione di modularità sono svariate. Elencheremo qui di seguito tanto quelle che emergono dalle esigenze neuropsicologiche, relative soprattutto a proprietà dell’architettura funzionale, quanto quelle invocate da evidenza neuroscientifica – alle quali dedicheremo una riflessione specifica, nel paragrafo successivo, relativamente alle restrizioni sull’architettura funzionale (e alla revisione della rilevanza di determinati criteri di isolabilità) che tale evidenza può suffragare. 1. Penetrability – nella nostra rassegna sul metodo elettrofisiologico (capitolo II) abbiamo riportato lo stato della ricerca nel campo dello studio delle cortecce visive nei primati: una delle caratteristiche più salienti di questi risultati è che quasi ogni area riceve e proietta informazione da e verso un’altra area. Abbiamo ricordato la cautela che è richiesta nell’inferire - dall’esistenza di un elevato numero di connessioni - ipotesi sul trattamento dell’informazione all’interno delle singole aree. Tuttavia diversi studi suggeriscono la possibilità che le proiezioni non trasmettano semplicemente l’output di processi incapsulati, ma che invece in molti casi l’interazione fra aree e la presenza massiva di feedback modulino in modo significativo i processi che avvengono all’interno di queste aree63[20]: se le cose stanno in questo modo, abbiamo evidenza rilevante per ridimensionare l’importanza dell’informational encapsulation a vantaggio della penetrabilità nella definizione di modulo. Da parte neuropsicologica, d’altro canto, si è sollevata l’esigenza di contemplare la possibilità di modulazioni da parte di diversi componenti o di risorse condivise nei confronti dei processi computazionali realizzati da singoli sistemi. Si è cioè richiesto di indebolire i requisiti di informational encapsulation e di computational autonomy e di reinserirli in una gamma differenziata di possibilità relative al “grado di interazione” fra sistemi64[21]. In 61[18] SHALLICE (1988), p.245ss. – espone un’ampia revisione dell’idea, da lui stesso precedentemente sottoscritta, secondo cui il rilevamento di doppie dissociazioni garantirebbe la separabilità dei sottocomponenti da cui il sistema dissociato si ritiene costituito. Egli fornisce di seguito una serie di esempi di sistemi organizzati in modo non-modulare capaci di produrre dissociazioni in seguito a lesione. 62[19] SHALLICE (1984), p.247; KOSSLYN (1994), p.29. 63[20] KOSSLYN (1994), p.29. 64[21] Shallice importa questa nozione da MARR (1982), p.356.
  • 17. questa prospettiva i sistemi si possono considerare differenti nel loro grado di modularità ed un sistema relativamente modulare può risultare suscettibile di impiegare risorse più generali. L’esigenza comune – che emerge tanto in sede neuroscientifica quanto in sede neuropsicologica – di rendere conto delle interazioni fra i vari componenti, senza pregiudicarne la specificità computazionale, è colta in modo particolarmente felice dalla concezione di “sistema quasi-scomponibile” (nearly decomposable subsystem) formulata da SIMON65[22]: egli definisce quasi-scomponibile un sistema che, ad un livello di analisi superficiale, risulti costituito da sottocomponenti che operano in maniera indipendente l’uno dall’altro e le cui interazioni sono relativamente deboli, e che – a misure più sensibili – riveli invece schemi complessi di interazione fra tali componenti: l’efficacia descrittiva di una simile nozione sta nel fatto che un’analisi di un sistema in termini di componenti debolmente modulari (analisi indispensabile per la comprensione dell’architettura funzionale di tale sistema) non esclude la possibilità di rendere conto, a livelli di analisi più fini, di interazioni fra componenti il cui effetto non emerge al livello sistematico complessivo66[23]. 2. Functional Interdependence – Affine al precedente, ma per certi aspetti distinto è il problema dell’interdipendenza funzionale: mentre la questione della penetrabilità richiede che una nozione di modularità “debole” possa contemplare il caso in cui due componenti siano isolabili anche in presenza di interazioni trascurabili a livello macroscopico, la nozione di interdipendenza funzionale richiede che due sistemi si possano ritenere isolabili anche se ricevono input da componenti condivisi. L’architettura di un sistema può essere caratterizzata a diversi livelli di analisi. È possibile, in questo senso, che sistemi identificati ad un livello più grossolano siano il prodotto dell’attività congiunta di una serie di sottosistemi più semplici, rilevabili ad un’analisi più fine, che interagiscono per realizzare il processo richiesto. Si può ragionevolmente assumere che un sottosistema relativamente specializzato contribuisca ai processi di più sistemi caratterizzati ad un livello di analisi più superficiale. Questa possibilità, che è chiaramente esclusa da una nozione forte di modularità, può essere reintegrata in un’accezione debole ridimensionando i criteri di specificità di dominio e di incapsulatezza67[24]. 3. Overlapping subsystems – tanto dal punto di vista neuroscientifico quanto da quello psicologico emerge la possibilità che un sottosistema computi più di una funzione al tempo stesso: abbiamo considerato il problema più da vicino nel caso della difficoltà di definire la specializzazione funzionale di determinate aree del sistema visivo, rispondenti a diverse dimensioni dello stimolo visivo (capitolo II). Ci interessa in questa sede distinguere due sensi differenti in cui due sistemi possono essere considerati “overlapping”. Dal punto di vista dell’architettura funzionale, un componente può considerarsi specializzato nella computazione di più funzioni semplicemente per il fatto che le categorie che impieghiamo comunemente in sede di analisi comportamentale risultano inadeguate a descrivere in modo unitario due funzioni che appaiono distinte (come, ad esempio, la discriminazione della lunghezza d’onda e del contrasto di uno stimolo, o l’elaborazione del colore e della forma di un oggetto percepito visivamente) 68[25]. Diversamente, due sistemi possono risultare “overlapping” per il fatto che sul piano strutturale non è discernibile l’implementazione dell’uno da quella dell’altro all’interno di una stessa area cerebrale69[26]. Quello che intendiamo qui sottolineare è il fatto che la specializzazione funzionale (così come la sovrapposizione di diverse funzioni) di una parte del sistema può essere riferita tanto ad un processo (dal punto di vista puramente architettonico) quanto ad una regione fisica, e che a seconda del senso in cui tale caratteristica viene presa ne discendono conseguenze diverse ai fini della correlazione fra modelli funzionali e anatomia cerebrale del cervello. Va da sé che, in entrambe le accezioni, questa caratteristica non è contemplata dalla nozione di modularità forte. 65[22] SIMON (1969). 66[23] SHALLICE (1988), p.251 – definisce il “grado di isolabilità” di due sistemi in termini che la imparentano con la nozione di Simon: “The degree of isolability of a subsystem will then be the average of the ratio of intra-subsystem variables to extra-subsystem variables necessary for explaining the behaviour of elements of the subsystem on a microlevel”. Si confronti anche la definizione che viene contestualmente formulata di “semimodulo” – su cui torneremo oltre in questo stesso capitolo. 67[24] Cfr. KOSSLYN (1994), p.30. 68[25] Cfr. MOUTOUSSIS & ZEKI (1997), p.1408. 69[26] Cfr. SHALLICE (1988), p.257. La situazione è quella indicata da MUNDALE (1997), p.87 – col nome di “multiple functionality”.
  • 18. 4. Distributed physical realization o weak localizability – una delle caratteristiche non esplicitate 70[27], ma comunque latenti nella definizione fodoriana di modulo è quella della localizzabilità di un componente funzionale in un’area circoscritta e uniforme (clustered) della corteccia cerebrale. In generale, si è visto nei capitoli precedenti che un sottosistema non è necessariamente instanziato da una popolazione di neuroni concentrata in un’area contigua e definita del cervello: sono possibili infatti realizzazioni anatomiche distribuite di sistemi unitari sotto il profilo dell’architettura funzionale. Si è tuttavia osservato che spesso alcune porzioni di circuiti neurali possono essere localizzate in aree discrete del cervello; non tutti i neuroni che implementano un sottosistema devono però necessariamente essere compresi in tali aree. Ciò che propriamente risulta localizzabile è allora una zona di convergenza dell’informazione elaborata da un sottosistema (più che il sottosistema propriamente detto), un’area in cui cioè un input può servire a generare risposte associative 71[28]. Le rimanenti parti del circuito neurale possono esserne distaccate e condividere un sostrato neurale comune con altri sistemi (vedi sopra, overlapping subsystems, nella seconda accezione del concetto). Abbiamo elencato alcune proprietà di componenti funzionali che risultano incompatibili con una nozione forte di modularità e che ciò malgrado permettono di definire criteri di isolabilità non banali. L’esigenza che ne deriva è quella di adottare un insieme di criteri meno stringenti di quelli proposti da Fodor: pur non essendo chiaro fra i diversi studiosi quale debba essere questo insieme di nuovi criteri definitori (a rigore, una definizione esplicita di modularità debole non è reperibile nella letteratura dei vari campi d’indagine che ne fanno uso), ne risulta complessivamente una nozione “debole” di modulo che non esclude interazioni con altri componenti o l’impiego di risorse globali, che dispensi da un’idea stretta di domain specificity e che permetta di concepire un’associazione ad un sostrato neurale fisso, anche se non necessariamente localizzabile. È interessante rilevare, d’altro canto, che cosa va perso in questa operazione di indebolimento rispetto alla nozione fodoriana: in generale, della definizione di Fodor viene meno il carattere obbligato e incapsulato dei processi svolti dai moduli. L’interesse principale di Fodor era quello di stabilire fino a che stadio di elaborazione l’informazione sensoriale potesse rimanere scevra da ingerenze top-down: è chiaro che lasciando cadere quest’esigenza, viene meno anche il bisogno di garantire l’assoluta autonomia processuale dei moduli. Al tempo stesso una della caratteristiche che vengono meno da un indebolimento della nozione di modulo è quella della possibilità di far corrispondere specifici schemi di deficit a lesioni circoscritte di aree corticali: è chiaro cioè che, se la specializzazione funzionale non è da considerarsi prerogativa di singole regioni, ma è una proprietà condivisa da un insieme di aree, l’effetto sul comportamento di lesioni cerebrali sarà molto diverso e potrà dar luogo a deficit meno selettivi di quelli ipotizzabili nel caso contrario. Conclusa questa discussione relativa alle proprietà architettoniche in virtù delle quali un sistema può risultare isolabile, ci soffermeremo su ciò che permetta di definire una struttura cerebrale come “area di elaborazione”: ci sembra infatti altrettanto importante definire, accanto ad una nozione di “località funzionale”, una nozione di “località strutturale” al fine di comprendere che cosa si intenda in sede neuroscientifica per “modulo” – concetto che spesso nulla ha a che fare con quello definito in sede comportamentale. III.4 - LOCALITA’ STRUTTURALE Nel capitolo II, abbiamo mostrato i criteri di analisi microstrutturale in virtù dei quali è possibile definire una nozione di “località” strutturale. Abbiamo visto, in questo senso, come i criteri più forti per isolare sistemi neurali distinti, siano quelli della connettività e della struttura citoarchitettonica: essi forniscono le distinzioni fondamentali alle quali rapportare ulteriori proprietà, come quelle di specializzazione funzionale. In particolare, l’esame della connettività rivela che i singoli neuroni all’interno di un sistema sono collegati fra loro in modo complesso, ma strutturato, sono cioè divisibili ad un’analisi macroscopica in circuiti fra loro distinti 72[29]. Si è osservato che i confini tracciati sulla corteccia in base alla connettività ed alle proprietà citoarchitettoniche sono spesso coerenti con confini relativi alla selettività funzionale, anche se questa convergenza non è indispensabile al fine di definire aree corticali distinte. Altrettanto spesso, infatti, aree contigue e dissimili sotto il profilo strutturale mostrano forti analogie nel tipo di informazione che codificano. Discende da questo un’idea di “località” strutturale che non presenta alcun diretto isomorfismo con la “località” definita sul piano architettonico. Il risultato è che il ruolo sistematico 70[27] La caratteristica non è formulata esplicitamente da Fodor, ma riteniamo che sia tacitamente implicata dalle due condizioni implementazionali contenute nella definizione di modularità forte (la “hardwiredness” e la possibilità di deficit selettivi in seguito a lesioni neurali circoscritte): la loro unione implica che il modulo debba essere in una certa misura localizzabile in un’area discreta del cervello. 71[28] 72[29] Cfr. DAMASIO (1994). Nel senso che abbiamo chiarito precedentemente attraverso la nozione simoniana di quasi scomponibilità.
  • 19. normalmente attribuito ad un componente in un modello architettonico risulta distribuito dal punto di vista neurale fra diverse aree cerebrali. Dobbiamo a questo punto interrogarci sullo status epistemologico delle mappe cerebrali e vedere in che modo possono essere raffrontate con i modelli funzionali di determinati sistemi. I soli strumenti empirici di cui le neuroscienze dispongono al fine di interpretare il ruolo sistematico di aree e connessioni all’interno di un sistema sono quelli di stabilire dei rapporti gerarchici fra aree, di studiarne la selettività funzionale e di individuare i percorsi più importanti del segnale: attraverso questi dati è possibile formulare delle ipotesi funzionali sul percorso del segnale attraverso il sistema, ovverosia interpretare il flusso del segnale come “flusso informazionale”. È un approccio di questo tipo che ha permesso, ad esempio, di discernere due percorsi principali dell’informazione all’interno del sistema visivo73[30]. Il raffronto fra specializzazione delle aree e rilevanza delle loro connessioni ha cioè permesso di mostrare che l’elaborazione di uno stimolo visivo coinvolge un’insieme di aree organizzate secondo due percorsi principali, che vanno dalla corteccia visiva primaria nel lobo occipitale a due diverse regioni del cervello: da un lato verso i lobi parietali prossimi alle cortecce sensori-motorie (dorsal pathway), dall’altro verso i lobi temporali, prossimi alle aree coinvolte nell’elaborazione linguistica (ventral pathway). Questa scoperta è servita a sostanziare, insieme a dati relativi agli effetti di lesioni cerebrali, un’ipotesi sui diversi obiettivi della visione e sui meccanismi neurali che li realizzano: da un lato il percorso ventrale del segnale è stato interpretato come una “what” pathway ovverosia un insieme di aree specializzate nel riconoscimento di proprietà degli oggetti percepiti quali la forma o il colore, cioè un insieme di tratti funzionali alla decodificazione “semantica” della scena visiva; dall’altro, il percorso dorsale è stato interpretato come una “where” pathway, ovverosia come un insieme di aree che elaborano informazioni sulla dislocazione spaziale di un oggetto all’interno della scena visiva. Figura 1. Organizzazione (Van Essen & Gallant, 1994) gerarchica del sistema visivo nei macachi È evidente come queste ipotesi di larga scala dipendano crucialmente da informazioni note relativamente alla specializzazione delle aree cerebrali e da assunzioni complessive sulla plausibilità biologica ed evolutiva dell’esistenza di determinati meccanismi. In questo senso, se vogliamo comprendere che cosa differenzi una mappa gerarchica delle aree di un sistema da un modello architettonico vero e proprio, dobbiamo riconoscere lo scarto che sussiste fra la semplice individuazione di relazioni fra aree di diversa competenza funzionale e principali connessioni neurali, da un lato, e la loro interpretazione in termini di organizzazione sistematica, dall’altro. In primo luogo, le aree individuate all’interno di un sistema presentano due tratti che le differenziano fondamentalmente da un modello architettonico di un determinato processo: la loro ridondanza (ovverosia la molteplicità delle strutture 73[30] Cfr. MISHKIN, UNGERLEIDER & MACKO (1983); VAN ESSEN & GALLANT (1994).
  • 20. apparentemente deputate a codificare le medesime proprietà di uno stimolo) e la loro specializzazione funzionale spesso indeterminata (ovverosia la destinazione della stessa area a svolgere più funzioni diverse – si veda la prima accezione che abbiamo introdotto di “overlapping subsystems”). In secondo luogo, come diretta conseguenza di queste due caratteristiche, è difficile associare lesioni di singole aree a deficit comportamentali selettivi74[31]. Infine – e tocchiamo con questo il punto più critico – il semplice raffronto della specializzazione funzionale delle singole aree e della rilevanza delle loro connessioni non permette, in mancanza di assunzioni più generali, di esplicitare l’organizzazione computazionale di tali aree all’interno del sistema, di determinare cioè quali siano gli obiettivi e gli stadi dell’elaborazione dell’informazione proveniente dai livelli più periferici o da sistemi differenti. III.5 - ARCHITETTURA FUNZIONALE E ANATOMIA FUNZIONALE Nell’esame delle proprietà che permettono di definire che cosa si possa considerare “locale” ci siamo preoccupati di distinguere fra proprietà relative al piano puramente architettonico e proprietà relative invece al piano anatomofunzionale. Le ragioni, come abbiamo detto in precedenza, stanno essenzialmente nell’uso diverso che del termine “modulo” viene fatto, a seconda che si stia considerando il semplice trattamento dell’informazione all’interno di un sistema oppure il modo in cui il segnale è trattato da parte di particolari regioni della corteccia cerebrale. L’importanza di questa distinzione sta a nostro avviso nel fatto che una definizione architettonica di modulo deve essere scevra da ingerenze relative alla sua realizzazione neurale: da questa distinzione dipende il rigore di ipotesi di correlazione e la possibilità di applicare vincoli comportamentali all’identificazione di aree cerebrali e viceversa. Uno dei rischi più comuni, in questo senso, è quello di introdurre inavvertitamente determinazioni architettoniche laddove si parla, a rigore, di proprietà di regioni fisiche del cervello (e, come conseguenza ulteriore, di interpretare direttamente lesioni cerebrali in termini di lesioni virtuali all’architettura funzionale di un sistema). Anche da parte di studiosi attenti ad un quadro epistemologicamente valido entro cui collocare il problema del rapporto fra mente e cervello emerge talvolta una simile ambiguità concettuale. Riportiamo qui di seguito alcuni esempi che riteniamo significativi a questo proposito, esempi cioè di descrizioni ibride che non distinguono fra l’anatomia funzionale del cervello e l’architettura computazionale di determinati processi. KOSSLYN75[32] adopera, ad esempio, il caso della capacità di riconoscimento visivo di oggetti per discutere del modo in cui information processing systems siano implementati nel tessuto neurale. A questo proposito, egli inizia la sua esposizione con la dichiarazione: “we posit a functional architecture with six major components as follows” [corsivo nostro]. Quello che segue è una definizione ibrida di componenti funzionali e di aree cerebrali che dà per acquisita la loro correlazione: “The visual buffer is a set of topographically organized areas in the occipital lobe. [corsivo nostro]. These areas preserve, roughly, the spatial structure of images striking the back of the retina (…) and have a key role in organizing visual input into perceptual units”. Facciamo credito a Kosslyn del fatto che laddove egli dice “is” egli sottintenda in realtà “is implemented by” o “is localized in”, ma riteniamo importante rilevare che un simile abito epistemologico, nel caso di sistemi meno investigati di quello visivo, possa ingenerare errori grossolani sul piano della correlazione fra funzione e anatomia cerebrale. POSNER e ROTHBART76[33], in uno studio sui modelli di controllo attenzionale, descrivono le proprietà architettoniche (in termini cioè di proprietà del modello information processing) di cui i circuiti attenzionali devono godere: “First, the results of attentional controls are widely distributed, resulting in amplification of activity in the anatomical areas that originally computed that information. Second, the source of this attentional control need not involve a system that has access to the information being amplified, but can be a system that has connections to places where the computations occur” – e poco oltre: “as the result of activity within the attention network, the relevant brain areas will be amplified and irrelevant ones inhibited, leaving the brain to be dominated by the selected computations”. È evidente che si sovrappongono al modello puramente computazionale considerazioni di tipo anatomo-funzionale. Ciò che di seguito viene definito “anterior attention network” oppure “posterior attention network” è evidentemente un sistema fisico localizzato in un’area circoscritta della corteccia, e definito su basi anatomo-funzionali, che gode di determinate proprietà dal punto di vista neurofisiologico nei confronti di altre aree e che al contempo viene interpretato come “box” in un modello architettonico della organizzazione funzionale di una data capacità (nel nostro caso, quella 74 75[32] KOSSLYN (1999), p.1284 76[33] POSNER & ROTHBART (1994), p.195