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Avete mai sentito parlare della città di Fukuoka? È una metropoli giapponese che conta due milioni e mezzo di persone, la più popolosa dell’isola
di Kyūshū. Ha dato i natali alla regina del pop nipponico, Aymi Hamaski, ed è famosa per le uova di merluzzo marinate in sale e peperoncino. Nel
1994 ha ospitato l’ultimo concerto di Frank Sinatra, nel 2001 i mondiali di nuoto.
Magari avete sentito parlare di Fukuoka Masanobu, il botanico? Famoso per “La rivoluzione del filo di paglia” e per l’approccio zen della sua
scuola, negli anni Quaranta fu tra i pionieri della cosiddetta agricoltura naturale o “del non fare”. Illuminante: «In origine non c’era nessuna ragione
per progredire e non c’era nulla che dovesse essere fatto».
Io non avevo mai sentito parlare né della metropoli né del botanico fino a quando non ho incontrato Giulio Veronese, trentacinquenne ferrarese
che da poco si è trasferito esattamente a Fukuoka a lavorare come capo giardiniere – coincidenza significativa? – in una delle più prestigiose
università internazionali della città. L’ho conosciuto un venerdì sera al bar Anna e, tra una chiacchiera e l’altra, mi ha mostrato i biglietti da visita
che si era fatto stampare in giapponese, l’inchino di saluto che aveva imparato per arrivare nella terra del Sol Levante un minimo preparato.
Ormai son passate tre settimane da quando è partito. Non l’ho più sentito ma ho saputo da amici che sta bene, anche se ambientarsi all’inizio non
è facile. Prima che se ne andasse l’ho intervistato perché la sua storia, semplice e ingarbugliata allo stesso tempo, mi è sembrata interessante.
Un percorso sinuoso fatto di tentativi, ripartenze, slanci improvvisi, passioni sincere e decisioni non facili, che probabilmente solo col senno di poi
si riescono ad apprezzare veramente. Stare o andare? Restare o tornare? Sul tema degli italiani all’estero sono stati spesi fiumi di parole, ciò che
colpisce nell’atteggiamento di Giulio è il sorriso.
Giardinieri si nasce o si diventa?
Il mio è stato un percorso irregolare, ecco, mi definirei così: un giardiniere irregolare. Ho iniziato a curare le piante imparando da mio papà, lui è
stato il mio primo mentore, anche se per molto tempo ho vissuto questa attività più come un’attitudine che come una professione. Vengo da una
famiglia di architetti e ho studiato architettura. Dopo l’università ho iniziato a occuparmi di verde spostandomi a Roma, facendo un lavoro molto
fisico, giardinaggio da battaglia. Si usciva ogni mattina con i mezzi, si andava dai privati a pulire e sistemare dalle 8 fino alle 5 di pomeriggio. Quel
periodo è stato utilissimo, soprattutto perché ho iniziato a conoscere le specie che abitano un clima diverso da quello a cui ero abituato, quello
della bassa padana. Dopo Roma sono andato a Cambridge, dove ho trovato un ambiente ancora diverso. Lì ho seguito un training specifico, un
percorso formativo accademico ma anche pratico. Alle classi di botanica, ai test di identificazione e allo studio delle piante si abbinava il lavoro in
team. Da lì son finito a Londra, ai Giardini Botanici Reali di Kew, noti come Kew Gardens (gli stessi descritti nell’omonimo racconto di Virginia
Woolf – ndr).
So che hai lavorato anche ai Giardini Botanici Nazionali del Galles, dove si trova la serra più grande del mondo, e che tra i vari incarichi
sei finito anche sull’Isola di Wight e nei giardini di una delle residenze private della famiglia reale. Non mi sembrano esperienze di poco
conto. Da un’isola all’altra, cosa ti ha spinto a spostarti dalla Gran Bretagna al Giappone?
Il Giappone è stata una proposta veramente inaspettata, tra l’altro è un Paese di cui fino a poco fa veramente sapevo poco o nulla. Sapevo che
avrei voluto continuare a fare esperienza all’estero ma pensavo a tutt’altri lidi, pensavo alla Scandinavia, all’Olanda, Paesi dove c’è un’ottima
tradizione di giardini. Il gancio verso l’Oriente è stato un anziano capogiardiniere conosciuto in Inghilterra, mi ha scritto una mail per segnalarmi
l’incarico e ci ho provato. I giardini dell’Università britannica di Fukuoka cercavano un giardiniere con una formazione inglese. Mi rendevo conto di
sparare alto, ma ho inviato il cv e mi sono fatto avanti. Ci sono stati diversi colloqui e alla fine mi hanno fatto firmare il contratto.
Sei andato di persona a fare i colloqui?
I primi li abbiamo fatti online, poi sono andato di persona e devo dire che ho trovato completamente un altro pianeta, sembrava di stare dentro
Blade Runner, una società che mescola elementi ultramoderni ad altri totalmente antichi, quasi ancestrali.
E cosa ti aspetta, professionalmente parlando?
Sarà una sfida difficile ma interessante. Dovrò riprodurre un giardino all’inglese in un contesto ambientale completamente diverso, con un terreno
diverso, acqua diversa. In Inghilterra il clima è temperato, in Giappone invece è umido, subtropicale. Dovrò ricalibrare tutto ciò che ho appreso.
Professionalmente sarà sicuramente un arricchimento.
L’ipotesi di tornare prima o poi in Italia la prendi in considerazione o proprio non ti interessa?
Come tutti gli italiani all’estero, credo, mi piacerebbe tornare a casa, anche per dare un contributo. In Italia abbiamo un patrimonio di giardini
incredibile ma sta sfiorendo, un po’ perché non ci sono i soldi per la manutenzione, un po’ perché nel tempo si sono perse anche le capacità.
Dopo questo Grand Tour formativo sarebbe anche un onore.
Dei giardini ferraresi qual è il tuo preferito, quello che ami di più o che credi meriti più degli altri di essere valorizzato?
Per me il giardino per eccellenza sarà sempre il giardino di famiglia, umido e ombroso. Siamo oggi qui a parlare di giardini perché prima di tutto
c’è stato questo giardino, in cui sono cresciuto. Per quanto riguarda invece il posto che secondo me meriterebbe più di tutti di essere valorizzato,
senza dubbio la Delizia del Belriguardo, a Voghenza. È il primo esempio di giardino italiano veramente rinascimentale, creato trent’anni prima di
quello, ben più famoso, dei Boboli a Firenze. Rappresenta un archetipo ma purtroppo è ridotto quasi a un relitto, andrebbe sistemato ma
soprattutto andrebbe vissuto. Lo spazio è stupendo ma incolto, servirebbero investimenti e capacità. D’altra parte tutta la città è caratterizzata da
spazi verdi bellissimi, posti veramente magici ma purtroppo sconosciuti.
Articolo di Licia Vignotto
Licia Vignotto lavora per l'ufficio politiche giovanili del Comune di Ferrara, si occupa di progettazione e comunicazione di eventi e iniziative
culturali. E' responsabile ufficio stampa del festival Iperurbs, dell'associazione Basso Profilo e del consorzio Wunderkammer. Dopo qualche anno
trascorso nelle redazioni dei quotidiani locali ha deciso di dedicarsi esclusivamente alle riviste. Oggi scrive per Soft Revolution, La Pianura, Il
Cubo, Occhiaperti - oltre ovviamente a Listone Mag. Ha pubblicato racconti e raccolte di racconti.
Foto di Corradino Janigro

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Giulio Veronese - Giardiniere irregolare

  • 1. Avete mai sentito parlare della città di Fukuoka? È una metropoli giapponese che conta due milioni e mezzo di persone, la più popolosa dell’isola di Kyūshū. Ha dato i natali alla regina del pop nipponico, Aymi Hamaski, ed è famosa per le uova di merluzzo marinate in sale e peperoncino. Nel 1994 ha ospitato l’ultimo concerto di Frank Sinatra, nel 2001 i mondiali di nuoto. Magari avete sentito parlare di Fukuoka Masanobu, il botanico? Famoso per “La rivoluzione del filo di paglia” e per l’approccio zen della sua scuola, negli anni Quaranta fu tra i pionieri della cosiddetta agricoltura naturale o “del non fare”. Illuminante: «In origine non c’era nessuna ragione per progredire e non c’era nulla che dovesse essere fatto». Io non avevo mai sentito parlare né della metropoli né del botanico fino a quando non ho incontrato Giulio Veronese, trentacinquenne ferrarese che da poco si è trasferito esattamente a Fukuoka a lavorare come capo giardiniere – coincidenza significativa? – in una delle più prestigiose università internazionali della città. L’ho conosciuto un venerdì sera al bar Anna e, tra una chiacchiera e l’altra, mi ha mostrato i biglietti da visita che si era fatto stampare in giapponese, l’inchino di saluto che aveva imparato per arrivare nella terra del Sol Levante un minimo preparato. Ormai son passate tre settimane da quando è partito. Non l’ho più sentito ma ho saputo da amici che sta bene, anche se ambientarsi all’inizio non è facile. Prima che se ne andasse l’ho intervistato perché la sua storia, semplice e ingarbugliata allo stesso tempo, mi è sembrata interessante. Un percorso sinuoso fatto di tentativi, ripartenze, slanci improvvisi, passioni sincere e decisioni non facili, che probabilmente solo col senno di poi si riescono ad apprezzare veramente. Stare o andare? Restare o tornare? Sul tema degli italiani all’estero sono stati spesi fiumi di parole, ciò che colpisce nell’atteggiamento di Giulio è il sorriso. Giardinieri si nasce o si diventa? Il mio è stato un percorso irregolare, ecco, mi definirei così: un giardiniere irregolare. Ho iniziato a curare le piante imparando da mio papà, lui è stato il mio primo mentore, anche se per molto tempo ho vissuto questa attività più come un’attitudine che come una professione. Vengo da una famiglia di architetti e ho studiato architettura. Dopo l’università ho iniziato a occuparmi di verde spostandomi a Roma, facendo un lavoro molto fisico, giardinaggio da battaglia. Si usciva ogni mattina con i mezzi, si andava dai privati a pulire e sistemare dalle 8 fino alle 5 di pomeriggio. Quel periodo è stato utilissimo, soprattutto perché ho iniziato a conoscere le specie che abitano un clima diverso da quello a cui ero abituato, quello della bassa padana. Dopo Roma sono andato a Cambridge, dove ho trovato un ambiente ancora diverso. Lì ho seguito un training specifico, un percorso formativo accademico ma anche pratico. Alle classi di botanica, ai test di identificazione e allo studio delle piante si abbinava il lavoro in team. Da lì son finito a Londra, ai Giardini Botanici Reali di Kew, noti come Kew Gardens (gli stessi descritti nell’omonimo racconto di Virginia Woolf – ndr). So che hai lavorato anche ai Giardini Botanici Nazionali del Galles, dove si trova la serra più grande del mondo, e che tra i vari incarichi sei finito anche sull’Isola di Wight e nei giardini di una delle residenze private della famiglia reale. Non mi sembrano esperienze di poco conto. Da un’isola all’altra, cosa ti ha spinto a spostarti dalla Gran Bretagna al Giappone? Il Giappone è stata una proposta veramente inaspettata, tra l’altro è un Paese di cui fino a poco fa veramente sapevo poco o nulla. Sapevo che avrei voluto continuare a fare esperienza all’estero ma pensavo a tutt’altri lidi, pensavo alla Scandinavia, all’Olanda, Paesi dove c’è un’ottima tradizione di giardini. Il gancio verso l’Oriente è stato un anziano capogiardiniere conosciuto in Inghilterra, mi ha scritto una mail per segnalarmi l’incarico e ci ho provato. I giardini dell’Università britannica di Fukuoka cercavano un giardiniere con una formazione inglese. Mi rendevo conto di sparare alto, ma ho inviato il cv e mi sono fatto avanti. Ci sono stati diversi colloqui e alla fine mi hanno fatto firmare il contratto. Sei andato di persona a fare i colloqui? I primi li abbiamo fatti online, poi sono andato di persona e devo dire che ho trovato completamente un altro pianeta, sembrava di stare dentro Blade Runner, una società che mescola elementi ultramoderni ad altri totalmente antichi, quasi ancestrali.
  • 2. E cosa ti aspetta, professionalmente parlando? Sarà una sfida difficile ma interessante. Dovrò riprodurre un giardino all’inglese in un contesto ambientale completamente diverso, con un terreno diverso, acqua diversa. In Inghilterra il clima è temperato, in Giappone invece è umido, subtropicale. Dovrò ricalibrare tutto ciò che ho appreso. Professionalmente sarà sicuramente un arricchimento. L’ipotesi di tornare prima o poi in Italia la prendi in considerazione o proprio non ti interessa? Come tutti gli italiani all’estero, credo, mi piacerebbe tornare a casa, anche per dare un contributo. In Italia abbiamo un patrimonio di giardini incredibile ma sta sfiorendo, un po’ perché non ci sono i soldi per la manutenzione, un po’ perché nel tempo si sono perse anche le capacità. Dopo questo Grand Tour formativo sarebbe anche un onore. Dei giardini ferraresi qual è il tuo preferito, quello che ami di più o che credi meriti più degli altri di essere valorizzato? Per me il giardino per eccellenza sarà sempre il giardino di famiglia, umido e ombroso. Siamo oggi qui a parlare di giardini perché prima di tutto c’è stato questo giardino, in cui sono cresciuto. Per quanto riguarda invece il posto che secondo me meriterebbe più di tutti di essere valorizzato, senza dubbio la Delizia del Belriguardo, a Voghenza. È il primo esempio di giardino italiano veramente rinascimentale, creato trent’anni prima di quello, ben più famoso, dei Boboli a Firenze. Rappresenta un archetipo ma purtroppo è ridotto quasi a un relitto, andrebbe sistemato ma soprattutto andrebbe vissuto. Lo spazio è stupendo ma incolto, servirebbero investimenti e capacità. D’altra parte tutta la città è caratterizzata da spazi verdi bellissimi, posti veramente magici ma purtroppo sconosciuti. Articolo di Licia Vignotto Licia Vignotto lavora per l'ufficio politiche giovanili del Comune di Ferrara, si occupa di progettazione e comunicazione di eventi e iniziative culturali. E' responsabile ufficio stampa del festival Iperurbs, dell'associazione Basso Profilo e del consorzio Wunderkammer. Dopo qualche anno trascorso nelle redazioni dei quotidiani locali ha deciso di dedicarsi esclusivamente alle riviste. Oggi scrive per Soft Revolution, La Pianura, Il Cubo, Occhiaperti - oltre ovviamente a Listone Mag. Ha pubblicato racconti e raccolte di racconti. Foto di Corradino Janigro