I fili che tessono questo libro sono le idee che hanno costituito la trama della vita politica, passando dalle cattedre, dai pulpiti, dalle biblioteche alla divulgazione
letteraria, giornalistica, o al vari mezzi della comunicazione di cultura. E dietro le avventure di idee e parole che si ripropongono, magari rovesciate di senso, nelle diverse stagioni politiche, compaiono gli Individui con le loro vicende eroiche, maramaldesche
oppure impaludate nella “zona grigia” del silenzio e dell'indifferenza.
Fritzsche, Peter. - Vida y muerte en el Tercer Reich [ocr] [2009].pdf
D'Orsi, Angelo. - L'Italia delle idee. Il pensiero politico in un secolo e mezzo di storia [ocr] [2011].pdf
1. Angelo d Orsi
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Il pensiero politico
in un secolo e mezzo di storia
= ggi_ Bruno Mondadori
open access
2. | fili che tessono questo libro sono le idee che hanno
costituito la trama della vita politica, passando dalle
cattedre, dai pulpiti, dalle biblioteche alla divulgazione
letteraria, giornalistica, o al vari mezzi della
comunicazione di cultura. E dietro le avventure di idee
e parole che si ripropongono, magari rovesciate
di senso, nelle diverse stagioni politiche, compaiono
gli Individui con le loro vicende eroiche, maramaldesche
oppure impaludate nella “zona grigia” del silenzio
e dell'indifferenza.
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9 "788861 Il
creative
commons
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3. La storia d Italia raccontata attraverso
il tessuto di pensiero (idee, teorie, ideologie)
che ha contribuito a definire l'identità, non solo
intellettuale, del nostro paese. Sfilano, prima
di tutto, | creatori, o riproduttori a diversi livelli:
Cavour e Giolitti, Mazzini e Cattaneo, De Sanctis
e Labriola, Turati e la Kuliscioff, Mosca e Pareto,
Croce e Gentile, Marinetti e D'Annunzio, Gramsci
e Gobetti, Mussolini e Bottai, Calamandrei
e Vittorini, don Mazzolari e don Milani,
Aldo Capitini e Danilo Dolci, Pasolini e Primo Levi,
Montanelli e Bobbio...
Le vicende degli uomini si riversano in quelle
di scuole, partiti, riviste, sempre ricostruite
seguendo Il filo rosso delle idee politiche,
nei loro nessi con la più vasta produzione
culturale e l'intera società nazionale.
Liberalismo, anarchismo, nazionalismo,
socialismo, comunismo, cristianesimo sociale,
clericalismo, fascismo, qualunquismo, pensiero
democratico, fino ai nuovi sbocchi autoritari
della postdemocrazia’: il libro non si limita
a raccontare Il passato, sotto specie del pensiero
politico ma, attraverso connessioni inattese tra
i nostri ieri e l'oggi, sollecita riflessioni, fornisce
stimoli, apre interrogativi, senza rinunciare
a dare, accanto agli elementi conoscitivi,
spunti di valutazione. In particolare nell'Epilogo
l'autore intinge, gramscianamente, la sua penna
nell'acido corrosivo, per smascherare le parole
ingannevoli dei potenti, denunciare il silenzio
degli ignari e degli ignavi e incitare ad agire:
“Se non ora, quando?”.
Design A+G
4. Angelo d’Orsi insegna Storia del pensiero politico
all'Universita di-Torino. Presiede la Fondazione
Salvatorelli, dirige la rivista di storia critica
“Historia Magistra” e ha fondato FestivalStoria.
Tra i suoi libri: La cultura a Torino tra le due
guerre (Einaudi, 2000), Guernica, 1937
(Donzelli, 2007), 1989. Del come la storia
è cambiata, ma in peggio [Ponte alle Grazie, 2009).
€ 23,00
5. Angelo d Orsi
L'Italia delle idee
Il pensiero politico
in un secolo e mezzo di storia
D Bruno Mondadori
7. Indice
VII
21
51
87
113
151
185
209
233
259
283
311
347
363
375
407
Premessa
1
00
N
SU
a
N
Pa
a
fù
a
O
12.
1861-1878. Moderato, ma non troppo
1878-1896. La nazione di tutti
1896-1908. Contro «la sentimentalità democratica»
1908-1911. Miti guerrieri
1911-1918. Da Tripoli a Vittorio Veneto
1918-1922. Rivoluzione e controrivoluzione
1922-1929. Disarmate idee e armi senza idee
1929-1939. La modernizzazione dell’oppressione
1925-1939. Il pensiero in carceree in esilio
. 1939-1945. Estremo fascismo e guerre civili
. 1945-1956. Ricostruzioni, restaurazioni,
rivoluzioni (mancate)
1956-1991. I sommersi e i salvati
Epilogo
1991-2011. Postdemocrazia all’italiana
Cronologia delle opere
Bibliografia
Indice dei nomi
8.
9. Premessa
Benché esca nell’anno del centocinquantesimo anniversario dell'Unità, que-
sto non è un libro d’occasione: è stato pensato una quindicina d’anni fa, ma
la sua realizzazione è stata sempre procrastinata.
L'incontro con Mariarosa Bricchi — direttore editoriale della Bruno Mon-
dadori —, pur con lunghe esitazioni che non l’hanno scoraggiata, mi ha infine
indotto a riprendere quel progetto, e la ricorrenza imminente (allora) del
centocinquantenario ha suggerito a editore e autore di retrodatare il termine
a quo del tragitto storico che qui si propone. Che ora, infatti, copre l’intero
arco storico postunitario. Ma chi si aspetti di trovarvi “tutto” e “tutti” sarà
deluso: non si tratta di un manuale, anche se il testo è stato scritto avendo
in mente un destinatario non specialistico (o meglio: non soltanto). Tale di-
chiarazione, tuttavia, so che non mi assolve dalle tante lacune o dalle scelte,
sicuramente discutibili, compiute in relazione a temi, persone, movimenti. Il
gioco del “c’è”/“manca” è usuale, e forse inevitabile, in un’opera di sintesi e
quindi sono prontoa ricevere le critiche del caso: perché ho parlato a lungo
di certuni, e poco di certi altri? C’entrano, naturalmente, le competenze (e le
incompetenze), che in un’opera come questa pesano molto: è ovvio che chi
scrive tende a privilegiare gli autori meglio conosciuti, le tematiche più note,
i problemi più sviscerati. Ma nelle scelte entrano altresì — difficile negarlo —
“simpatie” e “antipatie”: e qui c'è ben poco da aggiungere. E tuttavia, non
si tratta neppure di un saggio che dia corso, semplicemente, a umori, amori,
idiosincrasie, innamoramenti; ci sono, i sentimenti, ma c’è anche l’informa-
zione, e mi auguro che i primi non soffochino la seconda e che questa, a sua
volta, non sia troppo pedante e noiosa.
In ogni caso, il libro, al di là dei suoi limiti e degli eventuali meriti, at-
traversa questi 150 anni, seguendo idee, autori — uomini, prevalentemente,
in quanto maschile è stata la cultura politica dominante —, istituzioni, mo-
10. VIII LlItalia delle idee
vimenti alla ricerca delle ricorrenze, delle continuità, del riproporsi o ri-
prodursi, magari passando da tragedia a farsa, di concetti e parole, spesso
rovesciate di senso, nei cambiamenti di stagioni politiche. E dietro le parole
e i concetti, compaiono gli individui, con le loro vicende, talora eroiche,
talaltra maramaldesche, e in qualche caso vicende da “zona grigia”: ci sono i
pensatori e i rivoluzionari, gli attendisti e gli estremisti, i realisti e gli utopisti,
in un mosaico che mi auguro di essere riuscito a rendere nella sua variegata
complessità, pur con le mie innegabili preferenze, che i lettori scopriranno
facilmente.
Insomma, ho cercato di conciliare etica della convinzione ed etica della
responsabilità, sia nella scelta di filoni e autori, sia nella loro trattazione. Un
percorso soggettivo, che, ossimoricamente, si misura con l’oggettività, ossia
che tenta di dare conto di tutti i temi politici, fra teoria e prassi, più signifi-
cativi del dibattito pubblico, dal 1861 ai nostri giorni.
E tutto ciò a che fine? Non meramente conoscitivo, lo dichiaro subito,
come si capirà ancor meglio dall’Epz/ogo, in cui l’autore lascia andarei freni
inibitori dello storico professionale, e rivela a chiare lettere le sue passioni,
che fino a quel punto, seguendo l’insegnamento di Gaetano Salvemini, ha
cercato di tenere a bada, pur dichiarandole. Non meramente conoscitivo,
in quanto ritengo che l’ufficio dello storico, per citare quel sovversivo di
Benedetto Croce, sia «eminentemente un ufficio civile». E, aggiungo, nel
momento in cui il mio paese, che è quello di Salvemini, Croce, Gramsci,
attraversa una delle crisi più gravi della sua storia: e ciò accade in una sorta
di torpore generale, come se tutto comunque si dovesse, miracolosamente,
aggiustare. Se non ci pensa “il governo”, insomma — sembra essere questo
il senso comune — ci pensa “la Madonna”. No, non ci pensa il governo (per
fortuna), e alla Madonna credo poco; anzi, per niente. Ci devono pensare le
persone, singolarmente e, meglio, organizzate in gruppi, associazioni, mo-
vimenti, partiti, ricostruendo la propria dimensione di cittadinanza, recla-
mando diritti, avanzando proposte, smascherando le menzogne dei potenti.
A ciò, la storia serve: a fornire materiali preziosi la cui conoscenza è es-
senziale per vivere il presente e lasciare alle generazioni seguenti un futuro
per il quale sia valsa la pena di vivere; per capire il primo e per disegnare il
secondo, insomma.
Questo ci insegnano tanti “eroi” che si affacciano tra le pagine del libro,
impegnati, da un’epoca all’altra, a edificare, migliorare, rifare, difendere la
11. Premessa IX
nazione Italia, per la quale altri, o loro stessi, avevano combattuto: non sol-
tanto i nomi, più o meno celebrati, dei padri della Patria, o dei suoi politici,
o dei suoi maîtres à penser; ma i nomi di tanti militanti delle buone (talora
delle cattive) cause, che per esse hanno diffuso e propagandato idee che altri
si incaricavano di creare o sistematizzare. Idee da cui sono nati movimenti
pratici, che hanno contribuito a disegnare il volto del paese, bene o, ahinoi,
male; come questa Italia odierna, che non mi piace, e che so dispiacere a
un enorme numero di miei concittadini. Eppure anche questa Italia, che
pare giunta da mondi alieni, sorge da scaturigini lontane, e gran parte del
pensiero politico che vi ha oggi cittadinanza ne reca le tracce. Ripercorrerle,
annodando fili spezzati, suggerendo connessioni, scoprendo qualche perso-
naggio minore, ridimensionando qualche maggiore: l’obiettivo che mi sono
prefisso, ribadisco, non era un repertorio, bensì un tragitto orientato dal
pensiero di alcuni autori, a cominciare dal mio amato Antonio Gramsci,
bussola intellettuale e morale, ma riferimento anche di metodo (per il quale
guardo tuttavia anche a correnti recenti della storiografia delle idee, dette
“contestualiste”) e di merito, essendosi egli posto, con particolare attenzio-
ne, a riflettere sulla «formazione dello spirito pubblico in Italia» (come scri-
veva alla cognata Tania Schucht il 19 marzo 1927), ossia «sugli intellettuali
italiani, le loro origini, i loro raggruppamenti secondo le correnti della loro
cultura, i diversi modi di pensare ecc. ecc.».
Questa non è un’ennesima “antistoria”, sia ben chiaro, bensì una storia
articolata, critica e multiversa, che tenta di restituire l'identità e le diversità,
anche geografiche, di questa Italia centocinquantenaria: un paese di (pochi)
liberali ridotti a «far all'amore coi comunisti» (Luigi Einaudi a proposito di
Gobetti, il 31 ottobre 1922) per carenza di liberalismo autentico tra i (trop-
pi) sedicenti liberali; di rivoluzioni (mancate) e controrivoluzioni (vittorio-
se); di socialismo incerto fra bagatelle ultrariformistiche e sogni di palinge-
nesi rivoluzionarie; di un nazionalismo deteriore e al contempo incapace di
tutelare la dignità della nazione; di un cattolicesimo egemone e pervasivo, e
di un perdurante uso politico della religione (ma, in qualche caso, anche di
religione provvista di carica rivoluzionaria). Un paese nel quale alcune tra
le più grandi figure, portatrici dell’etica dell'impegno pubblico, sono state
assassinate come Gramsci — i Rosselli, Matteotti, don Minzoni, Giovanni
Amendola, Gobetti, Ginzburg, Pasolini -, in patria, o all’estero, per mano di
italiani o su loro commissione, direttamente o indirettamente... «Che paese
12. X Ultalia delle idee
è mai quello in cui si uccidono i poeti?» — l’angosciosa domanda di Alberto
Moravia, a seguito dell’assassinio dell'amico Pier Paolo Pasolini (2 novem-
bre 1975), era una denuncia, un disperato grido di sdegno, che non poteva
trovare risposta, e non ne ha trovata.
Il libro deve un ringraziamento, oltre che a Mariarosa Bricchi, per il costante
incoraggiamento, a Valentina Visigalli, redattrice perfetta, che ha curato la
lavorazione a tempi di primato, senza perdere il sorriso. Ringrazio poi due
miei allievi: Giacomo Tarascio, per alcune ricerche bibliografiche, e France-
sca Chiarotto, da tempo valida collaboratrice e interlocutrice intellettuale:
il suo aiuto è stato come sempre prezioso, e non solo per la redazione della
Cronologia delle opere, che qui firma.
E poiché questa Prerzessa è stata scritta 1'8 marzo 2011 — ricorrenza cen-
tenaria del tragico episodio da cui è nata la “festa” delle donne — mi piace
dedicare il libro alle mie tre sorelle, Giusi, Francesca, e, dolorosamente e
prematuramente scomparsa, Anna Maria, la cui memoria è più che mai viva
in Nol.
13. 1. 1861-1878. Moderato, ma non troppo
«... Roma, e Roma sola deve essere la capitale d’Italia». E se l’idea di Roma è
temuta dal papa della cattolicità come una sottrazione dei diritti della religione,
Cavour — sua è la frase, proferita alla Camera nel marzo 1861, pochi giorni
dopo la proclamazione del Regno d’Italia — invitava a far comprendere al «San-
to Padre» che ciò non sarebbe accaduto: mai l’autorità civile avrebbe esercitato
il suo potere su quella religiosa; nel contempo, non doveva accadere neppure il
contrario. E quella stentorea conclusiva sentenza, diventata una specie di mot-
to dei laici, «Libera Chiesa, in libero Stato», doveva essere il lasciapassare per
una nuova fase dei rapporti tra la Santa Sedee il potere politico.'
Cominciò allora, dunque nell'immediato indomani dell'Unità, un dibat-
tito che — fin troppo facile notarlo — non è mai cessato, e ha attraversato fasi
diverse, fra tensioni che in qualche caso sono giunte a momenti di scontro,
dopo la guerra lampo del settembre 1870, conclusasi con Porta Pia, il giorno
20. Si sarebbe giunti a un assestamento con il Concordato del 1929, rinno-
vato, con modifiche, nel 1984: proprio Cavour, nei discorsi del marzo ’61, al
proposito, invitava il papa a rinunciare alla politica dei concordati, fondata
su concessioni di privilegi. La vicenda storica successiva avrebbe tradito il
padre della patria italiana, almeno su questo aspetto (e non solo su esso),
e la battaglia delle idee sarebbe rimasta impigliata anche troppo sovente
nella rete del laicismo versus clericalismo. In fondo questo dibattito avrebbe
spesso allontanato la società politica e il ceto dei colti dall’analisi autentica
di problemi reali a carattere strutturale, come quel divario tra il nord e il sud
che era emerso da subito, con l’arrivo dei “piemontesi” nei territori apparte-
nuti al Regno delle Due Sicilie.
Nasceva immediatamente un razzismo settentrionale, che avrebbe tro-
‘I discorsi sono citati in Dell’Arti (1983), p. 485.
14. 2 LItalia delle idee
vato discutibili appigli in ancor più discutibili teorie di ideologi travestiti
da antropologi. Sul fronte meridionale la risposta fu, com’è noto, il brigan-
taggio: una rivolta sociale che, per quanto sostenuta dai residui del regime
borbonico sconfitti dai garibaldini, intercettava un bisogno reale, una insod-
disfazione profonda, una speranza tradita, e anche un timore di uno Stato
che improvvisamente, rudemente, si presentava con tasse e servizio militare.
Si trattò di una vera guerra sociale, dal carattere «disperato e barbarico»,
come notò Giuseppe Massari, che tenne la relazione a porte chiuse alla Ca-
mera dei deputati, esito della Commissione d’inchiesta, incaricata di svolgere
un'indagine su quel «doloroso fatto»: il contadino meridionale era «il vero
nullatenente». Eppure Massari, giornalista, redattore e direttore di varie te-
state, uno dei tanti intellettuali del sud esuli in Piemonte, che seppe cogliere
molti tratti anche di lunga durata del fenomeno, chiedeva leggi eccezionali,
che realizzassero una «punizione pronta ed esemplare dei colpevoli»: egli
vedeva complici dappertutto, in libertà, e i colpevoli occupare le patrie ga-
lere. A brigante, brigante e mezzo, si potrebbe sintetizzare: questa la linea
del “moderato” Massari — già segretario di Cavour, e poi suo primo biografo
— che fu ipso facto tradotta in legge da un Parlamento ansioso di chiudere i
battenti per l’urgere delle ferie estive (la legge Pica, datata 15 agosto 1863):
l’effetto fu quello di trasformare la repressione, ferocissima, da eccezione a
regola «sanzionata dal diritto»; fra le tante guerre civili del Risorgimento,
questa fu «la più crudele, la più lunga, la più costosa».? Gli italiani in divisa
— 120000 uomini inviati a “pacificare” quelle zone — apparvero agli italiani
del Mezzogiorno null’altro che stranieri occupanti, gli odiati “piemontesi”.
Un giovane che dalla natia Sardegna si era portato a Torino, avrebbe scrit-
to, decenni più tardi, dando sfogo a una rabbiosa solidarietà verso quelle
popolazioni che dopo i lunghi patimenti sofferti sotto il regime borbonico
avevano dovuto subire l’invasione e la repressione settentrionale:
Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia
meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri
che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.
° R. Villari (1963), p. 89.
> Mack Smith (1963), p. 123. Stralci della relazione di Massari sono in R. Villari (1963),
pp. 90-102.
1 A. Gramsci, I lanzo ubriaco.in “Avanti!” 18 febbraio 1920, ora in Gramsci (1987), p. 422.
17. 1861-1878. Moderato, ma non troppo 5
sociali e l’attività di quelle forze». Un'idea e un lessico che richiamano la
celebre domanda di Ernest Renan del 1882: Qu'est que c'est une nation? Un
plebiscito di tutti i giorni, aveva risposto lo scrittore francese, formulando in
modo lampante il patriottismo democratico.8
Il popolo rivendicato fin dal titolo di quella testata esprimeva anche l’or-
gogliosa rivendicazione della Repubblica romana: Roma per Mazzini è un
faro di civiltà, e quello che egli preconizzava era l’avvio di una Terza Roma:
dopo quella dei Cesari e quella dei Papi, ecco appunto all’orizzonte, almeno
sul piano della volontà (in Mazzini la componente volontaristica è fortis-
sima), la Roma del popolo. La città-Stato che proprio i “cugini” francesi
avevano, dolorosamente, spento nel sangue, un ventennio avanti, in quello
che fu interpretato e deprecato come un tradimento. Gli anni intermedi tra
la fallita Repubblica romana e la nascita della nazione unita italiana, aveva-
no visto il genovese impegnato in un’attenta meditazione sulla democrazia,
che egli imparò a collocare in un quadro europeo; ora, si trattava special-
mente di riflettere sul nesso eguaglianza-libertà. Si trattava, del resto, anche
dell’effetto degli accesi dibattiti generati dalla Associazione Internazionale
dei Lavoratori (poi chiamata I Internazionale), sorta nel 1864 nella città cuo-
re del movimento socialista, Londra. Ora il pendolo geografico-politico si
rispostava proprio verso la Parigi faro di civiltà politica, e la rivoluzione da
dibattito diventava di nuovo realtà come nel ’48-’49: una realtà di speranze
e di delusioni, intrisa del sangue di uomini e donne che si erano temeraria-
mente battuti contro forze preponderanti. Mazzini, nel decennio precedente
— il primo del Regno unito d’Italia — aveva avviato un confronto specialmen-
te con l’anarchico russo Michail Bakunin; contro il materialismo ateo e la
negazione recisa di ogni principio di autorità (e anche di organizzazione)
tipici di Bakunin, per il quale lo Stato era il nemico assoluto della libertà
dei popoli e dei singoli, il patriota italiano allo Stato attribuiva un’essenza
morale e vedeva in esso l’estrinsecazione istituzionale di esigenze ineludibili,
e degli stessi «doveri dell’uomo»: quel mantra ripetuto dal genovese grazie
al quale egli risulta ancora oggi ostico a tanti suoi lettori, che avvertono un
senso di atemporale distacco dalla modernità. Certo, allora se Bakunin e
Marx —- a loro volta in contrasto proprio sul concetto di Stato, ma anche
Tutte le citazioni di Mazzini sono in Mastellone (1994), p. 120.
“ Cfr. led. it. Renan (2004).
18. 6 LItalia delle idee
su molti altri punti nodali — apparivano vicini allo spirito dei Comunardi,
Mazzini rimase in algido distacco: del resto al suo rigorismo etico fondato su
istanze di tipo religioso, la natura economica delle rivendicazioni politico-
sociali era sostanzialmente estranea e così rimase anche in quelli che furono
gli ultimi passi della sua esistenza. E la sua idea democratica, nelle dramma-
tiche contingenze storiche della Comune, che tanti sogni e tante contrappo-
ste paure suscitò in Europa, ci appare viziata da un notevole astrattismo; e,
nello specifico riferimento alla Comune, mostra una singolare chiusura, con
la condanna di quel tentativo di costruire un microstato socialista fondato
su una democrazia diretta, e in generale su un sovvertimento nella pratica
delle regole del liberalismo — che egli pervicacemente oppone, facendo di
Benjamin Constant il suo eroe, come Rousseau è l’antieroe — e del sistema
rappresentativo. E qui, dietro lo stesso confronto/scontro con i giudizi di
ben altro tenore che provenivano da Marx sulla Comune, emerge la critica
non soltanto del socialismo, ma della intera tradizione dei Lumi e della Ri-
voluzione francese.
Ciononostante, questo stesso Mazzini, che già aveva deprecato, nel suo
testo classico Fede e avvenire (1835), lo scivolamento dell’individualità in
un «ignobile individualismo», in un «egoismo», in una «immoralità senza
nome», delineando il proprio programma politico-sociale, nel settembre
1871, su “La Roma del Popolo” tentava una interessante conciliazione tra
le esigenze del singolo, e la sua azione individuale, dal basso, e quelle del-
la democrazia rappresentativa; mentre sul piano squisitamente economico
prevedeva un sistema volto a «prevenire ogni esempio di corruzione che
venga dall’alto»; una distribuzione di risorse utili «ai bisogni degli operai
industriali ed agricoli»; un sistema di imposte che «non graviti direttamente
o indirettamente sul necessario alla vita»; e, infine, una associazione di ca-
pitale e lavoro, ai fini «dell’equa partecipazione di tutti i produttori ai frutti
del lavoro».
Non si può dunque essere troppo severi con Mazzini, e in fondo il suo
giudizio negativo sulla Comune fu moneta corrente, anche tra democratici e
socialisti. In realtà, soltanto i marxisti e gli anarchici sostennero quell’esperi-
mento luminoso, troppo avanzato per la gran parte degli stessi pensatori po-
? G. Mazzini, I/ moto delle classi artigiane e il Congresso, in “La Roma del Popolo”, I,
n. 28, 7 settembre 1871, ora in Marino (2010), pp. 130-32; si veda anche l’Introduzione
del curatore, pp. 5-70; ma soprattutto Angelini (2008).
20. 8 LUltalia delle idee
oggi chiameremmo politicante, ma che, forse, proprio alla luce della nostra
esperienza del tempo presente, ci apparirebbe meno infame di quanto una
diffusa pubblicistica volle far apparire. Certo Cattaneo era portatore di un
interessante ideale di una Italia produttiva, industriale e agricola, moderna,
in cui il gioco politico fosse in qualche modo limitato e controllato dal gioco
degli interessi. La ricetta di Cattaneo prevedeva un ripudio del centralismo
inteso nella sua forma più estrema, che combinava inefficienza e sopraffa-
zione: d'altronde anche Mazzini, che centralista invece fu, e in modo fer-
reo, propose una repubblica unitaria ma aperta alle più ampie autonomie
locali, bollando tuttavia il federalismo che «smembrando in piccole sfere la
grande sfera nazionale, cederebbe il campo alle piccole ambizioni e diver-
rebbe sorgente d’aristocrazia».!' Mazzini obliterato, resta Cattaneo come
involontario e incolpevole teorico di un “federalismo” magari “padano”,
un federalismo precisamente indirizzato nel senso deprecato dal Mazzini:
del resto, tali disinvolti utilizzi non trovano (né, per la verità, cercano) al-
cun riscontro testuale, e neppure genericamente culturale. Si tratta di un
Cattaneo largamente inventato, come la Padania di cui dovrebbe essere una
sorta di progenitore.! In ogni caso il lombardo Cattaneo — di cui odierni
estimatori scordano l’apertura cosmopolitica, esplicitamente antirazzista
(scriveva nel ‘62: «non conosciamo egemonie del genere umano») — aveva
una lucida visione dello sviluppo di questa nuova nazione, dal punto di vista
della borghesia colta e avanzata: dunque finì per essere, il suo, un catalogo
dei sogni. Utilitarismo e razionalismo conducevano questo borghese raffi-
nato a pensare per l’Italia in termini liberali e liberistici. «Le manifatture
non parlano lingue» era un suo concetto chiave, che lo guidò dagli anni
quaranta fino alla morte, avvenuta nel 1869. Nel 1843 scriveva: «Noi bra-
miamo vivere, ad essere in vita nostra testimonj del progresso delle cose»:
di quel progresso era parte essenziale l’andare verso il libero commercio e
verso una perfetta corrispondenza del confine degli Stati con quelli delle
lingue.!” Eppure quelle idee erano tutt'altro che esenti da un certo radi-
calismo; in ogni caso il suo è un autentico patriottismo italiano, che vede i
44 Cit. in Mastellone (1993), p. 10.
5 Ctr. la Prefazione di N. Urbinati in Cattaneo, Bobbio (2010), pp. VII-XXVI.
‘°C. Cattaneo, Tipi del genere umano, in Cattaneo (1972), p. 383.
"Id. Dell'"Econonmia nazionale” di Federico List, in “Il Politecnico”, VI, giugno 1843;
ora in Cattanco 11962), p. 47.
21. 1861-1878. Moderato, ma non troppo 9
confini della nazione da costruire «là dove la natura li ha posti e la ragione
li addita», ossia il Tirolo, innanzi tutto, e le altre terre contese all’Austria,
dal Friuli fino alla Dalmazia.!8 Così scrive Cattaneo in una analisi critica del
pensiero dell’economista antiliberista, nazionalista e protezionista Friedrich
List, destinata a diventare paradigmatica. Contro ogni idea di supremazia di
una nazione sulle altre, Cattaneo innalzava la bandiera della libera circola-
zione di merci e idee, sia pure su di una linea che implicava prudenza onde
evitare sconquassi e ritorni all'indietro: liberismo, sì, ma adelante con juicio.
Quanto al federalismo vale la pena di precisare, una volta per tutte, che esso
non partiva dall’alto, come politica di governi, bensì nasceva dal basso, dai
Comuni, per salire eventualmente a Provincia, Regione, Stato. Era strut-
turalmente democratico: era, in sostanza, autogoverno locale, sui diversi
piani — economico, istituzionale, e quant'altro. La federazione era per lui un
punto d’arrivo, non già «imposizione dall’alto»:! lezione, evidentemente,
del tutto ignota, più che ignorata, oggi, da coloro che usurpano il nome di
questo “gran lombardo”.
La sua attività — che fu prevalentemente quella di un pubblicista-studioso
— si estrinsecò essenzialmente in una rivista, “Il Politecnico” (1839), che a
vent'anni dall’esordio, nel 1859, alla vigilia dell'Unità, ripartiva in una se-
conda serie, con un Mawrifesto in cui, con vigoroso entusiasmo, Cattaneo
proclamava che la legislazione, la milizia, la navigazione, l'agricoltura... e
molto altro ancora erano «scienza». E la scienza era «forza». Più che po-
sitivismo, avrebbe notato Bobbio, si trattava di una mentalità positiva, che
raccoglieva e tesaurizzava molti spunti di varia provenienza, sempre a par-
tire dalle battaglie degli illuministi.’ Questo “nuovo Politecnico” sarebbe
durato altri dieci anni, oltrepassando dunque la vita del suo fondatore, e
lasciando un seme di straordinaria fertilità nella cultura italiana, che, nel
corso dei decenni, si sarebbe variamente riprodotto, in uomini e idee, in libri
e riviste, in movimenti e culture politiche.
La battaglia delle idee era ormai conflitto politico; accanto e ancora più
dei libri, e forse più delle gazzette, che pure erano nate per dare in qualche
iS_Le due citazioni in Valentini (1979), pp. 239-40.
!° E. Rotelli, Il federalismo postunitario di Carlo Gattanco, in Colombo, Della Peruta, La-
calta (2004), pp. 5929-40 (533).
2° Cfr. Bobbio (1971), pp. 133 ss.
22. 10 L'Italia delle idee
modo informazioni sul potere, e svolgere una funzione di controllo,” svol-
sero un ruolo determinante le riviste, proprio per il loro carattere più vivace
e labile, per la loro prontezza a interagire con una realtà in mutamento, a
cambiare anche di volta in volta, talora di anno in anno se non di mese in
mese, prospettiva, accentuando ora il momento della riflessione analitica,
ora quello della lotta senza quartiere, anche con eccessi di toni e di linguaggi.
Accanto ai grandi apostoli del Risorgimento — quelli qui richiamati ma anche
chi era uscito di scena prima come Gioberti e Rosmini, 0, sull’altro versante,
dolorosamente, Carlo Pisacane, trucidato coi suoi a Sapri sempre nel ’59 -,
era la seconda generazione a farsi avanti, tra politica d’azione e politica di
analisi e riflessione: Massimo Taparelli d’Azeglio, Cesare Balbo, Domenico
Farini, Marco Minghetti, Giacomo Durando, Agostino Bertani, Carlo Tenca
e numerosi altri, specie piemontesi, toscani, lombardi. Eranoi letterati pa-
trioti, o i giornalisti patrioti o semplicemente i politici che raggiunta l'Unità
territoriale d’Italia si presero a cuore le sorti nazionali. Le teorie politiche
cominciavano a diventare pensiero diffuso, portato dai fogli periodici, da
opuscoli, dai discorsi parlamentari, dalle conferenze.
Alcuni tra costoro forse ricaddero nella categoria fustigata dal poeta Giu-
seppe Giusti degli «eroi da poltrona», ma la gran parte fu genuinamente e
coraggiosamente, ancorché spesso in modo confuso e incoerente, propugna-
trice di una «Italia nuova». L'esempio generoso di Mazzini ebbe effetti be-
neficamente contagiosi: egli, appunto, era stato tra i più consapevoli dell’im-
portanza della stampa come mezzo di agitazione, propaganda e formazione
rivoluzionaria: «La stampa è l’unica speranza nostra. Ogni riga stampata dà
più potenza che non venti lavori segreti», aveva scritto.??
Pisacane, con i suoi trecento giovani cantati dal poeta Luigi Mercantini
nella Spigolatrice di Sapri (che alcune generazioni di italiani hanno impara-
to a recitare — male — nelle aule scolastiche); Garibaldi coi suoi mille, che
conquistò e donò un regno ai Savoia, traendosi poi in disparte; Mazzini che
continuò invano a sognare una Repubblica democratica; Cattaneo con il
suo quasi avveniristico disegno di federalismo solidale... Falsa è l’immagine
proposta da Piero Gobetti di un «Risorgimento senza eroi»: costoro furono
tutti degli autentici eroi. E se tutti risultarono sconfitti sul piano politico,
"Cfr. Infelise (2009).
22 Cit. in Ravenna (1939), pp. 2, 3n.
23. 1861-1878. Moderato, ma non troppo 11
forse non fu tanto perché le loro proposte erano «troppo avanzate rispet-
to ai tempi», quanto, piuttosto, perché nessuno tra loro era un Lenin, e
nessuno seppe stabilire un rapporto forte con le masse popolari, sostenuto,
necessariamente, da un’azione di costruzione di egemonia da parte del ceto
intellettuale. Quel che è indubbio è che le loro idee fruttificarono, sul medio
e lungo termine, spesso riprese e beneficamente contaminate dagli scrittori
politici del socialismo italiano.
Il movimento si organizzò solo a fine secolo, ma intanto una pletora di au-
tori producevano scritti, specialmente giornalistici, per propagandare le idee
di riscatto degli umili. Siamo nel protosocialismo, spesso confuso e mischia-
to con anarchismo, repubblicanesimo, radicalismo: sono quelle che di lì a
poco sarebbero state chiamate “le Estreme”, in seno alla Camera dei depu-
tati. V’è poco o nulla di Marx in questi scrittori: avrebbe scritto, un po’ aci-
damente, il liberale Olindo Malagodi che I/ Capitale era «la Bibbia dei nuovi
tempi», aggiungendo, con qualche perfidia: «il libro fatidico il quale [...]
rimaneva chiuso con sette suggelli, non che alla massa dei gregari, ma agli
stessi banditori della dottrina», perlopiù pubblicisti e poligrafi, spesso mi-
litanti di base, che in qualche caso riescono a raggiungere posizioni eminenti
all’interno delle rispettive aree politiche; ma anche letterati, che preludono,
con una nuova attenzione al popolo, a quel «socialismo dei professori» che
avrebbe caratterizzato il quarto di secolo compreso fra gli anni novanta e la
Grande guerra: Arcangelo Ghisleri, Gabriele Rosa, Osvaldo Gnocchi Via-
ni, Enrico Bignami... Una «galassia repubblicana»,?° e protosocialista — dal
punto di vista letterario, vicina alla Scapigliatura —, nella quale circola 44
abundantiam il pensiero di Cattaneo (alcuni sono stati suoi “discepoli” e
collaboratori), specie su temi quali appunto il federalismo, ma non soltanto,
e l’eco di Mazzini, rilanciata dai vecchi e nuovi “mazziniani”, ossia gli adepti
di quel sacerdote della libertà d’Italia e d’Europa, che, peraltro, ebbe se-
guaci ma anche avversari, in una diatriba che si placò provvisoriamente solo
nel momento della sua scomparsa (10 marzo 1872), a seguito della quale
cominciò il gioco delle appropriazioni e degli utilizzi, come quasi sempre
accade coi grandi: a Mazzini toccò di diventare nume tutelare della masso-
5 Albertoni (1990), p. 491.
2 Malagodi (2005), p. 152.
2? Cfr Angelini, Colombo, Gastaldi (1998).
24. 12. Lltalta delle idee
neria.° Il ritratto dell'apostolo morente, opera di Silvestro Lega (1873), lo
fa ritornare uomo, sia pure quasi nel suo istante fatale: come si legge in un
foglio dell’epoca quello «che per alcuni fu piuttosto un mito che un uomo
vero di polpe ed ossa, lo vedi nel quadro di Lega sonnecchiare le ultime ore
di febbre, adagiato sul suo fianco destro e stese le braccia lungo la persona
unir le mani che si tengono insieme».?” Poco dopo, usciva di scena anche il
grande Alessandro Manzoni (22 maggio 1873): era stato uno dei primissimi
senatori della nuova nazione italiana (1860), ancor prima che il Regno fos-
se annunciato nella sua espansione determinata nel marzo ’61, e svolse un
ruolo eminente nella Commissione per l’unificazione della lingua, redigendo
anche la relazione conclusiva Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffon-
derla. La sua morte suscitò uno dei primi momenti di quel sentimento che
oggi siamo abituati a chiamare, sbadatamente, “cordoglio nazionale”. Ne
fu interprete eccelso Giuseppe Verdi: il musicista laico e (moderatamente)
progressista con la Messa da requiem non solo rendeva omaggio allo scrittore
cattolicissimo e (moderatamente) conservatore, ma regalava un capolavoro
alla musica di ogni tempo e paese, e, insieme, un monumento della nuova
patria italiana. Verdi stesso, peraltro, dopo aver svolto, nell’età risorgimen-
tale, il ruolo, inizialmente casuale, poi scelto con convinzione, di «cantore
della Libertà italiana», aveva ripiegato su Casa Savoia, su posizioni di destra
moderata, finendo per difendere la pace sociale e la proprietà privata (egli
stesso era grande agrario).?8
La parabola politica di Verdi, del resto, somigliava a quella di molti sovver-
sivi, secondo un canone che si era già tante volte visto nelle vicende storiche.
I rivoluzionari al potere diventavano uomini d’ordine, e, nel caso dell’Italia
appena unita, i repubblicani finivano non di rado per abbracciare la fede mo-
narchica, i radicali e socialisti simborghesivano e teorizzavano la moderazio-
ne, la solidarietà nazionale, il ripudio della lotta sociale e politica. Ma vi fu chi
rimase sulle sue posizioni, esempio di fedeltà agli ideali e di coerenza. Fu il
caso di Enrico Bignami, un garibaldino rimasto sinceramente dalla parte del
“popolo”, fondatore di una rivista, “La Plebe”, nata a Lodi, il 4 luglio 1868,
capace ancora una volta di svolgere un ruolo cardinale, divenendo presto il
punto di raccolta e coagulo di esperienze politiche, di riflessioni teoriche, di
2° Ctr. Dell’Erba (2010), p. 91.
2" Gli ultimi momenti di G. Mazzini, in “Il Giornale Artistico”, I, n. 16, 25 ottobre 1873.
8 Milza (2001), pp. 429 ss.
26. 14 LUltalia delle idee
fiducioso; ma anche un moderato come lui insisteva sulla necessità di tenere
la questione religiosa lontana dalla sfera pubblica: un tratto che avrebbe
fortemente caratterizzato tutto il pensiero liberale, democratico, radicale,
socialista fino alla Grande guerra, e che poi si sarebbe affievolito fino ad
essere rimosso dal fascismo con i suoi Patti del Laterano del 1929.
Intanto, il mondo cattolico, nella sua testa pensante, la Compagnia di
Gesù, si andava organizzando sul piano ideologico, più che teologico; sin dal
1850 era nata “La Civiltà Cattolica”, che da Napoli si trasferì a Roma, inter-
rompendo le pubblicazioni con Porta Pia, ma riprendendole l’anno dopo, a
Firenze, per poi rientrare definitivamente a Roma, nel 1887. Per lanciare il
numero d'esordio si stamparono e diffusero 120000 programmi della rivista
e 4000 manifesti; e il successo fu immediato e pieno: nel volgere di quattro
anni si passò da poco più di semila copie al doppio. Posta sotto la cappa
del neotomismo, la rivista fu portavoce dell’intransigentismo cattolico, ma
anche della «concezione di un papato universale»: una barricata clericale
contro qualsiasi odore di modernità, dalla filosofia alla politica. In nome di
sant'Ignazio di Loyola, fondatore della Societas Jesu, si definiva un pacchet-
to teorico-ideologico di ortodossia cattolica: i bersagli furono dopo il movi-
mento nazionale unitario, il liberalismo, il socialismo. La cultura dei cattolici
si rivelò una potenza, e contro di essa il mondo laico sembrò spesso non
possedere efficaci argomenti dietro le invettive anticlericali e antivaticane;
clamorose quelle di Carducci. Il quale peraltro fu convinto della congruità
tra la missione civile e il mestiere di poeta:?4 portatore di idee non già origi-
nali, ma capaci di intercettare un senso comune, e di produrne a loro volta,
grazie alla forza talora assai fragorosa dei suoi scritti. Meno convinto della
coerenza, il nostro poeta civile, tanto non solo da lasciar cadere certe istanze
progressiste, ma da diventare fervente monarchico.
Il dopo Unità in generale produsse giornali, riviste, editori, nuove catte-
dre universitarie, in particolare a Napoli, Roma, Torino; la cultura politica
degli italiani ebbe alcune centrali, oltre che in sedi accademiche, in cena-
coli privati e pubblici; salotti, circoli, caffè, riviste, case editrici, librerie.
Ad esempio, morta la celebre rassegna fiorentina “Antologia” di Giovan
Pietro Vieusseux (e Gino Capponi), un intraprendente giovanotto francese
? Dante (2004), p. 27.
4 Cfr. G. Carducci, I/ poeta non può essere escluso dalla vita politica (Discorso agli elettori
di Lugo di Romagna, 1876), in Carducci (1952), pp. 262-65.
27. 1861-1878. Moderato, ma non troppo 15
che volle farsi editore, Felice Le Monnier, produsse, a Firenze, una “Nuova
Antologia”, nel 1866 — il fatale anno di Lissa e Bezzecca, le due drammatiche
sconfitte degli italiani contro gli austriaci —, che divenne un pensatoio di idee
politiche, in chiave moderata, spesso francamente conservatrici. Nello stesso
anno che metteva fine alle improvvide ambizioni da ultima tra le Grandi
Potenze, usciva, sul cattaneano “Politecnico”, seconda serie, un saggio dello
studioso e politico (più tardi fu ministro della Pubblica istruzione) Pasquale
Villari, oggi considerato generalmente il testo che apre la stagione positivi-
stica in Italia, o almeno uno dei documenti fondativi: La filosofia positiva e
il metodo storico. Villari era un uomo intelligente, e come tutti gli intelligenti
aveva in uggia la retorica, specie quella patriottarda che pretendeva di asse-
gnare ancora “primati” a un paese che si leccava le ferite e che si affacciava
in modo incerto sulla scena. Trent'anni prima di Adua, le sconfitte invece di
indurci alla riflessione, magari autocritica, suscitavano stolti pensieri di re-
vanche: la teorizzata necessità di una “vera guerra”, di una “grande vittoria”.
Si cominciò a formare, proprio dal ’66, l’idea che una nazione abbia bisogno
del “battesimo del sangue”: il sangue, “cemento della nazione”. Frasi siffatte
si cominciarono a udire in Parlamento, a leggere sulle gazzette, o a vedere
recitate in drammi teatrali. Fu, da allora, un continuur che, attraverso Adua
e la Libia, avrebbe condotto senza incertezze fino all’ingresso nella Guerra
mondiale: la “grande guerra” attesa e vaticinata.
Conservatore, con tratti squisitamente reazionari, fu del resto il segno
prevalente della cultura politica nazionale del primo quindicennio postu-
nitario. Ma se scorriamo l’elenco dei nomi di quei teorici o divulgatori,
letterati e scienziati sociali, “conservatori”, siamo colpiti quasi da un moto
d’invidia, anche se personalmente possiamo essere, come chi scrive, di
tutt'altro orientamento ideologico. Invidia per la grandezza di figure che
oggi possiamo soltanto rievocare nella storiografia, e il cui lascito teorico o
più genericamente culturale appare semplicemente azzerato. Se Cattaneo
incarna la linea lombarda, i fratelli Spaventa, Francesco De Sanctis, An-
gelo Camillo de Meis, Antonio Labriola, Pasquale Villari, Giustino For-
tunato, Gaetano Mosca, e altri, sono portatori delle istanze della cultura
filosofico-politica delle Due Sicilie, dove, malgrado l’oscurantismo dei
regnanti, le idee erano tutt'altro che spente. Talora, certe polemiche fi-
losofico-politiche avevano un risvolto anche di carattere geografico, come
notò Benedetto Croce nel contrasto che oppose il Carducci al meridionale
28. 16 Lltalia delle idee
De Meis, spalleggiato dal meridionale Francesco Fiorentino, a proposito
della pubblicazione del De Meis di I/ Sovrano (1868): certo era il contra-
sto tra il vivace repubblicanesimo del poeta romagnolo, e il conservatori-
smo monarchico del pensatore abruzzese. Scarsa distanza geografica, ma
ampio divario storico.
Al più eminente della sua generazione, l’irpino De Sanctis, dobbiamo la
Storia della letteratura italiana, che si colloca nell’anno cruciale di Porta Pia
(pubblicata dal glorioso editore Morano di Napoli, altra pedina importante
di costruzione di buona italianità), un capolavoro assoluto, il cui significato
va ben oltre i confini della storia letteraria, che si palesa come un’opera or-
ganica di alta pedagogia nazionale. Il motto di Massimo D'Azeglio — «fare gli
italiani» — trovava uno strumento eccezionale, anche se riservato ai ceti colti:
la nuova Italia aveva la necessità di elaborare un tessuto culturale comune,
che prendesse l’abbrivo da coloro che, a partire da Dante Alighieri, avevano
creato l’identità italiana. De Sanctis, che divenne ministro della Pubblica
istruzione (di gran lunga il più eminente della storia nazionale), era un pro-
dotto di quella cultura partenopea erede del meglio delle grandi tradizioni
dei Francesco Mario Pagano, dei Giambattista Vico, risalendo fino a Gior-
dano Bruno. In quella linea napoletana un ruolo importante nel dopo Unità
fu impersonato dai fratelli Spaventa.
Nel contempo, De Sanctis, che si cimentava nella storia della letteratura
patria — già praticata, senza infamia ma senza lode, al nord da un Cantù, al
sud da un Settembrini —, indicava coraggiosamente, in una «sintesi possente,
ma gremita di giudizi»,’° una linea interpretativa che non era certamente
solo letteraria, ma squisitamente politica: la letteratura “giovane”, democra-
tica, esprimeva nel suo disegno un intendimento costruttivo di una nazione
resa una dalla lingua e dalla letteratura, ma divisa da particolarismi, spezzata
da squilibri, provata dalle stesse vicende belliche, risorgimentali e postrisor-
gimentali. Un autentico «scrittore militante»,?” insomma, che indicava stra-
de culturali, e indirettamente, politiche per dar vita alla nuova Italia. D’al-
tronde lo stesso De Sanctis aveva teorizzato limpidamente che una storia
letteraria presuppone non solo una filosofia dell’arte, ma anche «una storia
esatta della vita nazionale, pensieri, opinioni, passioni, costumi, caratteri,
Cfr. De Meis (1927), dove Croce ricostruisce tutta la polemica.
* Muscetta (1978), p. 71.
# Ivi, p.103.
29. 1861-1878. Moderato, ma non troppo 17
tendenze; una storia della lingua e delle forme; una storia della critica».?8 E
altro ancora. Una sorta di storia totale, che l’Italia non possedeva, ma che
lo studioso irpino indicava come essenziale, proprio a fini di costruzione
dell’identità nazionale.
Un altro settentrionale, lombardo questa volta, il già menzionato Cesare
Cantù — in parallelo al vicentino Alessandro Rossi, industriale (da lui nacque
la Lanerossi), poeta dilettante, pubblicista, deputato, senatore — comincia-
va a porre l’attenzione sul tema del lavoro, facendone oggetto di studio, di
letteratura, di apologia. Siamo nella fase cruciale del Se/f belp: l’opera di
Smiles, uscita a Londra nel 1859, aveva avuto un travolgente successo anche
in Italia, tradotta — da Gustavo Strafforello, nel 1865, con il titolo Chi si
aiuta, Dio l’aiuta — e potenziata, poi, da una sorta di rifacimento, più siste-
matico dell’originale (che era costituito in vero da una serie di conferenze):
Volere è potere (1869).?? Ne era autore un divulgatore che nella sua produt-
tiva esistenza gettò ponti tra cultura scientifica (la sua) e cultura umanistica
(che tentò di fare sua): Michele Lessona, docente all’ Ateneo di Torino, dove
fu anche a lungo rettore, diventando poi a sua volta senatore.‘ Quanto a
Cantù, egli alla fine è passato alla storia — storia minore, benché tutt'altro
che minima, entrando, secondo autorevoli giudizi, addirittura nei «caratteri
originali» dell’Italia —# non già dunque per le ponderose opere “serie”, ma
per «un’operetta» (così ne parlarono i suoi editori, presentandone una delle
prime ristampe) edificante, pedagogica, che, per la prima volta, aveva a pro-
tagonista un immigrato dal depresso sud verso il nord industrializzato. Nel
piano e nella stessa stesura, probabilmente, fu determinante la collaborazio-
ne di Rossi, probabile committente: in ogni caso Portafoglio di un operaio,
questo il titolo del romanzo, apparso nel 1871, fu esempio notevolissimo di
paternalismo cattolico-sociale, con tratti sicuramente reazionari, ma di gran-
de acutezza, in un discorso estremamente efficace per lo scopo perseguito.
Sul passaporto dell’operaio napoletano Savino Sabini — il protagonista — si
SF. De Sanctis, Verso i! realismo, cit. in C. Muscetta, Francesco De Sanctis, in Cecchi,
Sapegno (1969), pp. 163-223 (187).
‘Per Rossi e il Se/f help, cfr. Lanaro (1979).
‘Rinvio ai contributi raccolti in “Quaderni di Storia dell’Università di Torino”, I (1996),
I, con la Bibliografia degli scritti di Lessona.
Cfr. C. Ginzburg, Folklore, magia, religione, in Storia d'Italia. 1 (1972), specie
pp. 666 ss.
30. 18. LUltalia delle idee
sofferma l’incipit, degno di nota; da quel passaporto, cominciava probabil-
mente anche l’unità letteraria del paese, dopo quella politica.‘
Peraltro, persisteva, tutt'altro che residuale, un razzismo del nord verso
il sud; sicché, fin dal 1875, quasi a contrapporsi ai “settentrionali”, nasceva
un meridionalismo liberale, incarnato dall’opera del già richiamato Pasquale
Villari. Benché il programma dei meridionalisti liberali — gruppi di pressione
a carattere politico-intellettuale ispirati da Villari — non proponesse altro
che correttivi all'ordine politico e sociale, le sue Lettere meridionali ebbero
il merito di aprire un campo di studi, decisamente allargando la conoscen-
za dei problemi di quella nazione che appariva tutta da costruire, anche se
non da inventare. Villari e i suoi amici e sodali (va ricordato in prima linea
Leopoldo Franchetti, che aveva studiato le condizioni del Mezzogiorno),
riprendendo la linea dei riformisti moderati — capitanata dall’ex presiden-
te del Consiglio Marco Minghetti — intendevano far sì che, attraverso una
opportuna legislazione sociale, il peso del necessario sviluppo economico
avviato fin dall’indomani dell'Unità e che aveva accelerato il suo ritmo nella
seconda metà degli anni sessanta — e in generale dell’Unità, non si scaricasse
tutto sui ceti subalterni. Ma essi aggiungevano, in prospettiva non localisti-
ca, il problema meridionale, come problema nazionale. Fu su quelle opere,
su quegli autori, su quelle istanze, che si formarono i meridionalisti della
generazione seguente, da Giustino Fortunato in avanti. Ideologicamente
essi erano e rimanevano dei conservatori, i quali ritenevano che il conflitto
sociale, e territoriale, dovesse risolversi «attraverso la mediazione e sotto la
illuminata direzione della borghesia terriera; attraverso un mutamento degli
atteggiamenti e dello spirito della classe dirigente». Si può scorgere nelle
Lettere di Villari altresì una «prima, profonda “autocritica” del liberalismo
risorgimentale, che sarebbe stata poi più scientificamente messa a punto
nell’inchiesta di Franchetti e Sonnino sulla Sicilia». Certo, a rileggere oggi
questo autore troviamo forse più spunti di tante analisi sociologiche e sto-
riche, riguardo a fenomeni che sono ancora, e più che mai, di drammatica
attualità e si nominano come lui li nominava, quali camorra e mafia, «conse-
guenza logica, naturale, necessaria di un certo stato sociale, senza modificare
* Cfr. C. Ossola, Introduzione a Cantù (1997), p. 40; ma si tratta di un testo tutto da
leggere; cfr. anche Lanaro (1979), pp. 89 ss.
5 R. Villari (1963), p. 107.
31. 1861-1878. Moderato, ma non troppo 19
il quale è inutile sperare di potere [...] risolvere problemi d’una sì grande
importanzae difficoltà».
Intanto nascevano fermenti culturali in sede locale, che suggellavano dif-
ferenze che non tardavano a diventare contrasti: Torino orfana dello status
di capitale, ceduto a malincuore (con morti nelle piazze) a Firenze, Milano
che doveva accontentarsi del ruolo di “capitale morale” (un mito nuovo che
si accreditava) contro la Roma già allora additata come città parassitaria. «La
culla del Risorgimento», come si disse ai tempi, Torino, si chiudeva in un
acre, ma insieme dignitoso nostalgismo, e produceva, nel 1863, con Monsù
Travet del Bersezio (che fu pure fondatore, nel 1867, del quotidiano liberale
“Gazzetta Piemontese”, poi divenuta “La Stampa”), un piccolo capolavoro,
Le miserie d° Monsàù Travet. Figura destinata a diventare, e non soltanto in
sede locale, ben più celebre del suo inventore, Travet è una sorta di antieroe,
che tuttavia difende valori come l’integrità morale, la dignità del lavoro, e lo
status di impiegato della Regia Amministrazione; alle prese con le sue «mi-
serie» quotidiane, egli appare come uno degli infiniti esponenti della galleria
dei vinti, ma anche degli inetti, quasi un archetipo di un Fantozzi odierno:
un confronto fra i due mentre rivelerebbe il macchiettismo grottesco che
anima il Travet di oggi, farebbe grandeggiare il Fantozzi di ieri, vituperato e
umiliato dai superiori e tenuto in non cale dai colleghi, ma che, diversamen-
te dal personaggio reso celebre da Paolo Villaggio, in una serie di pellicole
dirette (inizialmente) da Luciano Salce, difende la sua dignità di uomo, di
marito e di lavoratore, arrivando a rinunciare al posto, pur di salvare appun-
to la dignità e l’onore.
A Milano, decisamente più avanzata sul piano economico e culturale,
non pochi esponenti del mondo letterario reagivano alla impetuosa trasfor-
mazione urbana e alla rivoluzione della tecnica e dell’industria rifugiandosi
nelle osterie fuori porta, dove le erbe e le acque contrastavano l’avanzata
dei motori e dei rumori. Fu la Scapigliatura, che estese propaggini verso il
Piemonte a ovest, e il Veneto a est: tra i non pochi meriti, essa ebbe quello
di rompere la rigidezza linguistica di una letteratura ingessata, e di arric-
chire di sensibilità nuove il mondo di narratori e poeti. In fondo era anche
quello un modo di aprirsi al popolo, pur con qualche snobismo della rivolta
antiborghese da parte di giovani borghesi; ma i rapporti tra Scapigliatura e
4 P. Villari (1972), p. 40.
32. 20 LUItalia delle idee
movimento anarco-socialista sono provati e di una certa consistenza, e anche
nelle tendenze dichiarate soltanto liberali vi era un esplicito desiderio di
«abbattere il falso, l’assurdo ed il brutto», espresso in forme spesso provoca-
torie, ma genuine, come nel foglio milanese “La Cronaca Grigia”, di Cletto
Arrighi, che durò, irregolarmente, dal 1860 al 1880.4° Così come in pittura
i macchiaioli e altri tentavano di percorrere vie nuove, fuori dagli schemi
consolidati della pittura di genere, ovvero, nella musica, si cercava di libe-
rarsi dall’ingombrante egemonia verdiana: si pensi, per esempio, ad Arrigo
Boito, il cui Mefistofele (1868) di impianto wagneriano suscitò riprovazioni
negli uni e entusiasmo negli altri, che ne parlarono come di «musica dell’av-
venire». Ancora una volta nell’idea, anche, di raffigurare umori e sentimenti
della nuova Italia, quella da costruire insieme, e che culturalmente appariva
fortemente deficitaria, come un Villari aveva denunciato, così come la Sini-
stra giunta al potere nel marzo del ‘76, facendone un punto programmatico,
si può dire, della rinascita culturale del paese. Quasi un inascoltato monito
ai suoi successori di un secolo e mezzo più tardi.
E la sinistra vera? Non quella trasformistica giunta al potere con il poli-
tico di Stradella, bensì quella che si cominciava a radunare sotto bandiere
rossonere, tra anarchici e protosocialisti... Il citato Bersezio nel 1867 pub-
blicava un romanzo “sociale”, sintomo di una nuova sensibilità verso pro-
blemi inediti. Il titolo dice tutto: La plebe. Era lo stesso titolo che si sarebbe
data la rivista socialista fondata da Bignami e sodali l’anno dopo, quasi a
saldare un asse Torino-Milano che, ben prima dei miti fallaci del Mi-To,
segnalava la costituzione di un proletariato che lentamente avrebbe assunto
una fisionomia precisa dando vita a proprie istituzioni e giornali, e avendo
al suo fianco i propri intellettuali di riferimento: in breve, che avrebbe dato
vita a un suo movimento.
* Cfr. E. Paccagnini, Dal romanticismo al decadentismo: la Scapigliatura, in Malato (2005),
p. 283.
33. 2. 1878-1896. La nazione di tutti
La scomparsa del “re galantuomo” (9 gennaio 1878), il padre della patria
Vittorio Emanuele che volle rimanere II pur essendo il primo re d’Italia,
anticipò di poco la sconfitta diplomatica italiana al Congresso di Berlino
(giugno-luglio 1878), dove per impotenza, ma in fondo anche con realismo,
fu dichiarata la politica delle «mani nette», al cospetto di potenze imperia-
listiche che si spartivano quel che rimaneva del mondo extraeuropeo. Fu,
dopo le disfatte militari di dodici anni prima, una nuova stazione della Via
Crucis che avrebbe condotto il paese recalcitrante, ma sospinto da ideologi
del tutto privi di etica della responsabilità, alla Prima guerra mondiale. Si
trattava di una sostanziale sconfitta diplomatica, più che di un dea geste dei
nostri rappresentanti; 0, piuttosto, di una franca ammissione di impotenza
fra tante potenze. Quattro anni più tardi, l’Italia cominciava a disegnare una
vera politica estera; si stipulava infatti, nel 1882, il trattato detto della Tripli-
ce Alleanza con l’Austria e la Germania; gesto impopolare: l’impiccagione,
sotto l’accusa infamante di tradimento, di Guglielmo Oberdan, il 20 dicem-
bre — a sei mesi dalla morte di Garibaldi, quasi a suggellare la fine dell’epo-
pea eroica del Risorgimento — non accrebbe certo la popolarità austriaca.
Anzi, da quel momento l’irredentismo ebbe nuova linfa, e fu cavalcato dalla
sinistra più che dalla destra.
Nello stesso anno ’82, si realizzò la prima riforma elettorale, allargan-
do il corpo dei votanti dall’1,9 al 6,9 per cento della popolazione. Tanto
bastò per suscitare proteste e malumori. Ne fu interprete soprattutto un
giovane esponente dell’intellettualità meridionale, Gaetano Mosca, paler-
mitano, proveniente dalla piccola borghesia impiegatizia: giunto a Roma
vincitore di concorso come funzionario della Camera dei Deputati, fu
uomo provvisto di notevoli ambizioni intellettuali, decisamente conserva-
tore, ma non reazionario.
34. 22, LUltalia delle idee
A ridosso della riforma, nel 1884, egli diede alle stampe un’opera «rozza e
incondita» — stando al giudizio aspro, ma non del tutto immotivato di Anto-
nio Gramsci alcuni decenni più tardi.! In quel testo, un po’ pomposamente
intitolato Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare, il funzionario
della Camera, paradossalmente, forniva un robusto contributo alla campa-
gna di discredito delle istituzioni parlamentari, campagna peraltro in corso
da anni sulla scena europea; ma, tra una pagina e l’altra, andando oltre la
polemica, Mosca mette a punto la sua dottrina della classe politica, tanto
che oggi si considera quell’opera come uno dei testi canonici dell’«antipar-
lamentarismo», ma si tratta di una semplificazione che non rende giustizia al
suo autore, anche se politicamente lo identifica.
Il termine parlamentarismo, di ascendenza preunitaria, avrebbe avuto
fortuna, in accezione fortemente e progressivamente negativa, nei decen-
ni seguenti, fino all'avvento mussoliniano, che per tanti versi ne segnò il
punto più alto. L'antiparlamentarismo da iniziale critica alla degenerazione
del sistema parlamentare avviata sostanzialmente con la «rivoluzione parla-
mentare» del 1876, si trasformò via via in una ripulsa della stessa istituzione
parlamentare e, sullo sfondo, dello Stato liberale, corrotti dall’avanzata delle
masse a loro volta contaminate dalla tabe socialista, agitate dallo «straccio
rosso», come si disse sovente, alludendo a quello stendardo vermiglio dive-
nuto l'emblema della riscossa proletaria.
Prima di Mosca, altri teorici, quali Rocco De Zerbi, Giorgio Arcoleo, Ca-
millo De Meis, si distinguono in affondi contro parlamenti e parlamentari, e
dunque, contro il parlamentarismo, magari riprendendo le prime invettive
del simpatico reazionario Petruccelli della Gattina che, con I moribondi di
Palazzo Carignano, all'indomani dell'Unità, quando ancora la capitale del Re-
gno d Italia era la stessa del Ducato di Savoia, aveva fornito se non un model-
lo, certo un eccellente impulso ad ogni futura polemica contro il poltronismo
e la fannullaggine dei «rappresentanti del popolo». Non si parla di «casta»,
all’epoca, ma il livore contro i privilegiati, i «fannulloni», i «chiacchieroni»,
diventa merce corrente, nel discorso pubblico; e nasce anche una produzione
letteraria in cui si condensano «umori deprecatori»? del Parlamento. Nib:/
sub sole novi, si sarebbe tentati di aggiungere, sfogliando i giornali di oggi.
' Gramsci (1975), II, Quaderno 9, 1932, p. 1155.
2 G.C. Jocteau, L'unificazione, in Bongiovanni, Tranfaglia (2006), pp. 3-49 (41). Cfr. le
antologie di Cerbone (1972) e Madrignani (1980); utile sempre Chabod (1990).
35. 1878-1896. La nazione di tutti 23
Ma torniamo a Gaetano Mosca, che non può comunque essere liquidato
in poche battute. Con quell’opera del 1884, il palermitano fonda (o meglio
tenta di fondare) la scienza politica come disciplina autonoma, provvista di
un metodo proprio. Alle spalle si staglia una lunga, nobile tradizione scien-
tifica e intellettuale, che risale almeno al realismo politico di Machiavelli —
per limitarsi al nume tutelare più autorevole —, per mezzo del quale Mosca
concede status scientifico a una verità effettuale della politica, nascosta dalle
astratte classificazioni del diritto, che parrebbe quasi strumento di occulta-
mento della realtà della politica: la separazione fra la minoranza al governo
e la massa governata. Nella realtà, chiarisce Mosca, non sussiste vincolo al-
cuno tra la volontà dei votanti e la volontà degli eletti e in ogni epoca, sotto
qualsiasi forma di governo vi è in ogni Stato una «classe politica» che si erge
al potere, grazie alla sua capacità di organizzazione, al numero ristretto di
componenti, che, comunque, l’autore ritiene essere formata da o? aristo?, i
migliori. Insomma, come precisò ancor più nitidamente dodici anni dopo,
dovunque è ed è stata al potere una minoranza (i governanti, o classe politi-
ca) che ha tenuto sotto di sé le maggioranze (i governati). E ciò a prescinde-
re dagli effettivi orientamenti politici, dalle ideologie che li definiscono (le
«formule politiche», scrive Mosca), dalle epoche e dalle latitudini. Sempre
così fu, sempre così sarà. In sostanza, un’ideologia politica — l’elitismo —
veniva presentata in termini scientifici: ciò la avvalorava e nel contempo la
neutralizzava sul piano politico: così è perché così è sempre stato, e non può
che essere così. Il realismo politico, sempre messo in primo piano quando si
parla di questi teorici del tardo Ottocento e del primo Novecento, si rivelava
un’ideologia della conservazione, pure opportunamente presentata.
La stessa disciplina da Mosca “inventata”, sulla scorta delle grandi te-
orizzazioni classiche, da Aristotele a Machiavelli, ossia la scienza politica,
appariva intrisa di elementi valutativi, che correggevano (o, se si preferisce,
inquinavano) l'attitudine puramente empirica; la scienza descrittiva si rove-
sciava in ideologia prescrittiva; l'osservazione in valutazione. Vero è che il
palermitano da conservatore — che si oppose all’allargamento del suffragio ai
maschi adulti anche se analfabeti (la “rivoluzione” operata da Giolitti alcuni
decenni più tardi, nel 1913) — «si teneva distante sia dall’ottimismo degli
agitatori sia dal pessimismo dei reazionari»; e la sua scienza politica poté
* Cfr. De Mas (1981), pp. 17-18.
36. 24 LUltalia delle idee
essere impiegata tanto dalla destra quanto dalla sinistra, prescindendo cioè
dagli orientamenti dell’autore, trovando un certo credito anche tra liberal-
democratici, radicali e persino socialisti, quali lo storico Guglielmo Ferrero,
il filosofo Giuseppe Rensi (che si sarebbe spostato successivamente su posi-
zioni filonazionaliste per poi fare macchina indietro) e, punto terminale del
cosiddetto elitismo democratico, Piero Gobetti. Del resto, Mosca, nella sua
apologetica dei “migliori”, promuove un ruolo nuovo per gli intellettuali,
aprendo la strada a quel sogno del partito intellettuale che sarebbe circo-
lato lungamente, erraticamente, nel secolo seguente, dai Vociani al Partito
d’Azione. Gli intellettuali, a suo avviso una vera classe sociale, sono «la terza
forza che s'impone unicamente per il sapere», e grazie a ciò in grado di svol-
gere una funzione mediatrice nel conflitto tra le classi sociali.‘
Liberalconservatore, liberista, ma attento al necessario ruolo della collet-
tività organizzata, Mosca respingendo un ideale di Stato neutro, assegna ai
governi funzioni di restrizioni della proprietà, e di (moderata) perequazione
sociale. Soprattutto, però, la teoria moschiana ha un ambito squisitamente
politico-istituzionale: non a caso egli è un giurista, innanzi tutto, e la sua
ricetta si basa su due elementi, uno effettivamente descrittivo (lo scadimento
della classe politica), l’altro normativo: l’esigenza di una sua ricostituzione
su basi più nobili. Egli pone, in definitiva, un problema di selezione del
ceto politico: e, appunto, ciò significa promuovere gli intellettuali a posti
di responsabilità politica, in una diversa ingegneria costituzionale. Di qui
la stessa proposta di riforma contenuta nel saggio su Le Costituzioni mo-
derne (1887), che coglieva umori nell’aria che, dieci anni dopo, sarebbero
divenuti una sorta di manifesto ideologico con Sidney Sonnino - toscano, il
quale fece robusta carriera politica —, in un articolo (Torniazzo allo Statuto)
che tradusse su un piano di facile comunicazione politica la più faticosa e
complessa teorizzazione moschiana. Essa riabilitava il potere del Re e am-
pliava quello del Senato, contro la Camera: curiosamente la decadenza era
attribuita soltanto a questo organo, a cagione — questo in fondo non si osava
sostenerlo apertis verbis — dell’allargamento del suffragio. La nazione era da
costruire e già si parlava di ricostruzione, insomma; il Parlamento italiano
era operante da un venticinquennio appena, dopo secoli in cui eravamo stati
«calpesti e derisi» (così un verso della poesia di Goffredo Mameli, musicata,
Ivi, p. 27.
38. 26 LUltalia delle idee
individuale creano «il buon governo»; inoltre, con il procedere dal sud verso
il nord «cresce la disponibilità spontanea alla disciplina e scema l’attitudi-
ne ritrosa e pugnace tra gli individui». Il rischio intravvisto da Turiello è
qualcosa che oggi non ci appare così assurda: «la dissoluzione» dello Stato;
per evitarlo egli sostiene la necessità di istituzioni educative adeguate capaci
di impartire un’educazione morale e civile agli italiani. Educare vuol dire
disciplinare, e la scuola appare a questo intelligente conservatore, troppo
labile, fragile e portatrice di una educazione troppo mite, e quasi «tenera».
A educare veramente è l’esercito: infatti l’italiano «si tempra solo con la di-
sciplina» e in particolare con quella militare. Nell’edizione del 1889, Turiello
deprecava la tendenza alla mitezza; nella scuola, addirittura, si impediscono
ai ragazzi «le giuste e promesse vendette» in Africa, fiaccando il loro impe-
to; e qui Turiello diventa profeta, preconizzando una imminente «tremenda
guerra europea».
Come detto, Turiello «si collocava in quella larga schiera di politici e
pubblicisti che intorno agli anni ottanta muoveva una serrata critica al fun-
zionamento dell'istituto parlamentare». Conseguenza, a ben vedere, del tra-
sformismo, che aveva contribuito non poco a screditare la Camera e i suoi
deputati. Ora, l’analisi della decadenza preludeva alla denuncia, e questa
alla proposta di ricette politico-istituzionali. Originale, e anticipatrice di sce-
nari futuri, sia fascisti, sia recentissimi, questa: per eliminare le disfunzioni
del Parlamento, Turiello proponeva una rappresentanza corporativa degli
interessi economici e sociali. Per tal via si sarebbe evitato di lasciarsi trasci-
nare nel baratro della «furia dottrinale» e dell’«atavismo giacobino» degli
agitatori di professione.’
Tra gli osservatori della realtà del nuovo Stato unitario, Turiello rivela una
minore capacità di riflessione sui problemi economici, ma, in compenso,
«un più acuto, realistico e spregiudicato senso di osservazione, una mag-
giore capacità di legare i problemi della politica estera a quelli della politica
interna», anticipatore di posizioni e dottrine politiche successive». Lo si è
definito infatti precursore del nazionalismo, anche senza l’esaltazione belli-
cistica dei Corradini & Co., ma non a torto, quest'uomo del Risorgimento,
divenuto militante della Destra per poi assumere le vesti dell’osservatore e
‘ Ivi, p.34.
*. Molinelli (1988), p. 7.
39. 1878-1896. La nazione di tutti 27
commentatore politico nell’Italia della Sinistra, imbevuta di positivismo; e
attento osservatore delle differenze e degli squilibri, già pesantemente in
atto, tra nord e sud, che interpretava con qualche bizzarria, per esempio
attribuendo essenzialmente agli abitanti del nord «una strana ignoranza dei
tempi grossi che maturano», ossia, l'incapacità ci comprendere che il solo
mezzo per aprire «dimore e nuovi mercati» sia la forza militare. Più sensata
la sua polemica meridionalista: c'era stata finora troppa sperequazione nelle
spese statali fra le due parti del paese; i settentrionali si curavano solo de-
gli interessi locali e sognavano autonomie amministrative, si preoccupavano
solo dell’oggi e della prosperità materiale; i meridionali erano più sobri, più
leali, non era vero che fossero disonesti, erano lavoratori capaci e soprattutto
«i meglio dotati di senso politico e di maggior conformità all’aria più larga
del mondo moderno», i più coerenti sostenitori degli ideali risorgimentali
«di unità e grandezza» della patria; i settentrionali, invece, forse perché era-
no sicuri «di alimentarsi per un pezzo nel Mezzodì», non si preoccupavano
delle colonie, ma tutt'al più di espansioni commerciali, «senza impegni né
spese per la loro difesa».
Nondimeno l’analisi appare obnubilata dal sogno di una politica naziona-
le espansionistica, capace di inserire l’Italia nel ristretto novero dei Grandi
del mondo: Turiello ritiene importante, anzi essenziale, sia per chi fa poli-
tica, sia per chi la studia, riflettere sul carattere degli italiani, che, secondo
un’opinione diffusa, consiste in un’«indole sciolta»,!° nell’individualismo
esasperato e indisciplinato, nondimeno predisposto alle grandi gesta. Per
rimediare alle conseguenze di tale individualismo e a ciò che vi si connette
(umanitarismo, riformismo, pacifismo, egualitarismo), ecco la proposta di
«istituzioni alternative educative e politiche, più autoritarie, imitatrici delle
individualità e nello stesso tempo promotrici di un loro rinvigorimento in
senso sociale, più organicamente legate al corpo e ai bisogni reali del paese».
Soltanto con siffatte istituzioni «la nazione poteva diventare, come doveva
essere ogni società ben organizzata, un corpo vivente, un organismo con
una vita armonica».!! Immancabile l’analisi e la critica della «degenerazio-
ne» delle istituzioni parlamentari e i tentati progetti di riforma dello stesso
sistema, che parta —si tratta di un vero chiodo fisso nella vicenda politica
”. Molinelli (1968), p. 76 (anche per le citazioni di Turiello).
Cfr. ivi, p.21.
Ivi, p. 14.
40. 28. LItalia delle idee
italiana, dai primi liberali di cui ci stiamo occupando a Mussolini, da Craxi a
Berlusconi — dalla riduzione del potere del Legislativo. Perciò, Turiello pro-
pugnava il ritorno a un’applicazione letterale dello Statuto, ormai snaturato
dal passaggio dal regime costituzionale a quello parlamentare: il messaggio
di questo teorico-politico fu raccolto, di lì a poco, da un politico-teorico,
Sidney Sonnino, con il suo Torniazzo allo Statuto (1897), interpretato im-
mediatamente come un manifesto dell’antiparlamentarismo, forse al di là
delle intenzioni dell’autore. Ma intanto, ancora Turiello, nel 1894, con il suo
Politica contemporanea, arrivava addirittura all’elogio della monarchia asso-
luta: lo scivolamento del conservatorismo in pensiero reazionario, si rivelava
un elemento forte della destra italiana, che l'avrebbe accompagnata fino ai
nostri giorni. Ecco che cosa scrive:
Ora il Re assoluto non dava libertà, ma potea bene guardar lungi e provvedere
all’avvenire; ed era dall’autorità stessa, ereditaria, interessato a quest’avvenire del-
lo Stato. Invece l’assemblea eletta, e che appare quasi onnipotente, consente la
libertà, ritrae bene e vive molte impressioni, molte inclinazioni, più che propositi;
ma più gl’interessi personali degli elettori durante la legislatura, e le borie locali.
Sono interessi e spinte slegate e temporaneamente mutabili, più che collettive,
previdenti e durevoli. E così che la Camera onnipotente non può infatti rappre-
sentar partiti, se non sa guardar molto di là dall’oggi, né spingere efficacemente i
ministri a guardarvi: e che una maggioranza che si dice di progressisti, può soste-
nere per qualche tempo un ministero che ha fermato ogni cosa."
Il principio di autorità era dunque difficile da scalfire, anche se da varia parte
si tentava di farlo: nella religione, nella letteratura, nell’arte, nella politica. Ma
si cercavano anche elementi di una ideologia solidaristica nazionale, talora
in buona fede, nel convincimento di una necessaria costruzione identitaria
della nuova comunità nazionale; talaltra invece col retropensiero della im-
mobilizzazione delle gerarchie sociali, in nome della reciproca “utilità” delle
classi. Ambigua, in tal senso, è la posizione di Edmondo De Amicis, ligure
trasferitosi a Torino, dove svolse la gran parte della sua intensa attività di
scrittore, giornalista, osservatore, in un progressivo spostarsi a sinistra del
suo asse ideologico, nell’ambito del «socialismo dei professori». Nel 1886 egli
'2 Ivi, p. 217; ctr. anche Asor Rosa, La cultura, cit., pp. 909 ss.
41. 1878-1896. La nazione di tutti 29
dava alle stampe, per l’editore Treves — con cui aveva stabilito un solidissimo
rapporto benefico per ambedue, soprattutto (ovviamente) per l'editore —, un
libro che sarebbe stato uno dei maggiori successi editoriali italiani di tutti
i tempi: Cuore. Un’aula scolastica è la protagonista di questo straordinario
romanzo pedagogico-politico, che è stato variamente interpretato; ora come
notevole codice di una morale laica, ora invece quale esempio di insoppor-
tabile paternalismo petit bourgeoîs. In ogni caso, l’etica deamicisiana, come
emerge da Cuore, è etica del lavoro, anzi della laboriosità, dove prevale di
gran lunga su ogni altro sentimento quello del dovere: il retroterra, geo-
srafico, sociale, culturale, antropologico, sabaudo, da tale punto di vista,
è, come scrisse Alessandro Chiappelli, filosofo e letterato, una «grande e
ardente fucina di amor patrio». In generale era quello il momento in cui
l’Italia ufficiale cominciava a «guardare al proprio passato», come altre na-
zioni, adottando la logica della «ritualizzazione e monumentalizzazione del-
la memoria nazionale».! Discorsi, parate, statue, inaugurazioni, cerimonie,
feste, intitolazioni... la «religione civile» della nuova patria, infine unificata,
si sviluppava a grandi passi, e ovviamente il Risorgimento veniva oppor-
tunamente eroicizzato, avviando una lunghissima stagione di retoriche pa-
triottiche, stucchevoli, talora pericolose, ma inevitabili, spesso necessarie, e
talora addirittura benefiche. È una «pedagogia delle emozioni»,"? che serve
a costruire, intorno all’etica del sacrificio, della laboriosità, della solidarietà
tra le classi, una «identità» nazionale: in sede critica (o forse ipercritica) si
c parlato per Cuore, di «essenza biopolitica della comunità» rappresentata
nella classe scolastica protagonista del racconto.!° Lo stesso De Amicis, dieci
anni dopo, con un curioso testo, a metà tra letteratura e antropologia (quasi
anticipando di oltre un secolo Marc Augé), affidava all’analisi del pubblico
c del tragitto di una carrozza tramviaria nella sua Torino (e il libro è un atto
d’amore per la città), una rappresentazione della necessità della coesione
sociale, del solidarismo benefico, attento ai valori provenienti dal basso, ma
nemico di ogni sovvertimento, e però anche di ogni subordinazione: La Car
rozza di tutti (1896), su cui egli salì tutti i santi giorni per un intero anno, è un
'' A. Chiappelli, Edzondo De Amicis
€ il Piemonte, in “Nuova Antologia”; fasc. 871, 1°
aprile 1908, pp. 384-86.
'" Lupo (2010), p. 136. Cfr. anche Asor Rosa, La cultura, cit., pp. 925 ss.
'* Banti (2011), p. 76. Non concordo tuttavia con molte delle valutazioni dell’autore.
'“ Ivi, p. 61. Una diversa lettura è di G. Pécout in De Amicis (2005), pp. 357-482.
42. 30 LItalia delle idee
contenitore di differenze sociali, nel quale tutte le figure della società hanno
legittimo spazio, ma tutte devono essere ugualmente rispettate.!
I critici-critici del De Amicis dovrebbero rileggersi ciò che in quella sta-
gione produceva un D'Annunzio, per cogliere il tratto sostanzialmente, mo-
deratamente progressista che stava assumendo lo scrittore ligure-piemonte-
se. Nel 1892, il poeta, anzi “il Poeta”, recependo umori diffusi, aveva volga-
rizzato, in chiave nicciana, il disgusto antiparlamentare. Il 25-26 settembre
di quell’anno — poco prima era nato il Partito dei Lavoratori italiani, ossia
il psi, e la vicinanza temporale qualcosa dice — pubblicava sul “Mattino” di
Napoli, l’influente giornale della famiglia Scarfoglio,!* un articolo che fece
epoca. Il titolo era ispirato a Nietzsche, e dava indicazioni sul contenuto:
La bestia elettiva. In esso il poeta fattosi ideologo se la prende col «dog-
ma dell’Ottantanove» (e la mente corre alle polemiche mussoliniane contro
la Rivoluzione francese e le sue «sacre parole»), e mette in guardia contro
l'apertura di credito verso le «moltitudini», le quali «credono in un solo
progresso: nell’aumento del benessere fisico»; in realtà «le plebi» sono con-
dannate a una perenne schiavitù, condannate a subire eterni inganni, perché
esse sono prive del «sentimento della libertà». E la Democrazia (che egli
scrive con maiuscola, forse sarcasticamente) è illusione di plebi. Essa è «lotta
di egoismi vanitosi», essa è contro natura, in quanto tende
a rendere tutti gli uomini eguali, a mettere su ciascuna anima un marchio esatto
come su un utensile sociale, a fare le teste umane come le teste degli spilli. Essa
non considera l’attività individuale, l'energia spontanea e libera, l’uomo vero e
vivente, ma una formula astratta.
E dalle sue «torbide viscere» nasce un tiranno peggiore di quelli che la De-
mocrazia ha abbattuto: il tiranno è nientemeno che lo Stato; «lo Stato-re,
lo Stato-provvidenza, lo Stato-produttore-della-felicità-pubblica: un mo-
struoso Polifemo che toserà e scannerà le sue greggi».!’ Ecco dunque un
D'Annunzio anarchico di destra, per semplificare, che ha incrociato la let-
teratura antiparlamentaristica ed elitistica, e, soprattutto, devoto all’ultimo
7 Rinvio a D’Orsi, Ur profilo culturale, in Castronovo (1987), pp. 521 ss., anche per la
collocazione dell’autore nel contesto torinese; il riferimento è a Augé (1984).
!# Sulla vicenda e il ruolo politico del giornale: Barbagallo (1979).
L'articolo si legge ora in D'Annunzio (1994), pp. 7-19.
43. 1878-1896. La nazione di tutti 31
Nietzsche; è pur sempre vero che il superuomo è «il punto d’arrivo della
personalità dannunziana».?° L'anno dopo, nella prefazione al Trionfo della
morte, l’altro romanzo del ciclo di fine secolo, D'Annunzio scriverà: «Noi
tendiamo l’orecchio alla voce del magnanimo Zarathustra»; e il protagonista
Giorgio Aurispa, a sua volta evoca pure Zarathustra, e invoca, o pretende
di incarnare, il «dominatore, forte e tirannico, franco dal giogo di ogni falsa
moralità».
Fu ostile al parlamentarismo, considerato strumento e insieme frutto di
malaffare, anche Cesare Lombroso, psichiatra da poco divenuto titolare di
cattedra nel prestigioso Ateneo di Torino, nel 1876, l’anno stesso in cui pub-
blicava il libro che gli diede immediata fama, L'uomo delinquente (presto
aumentato di mole, mentre crescevano edizioni e traduzioni in varie lingue).
A Torino, dove non fu il solo veronese a stabilirsi (si pensi a un Emilio Salga-
ri, per fare un solo nome), avrebbe inventato l’antropologia criminale come
disciplina accademica, facendo della propria dimora un ideale punto di ri-
trovo per l’intelligencija locale e quella esterna di passaggio: progressista,
anche Lombroso, come il De Amicis, e partecipe del socialismo professora-
le, nella sua polemica antiparlamentaristica, si era sovente mosso prendendo
spunto da episodi di corruzione politica.?! Con lui alcuni allievi, come Sci-
pio Sighele e Guglielmo Ferrero, si erano avventurati sul terreno dell'analisi
delle folle — di provenienza soprattutto francese, tra Tarde e Le Bon — ossia
di aggregati «disomogenei» e «inorganici», tra i quali rientravano anche le
istituzioni, i parlamenti, le assemblee politiche.??
Diffusi sentimenti di scontentezza dunque, sui diversi piani della nostra
vita di italiani uniti, dall’assetto istituzionale allo sviluppo dell’economia,
dalla fisionomia della società alla stasi della cultura; a nessuno, parrebbe,
stava bene quella Italia, ancor così fragile e già così contestata dall’inter-
no: un vizio ben noto ai lettori odierni, che dunque ha radici antiche. Fra
gli scontenti autorevoli un altro intellettuale siciliano, stavolta un letterato,
Giovanni Verga, che apre il decennio degli ottanta con I Malavoglia (1881)
e lo chiude con Mastro don Gesualdo (1889): un conservatore scontento del
presente, che nondimeno si rivela un analista sociale di eccezionale capacità;
? Salinari (1977), p.94.
?! Rinvio a Bulferetti (1975) e Montaldo, Tapparo (2009a); e per gli approfondimenti
torinesi: Montaldo, Tapparo (2009b), specie A. D Orsi, Casa Lombroso, pp. 19-30.
” Cfr. Simon (1995), pp. 10 ss.; e in generale Palano (2002).
44. 32. Lltalia delle idee
coglie debolezze e vizi (l’avidità e l'egoismo ix primis) dei ceti possidenti,
gestori di «una società prigioniera degli istinti più bassi ed elementari e di
spietate norme utilitaristiche»,°? ma finisce per santificare l'ordine sociale
esistente. Il verismo in fondo coincide con il realismo politico; e la descrizio-
ne diviene prescrizione; una chiave squisitamente conservatrice, mossa dalla
paura delle masse che cominciavanoa far percepire la propria presenza, ani-
mate specialmente da intellettuali, agitatori, e organizzatori che si riconosce-
vano più in Bakunin che in Marx: insomma, i temutissimi e un po’ misteriosi
anarchici, peraltro allora ancora largamente incrociati ai socialisti. Il clima
sociale era tutt'altro che riconciliato, una volta debellato il brigantaggio nel
Mezzogiorno; nell’anno dell’avvento al trono di Umberto I, si produssero
eventi come l’uccisione di Davide Lazzaretti, da parte dei Carabinieri, che
spararono su una processione guidata dal “Profeta dell’Amiata”. Questi, da
eretico benvisto dalla Chiesa cattolica, benché si fosse proclamato «Unto del
Signore» (appellativo che anche in tempi recenti è stato usato da politici che
volentieri parlano di miracoli in relazione alla propria attività), si trasformò
in rivoluzionario sociale, ammiratore della Comune di Parigi, sostenitore
della Repubblica. Contro questo «Cristo della povera gente», ipso facto, si
realizzò una inedita alleanza Chiesa-Stato, e mentre dalla prima giungevano
le punizioni spirituali, con la scomunica, dal secondo non si tardò a porre
in essere punizioni materiali, immediatamente tradotte nell’attacco armato
delle “forze dell'ordine”. Fu come è stato definito «un delitto di Stato», che
colpiva il singolo e ancora più il movimento che dalle sue parole era nato e
si stava diffondendo, con propaggini addirittura fuori i confini italiani, verso
la Francia. I lazzarettisti — uno degli ultimi (allora, poi sono rinati qua e là in
epoca recente, sia pure sottotono) esempi di millenarismo — cantavano versi
come «Andiam per la fede / La patria a salvare / Evviva la Repubblica / Iddio
e la libertà». Era la perfetta fusione di ispirazione religiosa e aspirazione
politica, prodotta in un territorio, la Toscana meridionale, profondamente
depressa sul piano economico e in un momento storico di gravi tensioni so-
ciali, per l'appunto.
Nello stesso mese di quell’anno, si svolse uno dei processi più importanti
agli anarchici, quelli che non avevano potuto godere dell’amnistia concessa
2 Luperini (1975), p. 111.
2 Ctr. Cavoli (1989),
? Cit. in Hobsbawm (1966), p. 86.
iu